Massimario delle sentenze della Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano Bollettini n. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 15 Bollettino n. 4 (periodo 1° gennaio 1994 - 31 dicembre 1995) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 40A/1994 - 15 febbraio - 17 marzo 1995, S.E. Pompedda Pres. ed Est.* Competenza ULSA - Art. 2 dello Statuto ULSA - Corretta determinazione dei soggetti del rapporto di lavoro e del suo contenuto. Gestione amministrativa diretta di un Ente da parte di un Dicastero - Mancata identificazione ed inclusività con il rispettivo Ente gestito - Rilevanza della personalità giuridica. Natura del ricorso per legittimità ex art. 12 Statuto - Riferimento alle norme inerenti al ricorso per Cassazione. Applicazione esclusiva dei rapporti di lavoro previsti dagli artt. 6 e 9 del Regolamento Generale della Curia Romana del 1992  Insussistenza - Singolari contratti di lavoro e di prestazione d'opera - Previsione ex art. 2.2 dello Statuto ULSA. Enti con personalità giuridica e gestione diretta da Dicasteri della Curia Romana - Attribuzioni di fatto del trattamento dei dipendenti della Curia Romana - Fondamenti - Equità, natura peculiare della materia, dottrina sociale della Chiesa. La individuazione della competenza dell'ULSA, ai sensi dell'art. 2 dello suo Statuto, implica la corretta individuazione e qualificazione dei soggetti tra i quali intercorre il rapporto di lavoro e del contenuto di quest'ultimo. La gestione amministrativa diretta di un Ente, da parte di un Dicastero della Curia Romana, non porta ad una inclusione ed identificazione dello stesso con quel Dicastero. L'Ente gestito conserva, infatti, nell'ambito dell'ordinamento canonico, la propria individualità di persona giuridica, con distinta rappresentanza e con propria capacità sia giuridica che processuale, tanto attiva che passiva. Di conseguenza l'Ente, a ragione della sua autonomia, è da considerare come l'unico ed effettivo datore di lavoro nei rapporti instaurati con i contratti di cui è stato parte. La legittimità di rapporti di lavoro di diritto privato di cui siano parte Enti autonomi, ancorché gestiti da un Dicastero, e come tali sottratti alla disciplina dettata dagli artt. 6 e 9 del Regolamento Generale della Curia Romana del 1992 è deducibile dall'art. 2.2 dello Statuto definitivo dell'ULSA in quanto questo, prevedendo « singolari contratti di lavoro o di prestazione d'opera » ne presuppone la possibilità e, quindi, la liceità. La natura della giurisdizione, delineata dall'art. 12 dello Statuto dell'ULSA, conferita alla Corte di Appello nel procedimento di ricorso per legittimità contro le decisioni del Collegio, legittima il riferimento alle norme del c.p.c.v. attinenti al ricorso in Cassazione, relativamente sia alla impugnabilità delle decisioni interlocutorie del Collegio dell'ULSA (artt. 352; 379 § 1; 373, 1° c.p.c.) che alla verificazione della violazione di legge ed alla falsa applicazione della stessa (art. 375 §§ 1 e 2 c.p.c). Il principio di equità generale, la peculiarità della materia, la rilevanza etica di essa nell'ottica della dottrina sociale della Chiesa, consentono di invitare l'Amministrazione affinché, servatis servandis, voglia riconoscere il trattamento che compete al personale dipendente dalla Curia Romana anche al personale dipendente da Enti con personalità giuridica gestiti direttamente da Dicasteri della Curia Romana, al fine di evitare disparità di trattamento con i lavoratori dipendenti dalla Sede Apostolica. [Dep. 7 marzo 1995] *Cfr. decisioni del Collegio di conciliazione e arbitrato ULSA nn. 4/93, 4/94 Causa N. 41/1995 - 6 aprile - 6 giugno 1995, S.E. Pompedda Pres., Bruno Rel.* Tassatività del rinvio al C.P.C. ex art. 11. 5 b) Statuto ULSA - Inapplicabilità art. 245 C.P.C. - Successiva integrazione del ricorso originario, ampliamento della domanda - Illegittimità. Domanda di risarcimento del danno - Incompetenza ULSA. Rilevanza silenzio/rigetto - Mancata risposta sul merito della domanda - Atti interlocutori - Interruzione silenziorigetto - Irrilevanza - Can. 1465 CIC. Diniego - Richiesta - Condizione necessaria. Inapplicabilità artt. 22,23 RG.C.R - Pontificia Università Urbaniana - Non identificazione con Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli. Comando - Identico livello funzionale retributivo - Continuità nello stesso organico. L'art. 11.5, b) dello Statuto dell'ULSA elenca tassativamente le disposizioni del c.p.c. applicabili al procedimento dinanzi al Collegio di conciliazione e arbitrato e, poiché tra queste non è compreso l'art. 245 § 1 c.p.c. che consente, in sede di udienza preliminare, di procedere « alla decisione sulla richiesta di cambiamento o ampliamento della domanda, insieme con la formulazione dei nuovi articoli della controversia », legittimamente non sono state ammesse domande integrative successive al ricorso presentato al Direttore Generale ULSA. La richiesta di risarcimento dei danni non rientra di per sé nella competenza dell'ULSA in quanto, come emerge dall'art. 10 dello Statuto del 1989, questa si limita alle « controversie di lavoro, sia individuali che plurime o collettive » come è altresì confermato dall'art. 12 del nuovo Statuto che prevede il ricorso per legittimità per violazione o falsa applicazione di leggi, disposizioni o regolamenti vigenti in materia attinente al lavoro. Il provvedimento di silenzio - rigetto, previsto dall'art. 10 n. 3 dello Statuto ULSA 1989 e dall'art. 10.4 dello Statuto ULSA 1994, si realizza allorché l'Amministrazione competente non abbia dato risposta sul merito della domanda nel termine di novanta giorni dalla presentazione di essa. Il compimento da parte dell'Amministrazione di atti interlocutori, come ad esempio la richiesta di atti di valutazione, non costituisce attività idonea a sospendere il decorso di quel termine né, tanto meno, del termine per proporre impugnazione avverso il provvedimento di silenzio - rigetto ormai formatosi. Ciò perché i termini di decadenza non sono suscettibili né di proroga, né di sospensione, né di interruzione come del resto conferma il can. 1465 § 1 del C.I.C. per il quale i termini legali, quando non sia altrimenti previsto, sono improrogabili e perentori. Non può sussistere un provvedimento di diniego in mancanza di una apposita e specifica richiesta. Non è assoggettabile alla disciplina relativa alla mobilità del personale tra Dicasteri (artt. 22 e 23 R. G.C.R), il dipendente della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli comandato e assegnato a svolgere mansioni presso la Pontificia Università Urbaniana, essendo quest'ultima Ente morale con propria personalità giuridica non identificabile, quindi, con un Dicastero della Curia e nemmeno con la Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che pure la gestisce.** Il comando o l'assegnamento di mansioni presso altro Ente non implica necessariamente un mutamento del livello funzionale retributivo anche perché presuppone che il dipendente comandato continui a restare nell'organico dell'Ente che ha disposto il distacco, mantenendo il livello funzionale che già gli era stato assegnato. [Dep. 13 maggio 1995] Causa N. 42/1995 - 23 maggio - 5 luglio 1995, S.E. Pompedda Pres. ed Est.* Ricorso per legittimità ex art. 12 Statuto ULSA - Condizione - Pubblicazione decisione. Ricorso per legittimità ex art. 12 Statuto ULSA  Legittimazione per ambedue le parti. Sentenze interlocutorie - Impugnabilità - Applicabilità artt. 12 Statuto ULSA e 334 par. 1 C.P.C. Retribuzione - Proporzionalità al lavoro svolto. Ingiustificato arricchimento dell'Amministrazione - Estraneità alle finalità del patrimonio della Sede Apostolica. Rivalutazione monetaria - Mancata previsione legislativa. La sentenza acquista valore e forza con la pubblicazione e notificazione alle parti (can. 1614 c.p.c., art. 353 par. 1 c.p.c., art. 380 c.p.c.) con la conseguente ammissibilità, se la pubblicazione è avvenuta dopo l'entrata in vigore dello Statuto definitivo dell'ULSA, del ricorso per legittimità proposto sulla base della legislazione sopravvenuta. La legittimazione a proporre ricorso per legittimità ex art. 12 dello Statuto dell'ULSA spetta ad ambedue le parti costituite in giudizio e non già soltanto al dipendente (all. 2 dello Statuto ULSA). L'impugnazione della decisione interlocutoria può essere proposta insieme con il ricorso avverso la decisione definitiva pronunciata dal Collegio di conciliazione e arbitrato, a ragione del combinato disposto dell'art. 12 del vigente Statuto ULSA con l'art. 334 par. 1 c.p.c. Il principio per cui la retribuzione va proporzionata all'attività lavorativa effettivamente svolta per più di due anni è legittimo sotto il profilo di una equa applicazione dei principi di giustizia, commutativa o distributiva che sia, nonché di quella giustizia sociale che deve presiedere, particolarmente nell'ordinamento canonico e in quello vaticano, al trattamento retributivo, assistenziale e previdenziale di coloro che alle Amministrazioni della Sede Apostolica prestano il proprio lavoro e la propria opera. Il concetto di ingiustificato arricchimento, però, non può essere formulato nei confronti della Sede Apostolica e dello Stato della Città del Vaticano in quanto la costituzione di un patrimonio, da un lato, non è fine a se stessa, come nell'impresa che è finalizzata all'arricchimento di chi la gestisce, e, d'altro lato, non proviene da introiti fiscali o tributari, come si verifica negli Stati laici. Nell'ordinamento Vaticano manca una disposizione che prevede la rivalutazione monetaria e non è pertinente alla fattispecie l'art. 123 par. 2 della Cost. Apost. Pastor Bonus che si riferisce ai danni conseguenti da un atto illegittimo. Per contro, la rivalutazione monetaria costituisce soltanto criterio applicabile per la determinazione del credito, una volta che sia stato accertato. Causa N. 44/1995 - 3 ottobre - 31 ottobre 1995, S.E. Pompedda Pres., Giacobbe Rel.* Qualificazione giuridica del rapporto di lavoro - Effetti. Diritto naturale - Irrilevanza del richiamo - Condizioni. Corrispettività - Obbligazioni di valuta. Principi di giustizia - Limiti di applicabilità. Il riconoscimento di una retribuzione proporzionata alla natura dell'attività lavorativa di fatto svolta, non influisce sui diritti del lavoratore conseguenti alla cessazione del rapporto. In relazione a tali diritti deve aversi riguardo alla qualificazione giuridica della posizione del lavoratore e non alla contingente situazione di fatto. Gli effetti di quest'ultima si esauriscono con la attribuzione, durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, dell'indennità che riproporziona la retribuzione. Non può essere richiamato il diritto naturale, in una controversia che ha nella legge positiva la sua specifica disciplina. Qualora vi siano ragioni di conflitto tra disposizioni di diritto positivo e principi di diritto naturale, potrà essere prospettata l'eventuale modificazione delle prime, ma non ne può essere legittimamente richiesta la disapplicazione. La prestazione retributiva, in quanto avente come suo contenuto la corresponsione di una somma di danaro, è assoggettata ai principi che regolano le obbligazioni di valuta. I principi di giustizia, comportanti la necessità di corrispondenza tra il trattamento economico e la prestazione effettivamente svolta, trovano applicazione nell'ambito e nei limiti fissati dalla normativa vigente. Bollettino N. 5 (periodo 1° gennaio 1996 - 31 dicembre 1996) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 45/1995 - 3 ottobre 1995 - 26 febbraio 1996, S.E. Pompedda Pres., Prosperetti Rel.* Mansioni analoghe ed assimilabili - Diversità di contenuto - Diverso intuitu fiduciae. Mansioni di fatto - Mancanza assunzione di status. Scopo lavoro sub umbra Petri - Sinallagmaticità commerciale - Insussistenza - Mancanza di arricchimento del datore di lavoro. Equa applicatione principi giustizia - Corresponsione retribuzione alla mansione effettivamente svolta. Retribuzione relativa alle mansioni superiori - Non pensionabilità - Regolamento del Fondo Pensioni dell'8.9.92. Retribuzione non pensionabile - Liquidazione - Irrilevanza - Art. 2 Norme per la liquidazione del trattamento di quiescenza, Motu Proprio del 20.2.1972. Rivalutazione crediti - Interessi moratori - Valutazione di specie. Mansioni che, per il loro contenuto materiale, risultino del tutto analoghe o assimilabili possono, però, presentare rilevanti differenze di contenuto ove si abbia riguardo alle responsabilità connesse al loro espletamento e al diverso intuitu fiduciae che le caratterizza. Nessuno status può essere attribuito al dipendente in ragione dell'esercizio di mansioni di fatto, nella logica di un rapporto regolato da una peculiare regolamentazione pubblicistica quale è il Regolamento generale per il personale di ruolo dipendente dello Stato della Città del Vaticano. Il particolare statuto del lavoro sub umbra Petri non presuppone una sinallagmaticità commerciale (cfr. sentenza corte Appello n. 45/1995 essendo esclusa, sia per la Sede Apostolica che per lo Stato Città del Vaticano, la rilevanza di un patrimonio, come è per l'impresa, finalizzato all'arricchimento di chi lo gestisce. Senonché, anche in assenza di una norma di diritto positivo, un'equa applicazione dei principi di giustizia comporta che la retribuzione deve costantemente corrispondere alle mansioni effettivamente svolte, dovendosi tener conto anche dell'utilità che l'amministrazione ha ricavato da una prestazione di lavoro più qualificata rispetto a quella convenuta. La maggiorazione di stipendio, conseguente allo svolgimento di mansioni superiori, non è assoggettabile a contribuzione e non è utile per il calcolo dell'ammontare della pensione, prevedendo il Regolamento del Fondo Pensioni dell'8.9.1992 (art. 8 e art. 11) che quest'ultimo sia calcolato esclusivamente sull'ASI e sull'ultima retribuzione mensile costituita dallo stipendio base, come da livello, dagli scatti biennali, nonché dalla eventuale indennità fissa per responsabilità dirigenziale. La non pensionabilità delle differenze retributive spettanti per l'esercizio di mansioni superiori, comporta anche che di esse non si debba tener conto per il trattamento di quiescenza, prevedendo l'art. 2 delle Norme che lo regolano (Motu Proprio 20.2.1972), che sia calcolato sulla base dello stipendio mensile pensionabile per ogni anno di servizio. Poiché le differenze di retribuzione per svolgimento di mansioni superiori spettano in ragione dell'utilità conseguente allo svolgimento di mansioni non contrattualmente previste, il relativo credito sarebbe di valore. Senonché, la domanda di una specifica retribuzione, specificando l'oggetto del credito mediante il formale riferimento ad un importo pecuniario, lo trasforma in credito di valuta. Il danno derivante dalla perdita di valore della moneta è ragionevolmente risarcito con gli interessi moratori. Causa N. 47/1995 - 4 dicembre 1995 - 6 marzo 1996, S.E. Pompedda Pres. ed Est. Norma di altro ordinamento - Inquadramento nell'ambito dell'ordinamento Vaticano. Sentenza di patteggiamento - Inclusività art. 91 e) Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo SCV del 1° luglio 1969 LII omologo all'art. 60 h) del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano del 3 maggio 1995 - Legittimità licenziamento nel caso di specie. Vincolo fiduciario - Permanenza - Ratio prevalente art. 91 e). Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII. Sentenze di condanna di altri ordinamenti - Non automaticità di adeguamento in caso di norma contraria alla dignità dell'uomo e alle sue libertà fondamentali. La legge propria ad altro ordinamento, ove richiamata dall'ordinamento vaticano, deve essere applicata sul rispetto della ratio che presiede al richiamo, con conseguente irrilevanza dell'interpretazione che ad essa viene data nell'ordinamento di origine. La sentenza di patteggiamento (art. 444 c.p.p. italiano in vigore con decreto del 22 settembre 1988) va equiparata ad una sentenza di condanna penale passata in giudicato, agli effetti dell'art. 91 e) del Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII. Ciò sia per la classificazione delle sentenze in materia penale che l'ordinamento vaticano stabiliva al momento in cui fu emanato quel Regolamento, sia perchè la sentenza di patteggiamento implica l'ammissione della responsabilità da parte dell'imputato e comporta l'applicazione definitiva di una pena (cfr. a riprova l'art. 60 h) del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano del 3 maggio 1995 a mente del quale « il licenziamento è inflitto per sentenza penale passata in giudicato o per sentenza definitiva a seguito di procedimento per l'applicazione di pena su richiesta delle parti, emessa da qualsiasi Autorità civile o ecclesiastica, che rendano il dipendente indegno o immeritevole di prestare servizio allo Stato della Città del Vaticano »). La questione di sapere se la condanna penale conseguente alla procedura di patteggiamenio possa o no essere ricompresa nella nozione di « qualsiasi condanna penale passata in giudicato » è, comunque, secondaria rispetto alla questione della permanenza del vincolo fiduciario (art. 91 e) del Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII). Infatti la ratio dell'art. 91 e) è essenzialmente quella di evitare che chi ha commesso particolari reati presti servizio in funzioni incompatibili, sul piano della fiducia oggettiva, con le relative responsabilità di lavoro. Nel territorio dello Stato della Città del Vaticano, nel quale prestano la loro opera persone provenienti da tutti i paesi del mondo, non avrebbe senso l'automatico riferimento, a fini disciplinari, alle sentenze di condanna di ordinamenti estremamente diversi e non tutti ugualmente affidabili sul piano della considerazione dei reati e delle garanzie processuali. Una sentenza penale di condanna emessa in applicazione di una legge di altro ordinamento che risulta iniqua perché contraria alla dignità dell'uomo e alle sue libertà fondamentali, non può determinare indegnità e immeritevolezza ai fini dell'ordinamento vaticano. Causa N. 46/1995 - 4 dicembre 1995 - 19 aprile 1996, S.E. Pompedda Pres., Bruno Est.* Ricorso alla Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano - Motivi. Ricorso - Tempestività - Condizioni. Magistero Pontificio - Ambito. Art. 3 delle « Disposizioni comuni » Segreteria di Stato n. 163.127/A del 14 dicembre 1985 - Mansioni inferiori - Inapplicabilità. Mansioni inferiori - Mancata individuazione diritto leso. Acquisizione grado o promozione - Limiti. Dignità dipendente - Esigenze dell'Amministrazione - Ambito reformatio in pejus. ll ricorso per legittimità non corrisponde al ricorso in appello e, quindi, non può essere proposto per il riesame del merito. Ne consegue che, salvo quanto disposto dall'art. 12 § 3 dello Statuto ULSA (a mente del quale « in caso di accoglimento del ricorso, la corte decide con unica sentenza anche sul merito ») ricorso per legittimità può essere proposto esclusivamente per due motivi: per mancata osservanza di norme procedurali essenziali e per violazione (cfr. art. 371 § 1 c.p.c.v.) o falsa applicazione (cfr. 375 § 2 c.p.c.v.) di legge, disposizioni e regolamenti vigenti circa la materia di competenza, non essendo prevista possibilità di ricorso per tutti gli altri eventuali vizi che, ai sensi dell'art. 373 del c.p.c.v., legittimerebbero il ricorso per Cassazione. Nonostante il tempo trascorso dall'assegnazione di mansioni inferiori, è tempestivo il ricorso contro il provvedimento di silenzio rigetto formatosi sulla richiesta di attribuzione delle mansioni proprie del livello funzionale di appartenenza, quando questa sia stata formulata nel momento in cui v'è fondato motivo per ritenere definitiva quell'assegnazione. L'insegnamento del Magistero Pontificio in materia sociale influisce sulla disciplina del lavoro costituendo strumento per l'interpretazione e l'integrazione di leggi incomplete o di dubbio significato. In assenza, però, di uno specifico intervento legislativo quell'insegnamento non è idoneo a costituire norma giuridica vincolante. L'art. 3 delle « Disposizioni comuni » dettate dal Cardinale Segretario di Stato nel 1985 che recita: « Qualora l'esercizio delle funzioni o mansioni superiori svolte si sia protratto ininterrottamente per almeno due anni, si prescinde dal possesso del titolo di studio per l'inquadramento in livelli funzionali superiori a quelli di appartenenza, a condizione della specifica e favorevole valutazione sulla capacità professionale, il merito e il rendimento riconosciuti dai direttori responsabili » (Segreteria di Stato n. 163.127A del 14 dicembre 1985), non è applicabile al caso inverso, e cioè all'assegnazione di mansioni inferiori a quelle del livello di appartenenza poiché latius quam praemissae patet. Pertanto, il Collegio di Conciliazione e Arbitrato è incorso in quella ipotesi di violazione di legge che, ai sensi dell'art. 375 § 1 del c.p.c.v., consiste nel ritenere esistente una legge, la quale invece non esiste. Mentre, infatti, è dovere di giustizia corrispondere al dipendente una retribuzione rapportata alle mansioni effettivamente svolte, non v'è lesione di diritto quando vengano attribuite al dipendente mansioni inferiori (soprattutto quando questo è richiesto, o giustificato, o comunque ritenuto necessario per insindacabile discrezionalità dell'Amministrazione) conservandogli l'originario inquadramento funzionale e la corrispondente retribuzione. Nell'Ordinamento vaticano vigente, l'acquisizione di un determinato grado, sia esso di promozione sia esso iniziale, consegue a meno che il Regolamento non preveda diversamente, esclusivamente ad un provvedimento di nomina. Il divieto della reformatio in peius o la previsione di limiti legali nell'utilizzazione dei dipendenti, già presenti nella normativa italiana dal 1970 non sono recepiti nella vigente legislazione vaticana in quanto è stato ritenuto limiterebbero irrazionalmente i poteri delle Amministrazioni. Le esigenze di queste ultime, infatti, hanno prevalenza su quelle dei dipendenti e non esiste nessuna norma che consenta di porre in una posizione privilegiata questi ultimi, se non la disposizione che consente di mantenere il trattamento retributivo corrispondente al livello di inquadramento. Ciò non esclude che il rispetto della dignità umana dei dipendenti deve trovare applicazione in tutti i rapporti, compresi quelli di lavoro, in relazione ai quali deve essere applicata ed esercitata la giustizia anche distributiva, come solennemente affermato nell'Enciclica « Laborem Exercens » (nel caso di specie, deve ritenersi che l'Amministrazione, con il provvedimento silenzio-rigetto, ha inteso mantenere in atto, per sue particolari esigenze, la temporaneità del provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori). Causa N. 50/1996 - 14 novembre 1996 - 13 dicembre 1996, S.E. Pompedda Pres., Giacobbe Est.* Art. 2 Statuto ULSA - Competenza - Prova del presupposto oggettivo. Art. 2.3 Statuto ULSA - Certificazione Segreteria di Stato - Insindacabilità - Competenza esclusiva. Nozione di controversia Art. 2. 3 Statuto ULSA. Competenza ULSA - Regime di determinazione - Elementi indiziari Esclusione. Rapporto di lavoro atipico - Incompetenza ULSA ex Art 2. 2 Statuto ULSA. Perpetuatio Jurisdictionis - Ambito di operatività. Ai fini della determinazione della competenza, ex art. 2 dello Statuto ULSA, è necessario venga accertata la ricorrenza del presupposto oggettivo, costituito dalla titolarità di un rapporto di lavoro diretto con la Sede Apostolica. La decisione impugnata va confermata nella parte in cui ha ribadito l'esclusiva competenza del Cardinale Segretario di Stato, in materia di certificazione della natura dell'ente, e, conseguentemente, ha affermato la insindacabilità di tale certificazione, ove ritualmente acquisita agli atti del procedimento (art. 2. 3 Statuto ULSA e art. 14 delle Norme di attuazione degli artt. 10 e 11 dello Statuto ULSA). La nozione di controversia di cui all'art. 2.3 dello Statuto ULSA deve essere individuata sulla base del comune significato del termine che identifica il rapporto contenzioso tra due parti, nella fattispecie tra il dipendente e l'ente (cfr. art. 14 delle norme di attuazione degli artt. 10 e 11 dello Statuto ULSA). La competenza dell'ULSA è soggetta ad uno specifico e rigoroso regime di determinazione onde è escluso possa essere determinata sulla base di elementi indiziari. L'esistenza di un rapporto di lavoro atipico, sottratto alla competenza dell'ULSA (comma 2 dell' Art. 2 dello Statuto) deve essere affermata a prescindere dalla qualificazione da dare all'Ente datore di lavoro - qualora dall'esame della documentazione e dalle affermazioni del ricorrente risulti che il rapporto oggetto della controversia è stato costituito, tra l'altro, attraverso manifestazione orale di volontà. Il principio della perpetuatio jurisdictionis (art. 5 c.p.c italiano e 50 c.p.c.v.) opera esclusivamente con riferimento alla data di proposizione della domanda. Bollettino N. 6 (periodo 1° gennaio 1997 - 31 dicembre 1997) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 54/1996 - 28 maggio 1997 - 7 agosto 1997, S.E. Pompedda Pres., Bruno Rel.* Ruolo APSA - Presupposti. Rinuncia volontaria - Trasferimento - Distinta configurabilità. Provvedimento Capo Dicastero - Operatività APSA - Ruolo APSA. Provvedimento discrezionale dell'Amministrazione - Tempestività impugnazione Rimessione dei termini - Errore scusabile e forza maggiore - Condizioni - Provvedimento autoritativo - Decisione discrezionale dell'Amministrazione. Diritti soggettivi - Prescrizione quinquennale - Irrilevanza rimessione termini. « L'appartenenza ai ruoli organici dell'APSA, come di un qualsiasi altro Dicastero, Ente o Istituzione della Curia Romana, trova unica ed esclusiva motivazione nel "collegamento" instaurato dai rapporti di lavoro e funzionale collaborazione esistente tra il dipendente e la Santa Sede datrice di lavoro e pertanto, ove tale presupposto venga a cessare, nessun significato obiettivo o motivazione giuridica avrebbe la permanenza di un soggetto nel ruolo di qualsiasi Amministrazione ». Rinunciare volontariamente al proprio ufficio significa decidere di interrompere in modo definitivo ogni rapporto di natura personale, amministrativa e patrimoniale con l'Amministrazione datrice di lavoro e non può mai configurarsi o confondersi, nei presupposti e negli effetti, con un'istanza o richiesta di trasferimento ad altro incarico «ad libitum proprium» come si può chiaramente dedurre dagli artt. 61 e 45 § 3 e dagli artt. 22 e 23 R.G.C.R. Ogni provvedimento assunto dal Capo Dicastero deve ritenersi operante anche da parte dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica stante la permanenza nel ruolo della stessa. Il provvedimento discrezionale ed autoritativo come tale deve essere tempestivamente impugnato. La rimessione in termini, per errore scusabile o per forza maggiore, consente la rimessione degli stessi, una volta scaduti, per proporre il ricorso innanzi al Direttore Generale dell'ULSA solo allorché si controverta in ordine alla lesione di una situazione giuridica determinata da un provvedimento amministrativo avente carattere autoritativo e quindi attuativo di una decisione discrezionale dell'Amministrazione e cioè allorché si sia in presenza di decadenze, nelle quali appunto si incorre tutte le volte che, senza giustificazione, non viene impugnata la decisione amministrativa che, facendo esercizio dei propri poteri discrezionali, sacrifica posizioni soggettive ed interessi del dipendente. Qualora il provvedimento amministrativo (ovvero il silenzio-rigetto dell'amministrazione) si limiti ad esternare il rifiuto a pretese del dipendente fondate su diritti soggettivi (come ad esempio diritti patrimoniali acquisiti nel rapporto di lavoro) che non possono essere incisi da provvedimenti discrezionali, al suddetto provvedimento (che si estrinseca non sul piano autoritativo ma su quello negoziale paritetico) non consegue, per sua natura, alcuna decadenza in ordine all'esercizio del diritto che può essere fatto valere innanzi all'ULSA nel termine prescrizionale di cinque anni (che può essere naturalmente interrotto con idonei atti di messa in mora) come previsto dall'art. 10.10 dello Statuto dell'ULSA. La richiesta all'Amministrazione di adempimento in ordine a diritti soggettivi non incisi da provvedimenti autoritativi, può essere reiterata e, pertanto, non avrebbe significato la rimessione in termini, potendosi sempre avanzare una nuova richiesta in assenza di un giudicato nel merito. Bollettino N. 7 (periodo 1° gennaio 1998 - 31 dicembre 1998) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 55/1996 - 14 luglio 1998 - 30 ottobre 1998, S.E. Pompedda Pres., Giacobbe Rel. (conferma decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato n. 7/96). Art. 12 dello Statuto ULSA - Ambito di indagine della Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano. Art. 80 R.G.C.R - Provvedimento di destituzine di diritto - Definitività - Mancata impugnazione nei termini di legge. Vizi di legittimità - Diversità dalla nullità e dalla inesistenza. Provvedimento amministrativo illegittimo - Mancata impugnazione entro i termini - Effetti preclusivi e non sanatoria. Decadenza - Principi. Obbligo di provvedimento - Limiti Silenzio-rigetto - Rilevanza. Il ricorso di legittimità previsto dall'art. 12 dello Statuto dell' ULSA attribuisce alla Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano un controllo di mera legittimità, dovendosi accertare se la decisione impugnata sia o no conforme ai principi di diritti che regolano, rispettivamente, i1 procedimento e il rapporto sostanziale. Quando sia stato accertato che il provvedimento di destituzione, non essendo stato impugnato nei termini di legge, è divenuto definitivo, non è consentito, in sede di legittimità, proporre ragioni che avrebbero dovuto essere prospettate, con le modalità ed entro i termini previsti dalla legge, al Collegio di conciliazione e arbitrato. Ed infatti, i possibili' vizi dell'atto di destítuzione sono da ricondurre alla categoria della violazione di legge e non determinano una nullità radicale e, tantomeno, l'inesistenza del provvedimento impugnato. La mancata impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo, entro i termini di legge, non comporta la sanatoria di esso, bensì la preclusione di ogni atto di impugnaZione con conseguente definitività di quel provvedimento. I termini di decadenza non possono essere sospesi soltanto perché la parte non li avrebbe rispettati per convinzioni personali o per effetto di una riserva mentale. Infatti, alla decadenza non sono applicabili le norme attinenti alla sospensione ed interruzione proprie della prescrizione, onde, scaduto il termine, non sono ammissibili proroghe. La risposta dell'Amministrazione ad una istanza che, per il suo contenuto, non esprima una volontà idonea a determinare effetti giuridici, è da considerare come mera espressione di cortesia, con la conseguenza che, rispetto ad essa, non è configurabile la formazione di un provvedimento o di un provvedimento di silenzio-rigetto. L'istituto del silenzio-rigetto assume rilevanza, come atto amministrativo autonomamente impugnabile, soltanto nell'ipotesi in cui esso sia riferibile ad un atto dovuto della autorità amministrativa cui l'istanza è rivolta. Da ciò deriva che quando, come nella fattispecie, non è ipotizzabile il diritto della parte istante ad ottenere il provvedimento amministrativo, non si può ritenere che si sia realizzato il silenzio-rigetto che consente la correlativa impugnazione. Bollettino N. 8 (periodo 1° gennaio 1999 - 31 dicembre 1999) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 61/1997  22 luglio 1998  8 aprile 1999, S.E. Pompedda Pres., Giacobbe Rel. (conferma decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato n. 2/97) Tardiva costituzione  Preclusione  Eccezioni in senso stretto. Ammissibilità del ricorso  Rilevabilità d'ufficio. Formazione del giudicato  Configurabilità  Limiti. Diritto naturale  Magistero Pontificio  Ambito di incidenza. Mancata impugnativa nei termini del provvedimento di silenzio-rigetto  Preclusione di far valere il diritto  Decadenza. Valutazione meramente ipotetica  Irrilevanza. La tardività della costituzione in giudizio della parte resistente preclude che questa ultima possa sollevare eccezioni in senso stretto, vale a dire eccezioni non rilevabili di ufficio. L'ammissibilità del ricorso, invece, attenendo ai presupposti per la legittima instaurazione del procedimento, rientra tra le questioni che sono rilevabili di ufficio e, pertanto, la tardività della costituzione della parte resistente, che tale inammissibilità abbia sollevato, non produce effetti preclusivi. La formazione del giudicato opera attraverso il diretto collegamento tra il dispositivo e la motivazione, nel senso che la definitività della decisione opera nei limiti di quanto disposto dal giudice in relazione ai motivi che sorreggono la decisione stessa. Ne deriva che le argomentazioni introduttive rilevano esclusivamente al fine di comprendere il significato della decisione impugnata, ma non assumono autonoma rilevanza, ai fini della formazione del giudicato. Soprattutto per quanto attiene alle norme procedimentali, i principi di diritto naturale e l'insegnamento del Magistero Pontificio possono essere richiamati esclusivamente come criterio guida dell'attività ermeneutica delle norme positive. Non possono, invece, essere assunti come fonte alternativa rispetto al diritto positivo. Ciò perché i principi di diritto naturale e l'insegnamento Pontificio, prevalentemente se non esclusivamente, hanno come destinatario il Legislatore positivo, il quale a quei principi deve dare applicazione. Anche prima dell'istituzione dell' ULSA, l'art. 15 della legge fondamentale n. 1 del 1929 prevedeva una tutela per la lesione dei diritti soggettivi lesi, onde v'è decadenza per la mancata impugnazione nei termini del provvedimento amministrativo, anche se di silenzio-rigetto ed anche se si è formato prima del 1989. La constatazione che, nell'ipotesi in cui non si fosse verificata decadenza, avrebbe potuto essere accertata una violazione di diritti, quando è fatta esclusivamente al fine di determinare il regime delle spese di giudizio, non è contraddittoria e, quindi, non consente di prospettare una violazione di legge. Causa N. 62/1998  14 dicembre 1998  9 luglio 1999, S.E. Pompedda Pres., Bruno Rel. (annulla decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato n. 1/98) Ricorso per legittimità  Configurazione. Atto Amministrativo  Configurazione. Segreteria di Stato  Consultazione  Esigenze di ordine generale. Impugnativa  Atto  Presupposti. Art. 120 R.G.C.R. del 1992  Ambito di applicazione. Prescrizione  Eccezione tardiva. Collegio di conciliazione e arbitrato dell'ULSA e Corte di Appello dello SCV  Compiti ermeneutici e limiti.  Mancanza di normativa positiva  Mancanza di riconoscimento di diritti. In sede di giudizio di legittimità ex art. 12 dello Statuto dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, la decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato può essere riesaminata anche sul merito al fine di accertare eventuali vizi di motivazione che configurano violazione di legge. Il provvedimento, per essere lesivo di un diritto, deve esprimere la volontà dell'Amministrazione che lo ha emanato in ordine a diritti, esistenti o vantati. Ne consegue che non costituisce provvedimento l'atto con il quale si informano i dipendenti che le loro richieste sono state sottoposte all'esame degli organi competenti; ciò anche perché, nonostante la competenza primaria di decisione spetti all'Amministrazione datrice di lavoro, ragioni di carattere generale possono richiedere la previa consultazione della Segreteria di Stato, al fine di evitare decisioni che potrebbero rivelarsi in contrasto con esigenze complessive. Ne consegue che un'informazione che abbia il contenuto di cui ora si è detto, non può essere considerata un provvedimento e, quindi, non può formare oggetto di una impugnativa con l'ulteriore conseguenza che la mancanza di quest'ultima non determina decadenze. Del resto, nel caso di specie, l'esistenza di una decadenza è stata legittimamente negata mediante un'applicazione analogica dell'art. 120 del R.G.C.R. del 1992. Disposizione questa che, sebbene non possa essere applicata ÂÂstricto sensu all'Amministrazione convenuta consente, in via generale, che un'Amministrazione, in presenza di particolari motivi o circostanze, possa rinviare un suo provvedimento o una sua decisione. L'eccezione di prescrizione è tardiva quando è contenuta nelle deduzioni, previste dalla lettera a) del n. 5 dell'art. 11 dello Statuto dell'ULSA, ma queste non sono state depositate nei termini, e cioè al momento della costituzione in giudizio. Né tale difetto può considerarsi sanato dal richiamo fatto all'art. 2110 del Codice Civile italiano del 1865 (applicabile nello Stato della Città del Vaticano, per il disposto dell'art. 3 della legge del 7 giugno 1929, n. II) in quanto detto articolo non rientra fra le norme espressamente richiamate nell'art. 11, n. 5, lett. b) dello Statuto dell'ULSA e, sebbene preveda la possibilità di opporre la prescrizione anche in appello, non può essere applicato contro le decisioni del Collegio dell'ULSA, avverso le quali non è previsto l'appello, ma soltanto un ricorso per legittimità. Il Collegio di conciliazione e arbitrato dell'ULSA non può sostituirsi al Legislatore e colmare eventuali o supposte lacune di legge, individuando criteri di decisione nell'insegnamento del Sommo Pontefice in materia sociale. Il compito di quel Collegio, infatti, è quello di applicare e di interpretare la legge e non già quello di creare un nuovo sistema normativo sostanzialmente inaffidabile sul piano della certezza. L'altissimo insegnamento del Sommo Pontefice non può essere disatteso, nel suo significato morale, anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro dei dipendenti della Sede Apostolica, degli enti ad essa collegati, come pure dello Stato della Città del Vaticano. Senonché, ciò non significa possa presumersi che la normativa di quei rapporti, positivamente stabilita, si ponga in contrasto con quell'insegnamento, né che quest'ultimo possa supplire all'assenza di una normativa. (Nel caso di specie, ritenuto che il Collegio di conciliazione e arbitrato abbia fatto riferimento agli insegnamenti Pontifici per pervenire ad una soluzione equitativa di plausibili e moralmente fondate aspettative, è stato auspicato che la competente Autorità trovi, tramite un autonomo e discrezionale intervento, una soluzione di equità che soddisfi quelle aspettative). Causa n. 53/1996  24 gennaio 1998  16 luglio 1999, S.E. Pompedda Pres. e Rel. (annulla decisione parziale del Collegio di conciliazione e arbitrato n. 5/96) Legittimazione attiva. Competenza ULSA  Delimitazioni  Presupposti. Potere di accertamento  Organo giurisdizionale. Questioni pregiudiziali o incidentali. La competenza dell'ULSA non ha carattere generale e non si estende a tutto ciò che ha riguardo al lavoro, ma è limitata alla tutela dei diritti, eventualmente lesi, dei soggetti qualificati come dipendenti dell'Amministrazione (art. 2.2, 1° cpv dello Statuto dell'ULSA). Ne consegue che quella competenza non sussiste quando la qualifica di dipendente, pur esistendo un valido rapporto, è stata acquisita apparentemente ovvero è oggetto di una pretesa e, quindi, di controversia (cfr. art. 11.5 Statuto ULSA). Lo specifico ordinamento giuridico in cui sorge e vive il rapporto di lavoro intercorrente tra l'Amministrazione e il dipendente impone di configurare il ÂÂlavoro prestato in piena aderenza a quell'ordinamento e, quindi, quando quel rapporto sia stato costituito secondo le tabelle organiche e le normative rispettive dei singoli Enti o Amministrazioni. L'accertamento dell'esistenza di un rapporto giuridico, quale quello del rapporto di lavoro fra Amministrazione (datore di lavoro) e dipendente (lavoratore), non è di competenza dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, ma esclusivamente dell'organo giurisdizionale preposto all'accertamento dell'esistenza o meno di un fatto giuridico, e conseguentemente dell'autorità giudiziaria. La decisione delle questioni pregiudiziali o incidentali e, quindi, anche dell'esistenza di un rapporto di lavoro, è riconosciuta al Collegio di conciliazione e arbitrato (art. 11, lett. g, Statuto ULSA), secondo il principio che ogni organo giudicante è prima di tutto giudice della propria giurisdizione e competenza, e, quindi, anche dell'esistenza di un rapporto di lavoro. Quella decisione, però, non preclude la contemporanea instaurazione di un giudizio in sede ordinaria per l'accertamento, con efficacia di giudicato, della giurisdizione o competenza del Collegio di conciliazione e arbitrato dell'ULSA. Ne deriva che è illegittima la decisione con la quale il Collegio di conciliazione e arbitrato ha dichiarato, in modo effettivo e formale, la propria competenza in merito all'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro.
Bollettino N. 9 (periodo 1° gennaio 2000 - 31 dicembre 2000) - Massime Corte d'Appello SCV Causa N. 66/1999 ÂÂ 19 febbraio 2000 ÂÂ 23 maggio 2000, Bruno Pres. Prosperetti Rel. (annulla decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato n. 2/99). [In risposta ad istanza della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, il Cardinale Segretario di Stato comunicava che il Sovrano Pontefice dava commissione alla Corte di Cassazione ÂÂvidendi in casuÂÂ. La Corte di Cassazione (cf. massima riportata in calce) cassa la sentenza della Corte di Appello e conferma la decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato (Bollettino n. 8).] Ricorso ÂÂ Motivo di ammissibilità ÂÂ Raggiungimento scopo. Buona fede ÂÂ Procedure di conciliazione dell'ULSA. Accertamento medico ÂÂ Mancata informazione delle finalità ÂÂ Vizio di legittimità. Il ricorso per legittimità, proposto ai sensi dell'art. 12 dello Statuto definitivo dell'ULSA, è ammissibile anche quando sia redatto in modo sommario e senza una compiuta articolazione dei motivi, a condizione che siaidoneo a raggiungere il suo scopo e, cioè, consenta l'individuazione delle ragioni che condizionano l'accertamento della fondatezza o no della domanda. Il provvedimento con il quale l'Amministrazione dispone l'accertamento medico sull'idoneità al lavoro, anche se ispirato a legittima e doverosa autotutela e conforme a buona fede, è illegittimo quando manchi la previa comunicazione delle sue finalità. Sebbene gli artt. 38 e 39 del Regolamento Generale per il Personale dello Stato Città del Vaticano non contemplino un obbligo di preventiva comunicazione di quelle finalità, tale comunicazione condiziona la scelta del dipendente di avvalersi o no di un medico di fiducia. Ne deriva che la mancata comunicazione di quelle finalità impedisce si realizzi a pieno la garanzia approntata per il dipendente. Pertanto, il paragrafo 2 dell'art. 38 del Regolamento Generale per il Personale dello Stato della Città del Vaticano, laddove prevede l'eventuale consulenza di un medico di fiducia, deve essere interpretato nel senso che l'accertamento medico dell'idoneità a svolgere lavoro proficuo, potendo influire pesantemente su una situazione giuridica fondamentale per la vita di un uomo come il proprio lavoro, postula necessariamente il contraddittorio e, quindi, la previa comunicazione dello scopo per cui quell'accertamento è stato disposto. Nel caso di specie, il ripetuto invito a nominare un proprio medico di fiducia, essendo mancata la previa comunicazione dello scopo per cui la visita medica era stata disposta, non ha reso possibile, di fatto, la nomina di uno specialista competente e, di conseguenza, il contraddittorio previsto a garanzia del dipendente. Massima della sentenza della Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano, causa n.23/2000, 24 marzo 2001-31 luglio 2001, Pompedda Pres. e Rel. che cassa la sentenza della Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano, causa N. 66/1999, 19 febbraio 2000 ÂÂ 23 maggio 2000, Bruno Pres. Prosperetti Rel. (massima riportata in epigrafe) e conferma la decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato dell'ULSA n. 2/99. Straordinarietà della impugnativa alla Corte di Cassazione contro le sentenze della Corte di Appello. Obblighi dell'Amministrazione desumibili dall'interpretazione degli artt. 38 § 2 e 39 § 3 del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano. Competenza della Commissione medica. Competenza dell'Amministrazione ÂÂ Limiti. Garanzie del dipendente. Esercizio di facoltà. Tutela sostanziale. E' straordinario il giudizio demandato alla Corte di Cassazione dall'atto sovrano del Legislatore, tenuto conto che non sono soggette ad impugnativa (art. 12.3 dello Statuto dell'ULSA) le sentenze della Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano facenti seguito al ricorso per legittimità contro le decisioni del Collegio di conciliazione e arbitrato dell'ULSA. Dal secondo comma del § 2 dell'art. 38 del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano (al quale fa esplicito rinvio il § 3 dell'art. 39) che dispone: ÂÂagli accertamenti sanitari può assistere un medico di fiducia del dipendente, se questi ne fa richiesta e ne assume le spese relativeÂÂ, si deduce, da un lato, che quella disposizione attribuisce al dipendente soltanto una facoltà (ÂÂpuò ...se ne fa richiestaÂÂ) e, d'altro lato, che l'assistenza del medico di fiducia, dipendendo da una scelta del dipendente, è soltanto eventuale, onde l'accertamento medico è legittimo anche in sua assenza. Pertanto una corretta interpretazione della citata disposizione, che non prevede sia l'obbligo di comunicare al dipendente che la visita collegiale medica sarebbe funzionale all'accertamento di una inabilità permanente sia l'obbligo di comunicare la patologia che si presume abbia determinato quella inabilità, comporta che l'Amministrazione abbia soltanto l'obbligo di mettere il dipendente in grado di esercitare la facoltà di farsi assistere da un medico di fiducia, mentre la Commissione medica deve consentire a quest'ultimo di esercitare la sua funzione: obblighi che devono ritenersi adempiuti quando il dipendente sia invitato a sottoporsi alla visita collegiale medica con un preavviso tale da consentirgli di designare il suo medico di fiducia e di ottenerne l'assistenza. L'Amministrazione non è tenuta, e al tempo stesso non è competente, a valutare preventivamente lo stato psico-fisico del dipendente, anche se tale valutazione fosse funzionale al fine limitato di dedurre la possibile inabilità o l'eventuale patologia. L'Amministrazione nel prendere atto dei sintomi che inducono a sospettare una possibile ed eventuale inabilità al servizio, deducendoli dal comportamento del dipendente considerato sulla base di criteri di comune esperienza può (e, al limite, ha il dovere di) chiedere la valutazione della Commissione medica, l'unica competente ad accertare sia l'esistenza di una patologia sia quella, eventuale, dell'invalidità al servizio; diversamente l'Amministrazione anticiperebbe, con grave atto di pregiudizio, senza averne competenza, una diagnosi e finirebbe per chiedere alla Commissione medica soltanto di confermare le valutazioni, che senza averne la competenza e quindi indebitamente, avrebbe già fatto proprie. Le garanzie del dipendente non sono affievolite avendo questi la facoltà di farsi assistere da un medico di propria fiducia, facoltà che ha, in ogni caso, l'onere di esercitare responsabilmente a prescindere dalla consapevolezza delle ragioni che hanno determinato l'invito a sottoporsi a visita collegiale medica. (La sentenza in esame, nel caso di specie, invece, aveva dato per presupposta l'incapacità del dipendente di rendersi conto della sua situazione di salute, ritenendo che non sarebbe stato in grado di valutare l'opportunità di esercitare la facoltà di farsi assistere da un medico di fiducia se non quando fosse stato preventivamente avvertito della possibilità che la Commissione medica lo avesse dichiarato permanentemente inabile al servizio). L'interpretazione delle disposizioni del Regolamento garantisce, pur sempre, al dipendente una tutela sostanziale in quanto se questi ritenga la valutazione della Commissione medica violativa, per qualsiasi ragione, del suo diritto a rimanere in servizio, può contestare quella valutazione in sede di ricorso all'ULSA dove il Collegio di conciliazione ed arbitrato, in caso sussistano le condizioni, ben può disporre una verifica di quella valutazione, ordinando eventualmente ulteriori accertamenti medici che, in quella fase, si svolgerebbero necessariamente in contraddittorio e con piena consapevolezza delle conseguenze che ne possano derivare.
Bollettino N. 15 (periodo 1° gennaio 2007 - 31 dicembre 2007) *Causa N. 82/2006 ÂÂ 24 gennaio 2007 ÂÂ 17 marzo 2007, Serrano Ruiz Pres. Prosperetti Rel. (annulla la decisione (n.1/2006) del Collegio di conciliazione e arbitrato che dichiara la propria incompetenza) Ordinamento del lavoro al servizio della Sede Apostolica ÂÂ Contesto di riferimento. Competenza dellÂÂULSA ÂÂ Enti con sede nello SCV. L'ordinamento del lavoro che disciplina la particolare comunità dei dipendenti, che opera sub umbra Petri, per e con la Sede Apostolica, è informato alla dottrina sociale della Chiesa e non avulso dal contesto socio-giuridico italiano ed europeo (cfr. lettera Sommo Pontefice al Segretario di Stato 20.11.1982, circa il significato del lavoro prestato alla Sede Apostolica). Tutti i rapporti di lavoro con gli Enti, esistenti e futuri, operanti nella Città del Vaticano, sono sottoposti, ai sensi dellÂÂart. 15 della Legge Fondamentale SCV del 2000, alla giurisdizione dell'ULSA. LÂÂart. 2 dello Statuto di questÂÂultimo si applica esclusivamente agli Enti che operano al di fuori del territorio dello Stato, per i quali, e solo per questi, è richiesto lo specifico accertamento da parte della Segreteria di Stato circa la loro diretta gestione da parte della Sede Apostolica (artt 3, 15.2, 18 della Legge Fondamentale SCV; art. 2 Statuto ULSA). *LÂÂesecuzione di tale sentenza massimata è stata sospesa con Ordinanza della Corte di Cassazione n.27/07, 18 ottobre 2007-19 ottobre 2007
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