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PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA RELAZIONE DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA Istituzione e sinergia nella cura dei beni culturali fra Chiesa e Pubblica Amministrazione Norcia, 23-24 settembre 2006 Nozione di bene culturale ecclesiastico La Chiesa, “che è insieme ‘società visibile e comunità spirituale’ (cfr Lumen Gentium 8), cammina con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio”. Queste parole della Gaudium et Spes (n. 40) definiscono mirabilmente la doppia natura della Chiesa che, pur avendo finalità spirituali, è costituita di uomini e chiamata ad attraversare la storia, utilizzando legittimamente dei beni creati. Per tale motivo, in quanto istituzione, la Chiesa afferma il proprio “diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare ed alienare i beni temporali per conseguire i fini che le sono propri” (Codex Iuris Canonicis, 25 gennaio 1983, can. 1254, § 1). All’interno di tali “beni temporali”, si distinguono i “beni culturali”. Il concetto di “bene culturale” entra per la prima volta nel Codice di diritto canonico del 1983, accanto a quelli più tradizionali di “beni immobili”, di “beni mobili” e di “beni preziosi” (Ibid, can. 1283, § 2). La sua introduzione è già un effetto della “sinergia”, oggetto di questo intervento, perché il concetto, pur essendo stato elaborato in sede civile, è stato accolto di buon grado nel linguaggio giuridico ecclesiale e in quello corrente, a motivo della sua maggiore ricchezza. Grazie ad esso, infatti, emerge come i beni temporali siano valutati non semplicemente nella loro materialità o secondo il loro valore venale, ma definiti sulla base della loro capacità di “testimonianza di civiltà” e quindi sotto un profilo eminentemente umanistico. Tuttavia, ad un esame attento della questione, non sfuggirà come “nel lungo periodo” l’atteggiamento costante della Chiesa verso i propri beni abbia contribuito indirettamente all’elaborazione di questo concetto. I “beni culturali ecclesiastici”, infatti, si distinguono dagli altri “beni temporali ecclesiastici”, ma anche dai beni culturali non ecclesiastici, sulla base sia della tipologia sia della modalità tutta particolare con cui partecipano alle finalità proprie della Chiesa. Per quanto riguarda la loro tipologia, secondo le parole del venerabile Giovanni Paolo II, che ha ampiamente contribuito ad orientare la dottrina più recente sui beni culturali ecclesiastici, essi “comprendono, innanzitutto, i patrimoni artistici della pittura, della scultura, dell’architettura, del mosaico e della musica, posti al servizio della missione della Chiesa. A questi vanno aggiunti i beni librari contenuti nelle biblioteche ecclesiastiche e i documenti storici custoditi negli archivi delle comunità ecclesiali. Rientrano infine, in questo ambito, le opere letterarie, teatrali, cinematografiche, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa” (Allocuzione alla I Assemblea plenaria della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, 12 ottobre 1995, n 3.). Si possono dunque individuare tre distinzioni concettuali. La prima, più importante, elenca i beni “posti al servizio della missione della Chiesa”. La seconda annovera i beni a servizio della cultura e della storia nell’ambito ecclesiale. La terza comprende i beni prodotti dai mass media non alieni dal portare valori artistici e religiosi. I beni culturali nella vita e nella missione della Chiesa I beni culturali della Chiesa sono perciò tali nella misura in cui si ordinano alla missione della Chiesa, e cioè, in ultima istanza, alla salus animarum. La Chiesa “utilizza i beni culturali per la promozione di un autentico umanesimo, modellato su Cristo, uomo nuovo e rivelatore dell’uomo a se stesso” (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla III Assemblea plenaria della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, 31 marzo 2000, n…). Tali beni “nelle loro molteplici espressioni – dalle chiese ai più diversi monumenti, dai musei agli archivi e alle biblioteche – costituiscono una componente tutt’altro che trascurabile nella missione evangelizzatrice e di promozione umana che è propria della Chiesa” (Ibid.). Pertanto, le finalità proprie dei beni culturali ecclesiastici si possono così riassumere:
a) celebrazione della liturgia, pratiche di pietà e di devozione;
b) aiuto all’evangelizzazione e catechesi, come mezzi didattico-pedagogici e carità;
c) conservazione della propria memoria, come garanzia dell’identità della comunità cristiana e come supporto all’immagine che essa intende offrire di sé.
I beni culturali sono dunque mezzi coi quali la Chiesa ha svolto e svolge la propria missione “pastorale” e, nel contempo, mezzi per il dialogo con le altre culture e le altre religioni. Cito ancora il venerabile Giovanni Paolo II, il quale non ha mai mancato di rimarcare: “l’importanza dei beni culturali nell’espressione dell’inculturazione della fede e nel dialogo della Chiesa con l’umanità. […] Innumerevoli sono i capolavori artistici che traggono ispirazione dai valori religiosi. Ed è a tutti noto l’apporto che al senso religioso arrecano le realizzazioni artistiche e culturali, che la fede delle generazioni cristiane è venuta accumulando nel corso dei secoli” (Allocuzione alla I Assemblea plenaria, cit., 12 ottobre 1995, n. 5). Anche l’interesse della Chiesa verso la salvaguardia e la conservazione dei propri beni culturali è costante. Del passato è sufficiente ricordare l’Editto del cardinale Camerlengo B. Pacca per la tutela dei beni artistici dello Stato Pontificio (1821), una delle legislazioni più all’avanguardia negli stati italiani preunitari e, agli inizi del ‘900, la costituzione delle Pontificie Commissioni per l’Arte Sacra in Italia (1924) e di Archeologia Sacra (1925). Ma soprattutto dopo il Concilio Vaticano II si è fatta più puntuale l’attenzione della Chiesa ai beni culturali mediante interventi di rilevanza universale. Si è già visto il Codice di Diritto Canonico (1983), ma è da vedere in questa ottica pure la costituzione della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio storico e artistico della Chiesa (1989), divenuta nel 1993 Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa. Vanno menzionate inoltre le prerogative attribuite alle Conferenze episcopali in questo settore. Tutti questi organismi hanno emanato nel rispettivo ambito norme e regolamenti, a cui vanno aggiunti quelli all’interno degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica e delle singole diocesi. La sinergia o collaborazione fra Chiesa e Stato nell’ambito dei beni culturali ecclesiastici Anche in questo caso, alcune affermazioni della costituzione pastorale del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo possono avviare questa ultima parte della riflessione. “La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera più efficace quanto meglio coltivano una sana collaborazione (sana cooperatio) tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L’uomo non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna” (Gaudium et spes 76). Il testo del Concilio sancisce una legittima distinzione di ordini fra Stato e Chiesa relativa al raggiungimento dei rispettivi fini. Tuttavia tale distinzione non è incomunicabilità, specie nel raggiungimento dei comuni obiettivi, fra i quali il primo è la promozione della persona e della comunità. Ora i beni culturali sembrano un campo privilegiato per esercitare questa “sana collaborazione”. Secondo una concezione “laica” – quella dello Stato italiano (D.L. n. 112, 31 marzo 1998, art. 148) – infatti i beni culturali sono “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”. In campo laico si attribuisce al bene culturale anche una “utilità sociale e civile” nel senso che deve essere fruito liberamente per la formazione e il godimento di tutti. Accanto a questa, spesso si aggiunge pure una “utilità economica”, che vede il bene culturale anche come una risorsa di ricchezza, legata soprattutto al turismo di massa, per cui si sente parlare talvolta di “giacimento culturale”. Si tratta di una definizione piuttosto ampia, pienamente condivisa dalla Chiesa, che lascia però spazio a ulteriori precisazioni, che può pertanto comprendere agevolmente anche la nozione di bene culturale ecclesiastico. Anzi, nel momento in cui il secondo precisa il primo concetto più generico, lo arricchisce ulteriormente consentendone una valutazione più esatta. Innanzitutto il concetto di bene culturale ecclesiastico non si oppone alla visione sociale e civile del medesimo. Se consideriamo i momenti in cui la società civile si identificava strettamente con la Chiesa in una societas christiana, un bene culturale ecclesiastico è stato concepito con una funzione anche civile, di giovamento a tutta la comunità cittadina. Basti pensare agli archivi ecclesiastici che costituiscono di gran lunga la maggiore documentazione per la storia civile, oltreché ecclesiastica, prima della nascita degli stati nazionali e quindi in molti casi fino alle soglie dell’epoca contemporanea. La distinzione fra “laico” o “civile” e “religioso” è un concetto recente, che a volte mal si adegua a definire i beni culturali. Ma si dimostra estremamente inadeguata e anzi dannosa quando una certa cultura “laica” ignora il valore religioso dei beni culturali ecclesiastici, considerandoli piuttosto espressione di una determinata tecnica artistica e misconosce i fatti, definiti sovrastrutture, del proprio culturale di popolazioni cristiane e dello specifico religioso. Quando l’autorità civile riconosce nell’espressione religiosa un elemento costitutivo dell’identità della società e della nazione e quindi dei suoi manufatti e, da parte sua, l’autorità ecclesiastica riconosce all’opera, concepita come espressione della fede e in funzione delle finalità della Chiesa, un più ampio significato sociale, culturale e storico, che la rende anche patrimonio dell’intera società, si attuano le condizioni per una vera sinergia. Specialmente a partire dal Secondo Dopoguerra, in seguito al diffondersi di una cultura conservativa negli ambienti scientifici, gli Stati si sono fatti sempre più attenti alla buona conservazione dei beni culturali al fine di preservare questa parte del patrimonio culturale alle generazione future. Tuttavia spesso si è imposta una tendenza a mantenere tale patrimonio totalmente inalterato, nell’organizzazione del territorio, come nella disposizione di arredi sacri all’interno delle chiese. Tale orientamento di fatto ignora che l’assetto delle chiese come è giunto a noi è frutto di diverse riforme liturgiche, nell’alveo della ininterrotta tradizione, e trasformazioni di altro genere che si sono susseguite. Ora tali riforme sono fisiologiche nella storia della liturgia e corrispondono a sviluppi della comprensione teologica, della forma del culto e della devozione. È pertanto normale che anche oggi le chiese siano sottoposte ad alcune trasformazioni, che debbono sempre avvenire nel rispetto della struttura generale, valorizzando ciò che deve e può essere ancora utilizzato e musealizzando con intelligenza e con cura ciò che, eventualmente, non dovesse più servire. In questo campo la sinergia fra Chiesa e Stato avviene conciliando le finalità culturali e le esigenze di integra conservazione o di fruizione di un bene, richieste normalmente dallo Stato, con quelle di considerazione della natura religiosa del bene stesso, in particolare della sua finalizzazione al culto, e quindi della sua considerazione come cosa viva, attualmente fruibile da parte della comunità cristiana e non come oggetto immobile, quasi “feticcio” immutabile, testimone di una realtà compiuta e, in ultima analisi, espressione di un mondo considerato passato e ormai morto. Tale osservazione, ad esempio si adatta alla considerazione di manufatti, che anche nei musei dovrebbero continuare ad essere considerati oggetti “sacri”, oppure nel rispetto dello status di luoghi di culto per le chiese visitate dai turisti. Per tale motivo è auspicabile che una sinergia fra Chiesa e società civile riguardo ai i beni culturali avvenga nell’ambito di un quadro istituzionale definito dal diritto ecclesiastico e concordatario e mediante intese specifiche, che regolino la gestione dei beni culturali nel rispetto delle finalità statali, da una parte, ed ecclesiali, dall’altra. Il quadro giuridico deve anzitutto stabilire i livelli di collaborazione, in considerazione della natura gerarchica e territoriale sia della Chiesa, sia dello Stato: in particolare, occorre stabilire chi siano i legittimi interlocutori a livello della diocesi, della conferenza episcopale e della Santa Sede. A ciascuno di questi livelli dovrebbe essere posto un organismo ad hoc: l’Ufficio diocesano per l’arte sacra e i beni culturali, l’Ufficio o la Commissione episcopale nazionale per i beni culturali o analogo, infine la Pontificia Commissione. La Chiesa considera positivamente affidare a regole certe e a documenti scritti il rapporto con gli Enti pubblici, ritenendola la via più sicura per ottenere piena collaborazione. Ciò vale anche per singoli atti particolari, come comodati relativi a beni culturali (musei, biblioteche, archivi, edifici ecc.), che ne consentono una gestione pubblica, salvaguardandone la proprietà ecclesiastica e consentendo così alla Chiesa di continuarli ad utilizzare per la sua vita e le finalità della sua missione. Ci sia consentito, a questo punto, fare una constatazione e formulare un auspicio. Nella gestione dei beni culturali lo Stato può porsi secondo due modelli: il primo, che chiameremo “statalista”, consiste nel controllo vincolante di ogni altra istituzione secondo un programma ben definito, precisi obiettivi da raggiungere secondo determinate modalità da seguire, attraverso un proprio personale tecnico e scientifico, una propria burocrazia e amministrazione. Questa è la constatazione, che riguarda la maggior parte degli ordinamenti statali. Un secondo modello – oggetto dell’auspicio – prevede invece lo Stato, veramente “laico”, che si limita a coordinare un programma di conservazione e di valorizzazione dei beni culturali, facendo affidamento su istituzioni pubbliche e private operanti nel paese, alle quali si riconosce maturità e quindi un rilievo pubblico, per il perseguimento degli obiettivi comuni, riservandosi di intervenire per sopperire a eventuali mancanze secondo il principio “laicissimo” della sussidiarietà. Fra questi ultimi enti certamente la Chiesa possiede la maturità e l’esperienza per adempiere a un tale compito. In ogni caso, lo Stato di fatto, specie nei paesi democratici occidentali, non può fare a meno di misurarsi con le istituzioni ecclesiastiche che possiedono e gestiscono beni culturali. La sinergia richiede pertanto, oltre al riconoscimento giuridico di tali istituzioni ecclesiastiche, piena fiducia da parte dello Stato, basata sul riconoscimento del reale interesse dimostrato dalla Chiesa verso la comunità civile. In particolare, se la Chiesa offre a tutti il proprio patrimonio artistico, librario e archivistico, deve avere i mezzi per gestire le proprie chiese artistiche, i propri musei, biblioteche ed archivi e per potere affrontare i gravosi oneri di tutela e di gestione che ne conseguono. Quali siano tali compiti, è noto: si va dall’inventario e catalogo dei beni architettonici, artistici, archivistici e librari, alla loro conservazione e al restauro; dall’impedimento della loro dispersione al ricupero delle opere d’arte rubate; dalla gestione di musei, archivi e biblioteche all’allestimento di mostre e alla promozione di iniziative culturali. Si comprendono fra le istituzioni a cui riconoscere un compito decisivo per la formazione e il collegamento dei vari operatori ecclesiastici, per i quali si richiedere sempre più una formazione non generica di tipo post-universitario, le associazioni di settore degli archivisti, dei bibliotecari, dei conservatori di musei ecclesiastici e simili. Certamente, la Chiesa deve ricorrere per questo anche alle proprie risorse ed attuare sinergie con le imprese e le istituzioni bancarie per il reperimento dei fondi, ma da sola non è in grado di affrontare questo complesso di compiti e non può non aspettarsi provvidenze pubbliche statali o della Comunità Europea. A conclusione, non andrebbe mai dimenticato che la caratteristica essenziale dei beni culturali è costituita dal loro legame capillare con il territorio e dal contesto originario in cui furono prodotti. Nel caso dei beni culturali ecclesiastici, essi costituiscono una testimonianza della civiltà promossa dalla fede professata dalle comunità cristiane “in” e “di” un determinato territorio, che è stato plasmato in gran parte e si identifica con i monumenti e i documenti ecclesiastici. Ora, in molti di tali territori la Chiesa continua a costituire una presenza viva e, in molti casi, appare come la più idonea a conservare e valorizzare tali beni, che sente propri più di ogni altro. In questo senso la Chiesa offre la propria collaborazione allo Stato in vista della tutela, conservazione e valorizzazione di questi beni, ai quali riconosce un valore più ampio di patrimonio dell’intera nazione. Anche in ciò la Chiesa intende essere presenza e fermento culturale nella “Città” e “anima della società umana”. Mauro Piacenza Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra |