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  Un pellegrinaggio sulle orme di Cristo

Card. Joseph Ratzinger

Ci siamo addentrati ormai nell’anno giubilare che congiunge due millenni nella memoria di quell’evento di grazia irripetibile che è l’Incarnazione del Verbo nella storia del nostro mondo. In Gesù, figlio di Maria, siamo diventati figli di Dio, sua famiglia e come tali camminiamo verso l’incontro finale con il Padre portando nell’animo sogni e timori, speranze e trepidazioni, gioie e sofferenze. Nella periodicità ritmata dei giubilei, a partire dall’esperienza di Israele, rinnovata con l’istituzione del Giubileo cristiano, si mantiene vivo il senso e l’importanza della storia, che appare guidata da Dio verso la sua pienezza. Come in una filigrana trasparente, nei due volumi che sono oggi presentati, si approfondisce il significato dell’anno giubilare: esso richiama alla consapevolezza del passato, alla responsabilità del presente e all’attesa del futuro. Si ha prima di tutto il percorso centripeto che risale alle radici bibliche e teologiche ma anche alla loro fecondità permanente: pensiamo solo ai temi del pellegrinaggio e del perdono che possono essere declinati nella ricerca religiosa contemporanea e in quel particolare “problema giubilare” che è il condono del debito estero ai paesi poveri. Ci si inoltra, però, anche su un sentiero che potremmo chiamare centrifugo e che da quel centro “radicale” ci spinge verso la nostra periferia, percorrendo le varie tappe storiche successive, attraversando Medio Evo e crociate, giungendo fino ai Giubilei a cui abbiamo già partecipato con Paolo VI e lo stesso Giovanni Paolo II, sostando anche nelle oasi letterarie: proprio Dante nella Divina Commedia evoca il primo di tutti i Giubilei cristiani, quello di Bonifacio VIII (1300), e Petrarca partecipa al secondo, quello di Clemente VI (1350), seguendo idealmente quel “vecchierel canuto e bianco” giunto a Roma sospinto dal “desio, per mirar la sembianza di colui / ch’ancor lassù nel ciel vedere spera”, cioè il volto di Gesù stampato sul velo della Veronica. L’idea dominante che trascorre da un volume all’altro e passa attraverso i sostanziosi contributi come una parola chiave è il pellegrinaggio (si veda anche la Bolla di indizione del Grande Giubileo dell’Anno duemila: Incarnationis Mysterium al n. 7). Con acuta originalità Gianfranco Ravasi rievoca il pellegrinaggio dei figli di Adamo, adombrato nel cammino dal non-essere all’essere, il pellegrinaggio dei figli di Abramo, bene raffigurato nell’icona della lettera agli Ebrei (11, 8-9.13) e nella storia di Israele, e il pellegrinaggio dei figli di Dio, in cui si possono identificare tutti gli uomini che cercano Dio con cuore sincero. Al centro delle storia però sta il pellegrinaggio del Figlio Unigenito di Dio, nella sua discesa e nella sua ascesa o ascensione al cielo.

La suggestiva autodefinizione di Cristo come “la via, la verità e la vita” (Giovanni 14,6) può essere idealmente il motto dell’intera vicenda dell’Incarnazione. Il Verbo divino, infatti, discende da “presso Dio” per divenire “carne” (Giovanni 1.2.14), percorre le strade e il tempo dell’umanità, penetrando anche nella galleria oscura della sofferenza e della morte più misera (Filippesi 2.8), per ascendere però attraverso la risurrezione nella gloria celeste (Luca 24,51). In questo itinerario che ha come estremi cielo e terra, eternità e storia, si snoda la via terrena di Gesù, segnata da un peregrinare costante. C’è innanzitutto il pellegrinaggio di Gesù, ebreo fedele, al tempio di Sion. Esso inizia quando egli è ancora neonato e viene portato nel santuario per essere offerto al Signore (Luca 2,22-24). Continua col viaggio a Gerusalemme a 12 anni, in compagnia di Maria e Giuseppe; là egli sosta nella “casa del padre suo” (Luca 2,49). A Sion ripetutamente accede, stando almeno alle indicazioni del quarto vangelo che spesso pone il fondale del tempio e delle varie solennità ebraiche per le grandi rivelazioni in parole e in segni di Cristo. Un tempio che dev’essere purificato da ogni ritualismo esteriore e riportato alla sua funzione di “casa di preghiera” (Matteo 21,12-13). Ma è soprattutto Luca a descrivere nel cuore del suo Vangelo (9,51-19,28) un lungo pellegrinaggio verso la città santa, un percorso al cui interno Gesù compie l’annunzio del regno di Dio e delle sue esigenze. Anche Marco sottolinea intenzionalmente i verbi e le parole di movimento e fa emergere il simbolo della “via” (8.2.34; 9,33-34; 10,17.21.28.32-33.46.52) nella seconda parte della sua opera, quella che approda al Golgota. Sulle orme di Cristo devono incamminarsi anche i discepoli, consapevoli che quel viaggio non è meramente spaziale ma interiore ed esistenziale: “Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16,24 e Luca 9,23 precisa che il cammino della croce dev’essere compiuto “ogni giorno”). Un’annotazione che non può sfuggire al lettore, ma che deve anzi essere sottolineata, è l’avventura dell’evoluzione della mèta del pellegrinaggio da Gerusalemme a Roma. Trattando il rapporto tra Giubileo e Crociate, Franco Cardini dichiara che papa Bonifacio VIII sposta su Roma quell’indulgenza plenaria e quell’attenzione della Cristianità che fino ad allora erano spettate alla crociata. Con il Giubileo, Roma occupa definitivamente quel posto centrale nell’immaginario e nel sistema giuridico e sacrale della Chiesa latina che fino ad allora era spettato a Gerusalemme. Eppure, mentre avocava a sé attraverso il sistema della dottrina del voto e delle indulgenze la gestione della crociata, il papato del Duecento aveva gradualmente allontanato da Gerusalemme il traguardo di essa: da un lato favorendo il consolidarsi di obiettivi crociati differenti dalla Città Santa, dall’altro consentendo e incoraggiando una specie di translatio della sacralità collegata con il pellegrinaggio gerosolimitano dall’Oriente all’Occidente e facendo di esso una sorta di Terra Sancta occidentalis. I presupposti di questo mutamento dello statuto sacrale della Cristianità sono remoti: il trasferimento di reliquie gerosolimitane, già avviato ai tempi di Costantino e di sant’Elena, e quindi la consuetudine di erigere in Occidente copie simboliche della basilica dell’Anastasis o dell’edicola del Santo Sepolcro destinate alla liturgia pasquale e alla devozione dei pellegrini, ma intorno alle quali si era andato costituendo un sistema di devozioni e di concessioni d’indulgenza in qualche misura preparatorio, ma in qualche altra sostitutivo del pellegrinaggio ai Luoghi Santi, erano realtà antiche e consolidate nel mondo della Cristianità latina (cfr. Treviri ed altri esempi in Germania...). Bonifacio VIII, riportando Roma al centro della meditazione religiosa e spirituale dell’Europa cristiana, ha rinunziato alla crociata come impresa fondata sulla prospettiva dell’effettivo recupero militare di Gerusalemme: ed è stata, questa, una scelta che oggi alla distanza possiamo considerare come un effettivo passo sulla via della comprensione reciproca e della concreta convivenza tra genti e fedi diverse. Al tempo stesso, il ritorno possente di Roma nelle coscienze della Christianitas è stato il primo germe della cultura umanistica, l’avvio della modernità. Anche in questo senso, il Giubileo del 1300 ha costituito un vero e proprio atto di fondazione del nostro tempo. Così si possono meglio gustare le profonde e nello stesso tempo amare costatazioni che Giovanni Maria Vian trae dal commento dello scrittore italiano Giovanni Papini, sull’anno santo 1950. Scrive l’autore sopra citato: Alla vigilia dell’anno santo e poco dopo la sua apertura Giovanni Papini, che nel 1925 aveva delineato la necessità delle quattro riconciliazioni giubilari (con Dio, tra i cittadini, tra i popoli, tra i cristiani), s’era interrogato, pessimisticamente ma con riflessioni incontestabili, sull’assenza del senso del peccato, indispensabile per un’autentica celebrazione giubilare: “Quanti saranno, tra gli innumerevoli pellegrini a tariffa ridotta, incamminati verso le tombe degli apostoli, che sentiranno davvero, nel fondo più profondo dell’anima, il morso e il pungolo del peccato? Voglio sperare che sian molti anzi che siano i più. Ma non è pur da temere che molti dei sedicenti pellegrini, cresciuti in un mondo che sempre più dimentica o ignora il senso del peccato - siano soltanto dei bravi turisti che col pretesto dell’Anno Santo voglion vedere o rivedere, con modica spesa, la famosa Roma e la bella Italia?”. E in un altro scritto sul giubileo, constatando che “moltissimi, troppi, ne discorrono come se dovesse essere una fruttuosa stagione turistica, un pretesto di viaggi comodi e a buon mercato, una specie di fiera cosmopolita rallegrata dagli svaghi dei peregrinanti e dai guadagni degli ospitanti”, lo scrittore cattolico concludeva che “nell’animo di qualche solitario e forse intempestivo cristiano rimane l’impressione - malinconica impressione - che sia deformato o perduto, nei più, l’altissimo significato, catartico e mistico, dell’Anno Santo. Essi temono, forse a torto, che il rito giubilare, stabilito per placare il dolore dei peccati, si tramuti, nella sarabanda degli interessi e degli agi moderni, in una vasta speculazione turistica, in una specie di kermesse euforica e mammonica. A codesti dubitosi cristiani si può rispondere che Dio soltanto vede, scruta e scandaglia il fondo delle anime. Anche questa volta, nei brulicanti stuoli dei gai pellegrini, Egli saprà riconoscere i Suoi”. Una visione più fiduciosa anche se in realtà non meno consapevole della difficile situazione religiosa avrebbe espresso a conclusione del giubileo, nella tradizionale Cronistoria vaticana, il sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini sottolineando nella sua sorvegliata ed efficace prosa che “questo grande avvenimento, in pieno secolo ventesimo, sta a provare che il nostro mondo contemporaneo ospita nel suo seno e nella sua storia una sempre vivace sorgente di genuina ed umanissima vita religiosa: è la Chiesa cattolica, è la Chiesa romana, che a conforto dell’uomo, piegato sui solchi opachi della vita materiale, a richiamo dell’uomo, diviso fra mille rivalità e inimicizie, ad ammonimento dell’uomo, ignaro e trepido dei suoi superiori destini, a coronamento dell’uomo, evoluto nella conquista dell’universo, ancora addita in Cristo la salvezza suprema”.

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