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Lettera “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, 22.09.2020


Testo in lingua italiana

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Testo in lingua italiana

Congregazione per la Dottrina della Fede

Lettera
Samaritanus bonus

sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita

Introduzione

Il Buon Samaritano che lascia il suo cammino per soccorrere l’uomo ammalato (cfr. Lc 10, 30-37) è l’immagine di Gesù Cristo che incontra l’uomo bisognoso di salvezza e si prende cura delle sue ferite e del suo dolore con «l’olio della consolazione e il vino della speranza».[1] Egli è il medico delle anime e dei corpi e «il testimone fedele» (Ap 3, 14) della presenza salvifica di Dio nel mondo. Ma come rendere oggi questo messaggio concreto? Come tradurlo in una capacità di accompagnamento della persona malata nelle fasi terminali della vita in modo da assisterla rispettando e promuovendo sempre la sua inalienabile dignità umana, la sua chiamata alla santità e, dunque, il valore supremo della sua stessa esistenza?

Lo straordinario e progressivo sviluppo delle tecnologie biomediche ha accresciuto in maniera esponenziale le capacità cliniche della medicina nella diagnostica, nella terapia e nella cura dei pazienti. La Chiesa guarda con speranza alla ricerca scientifica e tecnologica, e vede in esse una favorevole opportunità di servizio al bene integrale della vita e della dignità di ogni essere umano.[2] Tuttavia, questi progressi della tecnologia medica, benché preziosi, non sono di per sé determinanti per qualificare il senso proprio ed il valore della vita umana. Infatti, ogni progresso nelle abilità degli operatori sanitari richiede una crescente e sapiente capacità di discernimento morale[3] per evitare un utilizzo sproporzionato e disumanizzante delle tecnologie, soprattutto nelle fasi critiche o terminali della vita umana.

Inoltre, la gestione organizzativa e l’elevata articolazione e complessità dei sistemi sanitari contemporanei possono ridurre la relazione di fiducia tra medico e paziente ad un rapporto meramente tecnico e contrattuale, un rischio che incombe soprattutto nei Paesi dove si stanno approvando leggi che legittimano forme di suicidio assistito ed eutanasia volontaria dei malati più vulnerabili. Esse negano i confini etici e giuridici dell’autodeterminazione del soggetto malato, oscurando in maniera preoccupante il valore della vita umana nella malattia, il senso della sofferenza e il significato del tempo che precede la morte. Il dolore e la morte, infatti, non possono essere i criteri ultimi che misurano la dignità umana, la quale è propria di ogni persona, per il solo fatto che è un “essere umano”.

Dinnanzi a tali sfide, capaci di mettere in gioco il nostro modo di pensare la medicina, il significato della cura della persona malata e la responsabilità sociale nei confronti dei più vulnerabili, il presente documento intende illuminare i pastori e i fedeli nelle loro preoccupazioni e nei loro dubbi circa l’assistenza medica, spirituale e pastorale dovuta ai malati nelle fasi critiche e terminali della vita. Tutti sono chiamati a dare testimonianza accanto al malato e diventare “comunità sanante” perché il desiderio di Gesù, che tutti siano una sola carne, a partire dai più deboli e vulnerabili, si attui concretamente.[4] Si percepisce ovunque, infatti, il bisogno di un chiarimento morale e di indirizzo pratico su come assistere queste persone, giacché «è necessaria una unità di dottrina e di prassi»[5] rispetto ad un tema così delicato, che riguarda i malati più deboli negli stadi maggiormente delicati e decisivi della vita di una persona.

Diverse Conferenze Episcopali nel mondo hanno pubblicato documenti e lettere pastorali, con le quali hanno cercato di dare una risposta alle sfide poste dal suicidio assistito e dall’eutanasia volontaria ‒ legittimati da alcune normative nazionali ‒ con particolare riferimento a quanti lavorano o sono ricoverati all’interno delle strutture ospedaliere, anche cattoliche. Ma l’assistenza spirituale e i dubbi emergenti, in determinate circostanze e particolari contesti, circa la celebrazione dei Sacramenti per coloro che intendono porre fine alla propria vita, richiedono oggi un intervento più chiaro e puntuale da parte della Chiesa, al fine di:

‒ ribadire il messaggio del Vangelo e le sue espressioni come fondamenti dottrinali proposti dal Magistero, richiamando la missione di quanti sono a contatto con i malati nelle fasi critiche e terminali (i familiari o i tutori legali, i cappellani ospedalieri, i ministri straordinari dell’Eucaristia e gli operatori pastorali, i volontari ospedalieri e il personale sanitario), oltre che dei malati stessi;

‒ fornire orientamenti pastorali precisi e concreti, affinché a livello locale si possa affrontare e gestire queste complesse situazioni per favorire l’incontro personale del paziente con l’Amore misericordioso di Dio.

I. Prendersi cura del prossimo

È difficile riconoscere il profondo valore della vita umana quando, nonostante ogni sforzo assistenziale, essa continua ad apparirci nella sua debolezza e fragilità. La sofferenza, lungi dall’essere rimossa dall’orizzonte esistenziale della persona, continua a generare un’inesauribile domanda sul senso del vivere.[6] La soluzione a questo drammatico interrogativo non potrà mai essere offerta solo alla luce del pensiero umano, poiché nella sofferenza è contenuta la grandezza di uno specifico mistero che soltanto la Rivelazione di Dio può svelare.[7] In particolare, a ciascun operatore sanitario è affidata la missione di una fedele custodia della vita umana fino al suo compiersi naturale,[8] attraverso un percorso di assistenza che sia capace di ri-generare in ogni paziente il senso profondo della sua esistenza, quando viene marcata dalla sofferenza e dalla malattia. Appare per questo necessario partire da una attenta considerazione del significato proprio della cura, per comprendere il significato della specifica missione affidata da Dio ad ogni persona, operatore sanitario e pastorale, così come al malato stesso e alla sua famiglia.

L’esperienza della cura medica muove da quella condizione umana, segnata dalla finitezza e dal limite, che è la vulnerabilità. In relazione alla persona, essa si iscrive nella fragilità del nostro essere, insieme “corpo”, materialmente e temporalmente finito, e “anima”, desiderio di infinito e destinazione all’eternità. Il nostro essere creature “finite”, e pure destinate all’eternità, rivela sia la nostra dipendenza dai beni materiali e dall’aiuto reciproco degli uomini, sia il nostro legame originario e profondo con Dio. Tale vulnerabilità dà fondamento all’etica del prendersi cura, in particolar modo nell’ambito della medicina, intesa come sollecitudine, premura, compartecipazione e responsabilità verso le donne e gli uomini che ci sono affidati perché bisognosi di assistenza fisica e spirituale.

In particolare, la relazione di cura rivela un principio di giustizia, nella sua duplice dimensione di promozione della vita umana (suum cuique tribuere) e di non recar danno alla persona (alterum non laedere): lo stesso principio che Gesù trasforma nella regola aurea positiva «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7, 12). è la regola che nell’etica medica tradizionale trova un’eco nell’aforisma primum non nocere.

La cura della vita è dunque la prima responsabilità che il medico sperimenta nell’incontro con il malato. Essa non è riducibile alla capacità di guarire l’ammalato, essendo il suo orizzonte antropologico e morale più ampio: anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico (cura delle funzioni fisiologiche essenziali del corpo), psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato. La medicina, infatti, che si serve di molte scienze, possiede anche una importante dimensione di “arte terapeutica” che implica una relazione stretta tra paziente, operatori sanitari, familiari e membri delle varie comunità di appartenenza del malato: arte terapeutica, atti clinici e cura sono inscindibilmente uniti nella pratica medica, soprattutto nelle fasi critiche e terminali della vita.

Il Buon Samaritano, infatti, «non solo si fa prossimo, ma si fa carico di quell’uomo che vede mezzo morto sul ciglio della strada».[9] Investe su di lui, non soltanto i soldi che ha, ma anche quelli che non ha e che spera di guadagnare a Gerico, promettendo che pagherà al suo ritorno. Così Cristo ci invita a porre fiducia nella sua invisibile grazia e spinge alla generosità basata sulla carità soprannaturale, identificandosi con ogni malato: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). L’affermazione di Gesù è una verità morale di portata universale: «si tratta di “prendersi cura” di tutta la vita e della vita di tutti»,[10] per rivelare l’Amore originario e incondizionato di Dio, fonte del senso di ogni vita.

A tal fine, soprattutto nelle strutture ospedaliere e assistenziali ispirate ai valori cristiani, è più che mai necessario fare uno sforzo, anche spirituale, per lasciare spazio ad una relazione costruita a partire dal riconoscimento della fragilità evulnerabilità della persona malata. La debolezza, infatti, ci ricorda la nostra dipendenza da Dio e invita a rispondere nel rispetto dovuto al prossimo. Da qui nasce la responsabilità morale, legata alla consapevolezza di ogni soggetto che si prende cura del malato (medico, infermiere, familiare, volontario, pastore) di trovarsi di fronte a un bene fondamentale e inalienabile ‒ la persona umana ‒ che impone di non poter scavalcare il limite in cui si dà il rispetto di sé e dell’altro, ossia l’accoglienza, la tutela e la promozione della vita umana fino al sopraggiungere naturale della morte. Si tratta, in tal senso, di avere uno sguardo contemplativo,[11] che sa cogliere nell’esistenza propria e altrui un prodigio unico ed irripetibile, ricevuto e accolto come un dono. È lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà della vita, ma sa accoglierla così com’è, con le sue fatiche e le sue sofferenze, cercando di riconoscere nella malattia un senso dal quale si lascia interpellare e “guidare”, con la fiducia di chi si abbandona al Signore della vita che in esso si manifesta.

Certamente, la medicina deve accettare il limite della morte come parte della condizione umana. Arriva un momento nel quale non c’è che da riconoscere l’impossibilità di intervenire con terapie specifiche su una malattia, che si presenta in breve tempo come mortale. È un fatto drammatico, che si deve comunicare al malato con grande umanità e anche con fiduciosaapertura alla prospettiva soprannaturale, consapevoli dell’angoscia che la morte genera, soprattutto in una cultura che la nasconde. Non si può, infatti, pensare la vita fisica come qualcosa da conservare a tutti i costi – ciò che è impossibile –, ma come qualcosa da vivere giungendo alla libera accettazione del senso dell’esistenza corporea: «solo in riferimento alla persona umana nella sua “totalità unificata”, cioè “anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale”, si può leggere il significato specificamente umano del corpo».[12]

Riconoscere l’impossibilità di guarire nella prospettiva prossima della morte, non significa, tuttavia, la fine dell’agire medico e infermieristico. Esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine: «guarire se possibile, aver cura sempre (to cure if possible, always to care)».[13] Quest’intenzione di curare sempre il malato offre il criterio per valutare le diverse azioni da intraprendere nella situazione di malattia “inguaribile”: inguaribile, infatti, non è mai sinonimo di “incurabile”. Lo sguardo contemplativo invita all’allargamento della nozione di cura. L’obiettivo dell’assistenza deve mirare all’integrità della persona, garantendo con i mezzi adeguati e necessari il supporto fisico, psicologico, sociale, familiare e religioso. La fede viva mantenuta nelle anime delle persone astanti può contribuire alla vera vita teologale della persona malata, anche se questo non è immediatamente visibile. La cura pastorale di tutti, familiari, medici, infermieri e cappellani, può aiutare il malato a persistere nella grazia santificante e morire nella carità, nell’Amore di Dio. Dinnanzi all’ineluttabilità della malattia, infatti, soprattutto se cronica e degenerativa, se la fede manca, la paura della sofferenza e della morte, e lo sconforto che ne deriva, costituiscono oggigiorno le cause principali del tentativo di controllare e gestire il sopraggiungere della morte, anche anticipandola, con la domanda di eutanasia o di suicidio assistito.

II. L’esperienza vivente del Cristo sofferente
e l’annuncio della speranza

Se la figura del Buon Samaritano illumina di luce nuova la prassi del prendersi cura, l’esperienza vivente del Cristo sofferente, della sua agonia in Croce e della sua Resurrezione, sono i luoghi in cui si manifesta la vicinanza del Dio fatto uomo alle molteplici forme dell’angoscia e del dolore, che possono colpire i malati e i loro familiari, durante le lunghe giornate della malattia e nel fine vita.

Non solo la persona di Cristo è annunciata dalle parole del profeta Isaia come uomo a cui è familiare il dolore e il patire (cfr. Is 53), ma se rileggiamo le pagine della passione di Cristo vi troviamo l’esperienza dell’incomprensione, dello scherno, dell’abbandono, del dolore fisico e dell’angoscia. Sono esperienze che oggi colpiscono molti malati, spesso considerati un peso per la società; a volte non capiti nelle loro domande, vivono sovente forme di abbandono affettivo, di perdita di legami.

Ogni malato ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore “sa” che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui. Per questo, volgere lo sguardo a Cristo significa sapere di potersi appellare a chi ha provato nella sua carne il dolore delle frustate e dei chiodi, la derisione dei flagellatori, l’abbandono e il tradimento degli amici più cari.

Di fronte alla sfida della malattia e in presenza di disagi emotivi e spirituali in colui che vive l’esperienza del dolore, emerge, in maniera inesorabile, la necessità di saper dire una parola di conforto, attinta alla compassione piena di speranza di Gesù sulla Croce. Una speranza credibile, quella professata da Cristo sulla Croce, capace di affrontare il momento della prova, la sfida della morte. Nella Croce di Cristo – cantata dalla liturgia il venerdì santo: Ave crux, spes unica – sono concentrati e riassunti tutti i mali e le sofferenze del mondo. Tutto il male fisico, di cui la croce, quale strumento di morte infame e infamante, è l’emblema; tutto il male psicologico, espresso nella morte di Gesù nella più tetra solitudine, abbandono e tradimento; tutto il male morale, manifestato nella condanna a morte dell’Innocente; tutto il male spirituale, evidenziato nella desolazione che fa percepire il silenzio di Dio.

Cristo è colui che ha sentito attorno a sé lo sgomento dolente della Madre e dei discepoli, che “stanno” sotto la Croce: in questo loro “stare”, all’apparenza carico di impotenza e rassegnazione, c’è tutta la vicinanza degli affetti che permette al Dio fatto uomo di vivere anche quelle ore che sembrano senza senso.

Poi c’è la Croce: di fatto uno strumento di tortura e di esecuzione riservato solo agli ultimi, che sembra così simile, nella sua carica simbolica, a quelle malattie che inchiodano a un letto, che prefigurano solo la morte e sembrano togliere significato al tempo e al suo scorrere. Eppure, coloro che “stanno” attorno al malato non sono soltanto testimoni, ma sono segno vivente di quegli affetti, di quei legami, di quell’intima disponibilità all’amore, che permettono al sofferente di trovare su di sé uno sguardo umano capace di ridare senso al tempo della malattia. Perché, nell’esperienza del sentirsi amati, tutta la vita trova la sua giustificazione. Il Cristo è stato sempre sorretto, nel percorso della sua passione, dalla confidente fiducia nell’amore del Padre, che si faceva evidente, nelle ore della Croce, anche attraverso l’amore della Madre. Perché l’Amore di Dio si palesa sempre, nella storia degli uomini, grazie all’amore di chi non ci abbandona, di chi “sta”, malgrado tutto, al nostro fianco.

Se riflettiamo sul fine vita delle persone, non possiamo dimenticare che in loro alberga spesso la preoccupazione per coloro che lasciano: per i figli, il coniuge, i genitori, gli amici. Una componente umana che non possiamo mai trascurare e a cui si deve offrire un sostegno e un aiuto.

È la stessa preoccupazione del Cristo, che prima di morire pensa alla Madre che rimarrà sola, dentro un dolore che dovrà portare nella storia. Nell’asciutta cronaca del Vangelo di Giovanni, il Cristo è alla Madre che si rivolge, per rassicurarla, per affidarla al discepolo amato affinché se ne prenda cura: “Madre, ecco tuo figlio” (cfr. Gv 19, 26-27). Il tempo del fine vita è un tempo di relazioni, un tempo in cui si devono sconfiggere la solitudine e l’abbandono (cfr. Mt 27, 46 e Mc 15, 34), in vista di una consegna fiduciosa a Dio della propria vita (cfr. Lc 23, 46).

In questa prospettiva, guardare al Crocefisso significa vedere una scena corale, in cui Cristo è al centro perché riassume nella propria carne, e veramente trasfigura, le ore più tenebrose dell’esperienza umana, quelle in cui si affaccia, silenziosa, la possibilità della disperazione. La luce della fede ci fa cogliere, in quella plastica e scarna descrizione che i Vangeli ci forniscono, la Presenza Trinitaria, perché Cristo confida nel Padre grazie allo Spirito Santo, che sorregge la Madre e i discepoli, che “stanno” e, in questo loro “stare” presso la Croce, partecipano, con la loro umana dedizione al Sofferente, al mistero della Redenzione.

Così, benché segnata da un doloroso trapasso, la morte può divenire occasione di una speranza più grande, proprio grazie alla fede, che ci rende partecipi dell’opera redentrice di Cristo. Infatti, il dolore è sopportabile esistenzialmente soltanto laddove c’è la speranza. La speranza che Cristo trasmette al sofferente e al malato è quella della sua presenza, della sua reale vicinanza. La speranza non è soltanto un’attesa per il futuro migliore, è uno sguardo sul presente, che lo rende pieno di significato. Nella fede cristiana, l’evento della Resurrezione non soltanto disvela la vita eterna, ma rende manifesto che nella storia la parola ultima non è mai la morte, il dolore, il tradimento, il male. Cristo risorge nella storia e nel mistero della Resurrezione c’è la conferma dell’amore del Padre che non abbandona mai.

Rileggere, allora, l’esperienza vivente del Cristo sofferente significa consegnare anche agli uomini d’oggi una speranza capace di dare senso al tempo della malattia e della morte. Questa speranza è l’amore che resiste alla tentazione della disperazione.

Per quanto così importanti e cariche di valore, le cure palliative non bastano se non c’è nessuno che “sta” accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile. Per il credente, guardare al Crocefisso significa confidare nella comprensione e nell’Amore di Dio: ed è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. Attorno alla Croce ci sono anche i funzionari dello Stato romano, ci sono i curiosi, ci sono i distratti, ci sono gli indifferenti e i risentiti; sono sotto la Croce, ma non “stanno” con il Crocefisso.

Nei reparti di terapia intensiva, nelle case di cura per i malati cronici, si può essere presenti come funzionari o come persone che “stanno” con il malato.

L’esperienza della Croce permette così di offrire al sofferente un interlocutore credibile a cui rivolgere la parola, il pensiero, a cui consegnare l’angoscia e la paura: a coloro che si prendono cura del malato la scena della Croce fornisce un ulteriore elemento per comprendere che anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare c’è ancora molto da fare, perché lo “stare” è uno dei segni dell’amore, e della speranza che porta in sé. L’annuncio della vita dopo la morte non è un’illusione o una consolazione, ma una certezza che sta al centro dell’amore, che non si consuma con la morte.

III. Il “cuore che vede” del Samaritano:
la vita umana è un dono sacro e inviolabile

L’uomo, in qualunque condizione fisica o psichica si trovi, mantiene la sua dignità originaria di essere creato a immagine di Dio. Può vivere e crescere nello splendore divino perché è chiamato ad essere ad «immagine e gloria di Dio» (1 Cor 11, 7; 2 Cor 3, 18). La sua dignità è in questa vocazione. Dio si è fatto Uomo per salvarci, promettendoci la salvezza e destinandoci alla comunione con Lui: risiede qui il fondamento ultimo della dignità umana.[14]

È proprio della Chiesa accompagnare con misericordia i più deboli nel loro cammino di dolore, per mantenere in loro la vita teologale e indirizzarli alla salvezza di Dio.[15] È la Chiesa del Buon Samaritano,[16] che «considera il servizio ai malati come parte integrante della sua missione».[17] Comprendere questa mediazione salvifica della Chiesa in una prospettiva di comunione e solidarietà tra gli uomini è un aiuto essenziale per superare ogni tendenza riduzionista e individualista.[18]

In particolare, il programma del Buon Samaritano è “un cuore che vede”. Egli «insegna che è necessario convertire lo sguardo del cuore, perché molte volte chi guarda non vede. Perché? Perché manca la compassione. […] Senza la compassione, chi guarda non rimane implicato in ciò che osserva e passa oltre; invece chi ha il cuore compassionevole viene toccato e coinvolto, si ferma e se ne prende cura».[19] Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente.[20] Gli occhi percepiscono nella debolezza una chiamata di Dio ad agire, riconoscendo nella vita umana il primo bene comune della società.[21] La vita umana è un bene altissimo e la società è chiamata a riconoscerlo. La vita è un dono[22] sacro e inviolabile ed ogni uomo, creato da Dio, ha una vocazione trascendente ed un rapporto unico con Colui che dà la vita, perché «Dio invisibile nel suo grande amore»[23] offre ad ogni uomo un piano di salvezza così da poter affermare: «La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l’uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda».[24] Per questo la Chiesa è sempre lieta di collaborare con tutti gli uomini di buona volontà, con credenti di altre confessioni o religioni o non credenti, che rispettano la dignità della vita umana, anche nelle sue fasi estreme della sofferenza e della morte, e rifiutano ogni atto ad essa contrario.[25] Dio Creatore, infatti, offre all’uomo la vita e la sua dignità come un dono prezioso da custodire ed incrementare e di cui rendere conto ultimamente a Lui.

La Chiesa afferma il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione, che la luce della fede conferma e valorizza nella sua inalienabile dignità.[26] Non si tratta di un criterio soggettivo o arbitrario; si tratta invece di un criterio fondato nella dignità inviolabile naturale – in quanto la vita è il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene e nella vocazione trascendente di ogni essere umano, chiamato a condividere l’Amore trinitario del Dio vivente:[27] «L’amore del tutto speciale che il Creatore ha per ogni essere umano “gli conferisce una dignità infinita”».[28] Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico. Così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede. Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte. Per questo, «l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario […] guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore».[29]

IV. Gli ostacoli culturali
che oscurano il valore sacro di ogni vita umana

Alcuni fattori oggigiorno limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica, che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza».[30] In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa.

Un secondo ostacolo che oscura la percezione della sacralità della vita umana è una erronea comprensione della “compassione”[31]. Davanti a una sofferenza qualificata come “insopportabile”, si giustifica la fine della vita del paziente in nome della “compassione”. Per non soffrire è meglio morire: è l’eutanasia cosiddetta “compassionevole”. Sarebbe compassionevole aiutare il paziente a morire attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito. In realtà, la compassione umana non consiste nel provocare la morte, ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza.

Il terzo fattore che rende difficile riconoscere il valore della vita propria e altrui all’interno delle relazioni intersoggettive è un individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà. Alla radice di un tale atteggiamento vi è «un neo-pelagianesimo per cui l’individuo, radicalmente autonomo, pretende di salvare sé stesso, senza riconoscere che egli dipende, nel più profondo del suo essere, da Dio e dagli altri […]. Un certo neo-gnosticismo, dal canto suo, presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo»[32], che auspica la liberazione della persona dai limiti del suo corpo, soprattutto quando fragile e ammalato.

L’individualismo, in particolare, è alla radice di quella che è considerata la malattia più latente del nostro tempo: la solitudine[33], tematizzata in alcuni contesti normativi perfino come “diritto alla solitudine”, a partire dall’autonomia della persona e dal “principio del permesso-consenso”: un permesso-consenso che, date determinate condizioni di malessere o di malattia, può estendersi fino alla scelta o meno di continuare a vivere. È lo stesso “diritto” che soggiace all’eutanasia e al suicidio assistito. L’idea di fondo è che quanti si trovano in una condizione di dipendenza e non possono essere assimilati alla perfetta autonomia e reciprocità, vengono di fatto accuditi in virtù di un favor. Il concetto di bene si riduce così ad essere il risultato di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’autonomia o l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Ne deriva così un impoverimento delle relazioni interpersonali, che divengono fragili, prive di carità soprannaturale, di quella solidarietà umana e di quel supporto sociale così necessari ad affrontare i momenti e le decisioni più difficili dell’esistenza.

Questo modo di pensare le relazioni umane e il significato del bene non può non intaccare il senso stesso della vita, rendendola facilmente manipolabile, anche attraverso leggi che legalizzano pratiche eutanasiche, procurando la morte dei malati. Queste azioni causano una grave insensibilità verso la cura della persona malata e deformano le relazioni. In tali circostanze, sorgono a volte dilemmi infondati sulla moralità di azioni che, in realtà, non sono che atti dovuti di semplice accudimento della persona, come idratare e alimentare un malato in stato di incoscienza senza prospettive di guarigione.

In tal senso, Papa Francesco ha parlato di «cultura dello scarto».[34] Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più fragili, che rischiano di essere “scartati” da un ingranaggio che vuole essere efficiente a tutti i costi. Si tratta di un fenomeno culturale fortemente antisolidaristico, che Giovanni Paolo II qualificò come «cultura di morte» e che crea autentiche «strutture di peccato».[35] Esso può indurre a compiere azioni in sé sbagliate per il solo motivo di “sentirsi bene” nel compierle, generando confusione tra bene e male, laddove invece ogni vita personale possiede un valore unico ed irripetibile, sempre promettente e aperto alla trascendenza. In questa cultura dello scarto e della morte, l’eutanasia e il suicidio assistito appaiono come una soluzione erronea per risolvere i problemi relativi al paziente terminale.

V. L’insegnamento del Magistero

1.     Il divieto di eutanasia e suicidio assistito

La Chiesa, nella missione di trasmettere ai fedeli la grazia del Redentore e la santa legge di Dio, già percepibile nei dettami della legge morale naturale, sente il dovere di intervenire in tale sede per escludere ancora una volta ogni ambiguità circa l’insegnamento del Magistero sull’eutanasia e il suicidio assistito, anche in quei contesti dove le leggi nazionali hanno legittimato tali pratiche.

In particolare, il diffondersi di protocolli medici applicabili alle situazioni di fine-vita, come il Do Not Resuscitate Order o il Physician Orders for Life Sustaining Treatment – con tutte le loro varianti a seconda degli ordinamenti e contesti nazionali, inizialmente pensati come strumenti per evitare l’accanimento terapeutico nelle fasi terminali della vita – solleva oggi gravi problemi in relazione al dovere di tutelare la vita dei pazienti nelle fasi più critiche della malattia. Se da un lato, infatti, i medici si sentono sempre più vincolati dall’autodeterminazione espressa dai pazienti in queste dichiarazioni, che giunge ormai a privarli della libertà e del dovere di agire a tutela della vita anche laddove potrebbero farlo, dall’altro, in alcuni contesti sanitari, preoccupa l’abuso ormai ampiamente denunciato nell’impiego di tali protocolli in una prospettiva eutanasica, quando né i pazienti né tantomeno le famiglie vengono consultati nella decisione estrema. Ciò accade soprattutto nei Paesi dove le leggi sul fine-vita lasciano oggi ampi margini di ambiguità in merito all’applicazione del dovere della cura, avendo essi introdotto la pratica dell’eutanasia.

Per tali ragioni, la Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente. La definizione di eutanasia non procede dalla ponderazione dei beni o valori in gioco, ma da un oggetto morale sufficientemente specificato, ossia dalla scelta di «un’azione o un’omissione che di natura sua o nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore».[36] «L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».[37] La valutazione morale di essa, e delle conseguenze che ne derivano, non dipende pertanto da un bilanciamento di principi, che, a seconda delle circostanze e della sofferenza del paziente, potrebbero secondo alcuni giustificare la soppressione della persona malata. Valore della vita, autonomia, capacità decisionale e qualità della vita non sono sullo stesso piano.

L’eutanasia, pertanto, è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza. La Chiesa in passato ha già affermato in modo definitivo «che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale. Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio».[38] Qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana: «Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità».[39] Dunque, l’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli.[40]

La vita ha la medesima dignità e lo stesso valore per ciascuno: il rispetto della vita dell’altro è lo stesso che si deve verso la propria esistenza. Una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri e nega sé stessa come soggetto morale. Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio, attraverso la virtù teologale della speranza, e di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l’alleanza che costituisce la famiglia umana. Aiutare il suicida è un’indebita collaborazione a un atto illecito, che contraddice il rapporto teologale con Dio e la relazione morale che unisce gli uomini affinché condividano il dono della vita e compartecipino al senso della propria esistenza.

Quand’anche la domanda di eutanasia nasca da un’angoscia e da una disperazione,[41] e «benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza – fosse pure in buona fede – non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile».[42] Lo stesso dicasi per il suicidio assistito. Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire.

Si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata: «il personale medico e gli altri operatori sanitari – fedeli al compito di “essere sempre al servizio della vita e assisterla fino alla fine” – non possono prestarsi a nessuna pratica eutanasica neppure su richiesta dell’interessato, tanto meno dei suoi congiunti. Non esiste, infatti, un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita, per cui nessun operatore sanitario può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente».[43]

È per questo che l’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica.[44]

Sono gravemente ingiuste, pertanto, le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso, per il falso diritto di scegliere una morte definita impropriamente degna soltanto perché scelta.[45] Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana. L’esistenza di queste leggi ferisce profondamente i rapporti umani, la giustizia e minaccia la mutua fiducia tra gli uomini. Gli ordinamenti giuridici che hanno legittimato il suicidio assistito e l’eutanasia mostrano, inoltre, una evidente degenerazione di questo fenomeno sociale. Papa Francesco ricorda che «il contesto socio-culturale attuale sta progressivamente erodendo la consapevolezza riguardo a ciò che rende preziosa la vita umana. Essa, infatti, sempre più spesso viene valutata in ragione della sua efficienza e utilità, al punto da considerare “vite scartate” o “vite indegne” quelle che non rispondono a tale criterio. In questa situazione di perdita degli autentici valori, vengono meno anche i doveri inderogabili della solidarietà e della fraternità umana e cristiana. In realtà, una società merita la qualifica di “civile” se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza».[46] In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. La Chiesa vede in queste difficoltà un’occasione per la purificazione spirituale, che approfondisce la speranza, affinché divenga veramente teologale, focalizzata in Dio, e solo in Dio.

Piuttosto, invece di indulgere in una falsa condiscendenza, il cristiano deve offrire al malato l’aiuto indispensabile per uscire dalla sua disperazione. Il comandamento «non uccidere» (Es 20, 13; Dt 5, 17), infatti, è un sì alla vita, della quale Dio si fa garante: «diventa l’appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo».[47] Il cristiano pertanto sa che la vita terrena non è il supremo valore. La beatitudine ultima è nel cielo. Così il cristiano non pretenderà che la vita fisica continui quando evidentemente la morte è vicina. Il cristiano aiuterà il moribondo a liberarsi dalla disperazione e mettere la sua speranza in Dio.

Sotto il profilo clinico, i fattori che maggiormente determinano la domanda di eutanasia e suicidio assistito sono il dolore non gestito e la mancanza di speranza, umana e teologale, indotta anche da una assistenza umana, psicologica e spirituale sovente inadeguata da parte di chi si prende cura del malato.[48]

È ciò che l’esperienza conferma: «le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri».[49] L’ammalato che si sente circondato dalla presenza amorevole umana e cristiana, supera ogni forma di depressione e non cade nell’angoscia di chi, invece, si sente solo ed abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte.

L’uomo, infatti, vive il dolore non solo come un fatto biologico che va gestito perché sia reso sopportabile, ma come il mistero della vulnerabilità umana in rapporto alla fine della vita fisica, un evento difficile da accettare, dato che l’unità di anima e corpo è essenziale per l’uomo.

Perciò, solo ri-significando l’evento stesso della morte – mediante l’apertura in essa di un orizzonte di vita eterna, che annuncia la destinazione trascendente di ogni persona – il “fine vita” può essere affrontato in un modo consono alla dignità umana e adeguato a quel travaglio e patimento che inevitabilmente produce il senso imminente della fine. Infatti, «la sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa».[50] E questa sofferenza, con l’aiuto della grazia, può essere animata da dentro con la carità divina, proprio come nel caso della sofferenza di Cristo in Croce.

Per questo, la capacità di chi assiste una persona affetta da malattia cronica o nella fase terminale della vita, deve essere quella di “saper stare” (so-stare), vegliare con chi soffre l’angoscia del morire, “consolare”, ossia di essere-con nella solitudine, di essere com-presenza che apre alla speranza.[51] Mediante la fede e la carità espresse nell’intimità dell’anima, infatti, la persona che assiste è capace di soffrire il dolore dell’altro e di aprirsi ad un rapporto personale con il debole che allarga gli orizzonti della vita ben oltre l’evento della morte, divenendo così una presenza piena di speranza.

«Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 15), poiché è felice chi ha compassione fino a piangere con gli altri (cfr. Mt 5, 4). In questa relazione, che si fa possibilità di amore, la sofferenza si riempie di significato nella con-divisione di una condizione umana e nella solidarietà nel cammino verso Dio, che esprime quell’alleanza radicale tra gli uomini[52] che fa loro intravedere una luce anche oltre la morte. Essa ci fa vedere l’atto medico dal di dentro di un’alleanza terapeutica tra il medico e il malato, legati dal riconoscimento del valore trascendente della vita e del senso mistico della sofferenza. Quest’alleanza è la luce per comprendere un buon agire medico, superando la visione individualistica e utilitaristica oggi predominante.

2.     L’obbligo morale di escludere l’accanimento terapeutico

Il Magistero della Chiesa ricorda che, quando si avvicina il termine dell’esistenza terrena, la dignità della persona umana si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta.[53]Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”.[54] La medicina odierna dispone, infatti, di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva in taluni casi un reale beneficio. Nell’imminenza di una morte inevitabile, dunque, è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.[55] Ciò significa che non è lecito sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione; ed altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione, e altri ancora, nella misura in cui siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica). La sospensione di ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione dei trattamenti non deve essere desistenza terapeutica. Tale precisazione si rende oggi indispensabile alla luce dei numerosi casi giudiziari che negli ultimi anni hanno condotto alla desistenza curativa – e alla morte anticipata – di pazienti in condizioni critiche, ma non terminali, a cui si è deciso di sospendere le cure di sostegno vitale, non avendo ormai essi prospettive di miglioramento della qualità della vita.

Nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati «non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte»[56] o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria.[57]

La proporzionalità, infatti, si riferisce alla totalità del bene del malato. Mai si può applicare il falso discernimento morale della scelta tra valori (ad esempio, vita versus qualità della vita); ciò potrebbe indurre ad escludere dalla considerazione la salvaguardia dell’integrità personale e del bene-vita e il vero oggetto morale dell’atto compiuto.[58] Ogni atto medico deve infatti sempre avere ad oggetto e nelle intenzioni di chi agisce l’accompagnamento della vita e mai il perseguimento della morte.[59] Il medico, in ogni caso, non è mai un mero esecutore della volontà del paziente o del suo rappresentante legale, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza.[60]

3.     Le cure di base: il dovere di alimentazione e idratazione

Principio fondamentale e ineludibile dell’accompagnamento del malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali. In particolare, una cura di base dovuta a ogni uomo è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente.[61]

Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale,[62] a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente[63].

4.     Le cure palliative

Della continuità dell’assistenza fa parte il dovere costante di comprensione dei bisogni del malato: bisogni di assistenza, sollievo dal dolore, bisogni emotivi, affettivi e spirituali. Come dimostrato dalla più ampia esperienza clinica, la medicina palliativa costituisce uno strumento prezioso ed irrinunciabile per accompagnare il paziente nelle fasi più dolorose, sofferte, croniche e terminali della malattia. Le cosiddette cure palliative sono l’espressione più autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura, il simbolo tangibile del compassionevole “stare” accanto a chi soffre. Esse hanno come obiettivo «di alleviare le sofferenze nella fase finale della malattia e di assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano»[64] dignitoso, migliorandone – per quanto possibile – la qualità di vita e il benessere complessivo. L’esperienza insegna che l’applicazione delle cure palliative diminuisce drasticamente il numero di persone che richiedono l’eutanasia. A tal fine, appare utile un deciso impegno, secondo le possibilità economiche, per diffondere tali cure a quelli che ne avranno bisogno, da attuarsi non solo nelle fasi terminali della vita, ma come approccio integrato di cura in relazione a qualsiasi patologia cronica e/o degenerativa, che possa avere una prognosi complessa, dolorosa e infausta per il paziente e la sua famiglia.[65]

Delle cure palliative fa parte l’assistenza spirituale al malato e ai suoi familiari. Essa infonde fiducia e speranza in Dio al morente e ai familiari, aiutandoli ad accettare la morte del congiunto. È un contributo essenziale che spetta agli operatori pastorali e all’intera comunità cristiana, sull’esempio del Buon Samaritano, perché al rifiuto subentri l’accettazione e sull’angoscia prevalga la speranza,[66] soprattutto quando la sofferenza si prolunga per la degenerazione della patologia, all’approssimarsi della fine. In questa fase, la determinazione di una efficace terapia antidolorifica consente al paziente di affrontare la malattia e la morte senza la paura di un dolore insopportabile. Tale rimedio dovrà necessariamente essere associato ad un fraterno sostegno che possa vincere il senso di solitudine del paziente, spesso causato dal non sentirsi sufficientemente accompagnato e compreso nella sua difficile situazione.

La tecnica non dà una risposta radicale alla sofferenza e non si può ritenere che essa possa arrivare a rimuoverla dalla vita degli uomini.[67] Simile pretesa genera una falsa speranza, causa di una disperazione ancora maggiore nel sofferente. La scienza medica è in grado di conoscere sempre meglio il dolore fisico e deve mettere in campo le migliori risorse tecniche per trattarlo; ma l’orizzonte vitale di una malattia terminale genera una sofferenza profonda nel malato, che chiede un’attenzione non meramente tecnica. Spe salvi facti sumus, nella speranza, quella teologale, indirizzata verso Dio, siamo stati salvati, dice San Paolo (Rm 8, 24).

“Il vino della speranza” è lo specifico contributo della fede cristiana nella cura del malato e fa riferimento al modo in cui Dio vince il male nel mondo. Nella sofferenza l’uomo deve poter sperimentare una solidarietà e un amore che assume la sofferenza offrendo un senso alla vita, che si estende oltre la morte. Tutto ciò possiede un grande rilievo sociale: «Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana».[68]

Va, tuttavia, precisato che la definizione delle cure palliative ha assunto in anni recenti una connotazione che può risultare equivoca. In alcuni Paesi del mondo, le normative nazionali che disciplinano le cure palliative (Palliative Care Act) così come le leggi sul “fine vita” (End-of-Life Law), prevedono, accanto alle cure palliative, la cosiddetta Assistenza Medica alla Morte(MAiD), che può includere la possibilità di richiedere eutanasia e suicidio assistito. Tale previsione normativa costituisce un motivo di grave confusione culturale, poiché fa credere che delle cure palliative sia parte integrante l’assistenza medica alla morte volontaria e che pertanto sia moralmente lecito richiedere l’eutanasia o il suicidio assistito.

Inoltre, in questi medesimi contesti normativi, gli interventi palliativi per ridurre la sofferenza dei pazienti gravi o morenti possono consistere nella somministrazione di farmaci intesi ad anticipare la morte o nella sospensione/interruzione di idratazione e alimentazione, anche laddove vi sia una prognosi di settimane o mesi. Tali pratiche equivalgono, tuttavia, ad una azione od omissione dirette a procurare la morte e sono pertanto illecite. Il diffondersi progressivo di queste normative, anche attraverso le linee-guida delle società scientifiche nazionali ed internazionali, oltre ad indurre un numero crescente di persone vulnerabili a scegliere l’eutanasia o il suicidio, costituisce una deresponsabilizzazione sociale nei confronti di tante persone, che avrebbero solo bisogno di essere meglio assistite e confortate.

5.     Il ruolo della famiglia e gli hospice

Nella cura del malato terminale è centrale il ruolo della famiglia.[69] In essa la persona si appoggia a relazioni salde, viene apprezzata in sé stessa e non soltanto per una sua produttività o un piacere che può generare. Nella cura, infatti, è essenziale che il malato non si senta un peso, ma che abbia la vicinanza e l’apprezzamento dei suoi cari. In questa missione, la famiglia ha bisogno di aiuto e di mezzi adeguati. Occorre, pertanto, che gli Stati riconoscano la primaria e fondamentale funzione sociale della famiglia e il suo ruolo insostituibile, anche in questo ambito, predisponendo risorse e strutture necessarie a sostenerla. Inoltre, l’accompagnamento umano e spirituale della famiglia è un dovere nelle strutture sanitarie di ispirazione cristiana; essa non va mai trascurata, poiché costituisce un’unica unità di cura con il malato.

Accanto alla famiglia, l’istituzione degli hospice, dove accogliere i malati terminali per assicurarne la cura fino al momento estremo, è cosa buona e di grande aiuto. Del resto, «la risposta cristiana al mistero della morte e della sofferenza non è una spiegazione, ma una Presenza»[70] che si fa carico del dolore, lo accompagna e lo apre ad una speranza affidabile. Tali strutture si pongono come un esempio di umanità nella società, santuari di un dolore vissuto con pienezza di senso. Per questo devono essere equipaggiate con personale specializzato e mezzi materiali propri di cura, sempre aperti alle famiglie:«A tale riguardo, penso a quanto bene fanno gli hospice per le cure palliative, dove i malati terminali vengono accompagnati con un qualificato sostegno medico, psicologico e spirituale, perché possano vivere con dignità, confortati dalla vicinanza delle persone care, la fase finale della loro vita terrena. Auspico che tali centri continuino ad essere luoghi nei quali si pratichi con impegno la “terapia della dignità”, alimentando così l’amore e il rispetto per la vita».[71] In tali contesti, così come in qualsiasi struttura sanitaria cattolica, è doveroso che vi sia la presenza di operatori sanitari e pastorali preparati non solo sotto il profilo clinico, ma anche esercitanti una vera vita teologale di fede e speranza, indirizzate verso Dio, poiché essa costituisce la più alta forma di umanizzazione del morire.[72]

6.     L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica

In relazione all’accompagnamento dei neonati e dei bambini colpiti da malattie croniche degenerative incompatibili con la vita o nelle fasi terminali della vita stessa, è necessario ribadire quanto segue, nella consapevolezza della necessità di sviluppare una strategia operativa capace di garantire qualità e benessere al bambino e alla sua famiglia.

Fin dal concepimento, i bambini affetti da malformazioni o patologie di qualsiasi genere sono piccoli pazienti che la medicina oggi è sempre in grado di assistere e accompagnare in maniera rispettosa della vita. La loro vita è sacra, unica, irripetibile ed inviolabile, esattamente come quella di ogni persona adulta.

In caso di patologie prenatali cosiddette “incompatibili con la vita” – cioè che sicuramente porteranno a morte entro breve lasso di tempo – e in assenza di terapie fetali o neonatali in grado di migliorare le condizioni di salute di questi bambini, in nessun modo essi vanno abbandonati sul piano assistenziale, ma vanno accompagnati come ogni altro paziente fino al sopraggiungere della morte naturale; il comfort care perinatale favorisce in tal senso un percorso assistenziale integrato, che al supporto dei medici e degli operatori della pastorale affianca la presenza costante della famiglia. Il bambino è un paziente speciale e richiede da parte dell’accompagnatore una preparazione particolare sia in termini di conoscenza sia di presenza. L’accompagnamento empatico di un bambino in fase terminale, che è fra i più delicati, ha lo scopo di aggiungere vita agli anni del bambino e non anni alla sua vita.

Gli Hospice Perinatali, in particolare, forniscono un essenziale supporto alle famiglie che accolgono la nascita di un figlio in condizioni di fragilità. In tali contesti, l’accompagnamento medico competente e il supporto di altre famiglie-testimoni che sono passate attraverso la medesima esperienza di dolore e perdita costituiscono un’essenziale risorsa, accanto al necessario accompagnamento spirituale di queste famiglie. È dovere pastorale degli operatori sanitari di ispirazione cristiana adoperarsi per favorirne la massima diffusione nel mondo.

Tutto ciò si rivela particolarmente necessario nei confronti di quei bambini che, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, sono destinati a morire subito dopo il parto o a breve distanza di tempo. Prendersi cura di questi bambini aiuta i genitori ad elaborare il lutto e a concepirlo non soltanto come perdita, ma come tappa di un cammino d’amore percorso assieme al figlio.

Purtroppo la cultura oggi dominante non promuove questo approccio: a livello sociale, l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale e l’affermarsi di una cultura ostile alla disabilità inducono spesso alla scelta dell’aborto, giungendo a configurarlo come pratica di “prevenzione”. Esso consiste nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente e come tale non è mai lecito. L’utilizzo delle diagnosi prenatali per finalità selettive, pertanto, è contrario alla dignità della persona e gravemente illecito perché espressione di una mentalità eugenetica. In altri casi, dopo la nascita, la medesima cultura porta alla sospensione o al non inizio delle cure al bambino appena nato, per la presenza o addirittura solo per la possibilità che sviluppi nel futuro una disabilità. Anche questo approccio, di matrice utilitarista, non può essere approvato. Una simile procedura, oltre che disumana, è gravemente illecita dal punto di vista morale.

Principio fondamentale dell’assistenza pediatrica è che il bambino nella fase finale della vita ha diritto al rispetto e alla cura della sua persona, evitando sia l’accanimento terapeutico e di ostinazione irragionevole sia ogni anticipazione intenzionale della sua morte. In prospettiva cristiana, la cura pastorale di un bambino malato terminale invoca la partecipazione alla vita divina nel Battesimo e nella Cresima.

Nella fase terminale del decorso di una malattia inguaribile, anche qualora vengano sospese le terapie farmacologiche o di altra natura, volte a contrastare la patologia di cui soffre il bambino, in quanto non più appropriate alla sua deteriorata condizione clinica e ritenute dai medici come futili o eccessivamente gravose per lui, in quanto causa di ulteriore sofferenza, non deve però mai venire meno la cura integrale della persona del piccolo malato, nelle sue diverse dimensioni fisiologiche, psicologiche, affettive-relazionali e spirituali. Curare non significa solo praticare una terapia e guarire; così come interrompere una terapia, quando essa non giova più al bambino inguaribile, non implica sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali per la vita del piccolo paziente, finché il suo organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione e ad altri ancora, nella misura in cui questi siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica). L’astensione da ogni ostinazione terapeutica nella somministrazione dei trattamenti giudicati inefficaci non deve essere desistenza curativa, ma deve mantenere aperto il percorso di accompagnamento alla morte. Semmai si deve valutare che anche interventi routinari, come l’aiuto alla respirazione, vengano forniti in maniera indolore e proporzionata, personalizzando sul paziente l’adeguato tipo di aiuto, per evitare che la giusta premura per la vita non contrasti con una ingiusta imposizione di dolore evitabile.

In tale contesto, la valutazione e la gestione del dolore fisico del neonato e del bambino è essenziale per rispettarlo e accompagnarlo nelle fasi più stressanti della malattia. Cure personalizzate e dolci, oggi ormai verificate nell’assistenza clinica pediatrica, affiancate dalla presenza dei genitori, rendono possibile una gestione integrata e più efficace di qualunque intervento assistenziale.

Il mantenimento del legame affettivo tra genitori e figlio è parte integrante del processo di cura. Il rapporto di accudimento e di accompagnamento genitore-bambino va favorito con tutti gli strumenti necessari e costituisce parte fondamentale della cura, anche per le patologie non guaribili e le situazioni ad evoluzione terminale. Oltre al contatto affettivo, non si deve dimenticare il momento spirituale. La preghiera delle persone vicine, all’intenzione del bambino malato, ha un valore soprannaturale che sorpassa e approfondisce il rapporto affettivo.

Il concetto etico/giuridico del “miglior interesse del minore” – oggi utilizzato per effettuare la valutazione costi-benefici delle cure da effettuare – in nessun modo può costituire il fondamento per decidere di abbreviare la sua vita al fine di evitargli delle sofferenze, con azioni od omissioni che per loro natura o nell’intenzione si possono configurare come eutanasiche. Come si è detto, la sospensione di terapie sproporzionate non può condurre alla sospensione di quelle cure di base necessarie ad accompagnarlo ad una morte naturale dignitosa, incluse quelle per alleviare il dolore, e neppure alla sospensione di quell’attenzione spirituale che si offre a colui che presto incontrerà Dio.

7.     Terapie analgesiche e soppressione della coscienza

Alcune cure specializzate richiedono da parte degli operatori sanitari un’attenzione e competenze particolari, per eseguire la migliore pratica medica dal punto di vista etico, sempre consapevoli di accostarsi alle persone nella loro concreta situazione di dolore.

Per attenuare i dolori del malato, la terapia analgesica usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza (sedazione). Un profondo senso religioso può permettere al paziente di vivere il dolore come un’offerta speciale a Dio, nell’ottica della Redenzione;[73] tuttavia, la Chiesa afferma la liceità della sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile e nelle migliori condizioni interiori. Questo è vero anche nel caso di trattamenti che avvicinano il momento della morte (sedazione palliativa profonda in fase terminale),[74] sempre, nella misura del possibile, con il consenso informato del paziente. Dal punto di vista pastorale, è bene curare la preparazione spirituale del malato perché arrivi coscientemente alla morte come all’incontro con Dio.[75] L’uso degli analgesici è, dunque, parte della cura del paziente, ma qualsiasi somministrazione che causi direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è inaccettabile.[76] La sedazione deve dunque escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla morte comunque inevitabile.[77]

Occorre qui una precisazione in relazione ai contesti pediatrici: nel caso del bambino non in grado di intendere, come per esempio un neonato, non si deve commettere l’errore di supporre che il bambino possa sopportare il dolore e accettarlo, quando esistono sistemi per alleviarlo. Per questo è un dovere medico adoperarsi per ridurre il più possibile la sofferenza del bambino, affinché possa giungere alla morte naturale nella pace e potendo percepire il più possibile la presenza amorevole dei medici e, soprattutto, della famiglia.

8.     Lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza

Altre situazioni rilevanti sono quella del malato in mancanza persistente di coscienza, il cosiddetto “stato vegetativo”, e quella del malato in stato di “minima coscienza”. È sempre del tutto fuorviante pensare che lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza, in soggetti che respirano autonomamente, siano segno che il malato abbia cessato di essere persona umana con tutta la dignità che gli è propria.[78] Al contrario, in questi stati di massima debolezza, deve essere riconosciuto nel suo valore e assistito con cure adeguate. Il fatto che il malato possa rimanere per anni in questa dolorosa situazione senza una speranza chiara di recupero implica indubbia sofferenza per coloro che se ne prendono cura.

Può anzitutto essere utile richiamare quanto occorre mai perdere di vista in rapporto a simile dolorosa situazione. Vale a dire: il paziente in questi stati ha diritto all’alimentazione e all’idratazione; alimentazione e idratazione per via artificiale sono in linea di principio misure ordinarie; in alcuni casi, tali misure possono diventare sproporzionate, o perché la loro somministrazione non è più efficace, o perché i mezzi per somministrarle creano un peso eccessivo e procurano effetti negativi che sorpassano i benefici.

Nell’ottica di questi principi, l’impegno dell’operatore sanitario non può limitarsi al paziente ma deve estendersi anche alla famiglia o a chi è responsabile per la cura del paziente, nei confronti dei quali occorre prevedere anche un opportuno accompagnamento pastorale. Bisogna perciò prevedere un supporto adeguato ai familiari nel portare il peso prolungato dell’assistenza a malati in questi stati, assicurando loro quella vicinanza che li aiuti a non scoraggiarsi e soprattutto a non vedere come unica soluzione l’interruzione delle cure. Occorre essere a ciò adeguatamente preparati, proprio come occorre che i familiari siano doverosamente sostenuti.

9.     L’obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari e delle istituzioni sanitarie cattoliche

Dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata. Tali contesti costituiscono un ambito specifico per la testimonianza cristiana, nei quali «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Non esiste il diritto al suicidio né quello all’eutanasia: il diritto esiste per tutelare la vita e la co-esistenza tra gli uomini, non per causare la morte. Non è pertanto mai lecito per nessuno collaborare con simili azioni immorali o lasciar intendere che si possa essere complici con parole, opere od omissioni. L’unico vero diritto è quello del malato di essere accompagnato e curato con umanità. Solo così si custodisce la sua dignità fino al sopraggiungere della morte naturale. «Nessun operatore sanitario, dunque, può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente, anche quando l’eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato».[79]

Al riguardo, i principi generali circa la cooperazione al male, ossia ad azioni illecite, sono così riaffermati: «I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cfr. Rm 2, 6; 14, 12)».[80]

È necessario che gli Stati riconoscano l’obiezione di coscienza in campo medico e sanitario, nel rispetto dei principi della legge morale naturale, e specialmente laddove il servizio alla vita interpella quotidianamente la coscienza umana.[81] Dove questa non fosse riconosciuta, si può arrivare alla situazione di dover disobbedire alla legge, per non aggiungere ingiustizia ad ingiustizia, condizionando la coscienza delle persone. Gli operatori sanitari non devono esitare a chiederla come diritto proprio e come contributo specifico al bene comune.

Parimenti, le istituzioni sanitarie devono superare le forti pressioni economiche che talvolta le inducono ad accettare la pratica dell’eutanasia. E qualora la difficoltà a reperire i mezzi necessari rendesse assai gravoso l’impegno delle pubbliche istituzioni, la società tutta è chiamata ad un supplemento di responsabilità affinché i malati inguaribili non siano abbandonati a sé stessi o alle sole risorse dei loro familiari. Tutto ciò richiede una presa di posizione chiara e unitaria da parte delle Conferenze Episcopali, delle Chiese locali, così come delle comunità e delle istituzioni cattoliche per tutelare il proprio diritto all’obiezione di coscienza nei contesti ordinamentali che prevedono l’eutanasia e il suicidio.

Le istituzioni sanitarie cattoliche costituiscono un segno concreto del modo con cui la comunità ecclesiale, sull’esempio del Buon Samaritano, si prende cura degli infermi. Il comando di Gesù, «curate i malati» (Lc 10, 9), trova una sua concreta attuazione non solo imponendo loro le mani, ma anche raccogliendoli dalla strada, assistendoli nelle proprie abitazioni e realizzando apposite strutture di accoglienza e di ospitalità. Fedele al comando del Signore, la Chiesa ha realizzato, nel corso dei secoli, varie strutture di accoglienza, dove la cura medica trova una sua specifica declinazione nella dimensione di servizio integrale alla persona malata.

Le istituzioni sanitarie cattoliche sono chiamate ad essere fedeli testimoni dell’irrinunciabile attenzione etica per il rispetto dei valori umani fondamentali e di quelli cristiani costitutivi della loro identità, mediante l’astensione da comportamenti di evidente illiceità morale e la dichiarata e formale obbedienza agli insegnamenti del Magistero ecclesiale. Ogni altra azione, che non corrisponda alle finalità e ai valori ai quali le istituzioni sanitarie cattoliche si ispirano, non è eticamente accettabile e, pertanto, pregiudica l’attribuzione, alla istituzione sanitaria stessa, della qualifica di “cattolica”.

In tal senso, non è eticamente ammissibile una collaborazione istituzionale con altre strutture ospedaliere verso le quali orientare e indirizzare le persone che chiedono l’eutanasia. Simili scelte non possono essere moralmente ammesse né appoggiate nella loro realizzazione concreta, anche se sono legalmente possibili. Infatti, le leggi che approvano l’eutanasia «non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cfr. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29)».[82]

Il diritto all’obiezione di coscienza non deve farci dimenticare che i cristiani non rifiutano queste leggi in virtù di una convinzione religiosa privata, ma di un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona, essenziale al bene comune di tutta la società. Si tratta, infatti, di leggi contrarie al diritto naturale in quanto minano i fondamenti stessi della dignità umana e di una convivenza improntata a giustizia.

10.     L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti

Il momento della morte è un passo decisivo dell’uomo nel suo incontro con Dio Salvatore. La Chiesa è chiamata ad accompagnare spiritualmente i fedeli in questa situazione, offrendo loro le “risorse sananti” della preghiera e dei sacramenti. Aiutare il cristiano a viverlo in un contesto d’accompagnamento spirituale è un atto supremo di carità. Proprio perché «nessun credente dovrebbe morire nella solitudine e nell’abbandono»,[83] è necessario creare attorno al malato una solida piattaforma di relazioni umane e umanizzanti che lo accompagnino e lo aprano alla speranza.

La parabola del Buon Samaritano indica quale debba essere il rapporto con il prossimo sofferente, quali atteggiamenti da evitare – indifferenza, apatia, pregiudizio, paura di sporcarsi le mani, chiusura nei propri affari – e quali intraprendere – attenzione, ascolto, comprensione, compassione, discrezione.

L’invito all’imitazione, «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10, 37), è un monito a non sottovalutare tutto il potenziale umano di presenza, di disponibilità, di accoglienza, di discernimento, di coinvolgimento, che la prossimità verso chi è in situazione di bisogno esige e che è essenziale nella cura integrale della persona malata.

La qualità dell’amore e della cura delle persone in situazioni critiche e terminali della vita concorre ad allontanare in queste il terribile ed estremo desiderio di porre fine alla propria vita. Solo un contesto di calore umano e di fraternità evangelica, infatti, è in grado di aprire un orizzonte positivo e di sostenere il malato nella speranza e in un fiducioso affidarsi.

Tale accompagnamento fa parte del percorso definito dalle cure palliative e deve comprendere il paziente e la sua famiglia.

La famiglia, da sempre, ha rivestito un ruolo importante nella cura, la cui presenza, sostegno, affetto, costituiscono per il malato un fattore terapeutico essenziale. Essa, infatti, ricorda Papa Francesco, «è stata da sempre l’“ospedale” più vicino. Ancora oggi, in tante parti del mondo, l’ospedale è un privilegio per pochi, e spesso è lontano. Sono la mamma, il papà, i fratelli, le sorelle, le nonne che garantiscono le cure e aiutano a guarire».[84]

Il farsi carico dell’altro o il prendersi cura delle sofferenze altrui è un impegno che coinvolge non solo alcuni, ma abbraccia la responsabilità di tutti, di tutta la comunità cristiana. San Paolo afferma che, quando un membro soffre, tutto il corpo è nella sofferenza (cfr. 1 Cor 12, 26) e tutto intero si china sul membro malato per recargli sollievo. Ognuno, per la sua parte, è chiamato ad essere “servo della consolazione” di fronte a qualsivoglia situazione umana di desolazione e sconforto.

L’accompagnamento pastorale chiama in causa l’esercizio delle virtù umane e cristiane dell’empatia (en-pathos), della compassione (cum-passio), del farsi carico della sua sofferenza condividendola, e della consolazione (cum-solacium), dell’entrare nella solitudine dell’altro per farlo sentire amato, accolto, accompagnato, sostenuto.

Il ministero di ascolto e di consolazione che il sacerdote è chiamato ad offrire, facendosi segno della sollecitudine compassionevole di Cristo e della Chiesa, può e deve avere un ruolo decisivo. In questa importante missione è oltremodo importante testimoniare e coniugare quella verità e carità con cui lo sguardo del Buon Pastore non smette di accompagnare tutti i suoi figli. Data l’importanza della figura del sacerdote nell’accompagnamento umano, pastorale e spirituale dei malati nelle fasi terminali della vita, occorre che nel suo percorso di formazione sia prevista una aggiornata e mirata preparazione al riguardo. È altresì importante che siano formati ad un tale accompagnamento cristiano anche i medici e gli operatori sanitari, poiché vi possono essere circostanze particolari che rendono assai difficoltosa un’adeguata presenza dei sacerdoti al capezzale dei malati terminali.

Essere uomini e donne esperti in umanità significa favorire, attraverso gli atteggiamenti con cui ci si prende cura del prossimo sofferente, l’incontro con il Signore della vita, l’unico capace di versare, in maniera efficace, sulle ferite umane l’olio della consolazione e il vino della speranza.

Ogni uomo ha il diritto naturale di essere assistito in quest’ora suprema secondo le espressioni della religione che professa.

Il momento sacramentale è sempre culmine di tutto l’impegno pastorale di cura che precede e fonte di tutto ciò che segue.

La Chiesa chiama sacramenti «di guarigione»[85] la Penitenza e l’Unzione degli infermi, che culminano nell’Eucaristia come “viatico” per la vita eterna.[86] Mediante la vicinanza della Chiesa, il malato vive la vicinanza di Cristo che lo accompagna nel cammino verso la casa del Padre (cfr. Gv 14, 6) e lo aiuta a non cadere nella disperazione,[87] sostenendolo nella speranza, soprattutto quando il cammino si fa più faticoso.[88]

11.    Il discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia o suicidio assistito

Un caso del tutto speciale in cui oggi è necessario riaffermare l’insegnamento della Chiesa è l’accompagnamento pastorale di colui che ha chiesto espressamente l’eutanasia o il suicidio assistito. Rispetto al sacramento della Riconciliazione, il confessore deve assicurarsi che ci sia contrizione, la quale è necessaria per la validità dell’assoluzione, e che consiste nel «dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnato dal proposito di non peccare più in avvenire».[89] Nel nostro caso, ci troviamo davanti ad una persona che, oltre le sue disposizioni soggettive, ha compiuto la scelta di un atto gravemente immorale e persevera in esso liberamente. Si tratta di una manifesta non-disposizione per la recezione dei sacramenti della Penitenza, con l’assoluzione,[90] e dell’Unzione,[91] così come del Viatico.[92] Potrà ricevere tali sacramenti nel momento in cui la sua disposizione a compiere dei passi concreti permetta al ministro di concludere che il penitente ha modificato la sua decisione. Ciò comporta anche che una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia o il suicidio assistito debba mostrare il proposito di annullare tale iscrizione, prima di ricevere i sacramenti. Si ricordi che la necessità di posporre l’assoluzione non implica un giudizio sull’imputabilità della colpa, in quanto la responsabilità personale potrebbe essere diminuita o perfino non sussistere.[93] Nel caso in cui il paziente fosse ormai privo di coscienza, il sacerdote potrebbe amministrare i sacramenti sub condicione se si può presumere il pentimento a partire da qualche segno dato anteriormente dalla persona malata.

Questa posizione della Chiesa non è segno di mancanza d’accoglienza del malato. Essa deve essere, infatti, unita all’offerta di un aiuto e di un ascolto sempre possibili, sempre concessi, insieme ad una approfondita spiegazione del contenuto del sacramento, al fine di dare alla persona, fino all’ultimo momento, gli strumenti per poterlo scegliere e desiderare. La Chiesa, infatti, è attenta a scrutare i segni di conversione sufficienti, perché i fedeli possano chiedere ragionevolmente la ricezione dei sacramenti. Si ricordi che posporre l’assoluzione è anche un atto medicinale della Chiesa, volto, non a condannare il peccatore, ma a muoverlo e accompagnarlo verso la conversione.

Cosicché, anche nel caso in cui una persona non si trovi nelle condizioni oggettive per ricevere i sacramenti, è necessaria una vicinanza che inviti sempre alla conversione. Soprattutto se l’eutanasia, richiesta o accettata, non verrà praticata in breve tempo. Ci sarà allora la possibilità di un accompagnamento per far rinascere la speranza e modificare la scelta erronea, così che al malato sia aperto l’accesso ai sacramenti.

Tuttavia, non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come un’approvazione dell’azione eutanasica, come ad esempio il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Tale presenza non può che interpretarsi come complicità. Questo principio riguarda in particolar modo, ma non solo, i cappellani delle strutture sanitarie ove può essere praticata l’eutanasia, che non devono dare scandalo mostrandosi in qualsiasi modo complici della soppressione di una vita umana.

12.     La riforma del sistema educativo e della formazione degli operatori sanitari

Nel contesto sociale e culturale odierno, così denso di sfide in relazione alla tutela della vita umana nelle fasi più critiche dell’esistenza, il ruolo dell’educazione è ineludibile. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative e le comunità parrocchiali devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l’affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del Samaritano evangelico.[94]

Le cappellanie ospedaliere sono tenute ad ampliare la formazione spirituale e morale degli operatori sanitari, inclusi medici e personale infermieristico, così come dei gruppi di volontariato ospedalieri, perché sappiano fornire l’assistenza umana e psicologica necessaria nelle fasi terminali della vita. La cura psicologica e spirituale del paziente durante tutto il decorso della malattia deve essere una priorità per gli operatori pastorali e sanitari, avendo cura di porre al centro il paziente e la sua famiglia.

Le cure palliative devono essere diffuse nel mondo ed è doveroso predisporre a tal fine corsi di laurea per la formazione specialistica degli operatori sanitari. Prioritaria è anche la diffusione di una corretta e capillare informazione sulla efficacia di autentiche cure palliative per un accompagnamento dignitoso della persona fino alla morte naturale. Le istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana devono predisporre linee-guida per i propri operatori sanitari che includano una appropriata assistenza psicologica, morale e spirituale come componente essenziale delle cure palliative.

L’assistenza umana e spirituale deve rientrare nei percorsi formativi accademici di tutti gli operatori sanitari e nei tirocini ospedalieri.

Oltre a ciò, le strutture sanitarie e assistenziali devono predisporre modelli di assistenza psicologica e spirituale agli operatori sanitari che hanno in carico i pazienti nelle fasi terminali della vita umana. Prendersi cura di chi cura è essenziale per evitare che sugli operatori e i medici ricada tutto il peso (burn out) della sofferenza e della morte dei pazienti inguaribili. Essi hanno bisogno di sostegno e di momenti di confronto e ascolto adeguati per poter elaborare non solo valori ed emozioni, ma anche il senso dell’angoscia, della sofferenza e della morte nell’ambito del loro servizio alla vita. Devono poter percepire il senso profondo di speranza e la consapevolezza che la propria missione è una vera vocazione a sostenere e accompagnare il mistero della vita e della grazia nelle fasi dolorose e terminali dell’esistenza.[95]

Conclusione

Il mistero della Redenzione dell’uomo è in modo sorprendente radicato nel coinvolgimento amorevole di Dio con la sofferenza umana. Ecco perché possiamo fidarci di Dio e trasmettere questa certezza nella fede all’uomo sofferente e spaventato dal dolore e dalla morte.

La testimonianza cristiana mostra come la speranza sia sempre possibile, anche all’interno della cultura dello scarto. «L’eloquenza della parabola del Buon Samaritano, come anche di tutto il Vangelo, è in particolare questa: l’uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l’amore nella sofferenza».[96]

La Chiesa impara dal Buon Samaritano la cura del malato terminale e obbedisce così al comandamento connesso al dono della vita: «rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana!».[97] Il vangelo della vita è un vangelo della compassione e della misericordia indirizzato all’uomo concreto, debole e peccatore, per sollevarlo, mantenerlo nella vita di grazia e, se possibile, guarirlo da ogni possibile ferita.

Non basta, tuttavia, condividere il dolore, bisogna immergersi nei frutti del Mistero Pasquale di Cristo per vincere il peccato e il male, con la volontà di «rimuovere la miseria altrui come si trattasse della propria».[98] La miseria più grande consiste, però, nella mancanza di speranza davanti alla morte. Questa è la speranza annunciata dalla testimonianza cristiana, la quale, per essere efficace, deve essere vissuta nella fede, coinvolgendo tutti, familiari, infermieri, medici, e la pastorale delle diocesi e dei centri ospedalieri cattolici, chiamati a vivere con fedeltà il dovere d’accompagnamento dei malati in tutte le fasi della malattia, e in particolare nelle fasi critiche e terminali della vita, così come definito nel presente documento.

Il Buon Samaritano, che pone al centro del suo cuore il volto del fratello in difficoltà, sa vedere il suo bisogno, gli offre tutto il bene necessario per sollevarlo dalla ferita della desolazione e apre nel suo cuore luminose feritoie di speranza.

Il “volere il bene” del Samaritano, che si fa prossimo dell’uomo ferito non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (cfr. 1 Gv 3, 18), prende la forma di cura, sull’esempio di Cristo il quale passò beneficando e sanando tutti (cfr. At 10, 38).

Guariti da Gesù, diveniamo uomini e donne chiamati ad annunciare la sua potenza sanante, ad amare e a prenderci cura del prossimo come Lui ci ha testimoniato.

Questa vocazione all’amore e alla cura per l’altro,[99] che porta con sé guadagni di eternità, è resa esplicita dal Signore della vita nella parafrasi del giudizio finale: ricevete in eredità il regno, perché ero malato e mi avete visitato. Quando mai, Signore? Tutte le volte che avete fatto questo a un vostro fratello più piccolo, a un vostro fratello sofferente, lo avete fatto a me (cfr. Mt 25, 31-46).

Il Sommo Pontefice Francesco, in data 25 giugno 2020, ha approvato questa Lettera, decisa nella Sessione Plenaria di questa Congregazione il 29 gennaio 2020, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Dato a Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 14 luglio 2020, memoria liturgica di san Camillo de Lellis.

Luis F. Card. LADARIA, S.I
Prefetto

 Giacomo MORANDI
Arcivescovo Titolare di Cerveteri
Segretario

__________________

[1] Messale Romano riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, promulgato da papa Paolo VI e riveduto da papa Giovanni Paolo II, Conferenza Episcopale Italiana – Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, Roma 2020, Prefazio comune VIII, p. 404.

[2] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, n. 6.

[3] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi (30 novembre 2007), n. 22: AAS 99 (2007), 1004: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr. Ef 3, 16; 2 Cor 4, 16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo».

[4] Cfr. Francesco, Discorso all’Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma (AIL) (2 marzo 2019): L’Osservatore Romano, 3 marzo 2019, 7.

[5] Francesco, Esort. Ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 3: AAS 108 (2016), 312.

[6] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 10: AAS 58 (1966), 1032-1033.

[7] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 4: AAS 76 (1984), 203.

[8] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 144.

[9] Francesco, Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24 gennaio 2014): AAS 106 (2014), 114.

[10] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 87: AAS 87 (1995), 500.

[11] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), n. 37: AAS 83 (1991), 840.

[12] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), n. 50: AAS 85 (1993), 1173.

[13] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale su “I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici” (20 marzo 2004), n. 7: AAS 96 (2004), 489.

[14] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Placuit Deo (22 febbraio 2018), n. 6: AAS 110 (2018), 430.

[15] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 9.

[16] Cfr. Paolo VI, Allocuzione nell’ultima sessione pubblica del Concilio (7 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[17] Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 9.

[18] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Placuit Deo (22 febbraio 2018), n. 12: AAS 110 (2018), 433-434.

[19] Francesco, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (30 gennaio 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7.

[20] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 31: AAS 98 (2006), 245.

[21] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), n. 76: AAS 101 (2009), 707.

[22] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 49: AAS 87 (1995), 455: «Il senso più vero e profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi».

[23] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Dogm. Dei Verbum (8 novembre 1965), n. 2: AAS 58 (1966), 818.

[24] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 34: AAS 87 (1995), 438.

[25] Cfr. Dichiarazione congiunta delle Religioni Monoteiste Abramitiche sulle problematiche del fine vita, Città del Vaticano, 28 ottobre 2019: «Ci opponiamo ad ogni forma di eutanasia – che è un atto diretto deliberato e intenzionale di prendere la vita – cosi come al suicidio medicalmente assistito che è un diretto, deliberato ed intenzionale supporto al suicidarsi – in quanto sono atti completamente in contraddizione con il valore della vita umana e perciò di conseguenza sono azioni sbagliate dal punto di vista sia morale sia religioso e dovrebbero essere vietate senza eccezioni».

[26] Cfr. Francesco, Discorso al Congresso dell’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 70º anniversario di fondazione (15 novembre 2014): AAS 106 (2014), 976.

[27] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 1; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Dignitas personae (8 settembre 2008), n. 8: AAS 100 (2008), 863.

[28] Francesco, Lett. Enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), n. 65: AAS 107 (2015), 873.

[29] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 27: AAS 58 (1966), 1047-1048.

[30] Francesco, Discorso al Congresso dell’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 70º anniversario di fondazione (15 novembre 2014): AAS 106 (2014), 976.

[31] Cfr. Francesco, Discorso alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (20 settembre 2019): L’Osservatore Romano, 21 settembre 2019, 8: «Si tratta di strade sbrigative di fronte a scelte che non sono, come potrebbero sembrare, espressione di libertà della persona, quando includono lo scarto del malato come possibilità, o falsa compassione di fronte alla richiesta di essere aiutati ad anticipare la morte».

[32] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Placuit Deo (22 febbraio 2018), n. 3: AAS 110 (2018), 428-429; cfr. Francesco, Lett. Enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), n. 162: AAS 107 (2015), 912.

[33] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giungo 2009), n. 53: AAS 101 (2009), 688: «Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare».

[34] Cfr. Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 53: AAS 105 (2013), 1042; si veda anche: Id., Discorso alla delegazione dell’Istituto “Dignitatis Humanae” (7 dicembre 2013): AAS 106 (2014), 14-15; Id., Incontro con gli anziani (28 settembre 2014): AAS 106 (2014), 759-760.

[35] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 12: AAS 87 (1995), 414.

[36] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[37] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[38] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 477. È una dottrina proposta in modo definitivo nella quale la Chiesa impegna la sua infallibilità: cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei (29 giugno 1998), n. 11: AAS 90 (1998), 550.

[39] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[40] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2286.

[41] Cfr. ibidem, nn. 1735 e 2282.

[42] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[43] Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 169.

[44] Cfr. ibidem, n. 170.

[45] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 72: AAS 87 (1995), 484-485.

[46] Francesco, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (30 gennaio 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7.

[47] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), n. 15: AAS 85 (1993), 1145.

[48] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi (30 novembre 2007), nn. 36-37: AAS 99 (2007), 1014-1016.

[49] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[50] Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 5: AAS 76 (1984), 204.

[51] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi (30 novembre 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[52] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244: «Non può l’uomo “prossimo” passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell'amore del prossimo. Egli deve “fermarsi”, “commuoversi”, agendo così come il Samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai universalmente umana».

[53] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), IV: AAS 72 (1980), 549-551.

[54] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori sanitari, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, n. 119; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Francesco, Messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World Medical Association (7 novembre 2017): «E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte»; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 149.

[55] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), IV: AAS 72 (1980), 550-551; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 150.

[56] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[57] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 150.

[58] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti ad un incontro di studio sulla procreazione responsabile (5 giugno 1987), n. 1: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/2 (1987), 1962: «Parlare di “conflitto di valori o beni” e della conseguente necessità di compiere come una sorta di “bilanciamento” degli stessi, scegliendo uno e rifiutando l’altro, non è moralmente corretto».

[59] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla Associazione Medici Cattolici Italiani (28 dicembre 1978): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I (1978), 438.

[60] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatrori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 150.

[61] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte ai quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1 agosto 2007): AAS 99 (2007), 820.

[62] Cfr. ibidem.

[63] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 152. «La nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio. La loro sospensione non giustificata può avere il significato di un vero e proprio atto eutanasico: “La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione”».

[64] Francesco, Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (5 marzo 2015): AAS 107 (2015), 274, in riferimento a: Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476. Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2279.

[65] Cfr. Francesco, Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (5 marzo 2015): AAS 107 (2015), 275.

[66] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 147.

[67] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 2: AAS 76 (1984), 202: «La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso “destinato” a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso».

[68] Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi (30 novembre 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[69] Cfr. Francesco, Esort. Ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 48: AAS 108 (2016), 330.

[70] C. Saunders, Watch with Me: Inspiration for a life in hospice care, Observatory House, Lancaster, UK, 2005, p. 29.

[71] Francesco, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (30 gennaio 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7.

[72] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 148.

[73] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957) 134-136; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), III: AAS 72 (1980), 547; Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 19: AAS 76 (1984), 226.

[74] Cfr. Pio XII, Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui Internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 settembre 1958): AAS 50 (1958), 694; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2779; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 155: «Si dà inoltre l’eventualità di causare con gli analgesici e i narcotici la soppressione della coscienza nel morente. Tale impiego merita una particolare considerazione. In presenza di dolori insopportabili, refrattari alle terapie analgesiche usuali, in prossimità del momento della morte, o nella fondata previsione di una particolare crisi nel momento della morte, una seria indicazione clinica può comportare, con il consenso dell’ammalato, la somministrazione di farmaci soppressivi della coscienza. Questa sedazione palliativa profonda in fase terminale, clinicamente motivata, può essere moralmente accettabile a condizione che sia fatta con il consenso dell’ammalato, che sia data una opportuna informazione ai familiari, che sia esclusa ogni intenzionalità eutanasica e che il malato abbia potuto soddisfare i suoi doveri morali, familiari e religiosi: “avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio”. Pertanto, “non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo”».

[75] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957) 145; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[76] Cfr. Francesco, Discorso al Congresso dell’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 70º anniversario di fondazione (15 novembre 2014): AAS 106 (2014), 978.

[77] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957), 146; Id., Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui Internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 settembre 1958): AAS 50 (1958), 695; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2279; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 154.

[78] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale su “I trattamenti di sostegno vitale e stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici” (20 marzo 2004), n. 3: AAS 96 (2004), 487: «Un uomo, anche se gravemente malato o impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un “vegetale” o un “animale”».

[79] Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 151.

[80] Ibidem, n. 151; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 74: AAS 87 (1995), 487.

[81] Cfr. Francesco, Discorso al Congresso dell’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 70º anniversario di fondazione (15 novembre 2014): AAS 106 (2014), 977.

[82] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 73: AAS 87 (1995), 486.

[83] Benedetto XVI, Discorso al Congresso della Pontificia Accademia per la Vita sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici e operativi” (25 febbraio 2008): AAS 100 (2008), 171.

[84] Francesco, Udienza Generale (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 11 giugno 2015, 8.

[85] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1420.

[86] Cfr. Rituale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio typica, Praenotanda, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitate Vaticana 1972, n. 26; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1524.

[87] Cfr. Francesco, Lett. Enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), n. 235: AAS 107 (2015), 939.

[88] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 67: AAS 87 (1995), 478-479.

[89] Concilio di Trento, Sess. XIV, De sacramento paenitentiae, cap. 4: DH 1676.

[90] Cfr. CIC, can. 987.

[91] Cfr. CIC, can. 1007: «Non si conferisca l’unzione degli infermi a coloro che perseverano ostinatamente in un peccato grave manifesto».

[92] Cfr. CIC, can. 915 e can. 843 § 1.

[93] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[94] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244-246.

[95] Cfr. Francesco, Discorso ai dirigenti degli Ordini dei Medici di Spagna e America Latina (9 giugno 2016): AAS 108 (2016), 727-728: «La fragilità, il dolore e la malattia sono una dura prova per tutti, anche per il personale medico, sono un appello alla pazienza, al soffrire-con; perciò non si può cedere alla tentazione funzionalista di applicare soluzioni rapide e drastiche, mossi da una falsa compassione o da meri criteri di efficienza e di risparmio economico. A essere in gioco è la dignità della vita umana; a essere in gioco è la dignità della vocazione medica».

[96] Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 246.

[97] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 5: AAS 87 (1995), 407.

[98] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3.

[99] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi (30 novembre 2007), n. 39: AAS 99 (2007), 1016: «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso».

[01077-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua inglese

Congregation for the Doctrine of the Faith

Letter
Samaritanus bonus

on the care of persons in the critical and terminal phases of life

Introduction

The Good Samaritan who goes out of his way to aid an injured man (cf. Lk 10:30-37) signifies Jesus Christ who encounters man in need of salvation and cares for his wounds and suffering with “the oil of consolation and the wine of hope”.[1] He is the physician of souls and bodies, “the faithful witness” (Rev 3:14) of the divine salvific presence in the world. How to make this message concrete today? How to translate it into a readiness to accompany a suffering person in the terminal stages of life in this world, and to offer this assistance in a way that respects and promotes the intrinsic human dignity of persons who are ill, their vocation to holiness, and thus the highest worth of their existence?

The remarkable progressive development of biomedical technologies has exponentially enlarged the clinical proficiency of diagnostic medicine in patient care and treatment. The Church regards scientific research and technology with hope, seeing in them promising opportunities to serve the integral good of life and the dignity of every human being.[2] Nonetheless, advances in medical technology, though precious, cannot in themselves define the proper meaning and value of human life. In fact, every technical advance in healthcare calls for growth in moral discernment[3] to avoid an unbalanced and dehumanizing use of the technologies especially in the critical or terminal stages of human life.

Moreover, the organizational management and sophistication, as well as the complexity of contemporary healthcare delivery, can reduce to a purely technical and impersonal relationship the bond of trust between physician and patient. This danger arises particularly where governments have enacted legislation to legalize forms of assisted suicide and voluntary euthanasia among the most vulnerable of the sick and infirm. The ethical and legal boundaries that protect the self-determination of the sick person are transgressed by such legislation, and, to a worrying degree, the value of human life during times of illness, the meaning of suffering, and the significance of the interval preceding death are eclipsed. Pain and death do not constitute the ultimate measures of the human dignity that is proper to every person by the very fact that they are “human beings”.

In the face of challenges that affect the very way we think about medicine, the significance of the care of the sick, and our social responsibility toward the most vulnerable, the present letter seeks to enlighten pastors and the faithful regarding their questions and uncertainties about medical care, and their spiritual and pastoral obligations to the sick in the critical and terminal stages of life. All are called to give witness at the side of the sick person and to become a “healing community” in order to actualize concretely the desire of Jesus that, beginning with the most weak and vulnerable, all may be one flesh.[4] It is widely recognized that a moral and practical clarification regarding care of these persons is needed. In this sensitive area comprising the most delicate and decisive stages of a person’s life, a “unity of teaching and practice is certainly necessary.”[5]

Various Episcopal Conferences around the world have published pastoral letters and statements to address the challenges posed to healthcare professionals and patients especially in Catholic institutions by the legalization of assisted suicide and voluntary euthanasia in some countries. Regarding the celebration of the Sacraments for those who intend to bring an end to their own life, the provision of spiritual assistance in particular situations raises questions that today require a more clear and precise intervention on the part of the Church in order to:

‒ reaffirm the message of the Gospel and its expression in the basic doctrinal statements of the Magisterium, and thus to recall the mission of all who come into contact with the sick at critical and terminal stages (relatives or legal guardians, hospital chaplains, extraordinary ministers of the Eucharist and pastoral workers, hospital volunteers and healthcare personnel), as well as the sick themselves; and,

‒ provide precise and concrete pastoral guidelines to deal with these complex situations at the local level and to handle them in a way that fosters the patient’s personal encounter with the merciful love of God.

I. Care For One’s Neighbor

Despite our best efforts, it is hard to recognize the profound value of human life when we see it in its weakness and fragility. Far from being outside the existential horizon of the person, suffering always raises limitless questions about the meaning of life.[6] These pressing questions cannot be answered solely by human reflection, because in suffering there is concealed the immensity of a specific mystery that can only be disclosed by the Revelation of God.[7] In particular, the mission of faithful care of human life until its natural conclusion[8] is entrusted to every healthcare worker and is realized through programs of care that can restore, even in illness and suffering, a deep awareness of their existence to every patient. For this reason we begin with a careful consideration of the significance of the specific mission entrusted by God to every person, healthcare professional and pastoral worker, as well as to patients and their families.

The need for medical care is born in the vulnerability of the human condition in its finitude and limitations. Each person's vulnerability is encoded in our nature as a unity of body and soul: we are materially and temporally finite, and yet we have a longing for the infinite and a destiny that is eternal. As creatures who are by nature finite, yet nonetheless destined for eternity, we depend on material goods and on the mutual support of other persons, and also on our original, deep connection with God. Our vulnerability forms the basis for an ethics of care, especially in the medical field, which is expressed in concern, dedication, shared participation and responsibility towards the women and men entrusted to us for material and spiritual assistance in their hour of need .

The relationship of care discloses the twofold dimension of the principle of justice to promote human life (suum cuique tribuere) and to avoid harming another (alterum non laedere). Jesus transformed this principle into the golden rule “Do unto others whatever you would have them do to you” (Mt 7:12). This rule is echoed in the maxim primum non nocere of traditional medical ethics.

Care for life is therefore the first responsibility that guides the physician in the encounter with the sick. Since its anthropological and moral horizon is broader, this responsibility exists not only when the restoration to health is a realistic outcome, but even when a cure is unlikely or impossible. Medical and nursing care necessarily attends to the body’s physiological functions, as well as to the psychological and spiritual well-being of the patient who should never be forsaken. Along with the many sciences upon which it draws, medicine also possesses the key dimension of a “therapeutic art,” entailing robust relationships with the patient, with healthcare workers, with relatives, and with members of communities to which the patient is linked. Therapeutic art, clinical procedures and ongoing care are inseparably interwoven in the practice of medicine, especially at the critical and terminal stages of life.

The Good Samaritan, in fact, “not only draws nearer to the man he finds half dead; he takes responsibility for him”.[9] He invests in him, not only with the funds he has on hand but also with funds he does not have and hopes to earn in Jericho: he promises to pay any additional costs upon his return. Likewise Christ invites us to trust in his invisible grace that prompts us to the generosity of supernatural charity, as we identify with everyone who is ill: “Amen, I say to you, whatever you did for one of these least brothers of mine, you did for me” (Mt 25:40). This affirmation expresses a moral truth of universal scope: “we need then to ‘show care’ for all life and for the life of everyone”[10] and thus to reveal the original and unconditional love of God, the source of the meaning of all life.

To that end, especially in hospitals and clinics committed to Christian values, it is vital to create space for relationships built on the recognition of the fragility and vulnerability of the sick person. Weakness makes us conscious of our dependence on God and invites us to respond with the respect due to our neighbor. Every individual who cares for the sick (physician, nurse, relative, volunteer, pastor) has the moral responsibility to apprehend the fundamental and inalienable good that is the human person. They should adhere to the highest standards of self-respect and respect for others by embracing, safeguarding and promoting human life until natural death. At work here is a contemplative gaze[11] that beholds in one’s own existence and that of others a unique and unrepeatable wonder, received and welcomed as a gift. This is the gaze of the one who does not pretend to take possession of the reality of life but welcomes it as it is, with its difficulties and sufferings, and, guided by faith, finds in illness the readiness to abandon oneself to the Lord of life who is manifest therein.

To be sure, medicine must accept the limit of death as part of the human condition. The time comes when it is clear that specific medical interventions cannot alter the course of an illness that is recognized to be terminal. It is a dramatic reality, that must be communicated to the sick person both with great humanity and with openness in faith to a supernatural horizon, aware of the anguish that death involves especially in a culture that tries to conceal it. One cannot think of physical life as something to preserve at all costs –which is impossible – but as something to live in the free acceptance of the meaning of bodily existence: “only in reference to the human person in his ‘unified totality’, that is as ‘a soul which expresses itself in a body and a body informed by an immortal spirit’, can the specifically human meaning of the body be grasped”.[12]

The impossibility of a cure where death is imminent does not entail the cessation of medical and nursing activity. Responsible communication with the terminally ill person should make it clear that care will be provided until the very end: “to cure if possible, always to care”.[13] The obligation always to take care of the sick provides criteria to assess the actions to be undertaken in an “incurable” illness: the judgement that an illness is incurable cannot mean that care has come at an end. The contemplative gaze calls for a wider notion of care. The objective of assistance must take account of the integrity of the person, and thus deploy adequate measures to provide the necessary physical, psychological, social, familial and religious support to the sick. The living faith of the persons involved in care contributes to the authentic theologal life of the sick person, even if this is not immediately evident. The pastoral care of all - family, doctors, nurses, and chaplains - can help the patient to persevere in sanctifying grace and to die in charity and the Love of God. Where faith is absent in the face of the inevitability of illness, especially when chronic or degenerative, fear of suffering, death, and the discomfort they entail is the main factor driving the attempt to control and manage the moment of death, and indeed to hasten it through euthanasia or assisted suicide.

II. The Living Experience of the Suffering Christ
and the Proclamation of Hope

If the figure of the Good Samaritan throws new light on the provision of healthcare, the nearness of the God made man is manifest in the living experience of Christ’s suffering, of his agony on the Cross and his Resurrection: his experience of multiple forms of pain and anguish resonates with the sick and their families during the long days of infirmity that precede the end of life.

Not only do the words of the prophet Isaiah proclaim Christ as one familiar with suffering and pain (cf. Is 53), but, as we re-read the pages about his suffering, we also recognize the experience of incredulity and scorn, abandonment, and physical pain and anguish. Christ’s experience resonates with the sick who are often seen as a burden to society; their questions are not understood; they often undergo forms of affective desertion and the loss of connection with others.

Every sick person has the need not only to be heard, but to understand that their interlocutor “knows” what it means to feel alone, neglected, and tormented by the prospect of physical pain. Added to this is the suffering caused when society equates their value as persons to their quality of life and makes them feel like a burden to others. In this situation, to turn one’s gaze to Christ is to turn to him who experienced in his flesh the pain of the lashes and nails, the derision of those who scourged him, and the abandonment and the betrayal of those closest to him.

In the face of the challenge of illness and the emotional and spiritual difficulties associated with pain, one must necessarily know how to speak a word of comfort drawn from the compassion of Jesus on the Cross. It is full of hope - a sincere hope, like Christ’s on the Cross, capable of facing the moment of trial and the challenge of death. Ave crux, spes unica, we sing in the Good Friday liturgy. In the Cross of Christ are concentrated and recapitulated all the sickness and suffering of the world: all the physical suffering, of which the Cross, that instrument of an infamous and shameful death, is the symbol; all the psychological suffering, expressed in the death of Jesus in the darkest of solitude, abandonment and betrayal; all the moral suffering, manifested in the condemnation to death of one who is innocent; all the spiritual suffering, displayed in a desolation that seems like the very silence of God.

Christ is aware of the painful shock of his Mother and his disciples who “remain” under the Cross and who, though “remaining”, appear impotent and resigned, and yet provide the affective intimacy that allows the God made man to live through hours that seem meaningless.

Then there is the Cross: an instrument of torture and execution reserved only for the lowest, that symbolically looks just like those afflictions that nail us to a bed, that portend only death, and that render meaningless time and its flow. Still, those who “remain” near the sick not only betoken but also embody affections, connections, along with a profound readiness to love. In all this, the suffering person can discern the human gaze that lends meaning to the time of illness. For, in the experience of being loved, all of life finds its justification. During his passion Christ was always sustained by his confident trust in the Father’s love, so evident in the hours of the Cross, and also in his Mother’s love. The Love of God always makes itself known in the history of men and women, thanks to the love of the one who never deserts us, who “remains,” despite everything, at our side.

At the end of life, people often harbor worries about those they leave behind: about their children, spouses, parents, and friends. This human element can never be neglected and requires a sympathetic response.

With the same concern, Christ before his death thinks of his Mother who will remain alone within a sorrow that she will have to bear from now on. In the spare account of the Gospel of John, Christ turns to his Mother to reassure her and to entrust her to the care of the beloved disciple: “Woman, behold your son” (cf. Jn 19: 26-27). The end of life is a time of relationships, a time when loneliness and abandonment must be defeated (cf. Mt 27:46 and Mk 15:34) in the confident offering of one’s life to God (cf. Lk 23:46).

In this perspective, to gaze at the crucifix is to behold a choral scene, where Christ is at the center because he recapitulates in his own flesh and truly transfigures the darkest hours of the human experience, those in which he silently faces the possibility of despair. The light of faith enables us to discern the trinitarian presence in the brief, supple description provided by the Gospels, because Christ trusts in the Father thanks to the Holy Spirit who sustains his Mother and his disciples. In this way “they remain” and in their “remaining” at the foot of the Cross, they participate, with their human dedication to the Suffering One, in the mystery of Redemption.

In this manner, although marked by a painful passing, death can become the occasion of a greater hope that, thanks to faith, makes us participants in the redeeming work of Christ. Pain is existentially bearable only where there is hope. The hope that Christ communicates to the sick and the suffering is that of his presence, of his true nearness. Hope is not only the expectation of a greater good, but is a gaze on the present full of significance. In the Christian faith, the event of the Resurrection not only reveals eternal life, but it makes manifest that in history the last word never belongs to death, pain, betrayal, and suffering. Christ rises in history, and in the mystery of the Resurrection the abiding love of the Father is confirmed.

To contemplate the living experience of Christ’s suffering is to proclaim to men and women of today a hope that imparts meaning to the time of sickness and death. From this hope springs the love that overcomes the temptation to despair.

While essential and invaluable, palliative care in itself is not enough unless there is someone who “remains” at the bedside of the sick to bear witness to their unique and unrepeatable value. For the believer, to look upon the Crucified means to trust in the compassionate love of God. In a time when autonomy and individualism are acclaimed, it must be remembered that, while it is true that everyone lives their own suffering, their own pain and their own death, these experiences always transpire in the presence of others and under their gaze. Nearby the Cross there are also the functionaries of the Roman state, there are the curious, there are the distracted, there are the indifferent and the resentful: they are at the Cross, but they do not “remain” with the Crucified.

In intensive care units or centers for chronic illness care, one can be present merely as a functionary, or as someone who “remains” with the sick.

The experience of the Cross enables us to be present to the suffering person as a genuine interlocutor with whom to speak a word or express a thought, or entrust the anguish and fear one feels. To those who care for the sick, the scene of the Cross provides a way of understanding that even when it seems that there is nothing more to do there remains much to do, because “remaining” by the side of the sick is a sign of love and of the hope that it contains. The proclamation of life after death is not an illusion nor merely a consolation, but a certainty lodged at the center of love that death cannot devour.

III. The Samaritan’s “heart that sees”:
human life is a sacred and inviolable gift

Whatever their physical or psychological condition, human persons always retain their original dignity as created in the image of God. They can live and grow in the divine splendor because they are called to exist in “the image and glory of God” (1 Cor 11:7; 2 Cor 3:18). Their dignity lies in this vocation. God became man to save us, and he promises us salvation and calls us to communion with Him: here lies the ultimate foundation of human dignity.[14]

It is proper for the Church to accompany with mercy the weakest in their journey of suffering, to preserve them the theologal life, and to guide them to salvation.[15] The Church of the Good Samaritan[16] regards “the service to the sick as an integral part of its mission”.[17] When understood in the perspective of communion and solidarity among human persons, the Church’s salvific mediation helps to surmount reductionist and individualistic tendencies.[18]

“A heart that sees” is central to the program of the Good Samaritan. He “teaches that it is necessary to convert the gaze of the heart, because many times the beholder does not see. Why? Because compassion is lacking […] Without compassion, people who look do not get involved with what they observe, and they keep going; instead people who have a compassionate heart are touched and engaged, they stop and show care”.[19] This heart sees where love is needed and acts accordingly.[20] These eyes identify in weakness God’s call to appreciate that human life is the primary common good of society.[21] Human life is a highest good, and society is called to acknowledge this. Life is a sacred and inviolable gift[22] and every human person, created by God, has a transcendent vocation to a unique relationship with the One who gives life. “The invisible God out of the abundance of his love”[23] offers to each and every human person a plan of salvation that allows the affirmation that: “Life is always a good. This is an instinctive perception and a fact of experience, and man is called to grasp the profound reason why this is so”.[24] For this reason, the Church is always happy to collaborate with all people of good will, with believers of other confessions or religions as well as non-believers, who respect the dignity of human life, even in the last stages of suffering and death, and reject any action contrary to human life.[25] God the Creator offers life and its dignity to man as a precious gift to safeguard and nurture, and ultimately to be accountable to Him.

The Church affirms that the positive meaning of human life is something already knowable by right reason, and in the light of faith is confirmed and understood in its inalienable dignity.[26] This criterion is neither subjective nor arbitrary but is founded on a natural inviolable dignity. Life is the first good because it is the basis for the enjoyment of every other good including the transcendent vocation to share the trinitarian love of the living God to which every human being is called:[27] “The special love of the Creator for each human being ‘confers upon him or her an infinite dignity’.[28] The uninfringeable value of life is a fundamental principle of the natural moral law and an essential foundation of the legal order. Just as we cannot make another person our slave, even if they ask to be, so we cannot directly choose to take the life of another, even if they request it. Therefore, to end the life of a sick person who requests euthanasia is by no means to acknowledge and respect their autonomy, but on the contrary to disavow the value of both their freedom, now under the sway of suffering and illness, and of their life by excluding any further possibility of human relationship, of sensing the meaning of their existence, or of growth in the theologal life. Moreover, it is to take the place of God in deciding the moment of death. For this reason, “abortion, euthanasia and wilful self-destruction (…) poison human society, but they do more harm to those who practice them than those who suffer from the injury. Moreover, they are a supreme dishonor to the Creator”.[29]

IV. The Cultural Obstacles
that Obscure the Sacred Value of Every Human Life

Among the obstacles that diminish our sense of the profound intrinsic value of every human life, the first lies in the notion of “dignified death” as measured by the standard of the “quality of life,” which a utilitarian anthropological perspective sees in terms “primarily related to economic means, to ‘well-being,’ to the beauty and enjoyment of physical life, forgetting the other, more profound, interpersonal, spiritual and religious dimensions of existence”.[30] In this perspective, life is viewed as worthwhile only if it has, in the judgment of the individual or of third parties, an acceptable degree of quality as measured by the possession or lack of particular psychological or physical functions, or sometimes simply by the presence of psychological discomfort. According to this view, a life whose quality seems poor does not deserve to continue. Human life is thus no longer recognized as a value in itself.

A second obstacle that obscures our recognition of the sacredness of human life is a false understanding of “compassion”[31]. In the face of seemingly “unbearable” suffering, the termination of a patient’s life is justified in the name of “compassion”. This so-called “compassionate” euthanasia holds that it is better to die than to suffer, and that it would be compassionate to help a patient to die by means of euthanasia or assisted suicide. In reality, human compassion consists not in causing death, but in embracing the sick, in supporting them in their difficulties, in offering them affection, attention, and the means to alleviate the suffering.

A third factor that hinders the recognition of the value of one’s own life and the lives of others is a growing individualism within interpersonal relationships, where the other is viewed as a limitation or a threat to one’s freedom. At the root of this attitude is “a neo-pelagianism in which the individual, radically autonomous, presumes to save himself, without recognizing that, at the deepest level of being, he depends on God and others [...]. On the other hand, a certain neo-gnosticism, puts forward a model of salvation that is merely interior, closed off in its own subjectivism”,[32] that wishes to free the person from the limitations of the body, especially when it is fragile and ill.

Individualism, in particular, is at the root of what is regarded as the most hidden malady of our time: solitude or privacy.[33] It is thematized in some regulatory contexts even as a “right to solitude”, beginning with the autonomy of the person and the “principle of permission-consent” which can, in certain conditions of discomfort or sickness, be extended to the choice of whether or not to continue living. This “right” underlies euthanasia and assisted suicide. The basic idea is that those who find themselves in a state of dependence and unable to realize a perfect autonomy and reciprocity, come to be cared for as a favor to them. The concept of the good is thus reduced to a social accord: each one receives the treatment and assistance that autonomy or social and economic utility make possible or expedient. As a result, interpersonal relationships are impoverished, becoming fragile in the absence of supernatural charity, and of that human solidarity and social support necessary to face the most difficult moments and decisions of life.

This way of thinking about human relationships and the significance of the good cannot but undermine the very meaning of life, facilitating its manipulation, even through laws that legalize euthanistic practices, resulting in the death of the sick. Such actions deform relationships and induce a grave insensibility toward the care of the sick person. In such circumstances, baseless moral dilemmas arise regarding what are in reality simply mandatory elements of basic care, such as feeding and hydration of terminally ill persons who are not conscious.

In this connection, Pope Francis has spoken of a “throw-away culture”[34] where the victims are the weakest human beings, who are likely to be “discarded” when the system aims for efficiency at all costs. This cultural phenomenon, which is deeply contrary to solidarity, John Paul II described as a “culture of death” that gives rise to real “structures of sin”[35] that can lead to the performance of actions wrong in themselves for the sole purpose of “feeling better” in carrying them out. A confusion between good and evil materializes in an area where every personal life should instead be understood to possess a unique and unrepeatable value with a promise of and openness to the transcendent. In this culture of waste and death, euthanasia and assisted suicide emerge as erroneous solutions to the challenge of the care of terminal patients.

V. The Teaching of the Magisterium

1.     The prohibition of euthanasia and assisted suicide

With her mission to transmit to the faithful the grace of the Redeemer and the holy law of God already discernible in the precepts of the natural moral law, the Church is obliged to intervene in order to exclude once again all ambiguity in the teaching of the Magisterium concerning euthanasia and assisted suicide, even where these practices have been legalized.

In particular, the dissemination of medical end-of-life protocols such as the Do Not Resuscitate Order or the Physician Orders for Life Sustaining Treatment – with all of their variations depending on national laws and contexts – were initially thought of as instruments to avoid aggressive medical treatment in the terminal phases of life. Today these protocols cause serious problems regarding the duty to protect the life of patients in the most critical stages of sickness. On the one hand, medical staff feel increasingly bound by the self-determination expressed in patient declarations that deprive physicians of their freedom and duty to safeguard life even where they could do so. On the other hand, in some healthcare settings, concerns have recently arisen about the widely reported abuse of such protocols viewed in a euthanistic perspective with the result that neither patients nor families are consulted in final decisions about care. This happens above all in the countries where, with the legalization of euthanasia, wide margins of ambiguity are left open in end-of-life law regarding the meaning of obligations to provide care.

For these reasons, the Church is convinced of the necessity to reaffirm as definitive teaching that euthanasia is a crime against human life because, in this act, one chooses directly to cause the death of another innocent human being. The correct definition of euthanasia depends, not on a consideration of the goods or values at stake, but on the moral object properly specified by the choice of “an action or an omission which of itself or by intention causes death, in order that all pain may in this way be eliminated”.[36] “Euthanasia’s terms of reference, therefore, are to be found in the intention of the will and in the methods used”.[37] The moral evaluation of euthanasia, and its consequences does not depend on a balance of principles that the situation and the pain of the patient could, according to some, justify the termination of the sick person. Values of life, autonomy, and decision-making ability are not on the same level as the quality of life as such.

Euthanasia, therefore, is an intrinsically evil act, in every situation or circumstance. In the past the Church has already affirmed in a definitive way “that euthanasia is a grave violation of the Law of God, since it is the deliberate and morally unacceptable killing of a human person. This doctrine is based upon the natural law and upon the written Word of God, is transmitted by the Church’s Tradition and taught by the ordinary and universal Magisterium. Depending on the circumstances, this practice involves the malice proper to suicide or murder”.[38] Any formal or immediate material cooperation in such an act is a grave sin against human life: “No authority can legitimately recommend or permit such an action. For it is a question of the violation of the divine law, an offense against the dignity of the human person, a crime against life, and an attack on humanity”.[39] Therefore, euthanasia is an act of homicide that no end can justify and that does not tolerate any form of complicity or active or passive collaboration. Those who approve laws of euthanasia and assisted suicide, therefore, become accomplices of a grave sin that others will execute. They are also guilty of scandal because by such laws they contribute to the distortion of conscience, even among the faithful.[40]

Each life has the same value and dignity for everyone: the respect of the life of another is the same as the respect owed to one’s own life. One who choses with full liberty to take one’s own life breaks one’s relationship with God and with others, and renounces oneself as a moral subject. Assisted suicide aggravates the gravity of this act because it implicates another in one’s own despair. Another person is led to turn his will from the mystery of God in the theological virtue of hope and thus to repudiate the authentic value of life and to break the covenant that establishes the human family. Assisting in a suicide is an unjustified collaboration in an unlawful act that contradicts the theologal relationship with God and the moral relationship that unites us with others who share the gift of life and the meaning of existence.

When a request for euthanasia rises from anguish and despair,[41] “although in these cases the guilt of the individual may be reduced, or completely absent, nevertheless the error of judgment into which the conscience falls, perhaps in good faith, does not change the nature of this act of killing, which will always be in itself something to be rejected”.[42] The same applies to assisted suicide. Such actions are never a real service to the patient, but a help to die.

Euthanasia and assisted suicide are always the wrong choice: “the medical personnel and the other health care workers – faithful to the task ‘always to be at the service of life and to assist it up until the very end’ – cannot give themselves to any euthanistic practice, neither at the request of the interested party, and much less that of the family. In fact, since there is no right to dispose of one’s life arbitrarily, no health care worker can be compelled to execute a non-existent right”.[43]

This is why euthanasia and assisted suicide are a defeat for those who theorize about them, who decide upon them, or who practice them.[44]

For this reason, it is gravely unjust to enact laws that legalize euthanasia or justify and support suicide, invoking the false right to choose a death improperly characterized as respectable only because it is chosen.[45] Such laws strike at the foundation of the legal order: the right to life sustains all other rights, including the exercise of freedom. The existence of such laws deeply wound human relations and justice, and threaten the mutual trust among human beings. The legitimation of assisted suicide and euthanasia is a sign of the degradation of legal systems. Pope Francis recalls that “the current socio-cultural context is gradually eroding the awareness of what makes human life precious. In fact, it is increasingly valued on the basis of its efficiency and utility, to the point of considering as ‘discarded lives’ or ‘unworthy lives’ those who do not meet this criterion. In this situation of the loss of authentic values, the mandatory obligations of solidarity and of human and Christian fraternity also fail. In reality, a society deserves the status of ‘civil’ if it develops antibodies against the culture of waste; if it recognizes the intangible value of human life; if solidarity is factually practiced and safeguarded as a foundation for living together”.[46] In some countries of the world, tens of thousands of people have already died by euthanasia, and many of them because they displayed psychological suffering or depression. Physicians themselves report that abuses frequently occur when the lives of persons who would never have desired euthanasia are terminated. The request for death is in many cases itself a symptom of disease, aggravated by isolation and discomfort. The Church discerns in these difficulties an occasion for a spiritual purification that allows hope to become truly theological when it is focused on God and only on God.

Rather than indulging in a spurious condescension, the Christian must offer to the sick the help they need to shake off their despair. The commandment “do not kill” (Ex 20:13; Dt 5:17) is in fact a yes to life which God guarantees, and it “becomes a call to attentive love which protects and promotes the life of one’s neighbor”.[47] The Christian therefore knows that earthly life is not the supreme value. Ultimate happiness is in heaven. Thus the Christian will not expect physical life to continue when death is evidently near. The Christian must help the dying to break free from despair and to place their hope in God.

From a clinical perspective, the factors that largely determine requests for euthanasia and assisted suicide are unmanaged pain, and the loss of human and theological hope, provoked by the often inadequate psychological and spiritual human assistance provided by those who care for the sick.[48]

Experience confirms that “the pleas of gravely ill people who sometimes ask for death are not to be understood as implying a true desire for euthanasia; in fact, it is almost always a case of an anguished plea for help and love. What a sick person needs, besides medical care, is love, the human and supernatural warmth with which sick persons can and ought to be surrounded by all those close to him or her, parents and children, doctors and nurses”.[49] A sick person, surrounded by a loving human and Christian presence, can overcome all forms of depression and need not succumb to the anguish of loneliness and abandonment to suffering and death.

One experiences pain not just as a biological fact to be managed in order to make it bearable, but as the mystery of human vulnerability in the face of the end of physical life—a difficult event to endure, given that the unity of the body and the soul is essential to the human person.

Therefore, the “end of life”, inevitably presaged by pain and suffering, can be faced with dignity only by the re-signification of the event of death itself—by opening it to the horizon of eternal life and affirming the transcendent destiny of each person. In fact, “suffering is something which is still wider than sickness, more complex, and at the same time still more deeply rooted in humanity itself”.[50] With the help of grace this suffering can, like the suffering of Christ on the Cross, be animated from within with divine charity.

Those who assist persons with chronic illnesses or in the terminal stages of life must be able to “know how to stay”, to keep vigil, with those who suffer the anguish of death, “to console” them, to be with them in their loneliness, to be an abiding with that can instil hope.[51] By means of the faith and charity expressed in the intimacy of the soul, the caregiver can experience the pain of another, can be open to a personal relationship with the weak that expands the horizons of life beyond death, and thus can become a presence full of hope.

“Weep with those who weep” (Rm 12:15): for blessed is the one whose compassion includes shedding tears with others (cf. Mt 5:4). Love is made possible and suffering given meaning in relationships where persons share in solidarity the human condition and the journey to God, and are joined in a covenant[52] that enables them to glimpse the light beyond death. Medical care occurs within the therapeutic covenant between the physician and the patient who are united in the recognition of the transcendent value of life and the mystical meaning of suffering. In the light of this covenant, good medical care can be valued, while the utilitarian and individualistic vision that prevails today can be dispelled.

2.     The moral obligation to exclude aggressive medical treatment

The Magisterium of the Church recalls that, when one approaches the end of earthly existence, the dignity of the human person entails the right to die with the greatest possible serenity and with one’s proper human and Christian dignity intact.[53] To precipitate death or delay it through “aggressive medical treatments” deprives death of its due dignity.[54] Medicine today can artificially delay death, often without real benefit to the patient. When death is imminent, and without interruption of the normal care the patient requires in such cases, it is lawful according to science and conscience to renounce treatments that provide only a precarious or painful extension of life.[55] It is not lawful to suspend treatments that are required to maintain essential physiological functions, as long as the body can benefit from them (such as hydration, nutrition, thermoregulation, proportionate respiratory support, and the other types of assistance needed to maintain bodily homeostasis and manage systemic and organic pain). The suspension of futile treatments must not involve the withdrawal of therapeutic care. This clarification is now indispensable in light of the numerous court cases in recent years that have led to the withdrawal of care from – and to the early death of–critically but not terminally ill patients, for whom it was decided to suspend life-sustaining care which would not improve the quality of life.

In the specific case of aggressive medical treatment, it should be repeated that the renunciation of extraordinary and/or disproportionate means “is not the equivalent of suicide or euthanasia; it rather expresses acceptance of the human condition in the face of death”[56] or a deliberate decision to waive disproportionate medical treatments which have little hope of positive results. The renunciation of treatments that would only provide a precarious and painful prolongation of life can also mean respect for the will of the dying person as expressed in advanced directives for treatment, excluding however every act of a euthanistic or suicidal nature.[57]

The principle of proportionality refers to the overall well-being of the sick person. To choose among values (for example, life versus quality of life) involves an erroneous moral judgment when it excludes from consideration the safeguarding of personal integrity, the good life, and the true moral object of the act undertaken.[58] Every medical action must always have as its object—intended by the moral agent—the promotion of life and never the pursuit of death.[59] The physician is never a mere executor of the will of patients or their legal representatives, but retains the right and obligation to withdraw at will from any course of action contrary to the moral good discerned by conscience.[60]

3.     Basic Care: the requirement of nutrition and hydration

A fundamental and inescapable principle of the assistance of the critically or terminally ill person is the continuity of care for the essential physiological functions. In particular, required basic care for each person includes the administration of the nourishment and fluids needed to maintain bodily homeostasis, insofar as and until this demonstrably attains the purpose of providing hydration and nutrition for the patient.[61]

When the provision of nutrition and hydration no longer benefits the patient, because the patient’s organism either cannot absorb them or cannot metabolize them, their administration should be suspended. In this way, one does not unlawfully hasten death through the deprivation of the hydration and nutrition vital for bodily function, but nonetheless respects the natural course of the critical or terminal illness. The withdrawal of this sustenance is an unjust action that can cause great suffering to the one who has to endure it. Nutrition and hydration do not constitute medical therapy in a proper sense, which is intended to counteract the pathology that afflicts the patient. They are instead forms of obligatory care of the patient, representing both a primary clinical and an unavoidable human response to the sick person. Obligatory nutrition and hydration can at times be administered artificially,[62] provided that it does not cause harm or intolerable suffering to the patient.[63]

4.     Palliative care

Continuity of care is part of the enduring responsibility to appreciate the needs of the sick person: care needs, pain relief, and affective and spiritual needs. As demonstrated by vast clinical experience, palliative medicine constitutes a precious and crucial instrument in the care of patients during the most painful, agonizing, chronic and terminal stages of illness. Palliative care is an authentic expression of the human and Christian activity of providing care, the tangible symbol of the compassionate “remaining” at the side of the suffering person. Its goal is “to alleviate suffering in the final stages of illness and at the same time to ensure the patient appropriate human accompaniment”[64] improving quality of life and overall well-being as much as possible and in a dignified manner. Experience teaches us that the employment of palliative care reduces considerably the number of persons who request euthanasia. To this end, a resolute commitment is desirable to extend palliative treatments to those who need them, within the limits of what is fiscally possible, and to assist them in the terminal stages of life, but as an integrated approach to the care of existing chronic or degenerative pathologies involving a complex prognosis that is unfavorable and painful for the patient and family.[65]

Palliative care should include spiritual assistance for patients and their families. Such assistance inspires faith and hope in God in the terminally ill as well as their families whom it helps to accept the death of their loved one. It is an essential contribution that is offered by pastoral workers and the whole Christian community. According to the model of the Good Samaritan, acceptance overcomes denial, and hope prevails over anguish,[66] particularly when, as the end draws near, suffering is protracted by a worsening pathology. In this phase, the identification of an effective pain relief therapy allows the patient to face the sickness and death without the fear of undergoing intolerable pain. Such care must be accompanied by a fraternal support to reduce the loneliness that patients feel when they are insufficiently supported or understood in their difficulties.

Palliative care cannot provide a fundamental answer to suffering or eradicate it from people’s lives.[67] To claim otherwise is to generate a false hope, and cause even greater despair in the midst of suffering. Medical science can understand physical pain better and can deploy the best technical resources to treat it. But terminal illness causes a profound suffering in the sick person, who seeks a level of care beyond the purely technical. Spe salvi facti sumus: in hope, theological hope, directed toward God, we have been saved, says Saint Paul (Rm 8:24).

“The wine of hope” is the specific contribution of the Christian faith in the care of the sick and refers to the way in which God overcomes evil in the world. In times of suffering, the human person should be able to experience a solidarity and a love that takes on the suffering, offering a sense of life that extends beyond death. All of this has a great social importance: “A society unable to accept the suffering of its members and incapable of helping to share their suffering, and to bear it inwardly through ‘com-passion’ is a cruel and inhuman society”.[68]

It should be recognized, however, that the definition of palliative care has in recent years taken on a sometimes equivocal connotation. In some countries, national laws regulating palliative care (Palliative Care Act) as well as the laws on the “end of life” (End-of-Life Law) provide, along with palliative treatments, something called Medical Assistance to the Dying (MAiD) that can include the possibility of requesting euthanasia and assisted suicide. Such legal provisions are a cause of grave cultural confusion: by including under palliative care the provision of integrated medical assistance for a voluntary death, they imply that it would be morally lawful to request euthanasia or assisted suicide.

In addition, palliative interventions to reduce the suffering of gravely or terminally ill patients in these regulatory contexts can involve the administration of medications that intend to hasten death, as well as the suspension or interruption of hydration and nutrition even when death is not imminent. In fact, such practices are equivalent to a direct action or omission to bring about death and are therefore unlawful. The growing diffusion of such legislation and of scientific guidelines of national and international professional societies, constitutes a socially irresponsible threat to many people, including a growing number of vulnerable persons who needed only to be better cared for and comforted but are instead being led to choose euthanasia and suicide.

5.     The role of the family and hospice

The role of the family is central to the care of the terminally ill patient.[69] In the family a person can count on strong relationships, valued in themselves apart from their helpfulness or the joy they bring. It is essential that the sick under care do not feel themselves to be a burden, but can sense the intimacy and support of their loved ones. The family needs help and adequate resources to fulfil this mission. Recognizing the family’s primary, fundamental and irreplaceable social function, governments should undertake to provide the necessary resources and structures to support it. In addition, Christian-inspired health care facilities should not neglect but instead integrate the family’s human and spiritual accompaniment in a unified program of care for the sick person.

Next to the family, hospice centers which welcome the terminally sick and ensure their care until the last moment of life provide an important and valuable service. After all, “the Christian response to the mystery of death and suffering is to provide not an explanation but a Presence”[70] that shoulders the pain, accompanies it, and opens it to a trusting hope. These centers are an example of genuine humanity in society, sanctuaries where suffering is full of meaning. For this reason, they must be staffed by qualified personnel, possess the proper resources, and always be open to families. “In this regard, I think about how well hospice does for palliative care, where terminally ill people are accompanied with qualified medical, psychological and spiritual support, so that they can live with dignity, comforted by the closeness of loved ones, in the final phase of their earthly life. I hope that these centers continue to be places where the ‘therapy of dignity’ is practiced with commitment, thus nurturing love and respect for life.”[71] In these settings, as well as in Catholic facilities, healthcare workers and pastoral staff, in addition to being clinically competent, should also be practicing an authentic theologal life of faith and hope that is directed towards God, for this constitutes the highest form of the humanization of dying.[72]

6.     Accompaniment and care in prenatal and pediatric medicine

Regarding the care of neo-natal infants and children suffering from terminal chronic-degenerative diseases, or are in the terminal stages of life itself, it is necessary to reaffirm what follows, aware of the need for first-rate programs that ensure the well-being of the children and their families.

Beginning at conception, children suffering from malformation or other pathologies are little patients whom medicine today can always assist and accompany in a manner respectful of life. Their life is sacred, unique, unrepeatable, and inviolable, exactly like that of every adult person.

Children suffering from so-called pre-natal pathologies “incompatible with life” – that will surely end in death within a short period of time – and in the absence of fetal or neo-natal therapies capable of improving their health, should not be left without assistance, but must be accompanied like any other patient until they reach natural death. Prenatal comfort care favors a path of integrated assistance involving the support of medical staff and pastoral care workers alongside the constant presence of the family. The child is a special patient and requires the care of a professional with expert medical knowledge and affective skills. The empathetic accompaniment of a child, who is among the most frail, in the terminal stages of life, aims to give life to the years of a child and not years to the child’s life.

Prenatal Hospice Centers, in particular, provide an essential support to families who welcome the birth of a child in a fragile condition. In these centers, competent medical assistance, spiritual accompaniment, and the support of other families, who have undergone the same experience of pain and loss, constitute an essential resource. It is the pastoral duty of the Christian-inspired healthcare workers to make efforts to expand the accessibility of these centers throughout the world.

These forms of assistance are particularly necessary for those children who, given the current state of scientific knowledge, are destined to die soon after birth or within a short period of time. Providing care for these children helps the parents to handle their grief and to regard this experience not just as a loss, but as a moment in the journey of love which they have travelled together with their child.

Unfortunately the dominant culture today does not encourage this approach. The sometimes obsessive recourse to prenatal diagnosis, along with the emergence of a culture unfriendly to disability, often prompts the choice of abortion, going so far as to portray it as a kind of “prevention.” Abortion consists in the deliberate killing of an innocent human life and as such it is never lawful. The use of prenatal diagnosis for selective purposes is contrary to the dignity of the person and gravely unlawful because it expresses a eugenic mentality. In other cases, after birth, the same culture encourages the suspension or non-initiation of care for the child as soon as it is born because a disability is present or may develop in the future. This utilitarian approach—inhumane and gravely immoral—cannot be countenanced.

The fundamental principle of pediatric care is that children in the final stages of life have the right to the respect and care due to persons. To be avoided are both aggressive medical treatment and unreasonable tenacity, as well as intentional hastening of their death. From a Christian perspective, the pastoral care of a terminally ill child demands participation in the divine life in Baptism and in Confirmation.

It may happen that pharmacological or other therapies, designed to combat the pathology from which a child suffers, are suspended during the terminal stage of an incurable disease. The attending physician may determine that the child’s deteriorated clinical condition renders these therapies either futile or extreme, and possibly the cause of added suffering. Nonetheless, in such situations the integral care of the child, in its various physiological, psychological, affective, and spiritual dimensions, must never cease. Care means more than therapy and healing. When a therapy is suspended because it no longer benefits an incurable patient, treatments that support the essential physiological functions of the child must continue insofar as the organism can benefit from them (hydration, nutrition, thermoregulation, proportionate respiratory support, and other types of assistance needed to maintain bodily homeostasis and manage systemic and organic pain). The desire to abstain from any overly tenacious administration of treatments deemed ineffective should not entail the withdrawal of care. The path of accompaniment until the moment of death must remain open. Routine interventions, like respiratory assistance, can be provided painlessly and proportionately. Thus appropriate care must be customized to the personal needs of the patient, to avoid that a just concern for life does not contrast with an unjust imposition of pain that could be avoided.

Evaluation and management of the physical pain of a new-born or a child show the proper respect and assistance they deserve during the difficult stages of their illness. The tender personalized care that is attested today in clinical pediatric medicine, sustained by the presence of the parents, makes possible an integrated management of care that is more effective than invasive treatments.

Maintaining the emotional bond between the parent and the child is an integral part of the process of care. The connection between caregiving and parent-child assistance that is fundamental to the treatment of incurable or terminal pathologies should be favored as much as possible. In addition to emotional support, the spiritual moment must not be overlooked. The prayer of the people close to the sick child has a supernatural value that surpasses and deepens the affective relationship.

The ethical/juridical concept of “the best interest of the child” – when used in the cost-benefit calculations of care– can in no way form the foundation for decisions to shorten life in order to prevent suffering if these decisions envision actions or omissions that are euthanistic by nature or intention. As already mentioned, the suspension of disproportionate therapies cannot justify the suspension of the basic care, including pain relief, necessary to accompany these little patients to a dignified natural death, nor to the interruption of that spiritual care offered for one who will soon meet God.

7.     Analgesic therapy and loss of consciousness

Some specialized care requires, on the part of the healthcare workers, a particular attention and competence to attain the best medical practice from an ethical point of view, with attention to people in their concrete situations of pain.

To mitigate a patient’s pain, analgesic therapy employs pharmaceutical drugs that can induce loss of consciousness (sedation). While a deep religious sense can make it possible for a patient to live with pain through the lens of redemption as a special offering to God,[73] the Church nonetheless affirms the moral liceity of sedation as part of patient care in order to ensure that the end of life arrives with the greatest possible peace and in the best internal conditions. This holds also for treatments that hasten the moment of death (deep palliative sedation in the terminal stage),[74] always, to the extent possible, with the patient’s informed consent. From a pastoral point of view, prior spiritual preparation of the patients should be provided in order that they may consciously approach death as an encounter with God.[75] The use of analgesics is, therefore, part of the care of the patient, but any administration that directly and intentionally causes death is a euthanistic practice and is unacceptable.[76] The sedation must exclude, as its direct purpose, the intention to kill, even though it may accelerate the inevitable onset of death.[77]

In pediatric settings, when a child (for example, a new-born) is unable to understand, it must be stated that it would be a mistake to suppose that the child can tolerate the pain, when in fact there are ways to alleviate it. Caregivers are obliged to alleviate the child’s suffering as much as possible, so that he or she can reach a natural death peacefully, while being able to experience the loving presence of the medical staff and above all the family.

8.     The vegetative state and the state of minimal consciousness

Other relevant situations are that of the patient with the persistent lack of consciousness, the so-called “vegetative state” or that of the patient in the state of “minimal consciousness”. It is always completely false to assume that the vegetative state, and the state of minimal consciousness, in subjects who can breathe autonomously, are signs that the patient has ceased to be a human person with all of the dignity belonging to persons as such[78]. On the contrary, in these states of greatest weakness, the person must be acknowledged in their intrinsic value and assisted with suitable care. The fact that the sick person can remain for years in this anguishing situation without any prospect of recovery undoubtedly entails suffering for the caregivers.

One must never forget in such painful situations that the patient in these states has the right to nutrition and hydration, even administered by artificial methods that accord with the principle of ordinary means. In some cases, such measures can become disproportionate, because their administration is ineffective, or involves procedures that create an excessive burden with negative results that exceed any benefits to the patient.

In the light of these principles, the obligation of caregivers includes not just the patient, but extends to the family or to the person responsible for the patient’s care, and should be comprised of adequate pastoral accompaniment. Adequate support must be provided to the families who bear the burden of long-term care for persons in these states. The support should seek to allay their discouragement and help them to avoid seeing the cessation of treatment as their only option. Caregivers must be sufficiently prepared for such situations, as family members need to be properly supported.

9.     Conscientious objections on the part of healthcare workers and of Catholic healthcare institutions

In the face of the legalization of euthanasia or assisted suicide – even when viewed simply as another form of medical assistance – formal or immediate material cooperation must be excluded. Such situations offer specific occasions for Christian witness where “we must obey God rather than men” (Acts 5:29). There is no right to suicide nor to euthanasia: laws exist, not to cause death, but to protect life and to facilitate co-existence among human beings. It is therefore never morally lawful to collaborate with such immoral actions or to imply collusion in word, action or omission. The one authentic right is that the sick person be accompanied and cared for with genuine humanity. Only in this way can the patient’s dignity be preserved until the moment of natural death. “No health care worker, therefore, can become the defender of a non-existing right, even if euthanasia were requested by the subject in question when he was fully conscious”.[79]

In this regard, the general principles regarding cooperation with evil, that is, with unlawful actions, are thus reaffirmed: “Christians, like all people of good will, are called, with a grave obligation of conscience, not to lend their formal collaboration to those practices which, although allowed by civil legislation, are in contrast with the Law of God. In fact, from the moral point of view, it is never licit to formally cooperate in evil. This cooperation occurs when the action taken, either by its very nature or by the configuration it is assuming in a concrete context, qualifies as direct participation in an act against innocent human life, or as sharing the immoral intention of the principal agent. This cooperation can never be justified neither by invoking respect for the freedom of others, nor by relying on the fact that civil law provides for it and requires it: for the acts that each person personally performs, there is, in fact, a moral responsibility that no one can ever escape and on which each one will be judged by God himself (cf. Rm 2:6; 14:12)”.[80]

Governments must acknowledge the right to conscientious objection in the medical and healthcare field, where the principles of the natural moral law are involved and especially where in the service to life the voice of conscience is daily invoked.[81] Where this is not recognized, one may be confronted with the obligation to disobey human law, in order to avoid adding one wrong to another, thereby conditioning one’s conscience. Healthcare workers should not hesitate to ask for this right as a specific contribution to the common good.

Likewise, healthcare institutions must resist the strong economic pressures that may sometimes induce them to accept the practice of euthanasia. If the difficulty in finding necessary operating funds creates an enormous burden for these public institutions, then the whole society must accept an additional liability in order to ensure that the incurably ill are not left to their own or their families’ resources. All of this requires that episcopal conferences and local churches, as well as Catholic communities and institutions, adopt a clear and unified position to safeguard the right of conscientious objection in regulatory contexts where euthanasia and suicide are sanctioned.

Catholic healthcare institutions constitute a concrete sign of the way in which the ecclesial community takes care of the sick following the example of the Good Samaritan. The command of Jesus to “cure the sick,” (Lk 10:9) is fulfilled not only by laying hands on them, but also by rescuing them from the streets, assisting them in their own homes, and creating special structures of hospitality and welcome. Faithful to the command of the Lord, the Church through the centuries has created various structures where medical care finds its specific form in the context of integral service to the sick person.

Catholic healthcare institutions are called to witness faithfully to the inalienable commitment to ethics and to the fundamental human and Christian values that constitute their identity. This witness requires that they abstain from plainly immoral conduct and that they affirm their formal adherence to the teachings of the ecclesial Magisterium. Any action that does not correspond to the purpose and values which inspire Catholic healthcare institutions is not morally acceptable and endangers the identification of the institution itself as“Catholic.”

Institutional collaboration with other hospital systems is not morally permissible when it involves referrals for persons who request euthanasia. Such choices cannot be morally accepted or supported in their concrete realization, even if they are legally admissible. Indeed, it can rightly be said of laws that permit euthanasia that “not only do they create no obligation for the conscience, but instead there is a grave and clear obligation to oppose them by conscientious objection. From the very beginnings of the Church, the apostolic preaching reminded Christians of their duty to obey legitimately constituted public authorities (cf. Rm 13:1-7; 1 Pt 2:13-14), but at the same time firmly warned that ‘we must obey God rather than men’ (Acts 5:29)”.[82]

The right to conscientious objection does not mean that Christians reject these laws in virtue of private religious conviction, but by reason of an inalienable right essential to the common good of the whole society. They are in fact laws contrary to natural law because they undermine the very foundations of human dignity and human coexistence rooted in justice.

10.     Pastoral accompaniment and the support of the sacraments

Death is a decisive moment in the human person’s encounter with God the Savior. The Church is called to accompany spiritually the faithful in the situation, offering them the “healing resources” of prayer and the sacraments. Helping the Christian to experience this moment with spiritual assistance is a supreme act of charity. Because “no believer should die in loneliness and neglect”,[83] it encompasses the patient with the solid support of human, and humanizing, relationships to accompany them and open them to hope.

The parable of the Good Samaritan shows what the relationship with the suffering neighbor should be, what qualities should be avoided – indifference, apathy, bias, fear of soiling one’s hands, totally occupied with one’s own affairs – and what qualities should be embraced – attention, listening, understanding, compassion, and discretion.

The invitation to imitate the Samaritan’s example— “Go and do likewise” (Lk 10:37)—is an admonition not to underestimate the full human potential of presence, of availability, of welcoming, of discernment, and of involvement, which nearness to one in need demands and which is essential to the integral care of the sick.

The quality of love and care for persons in critical and terminal stages of life contributes to assuaging the terrible, desperate desire to end one’s life. Only human warmth and evangelical fraternity can reveal a positive horizon of support to the sick person in hope and confident trust.

Such accompaniment is part of the path defined by palliative care that includes the patients and their families.

The family has always played an important role in care, because their presence sustains the patient, and their love represents an essential therapeutic factor in the care of the sick person. Indeed, recalls Pope Francis, the family “has always been the nearest ‘hospital’ still today, in so many parts of the world, a hospital is for the privileged few, and is often far away. It is the mother, the father, brother, sisters and godparents who guarantee care and help one to heal”.[84]

Taking care of others, or providing care for the suffering of others, is a commitment that embraces not just a few but the entire Christian community. Saint Paul affirms that when one member suffers, it is the whole body that suffers (cf. 1 Cor 12:26) and all bend to the sick to bring them relief. Everyone, for his or her part, is called to be a “servant of consolation” in the face of any human situation of desolation or discomfort.

Pastoral accompaniment involves the exercise of the human and Christian virtues of empathy (en-pathos), of compassion (cum-passio), of bearing another’s suffering by sharing it, and of the consolation (cum-solacium), of entering into the solitude of others to make them feel loved, accepted, accompanied, and sustained.

The ministry of listening and of consolation that the priest is called to offer, which symbolizes the compassionate solicitude of Christ and the Church, can and must have a decisive role. In this essential mission it is extremely important to bear witness to and unite truth and charity with which the gaze of the Good Shepherd never ceases to accompany all of His children. Given the centrality of the priest in the pastoral, human and spiritual accompaniment of the sick at life’s end, it is necessary that his priestly formation provide an updated and precise preparation in this area. It is also important that priests be formed in this Christian accompaniment. Since there may be particular circumstances that make it difficult for a priest to be present at the bedside, physicians and healthcare workers need this formation as well.

Being men and women skilled in humanity means that our way of caring for our suffering neighbor should favor their encounter with the Lord of life, who is the only one who can pour, in an efficacious manner, the oil of consolation and the wine of hope onto human wounds.

Every person has the natural right to be cared for, which at this time is the highest expression of the religion that one professes.

The sacramental moment is always the culmination of the entire pastoral commitment to care that precedes and is the source of all that follows.

The Church calls Penance and the Anointing of the Sick sacraments “of healing”[85], for they culminate in the Eucharist which is the “viaticum” for eternal life.[86] Through the closeness of the Church, the sick person experiences the nearness of Christ who accompanies them on their journey to his Father’s house (cf. Jn 14:6) and helps the sick to not fall into despair,[87] by supporting them in hope especially when the journey becomes exhausting.[88]

11.     Pastoral discernment towards those who request Euthanasia or Assisted Suicide

The pastoral accompaniment of those who expressly ask for euthanasia or assisted suicide today presents a singular moment when a reaffirmation of the teaching of the Church is necessary. With respect to the Sacrament of Penance and Reconciliation, the confessor must be assured of the presence of the true contrition necessary for the validity of absolution which consists in “sorrow of mind and a detestation for sin committed, with the purpose of not sinning for the future”.[89] In this situation, we find ourselves before a person who, whatever their subjective dispositions may be, has decided upon a gravely immoral act and willingly persists in this decision. Such a state involves a manifest absence of the proper disposition for the reception of the Sacraments of Penance, with absolution,[90] and Anointing,[91] with Viaticum.[92] Such a penitent can receive these sacraments only when the minister discerns his or her readiness to take concrete steps that indicate he or she has modified their decision in this regard. Thus a person who may be registered in an association to receive euthanasia or assisted suicide must manifest the intention of cancelling such a registration before receiving the sacraments. It must be recalled that the necessity to postpone absolution does not imply a judgment on the imputability of guilt, since personal responsibility could be diminished or non-existent.[93] The priest could administer the sacraments to an unconscious person sub condicione if, on the basis of some signal given by the patient beforehand, he can presume his or her repentance.

The position of the Church here does not imply a non-acceptance of the sick person. It must be accompanied by a willingness to listen and to help, together with a deeper explanation of the nature of the sacrament, in order to provide the opportunity to desire and choose the sacrament up to the last moment. The Church is careful to look deeply for adequate signs of conversion, so that the faithful can reasonably ask for the reception of the sacraments. To delay absolution is a medicinal act of the Church, intended not to condemn, but to lead the sinner to conversion.

It is necessary to remain close to a person who may not be in the objective condition to receive the sacraments, for this nearness is an invitation to conversion, especially when euthanasia, requested or accepted, will not take place immediately or imminently. Here it remains possible to accompany the person whose hope may be revived and whose erroneous decision may be modified, thus opening the way to admission to the sacraments.

Nevertheless, those who spiritually assist these persons should avoid any gesture, such as remaining until the euthanasia is performed, that could be interpreted as approval of this action. Such a presence could imply complicity in this act. This principle applies in a particular way, but is not limited to, chaplains in the healthcare systems where euthanasia is practiced, for they must not give scandal by behaving in a manner that makes them complicit in the termination of human life.

12.     The reform of the education and formation of the healthcare workers

In today’s social and cultural context, with so many challenges to the protection of human life in its most critical stages, education has a critical role to play. Families, schools, other educational institutions and parochial communities must work with determination to awaken and refine that sensitivity toward our neighbour and their suffering manifested by the Good Samaritan of the Gospel. [94]

Hospital chaplains should intensify the spiritual and moral formation of the healthcare workers, including physicians and nursing staff, as well as hospital volunteers, in order to prepare them to provide the human and psychological assistance necessary in the terminal stages of life. The psychological and spiritual care of patients and their families during the whole course of the illness must be a priority for the pastoral and healthcare workers.

Palliative treatments must be disseminated throughout the world. To this end, it would be desirable to organize academic courses of study for the specialized formation of healthcare workers. Also a priority is the dissemination of accurate general information on the value of effective palliative treatments for a dignified accompaniment of the person until a natural death. Christian-inspired healthcare institutions should arrange for guidelines for the healthcare workers that include suitable methods for providing psychological, moral, and spiritual assistance as essential components of palliative care.

Human and spiritual assistance must again factor into academic formation of all healthcare workers as well as in hospital training programs.

In addition, healthcare and assistance organizations must arrange for models of psychological and spiritual aid to healthcare workers who care for the terminally ill. To show care for those who care is essential so that healthcare workers and physicians do not bear all of the weight of the suffering and of the death of incurable patients (which can result in burn out for them). They need support and therapeutic sessions to process not only their values and feelings, but also the anguish they experience as they confront suffering and death in the context of their service to life. They need a profound sense of hope, along with the awareness that their own mission is a true vocation to accompany the mystery of life and grace in the painful and terminal stages of existence. [95]

Conclusion

The mystery of the Redemption of the human person is in an astonishing way rooted in the loving involvement of God with human suffering. That is why we can entrust ourselves to God and to convey this certainty in faith to the person who is suffering and fearful of pain and death.

Christian witness demonstrates that hope is always possible, even within a “throwaway culture”. “The eloquence of the parable of the Good Samaritan and of the whole Gospel is especially this: every individual must feel as if called personally to bear witness to love in suffering”.[96]

The Church learns from the Good Samaritan how to care for the terminally ill, and likewise obeys the commandment linked to the gift of life: “respect, defend, love and serve life, every human life!”.[97] The gospel of life is a gospel of compassion and mercy directed to actual persons, weak and sinful, to relieve their suffering, to support them in the life of grace, and if possible to heal them from their wounds.

It is not enough, however, to share their pain; one needs to immerse oneself in the fruits of the Paschal Mystery of Christ who conquers sin and death, with the will “to dispel the misery of another, as if it were his own”.[98] The greatest misery consists in the loss of hope in the face of death. This hope is proclaimed by the Christian witness, which, to be effective, must be lived in faith and encompass everyone—families, nurses, and physicians. It must engage the pastoral resources of the diocese and of Catholic healthcare centers, which are called to live with faith the duty to accompany the sick in all of the stages of illness, and in particular in the critical and terminal stages of life as defined in this letter.

The Good Samaritan, who puts the face of his brother in difficulty at the center of his heart, and sees his need, offers him whatever is required to repair his wound of desolation and to open his heart to the luminous beams of hope.

The Samaritan’s “willing the good” draws him near to the injured man not just with words or conversation, but with concrete actions and in truth (cf. 1 Jn 3:18). It takes the form of care in the example of Christ who went about doing good and healing all (cf. Acts 10:38).

Healed by Jesus, we become men and women called to proclaim his healing power to love and provide the care for our neighbors to which He bore witness.

That the vocation to the love and care of another[99] brings with it the rewards of eternity is made explicit by the Lord of life in the parable of the final judgment: inherit the kingdom, for I was sick and you visited me. When did we do this, Lord? Every time you did it for the least ones, for a suffering brother or sister, you did it for me (cf. Mt 25: 31-46).

The Sovereign Pontiff Francis, on 25 June 2020, approved the present Letter, adopted in the Plenary Session of this Congregation, the 29th of January 2020, and ordered its publication.

Rome, from the Offices of the Congregation for the Doctrine of the Faith, the 14th of July 2020, liturgical memorial of Saint Camille de Lellis.

Luis F. Card. LADARIA, S.I.
Prefect

 Giacomo MORANDI
Archbishop tit. of Cerveteri
Secretary

__________________

 

[1] Messale Romano, riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, promulgato da papa Paolo VI e riveduto da papa Giovanni Paolo II, Conferenza Episcopale Italiana – Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, Roma 2020, Prefazio comune VIII, p. 404 (Eng. trans.)

[2] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, National Catholic Bioethics Center, Philadelphia, PA, 2017, n. 6.

[3] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Spe salvi (30 November 2007), 22: AAS 99 (2007), 1004. “If technical progress is not matched by corresponding progress in man’s ethical formation, in man’s inner growth (cf. Eph 3:16; 2 Cor 4:16), then it is not progress at all, but a threat for man and for the world”.

[4] Cfr. Francesco, Discorso all’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma (AIL) (2 marzo 2019): L’Osservatore Romano, 3 marzo 2019, 7.

[5] Francis, Apostolic Exhortation Amoris laetitia (19 March 2016), 3: AAS 108 (2016), 312.

[6] Cf. Second Vatican Ecumenical Council, Pastoral Constitution Gaudium et spes, 10: AAS 58 (1966), 1032-1033.

[7] Cf. John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 4: AAS 76 (1984), 203.

[8] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Healthcare Workers, New Charter for Healthcare Workers, n. 144.

[9] Francis, Message for the 48th World Communications Day (1 June 2014): AAS 106 (2014), 114.

[10] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 87: AAS 87 (1995), 500.

[11] Cf. John Paul II, Encyclical Letter Centesimus annus (1 May 1991), 37: AAS 83 (1991), 840.

[12] John Paul II, Encyclical Letter Veritatis splendor (6 August 1993), 50: AAS 85 (1993), 1173.

[13] John Paul II, Address to the participants in the International Congress “Life sustaining treatments and vegetative state. Scientific progress and ethical dilemmas” (20 March 2004), 7: AAS 96 (2004), 489.

[14] Cf. Congregation for the Doctrine of the Faith, Letter Placuit Deo (22 February 2018), 6: AAS 110 (2018), 430.

[15] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 9.

[16] Cf. Paul VI, Address during the last general meeting of the Second Vatican Council (7 December 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[17] Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 9.

[18] Cf. Congregaton for the Doctrine of the Faith, Letter Placuit Deo (22 February 2018), 12: AAS 110 (2018), 433-434.

[19] Francis, Address to the participants of the Plenary Session of the Congregation for the Doctrine of the Faith (30 January 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7. (Eng. trans.)

[20] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Deus caritas est (25 December 2005), 31: AAS 98 (2006), 245.

[21] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in veritate (29 June 2009), 76: AAS 101 (2009), 707.

[22] Cf. John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 49: AAS 87 (1995), 455. “the deepest and most authentic meaning of life: namely, that of being a gift which is fully realized in the giving of self ”.

[23] Second Vatican Ecumenical Council, Dogmatic Constitution Dei Verbum (8 November 1965), 2: AAS 58 (1966), 818.

[24] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 34: AAS 87 (1995), 438.

[25] Cf. Position Paper of the Abrahamic Monotheistic Religions on matters concerning life, Vatican City, 28 October 2019: “ We oppose any form of euthanasia – that is the direct, deliberate and intentional act of taking life – as well as physician assisted suicide – that is the direct, deliberate and intentional support of committing suicide – because they fundamentally contradict the inalienable value of human life, and therefore are inherently and consequentially morally and religiously wrong, and should be forbidden wihout exceptions”.

[26] Cf. Francis, Address to Participants in the Commemorative Conference of the Italian Catholic Physicians’ Association on the occassion of its 70th Anniversary of foundation (15 November 2014): AAS 106 (2014), 976.

[27] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 1; Congregation for the Doctrine of the Faith, Instruction Dignitas personae (8 September 2008), 8: AAS 100 (2008), 863.

[28] Francis, Encyclical Letter Laudato si’ (24 May 2015), 65: AAS 107 (2015), 873.

[29] Second Vatican Ecumenical Council, Pastoral Constitution Gaudium et spes (7 December 1965), 27: AAS 58 (1966), 1047-1048.

[30] Francis, Address to Participants in the Commemorative Conference of the Italian Catholic Physicians’ Association on the occassion of its 70th Anniversary of foundation (15 November 2014): AAS 106 (2014), 976.

[31] Cf. Francis Address to the National Federation of the Orders of Doctors and Dental Surgeons (20 September 2019): L’Osservatore Romano, 21 settembre 2019, 8: “These are hasty ways of dealing with choices that are not, as they might seem, an expression of the person’s freedom, when they include the discarding of the patient as a possibility, or false compassion in the face of the request to be helped to anticipate death”.

[32] Congregation for the Doctrine of the Faith, Lettera Placuit Deo (22 February 2018), 3: AAS 110 (2018), 428-429; Cf. Francis, Encyclical Letter Laudato si’ (24 May 2015), 162: AAS 107 (2015), 912.

[33] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in veritate (29 June 2009), 53: AAS 101 (2009), 688. “One of the deepest forms of poverty a person can experience is isolation. If we look closely at other kinds of poverty, including material forms, we see that they are born of isolation, from not being loved or from difficulties in being able to love”.

[34] Cf. Francis, Apostolic Exhortation Evangelii gaudium (24 November 2013), 53: AAS 105 (2013), 1042; See also: Id., Address to a delegation from the Dignitatis Humanae Institute (7 December 2013): AAS 106 (2014) 14-15; Id., Meeting of the Pope with the Elderly (28 September 2014): AAS 106 (2014) 759-760.

[35] Cf. John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 12: AAS 87 (1995), 414.

[36] Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[37] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 475; cf. Congregation For The Doctrine Of The Faith, Declaration Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[38] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 477. It is a definitively proposed doctrine in which the Church commits her infallibility: cf. Congregation For The Doctrine of the Faith, Doctrinal Commentary on the Concluding Formula of the Professio Fidei (29 June 1998), 11: AAS 90 (1998), 550.

[39] Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[40] Cf. Catechism of the Catholic Church, 2286.

[41] Cf. Catechism of the Catholic Church, 1735 and 2282.

[42] Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[43] Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 169.

[44] Cf. Ibid., 170.

[45] Cf. John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 72: AAS 87 (1995), 484-485.

[46] Francis, Address to the Participants of the Plenary Session of the Congregation for the Doctrine of the Faith (30 January 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7. (Eng. trans.)

[47] John Paul II, Encyclical Letter Veritatis splendor (6 August 1993), 15: AAS 85 (1993), 1145.

[48] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Spe salvi (30 November 2007), 36, 37: AAS 99 (2007), 1014-1016.

[49] Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[50] John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 5: AAS 76 (1984), 204.

[51] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Spe salvi (30 November 2007), 38: AAS 99 (2007), 1016.

[52] Cf. John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 29: AAS 76 (1984), 244: “the person who is ‘a neighbor’ cannot indifferently pass by the suffering of another: this in the name of fundamental human solidarity, still more in the name of love of neighbor. He must ‘stop,’ ‘sympathize,’ just like the Samaritan of the Gospel parable. The parable in itself expresses a deeply christian truth, but one that at the same time is very universally human.”

[53] Cf. Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), IV: AAS 72 (1980), 549-551.

[54] Cf. Catechism of the Catholic Church, 2278; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, The Charter for Health Care Workers, Vatican City, 1995, n. 119; John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 475; Francis, Message to the participants in the european regional meeting of the World Medical Association (7 November 2017). “And even if we know that we cannot always guarantee healing or a cure, we can and must always care for the living, without ourselves shortening their life, but also without futilely resisting their death”; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 149.

[55] Cf. Catechism of the Catholic Church, 2278; Congregation For The Doctrine Of The Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), IV: AAS 72 (1980), 550-551; John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 475; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 150.

[56] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 476.

[57] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 150.

[58] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti ad un incontro di studio sulla procreazione responsabile (5 giugno 1987), n. 1: Insegnamenti di Giovanni Paolo II X/2 (1987), 1962: “To speak of a ‘conflict of values or goods’ and of the consequent need to perform some sort of ‘balance’ of them, choosing one and refuting the other, is not morally correct” (Eng. trans).

[59] Cf. John Paul II, Address to the Italian Catholic Doctors Association (28 December 1978): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I (1978), 438.

[60] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 150.

[61] Cf. Congregation For The Doctrine Of The Faith, Responses to certain questions of the United States Conference of Catholic Bishops concerning artificial nutrition and hydration (1 August 2007): AAS 99 (2007), 820.

[62] Cf. Ibid.

[63] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 152: “Nutrition and hydration, even if administered artificially, are classified as basic care owed to the dying person when they do not prove to be too burdensome or without any benefit. The unjustified discontinuation thereof can be tantamount to a real act of euthanasia: ‘The administration of food and water even by artificial means is, in principle, an ordinary and proportionate means of preserving life. It is therefore obligatory to the extent which, and for as long as, it is shown to accomplish its proper finality, which is hydration and nourishment of the patient. In this way, suffering and death by starvation and dehydration are prevented’”.

[64] Francis, Address to participants in the plenary of the Pontifical Academy for Life (5 March 2015): AAS 107 (2015), 274, with reference to: John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 476. Cf. Catechism of the Catholic Church, 2279.

[65] Cf. Francis, Address to participants in the plenary of the Pontifical Academy for Life (5 March 2015): AAS 107 (2015), 275.

[66] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 147.

[67] Cf. John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 2: AAS 76 (1984), 202: “Suffering seems to belong to man’s transcendence: it is one of those points in which man in a certain sense ‘destined’ to go beyond himself, and he is called to this in a mysterious way”.

[68] Benedict XVI, Encyclical Letter Spe salvi (30 November 2007), 38: AAS 99 (2007), 1016.

[69] Cf. Francis, Apsotolic Exhortation Amoris laetitia (19 March 2016), 48: AAS 108 (2016), 330.

[70] C. Saunders, Watch with Me: Inspiration for a life in hospice care, Observatory House, Lancaster, UK, 2005, 29.

[71] Francis, Address to the Participants of the Plenary Session of the Congregation for the Doctrine of the Faith (30 January 2020): L’Osservatore Romano, 31 gennaio 2020, 7. (Eng. trans.)

[72] Cf. Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 148.

[73] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l'analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957) 134-136; Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), III: AAS 72 (1980), 547; John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 19: AAS 76 (1984), 226.

[74] Cfr. Pio XII, Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 settembre 1958): AAS 50 (1958), 694; Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catechism of the Catholic Church, 2779; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 155 “Moreover there is the possibility of painkillers and narcotics causing a loss of consciousness in the dying person. Such usage deserves particular consideration. In the presence of unbearable pain that is resistant to typical pain-management therapies, if the moment of death is near or if there are good reasons for anticipating a particular crisis at the moment of death, a serious clinical indication may involve, with the sick person’s consent, the administration of drugs that cause the loss of consciousness. This deep palliative sedation in the terminal phase, when clinically motivated, can be morally acceptable provided that it is done with the patient's consent, appropriate information is given to the family members, that any intention of euthanasia is ruled out, and that the patient has been able to perform his moral, familial and religious duties: ‘As they approach death people ought to be able to satisfy their moral and family duties, and above all they ought to be able to prepare in a fully conscious way for their definitive meeting with God’. Therefore,‘ it is not right to deprive the dying person of consciousness without a serious reason’”.

[75] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l'analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957) 145; Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona (5 May 1980), III: AAS 72 (1980), 548; John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 476.

[76] Cf. Francis, Address to Participants in the Commemorative Conference of the Italian Catholic Physicians’ Association on the occassion of its 70th Anniversary of foundation (15 November 2014): AAS 106 (2014), 978.

[77] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l'analgésie (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957), 146; Id., Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico» (9 settembre 1958): AAS 50 (1958), 695; Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona, III: AAS 72 (1980), 548; Catechism of the Catholic Church, 2279; John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 65: AAS 87 (1995), 476; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 154.

[78] Cf. John Paul II, Address to the participants in the International Congress “Life sustaining treatments and vegeative state. Scientific progress and ethical dilemmas” (20 March 2004), 3: AAS 96 (2004), 487: “A man, even if seriously ill or disabled in the exercise of his highest functions, is and always will be a man, and he will never become a ‘vegetable’ or an ‘animal’”.

[79] Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, New Charter for Health Care Workers, n. 151.

[80] Ibid., n. 151; John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 74: AAS 87 (1995), 487.

[81] Cf. Francis, Address to Participants in the Commemorative Conference of the Italian Catholic Physicians’ Association on the occassion of its 70th Anniversary of foundation (15 November 2014): AAS 106 (2014), 977.

[82] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 73: AAS 87 (1995), 486.

[83] Benedict XVI, Address to the participants in the Congress organized by the Pontifical Academy for Life on the theme “Close by the incurable sick person and the dying: scientific and ethical aspects” (25 February 2008): AAS 100 (2008), 171.

[84] Francis, General Audience, (10 June 2015): L’Osservatore Romano, 11 giugno 2015, 8.

[85] Catechism of the Catholic Church, 1420.

[86] Cfr. Rituale Romanum, ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio typica, Praenotanda, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitate Vaticana 1972, n. 26; Catechism of the Catholic Church, 1524.

[87] Cf. Francis, Encyclical Letter Laudato si’ (24 May 2015), 235: AAS 107 (2015), 939.

[88] Cf. John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 67: AAS 87 (1995), 478-479.

[89] Council of Trent, Sess. XIV, De sacramento penitentiae, chap. 4: DH 1676.

[90] Cf. Code of Canon Law, can. 987.

[91] Cf. Code of Canon Law, can. 1007: “The anointing of the sick is not to be conferred upon those who persevere obstinately in manifest grave sin”.

[92] Cf. Code of Canon Law, can. 915 and can. 843 § 1.

[93] Cf. Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration Iura et bona, II: AAS 72 (1980), 546.

[94] Cf. John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 29: AAS 76 (1984), 244-246.

[95] Cf. Francis, Address to the doctors in Spain and Latin America: compassion is the very soul of medicine (9 June 2016): AAS 108 (2016), 727-728. “Frailty, pain and infirmity are a difficult trial for everyone, including medical staff; they call for patience, for suffering-with; therefore, we must not give in to the functionalist temptation to apply rapid and drastic solutions moved by false compassion or by mere criteria of efficiency or cost-effectiveness. The dignity of human life is at stake; the dignity of the medical vocation is at stake”.

[96] John Paul II, Apostolic Letter Salvifici doloris (11 February 1984), 29: AAS 76 (1984), 246.

[97] John Paul II, Encyclical Letter Evangelium vitae (25 March 1995), 5: AAS 87 (1995), 407.

[98] Saint Thomas Aquinas, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3.

[99] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Spe salvi (30 November 2007), 39: AAS 99 (2007), 1016. “To suffer with the other and for others; to suffer for the sake of truth and justice; to suffer out of love and in order to become a person who truly loves – these are fundamental elements of humanity, and to abandon them would destroy man himself”.

[01077-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua spagnola

 

Congregación para la Doctrina de la Fe

Carta
Samaritanus Bonus

sobre el cuidado de las personas en las fases críticas y terminales de la vida

Introducción

El Buen Samaritano que deja su camino para socorrer al hombre enfermo (cfr. Lc 10, 30-37) es la imagen de Jesucristo que encuentra al hombre necesitado de salvación y cuida de sus heridas y su dolor con «el aceite del consuelo y el vino de la esperanza».[1] Él es el médico de las almas y de los cuerpos y «el testigo fiel» (Ap 3, 14) de la presencia salvífica de Dios en el mundo. Pero, ¿cómo concretar hoy este mensaje? ¿Cómo traducirlo en una capacidad de acompañamiento de la persona enferma en las fases terminales de la vida de manera que se le ayude respetando y promoviendo siempre su inalienable dignidad humana, su llamada a la santidad y, por tanto, el valor supremo de su misma existencia?

El extraordinario y progresivo desarrollo de las tecnologías biomédicas ha acrecentado de manera exponencial las capacidades clínicas de la medicina en el diagnóstico, en la terapia y en el cuidado de los pacientes. La Iglesia mira con esperanza la investigación científica y tecnológica, y ve en ellas una oportunidad favorable de servicio al bien integral de la vida y de la dignidad de todo ser humano.[2] Sin embargo, estos progresos de la tecnología médica, si bien preciosos, no son determinantes por sí mismos para calificar el sentido propio y el valor de la vida humana. De hecho, todo progreso en las destrezas de los agentes sanitarios reclama una creciente y sabia capacidad de discernimiento moral[3] para evitar el uso desproporcionado y deshumanizante de las tecnologías, sobre todo en las fases críticas y terminales de la vida humana.

Por otro lado, la gestión organizativa y la elevada articulación y complejidad de los sistemas sanitarios contemporáneos pueden reducir la relación de confianza entre el médico y el paciente a una relación meramente técnica y contractual, un riesgo que afecta, sobre todo, a los países donde se están aprobando leyes que legitiman formas de suicidio asistido y de eutanasia voluntaria de los enfermos más vulnerables. Estas niegan los límites éticos y jurídicos de la autodeterminación del sujeto enfermo, oscureciendo de manera preocupante el valor de la vida humana en la enfermedad, el sentido del sufrimiento y el significado del tiempo que precede a la muerte. El dolor y la muerte, de hecho, no pueden ser los criterios últimos que midan la dignidad humana, que es propia de cada persona, por el solo hecho de ser un “ser humano”.

Ante tales desafíos, capaces de poner en juego nuestro modo de pensar la medicina, el significado del cuidado de la persona enferma y la responsabilidad social frente a los más vulnerables, el presente documento intenta iluminar a los pastores y a los fieles en sus preocupaciones y en sus dudas acerca de la atención médica, espiritual y pastoral debida a los enfermos en las fases críticas y terminales de la vida. Todos son llamados a dar testimonio junto al enfermo y transformarse en “comunidad sanadora” para que el deseo de Jesús, que todos sean una sola carne, a partir de los más débiles y vulnerables, se lleve a cabo de manera concreta.[4] Se percibe en todas partes, de hecho, la necesidad de una aclaración moral y de una orientación práctica sobre cómo asistir a estas personas, ya que «es necesaria una unidad de doctrina y praxis»[5] respecto a un tema tan delicado, que afecta a los enfermos más débiles en las etapas más delicadas y decisivas de la vida de una persona.

Diversas Conferencias Episcopales en el mundo han publicado documentos y cartas pastorales, con las que han buscado dar una respuesta a los desafíos planteados por el suicidio asistido y la eutanasia voluntaria – legitimadas por algunas legislaciones nacionales – con una específica referencia a cuantos trabajan o se recuperan dentro de los hospitales, también en los hospitales católicos. Pero la atención espiritual y las dudas emergentes, en determinadas circunstancias y contextos particulares, acerca de la celebración de los Sacramentos por aquellos que intentan poner fin a la propia vida, reclaman hoy una intervención más clara y puntual de parte de la Iglesia, con el fin de:

- reafirmar el mensaje del Evangelio y sus expresiones como fundamentos doctrinales propuestos por el Magisterio, invocando la misión de cuantos están en contacto con los enfermos en las fases críticas y terminales (los familiares o los tutores legales, los capellanes de hospital, los ministros extraordinarios de la Eucaristía y los agentes de pastoral, los voluntarios de los hospitales y el personal sanitario), además de los mismos enfermos;

- proporcionar pautas pastorales precisas y concretas, de tal manera que a nivel local se puedan afrontar y gestionar estas situaciones complejas para favorecer el encuentro personal del paciente con el Amor misericordioso de Dios.

I. Hacerse cargo del prójimo

Es difícil reconocer el profundo valor de la vida humana cuando, a pesar de todo esfuerzo asistencial, esta continúa mostrándosenos en su debilidad y fragilidad. El sufrimiento, lejos de ser eliminado del horizonte existencial de la persona, continúa generando una inagotable pregunta por el sentido de la vida.[6] La solución a esta dramática cuestión no podrá jamás ofrecerse solo a la luz del pensamiento humano, porque en el sufrimiento está contenida la grandeza de un misterio específico que solo la Revelación de Dios nos puede desvelar.[7] Especialmente, a cada agente sanitario le ha sido confiada la misión de una fiel custodia de la vida humana hasta su cumplimiento natural,[8] a través de un proceso de asistencia que sea capaz de re-generar en cada paciente el sentido profundo de su existencia, cuando viene marcada por el sufrimiento y la enfermedad. Es por esto necesario partir de una atenta consideración del propio significado del cuidado, para comprender el significado de la misión específica confiada por Dios a cada persona, agente sanitario y de pastoral, así como al mismo enfermo y a su familia.

La experiencia del cuidado médico parte de aquella condición humana, marcada por la finitud y el límite, que es la vulnerabilidad. En relación a la persona, esta se inscribe en la fragilidad de nuestro ser juntos “cuerpo”, material y temporalmente finito, y “alma”, deseo de infinito y destinada a la eternidad. Nuestro ser criaturas “finitas”, y también destinadas a la eternidad, revela tanto nuestra dependencia de los bienes materiales y de la ayuda reciproca de los hombres, como nuestra relación originaria y profunda con Dios. Esta vulnerabilidad da fundamento a la ética del cuidado, de manera particular en el ámbito de la medicina, entendida como solicitud, premura, coparticipación y responsabilidad hacia las mujeres y hombres que se nos han confiado porque están necesitados de atención física y espiritual.

De manera específica, la relación de cuidado revela un principio de justicia, en su doble dimensión de promoción de la vida humana (suum cuique tribuere) y de no hacer daño a la persona (alterum non laedere): es el mismo principio que Jesús transforma en la regla de oro positiva «todo lo que deseáis que los demás hagan con vosotros, hacedlo vosotros con ellos» (Mt 7, 12). Es la regla que, en la ética médica tradicional, encuentra un eco en el aforismo primum non nocere.

El cuidado de la vida es, por tanto, la primera responsabilidad que el médico experimenta en el encuentro con el enfermo. Esta no puede reducirse a la capacidad de curar al enfermo, siendo su horizonte antropológico y moral más amplio: también cuando la curación es imposible o improbable, el acompañamiento médico y de enfermería (el cuidado de las funciones esenciales del cuerpo), psicológico y espiritual, es un deber ineludible, porque lo contrario constituiría un abandono inhumano del enfermo. La medicina, de hecho, que se sirve de muchas ciencias, posee también una importante dimensión de “arte terapéutica” que implica una relación estrecha entre el paciente, los agentes sanitarios, familiares y miembros de las varias comunidades de pertenencia del enfermo: arte terapéutica, actos clínicos y cuidado están inseparablemente unidos en la práctica médica, sobre todo en las fases críticas y terminales de la vida.

El Buen Samaritano, de hecho, «no sólo se acerca, sino que se hace cargo del hombre medio muerto que encuentra al borde del camino»[9]. Invierte en él no solo el dinero que tiene, sino también aquel que no tiene y que espera ganar en Jericó, prometiendo que pagará a su regreso. Así Cristo nos invita a fiarnos de su gracia invisible y nos empuja a la generosidad basada en la caridad sobrenatural, identificándose con cada enfermo: «Cada vez que lo hicisteis con uno de estos, mis hermanos más pequeños, conmigo lo hicisteis» (Mt 25, 40). La afirmación de Jesús es una verdad moral de alcance universal: «se trata de “hacerse cargo” de toda la vida y de la vida de todos»,[10] para revelar el Amor originario e incondicionado de Dios, fuente del sentido de toda vida.

Por este motivo, sobre todo en las estructuras hospitalarias y asistenciales inspiradas en los valores cristianos, es más necesario que nunca hacer un esfuerzo, también espiritual, para dejar espacio a una relación construida a partir del reconocimiento de la fragilidad y la vulnerabilidad de la persona enferma. De hecho, la debilidad nos recuerda nuestra dependencia de Dios, y nos invita a responder desde el respeto debido al prójimo. De aquí nace la responsabilidad moral ligada a la conciencia de todo sujeto que se hace cargo del enfermo (médico, enfermero, familiar, voluntario, pastor) de encontrarse frente a un bien fundamental e inalienable – la persona humana – que impone no poder saltarse el límite en el que se da el respeto de sí y del otro, es decir la acogida, la tutela y la promoción de la vida humana hasta la llegada natural de la muerte. Se trata, en este sentido, de tener una mirada contemplativa,[11] que sabe captar en la existencia propia y la de los otros un prodigio único e irrepetible, recibido y acogido como un don. Es la mirada de quién no pretende apoderarse de la realidad de la vida, sino acogerla así como es, con sus fatigas y sufrimientos, buscando reconocer en la enfermedad un sentido del que dejarse interpelar y “guiar”, con la confianza de quien se abandona al Señor de la vida que se manifiesta en él.

Ciertamente, la medicina debe aceptar el límite de la muerte como parte de la condición humana. Llega un momento en el que ya no queda más que reconocer la imposibilidad de intervenir con tratamientos específicos sobre una enfermedad, que aparece en poco tiempo como mortal. Es un hecho dramático, que se debe comunicar al enfermo con gran humanidad y también con confiada apertura a la perspectiva sobrenatural, conscientes de la angustia que la muerte genera, sobre todo en una cultura que la esconde. No se puede pensar en la vida física como algo que hay que conservar a toda costa – algo que es imposible -, sino como algo por vivir alcanzando la libre aceptación del sentido de la existencia corpórea: «sólo con referencia a la persona humana en su “totalidad unificada”, es decir, “alma que se expresa en el cuerpo informado por un espíritu inmortal”, se puede entender el significado específicamente humano del cuerpo».[12]

Reconocer la imposibilidad de curar ante la cercana eventualidad de la muerte, no significa, sin embargo, el final del obrar médico y de enfermería. Ejercitar la responsabilidad hacia la persona enferma, significa asegurarle el cuidado hasta el final: «curar si es posible, cuidar siempre (to cure if possible, always to care)».[13] Esta intención de cuidar siempre al enfermo ofrece el criterio para evaluar las diversas acciones a llevar a cabo en la situación de enfermedad “incurable”; incurable, de hecho, no es nunca sinónimo de “in-cuidable”. La mirada contemplativa invita a ampliar la noción de cuidado. El objetivo de la asistencia debe mirar a la integridad de la persona, garantizando con los medios adecuados y necesarios el apoyo físico, psicológico, social, familiar y religioso. La fe viva, mantenida en las almas de las personas que la rodean, puede contribuir a la verdadera vida teologal de la persona enferma, aunque esto no sea inmediatamente visible. El cuidado pastoral de todos, familiares, médicos, enfermeros y capellanes, puede ayudar al enfermo a persistir en la gracia santificante y a morir en la caridad, en el Amor de Dios. Frente a lo inevitable de la enfermedad, sobre todo si es crónica y degenerativa, si falta la fe, el miedo al sufrimiento y a la muerte, y el desánimo que se produce, constituyen hoy en día las causas principales de la tentación de controlar y gestionar la llegada de la muerte, aun anticipándola, con la petición de la eutanasia o del suicidio asistido.

II. La experiencia viviente del Cristo sufriente
y el anuncio de la esperanza

Si la figura del Buen samaritano ilumina de luz nueva la práctica del cuidado, la experiencia viviente del Cristo sufriente, su agonía en la Cruz y su Resurrección, son los espacios en los que se manifiesta la cercanía del Dios hecho hombre en las múltiples formas de la angustia y del dolor, que pueden golpear a los enfermos y sus familiares, durante las largas jornadas de la enfermedad y en el final de la vida.

No solo en las palabras del profeta Isaías se anuncia la persona de Cristo como el hombre familiarizado con el dolor y el padecimiento (cfr. Is 53), si releemos las páginas de la pasión de Cristo encontramos también la experiencia de la incomprensión, de la mofa, del abandono, del dolor físico y de la angustia. Son experiencias que hoy golpean a muchos enfermos, con frecuencia considerados una carga para la sociedad; a veces no son comprendidos en sus peticiones, a menudo viven formas de abandono afectivo, de perdida de relaciones.

Todo enfermo tiene necesidad no solo de ser escuchado, sino de comprender que el propio interlocutor “sabe” que significa sentirse solo, abandonado, angustiado frente a la perspectiva de la muerte, al dolor de la carne, al sufrimiento que surge cuando la mirada de la sociedad mide su valor en términos de calidad de vida y lo hace sentir una carga para los proyectos de otras personas. Por eso, volver la mirada a Cristo significa saber que se puede recurrir a quien ha probado en su carne el dolor de la flagelación y de los clavos, la burla de los flageladores, el abandono y la traición de los amigos más queridos.

Frente al desafío de la enfermedad y en presencia de dificultades emotivas y espirituales en aquel que vive la experiencia del dolor, surge, de manera inexorable, la necesidad de saber decir una palabra de confort, extraída de la compasión llena de esperanza de Jesús sobre la Cruz. Una esperanza creíble, profesada por Cristo en la Cruz, capaz de afrontar el momento de la prueba, el desafío de la muerte. En la Cruz de Cristo – cantada por la liturgia el Viernes Santo: Ave crux, spes unica – están concentrados y resumidos todos los males y sufrimientos del mundo. Todo el mal físico, de los cuales la cruz, cual instrumento de muerte infame e infamante, es el emblema; todo el mal psicológico, expresado en la muerte de Jesús en la más sombría soledad, abandono y traición; todo el mal moral, manifestado en la condena a muerte del Inocente; todo el mal espiritual, destacado en la desolación que hace percibir el silencio de Dios.

Cristo es quien ha sentido alrededor de Él la afligida consternación de la Madre y de los discípulos, que “estaban” bajo la Cruz: en este “estar”, aparentemente cargado de impotencia y resignación, está toda la cercanía de los afectos que permite al Dios hecho hombre vivir también aquellas horas que parecen sin sentido.

Después está la Cruz: de hecho un instrumento de tortura y de ejecución reservado solo a los últimos, que parece tan semejante, en su carga simbólica, a aquellas enfermedades que clavan a una cama, que prefiguran solo la muerte y parecen eliminar el significado del tiempo y de su paso. Sin embargo, aquellos que “están” alrededor del enfermo no son solo testigos, sino que son signo viviente de aquellos afectos, de aquellas relaciones, de aquella íntima disponibilidad al amor, que permiten al que sufre reconocer sobre él una mirada humana capaz de volver a dar sentido al tiempo de la enfermedad. Porque en la experiencia de sentirse amado, toda la vida encuentra su justificación. Cristo ha estado siempre sostenido, en el camino de su pasión, por el confiado abandono en el amor del Padre, que se hacía evidente, en la hora de la Cruz, también a través del amor de la Madre. Porque el Amor de Dios se revela siempre, en la historia de los hombres, gracias al amor de quien no nos abandona, de quien “está”, a pesar de todo, a nuestro lado.

Si reflexionamos sobre el final de la vida de las personas, no podemos olvidar que en ellas se aloja con frecuencia la preocupación por aquellos que dejan: por los hijos, el cónyuge, los padres, los amigos. Un componente humano que nunca podemos descuidar y a los que se debe ofrecer apoyo y ayuda.

Es la misma preocupación de Cristo, que antes de morir piensa en la Madre que permanecerá sola, con un dolor que deberá llevar en la historia. En la crónica austera del Evangelio de Juan, es a la Madre a quien se dirige Cristo, para tranquilizarla, para confiarla al discípulo amado de tal manera que se haga cargo de ella: “Madre, ahí tienes a tu hijo” (cfr. Jn 19, 26-27). El tiempo del final de la vida es un tiempo de relaciones, un tiempo en el que se deben derrotar la soledad y el abandono (cfr. Mt 27, 46 y Mc 15, 34), en vista de una entrega confiada de la propia vida a Dios (cfr. Lc 23, 46).

Desde esta perspectiva, mirar al Crucificado significa ver una escena coral, en la que Cristo está en el centro porque resume en su propia carne, y verdaderamente transfigura, las horas más tenebrosas de la experiencia humana, aquellas en las que se asoma, silenciosa, la posibilidad de la desesperación. La luz de la fe nos hace captar, en aquella plástica y descarnada descripción que los Evangelios nos dan, la Presencia trinitaria, porque Cristo confía en el Padre gracias al Espíritu Santo, que apoya a la Madre y a los discípulos que “están” y, en este su “estar” junto a la Cruz, participan, con su humana dedicación al Sufriente, al misterio de la Redención.

Así, si bien marcada por un tránsito doloroso, la muerte puede convertirse en ocasión de una esperanza más grande, gracias a la fe, que nos hace partícipes de la obra redentora de Cristo. De hecho, el dolor es existencialmente soportable solo donde existe la esperanza. La esperanza que Cristo transmite al que sufre y al enfermo es la de su presencia, de su real cercanía. La esperanza no es solo un esperar por un futuro mejor, es una mirada sobre el presente, que lo llena de significado. En la fe cristiana, el acontecimiento de la Resurrección no solo revela la vida eterna, sino que pone de manifiesto que en la historia la última palabra no es jamás la muerte, el dolor, la traición, el mal. Cristo resurge en la historia y en el misterio de la Resurrección existe la confirmación del amor del Padre que no abandona nunca.

Releer, ahora, la experiencia viviente del Cristo sufriente significa entregar también a los hombres de hoy una esperanza capaz de dar sentido al tiempo de la enfermedad y de la muerte. Esta esperanza es el amor que resiste a la tentación de la desesperación.

Aunque son muy importantes y están cargados de valor, los cuidados paliativos no bastan si no existe alguien que “está” junto al enfermo y le da testimonio de su valor único e irrepetible. Para el creyente, mirar al Crucificado significa confiar en la comprensión y en el Amor de Dios: y es importante, en una época histórica en la que se exalta la autonomía y se celebran los fastos del individuo, recordar que si bien es verdad que cada uno vive el propio sufrimiento, el propio dolor y la propia muerte, estas vivencias están siempre cargadas de la mirada y de la presencia de los otros. Alrededor de la Cruz están también los funcionarios del Estado romano, están los curiosos, están los distraídos, están los indiferentes y los resentidos; están bajo la Cruz, pero no “están” con el Crucificado.

En las unidades de cuidados intensivos, en las casas de cuidado para los enfermos crónicos, se puede estar presente como funcionario o como personas que “están” con el enfermo.

La experiencia de la Cruz permite así ofrecer al que sufre un interlocutor creíble a quien dirigir la palabra, el pensamiento, a quien entregar la angustia y el miedo: a aquellos que se hacen cargo del enfermo, la escena de la Cruz proporciona un elemento adicional para comprender que también cuando parece que no hay nada más que hacer todavía queda mucho por hacer, porque el “estar” es uno de los signos del amor, y de la esperanza que lleva en sí. El anuncio de la vida después de la muerte no es una ilusión o un consuelo sino una certeza que está en el centro del amor, que no se acaba con la muerte.

III. El “corazón que ve” del Samaritano:
la vida humana es un don sagrado e inviolable

El hombre, en cualquier condición física o psíquica que se encuentre, mantiene su dignidad originaria de haber sido creado a imagen de Dios. Puede vivir y crecer en el esplendor divino porque está llamado a ser a «imagen y gloria de Dios» (1 Cor 11, 7; 2 Cor 3, 18). Su dignidad está en esta vocación. Dios se ha hecho Hombre para salvarnos, prometiéndonos la salvación y destinándonos a la comunión con Él: aquí descansa el fundamento último de la dignidad humana.[14]

Pertenece a la Iglesia el acompañar con misericordia a los más débiles en su camino de dolor, para mantener en ellos la vida teologal y orientarlos a la salvación de Dios.[15] Es la Iglesia del Buen Samaritano,[16] que “considera el servicio a los enfermos como parte integrante de su misión”.[17] Comprender esta mediación salvífica de la Iglesia en una perspectiva de comunión y solidaridad entre los hombres es una ayuda esencial para superar toda tendencia reduccionista e individualista.[18]

Específicamente, el programa del Buen Samaritano es “un corazón que ve”. Él «enseña que es necesario convertir la mirada del corazón, porque muchas veces los que miran no ven. ¿Por qué? Porque falta compasión. Sin compasión, el que mira no se involucra en lo que observa y pasa de largo; en cambio, el que tiene un corazón compasivo se conmueve y se involucra, se detiene y se ocupa de lo que sucede».[19] Este corazón ve dónde hay necesidad de amor y obra en consecuencia.[20] Los ojos perciben en la debilidad una llamada de Dios a obrar, reconociendo en la vida humana el primer bien común de la sociedad.[21] La vida humana es un bien altísimo y la sociedad está llamada a reconocerlo. La vida es un don[22] sagrado e inviolable y todo hombre, creado por Dios, tiene una vocación transcendente y una relación única con Aquel que da la vida, porque «Dios invisible en su gran amor”[23] ofrece a cada hombre un plan de salvación para que podamos decir: «La vida es siempre un bien. Esta es una intuición o, más bien, un dato de experiencia, cuya razón profunda el hombre está llamado a comprender».[24] Por eso la Iglesia está siempre dispuesta a colaborar con todos los hombres de buena voluntad, con creyentes de otras confesiones o religiones o no creyentes, que respetan la dignidad de la vida humana, también en sus fases extremas del sufrimiento y de la muerte, y rechazan todo acto contrario a ella.[25] Dios Creador ofrece al hombre la vida y su dignidad como un don precioso a custodiar y acrecentar y del cual, finalmente, rendirle cuentas a Él.

La Iglesia afirma el sentido positivo de la vida humana como un valor ya perceptible por la recta razón, que la luz de la fe confirma y realza en su inalienable dignidad.[26] No se trata de un criterio subjetivo o arbitrario; se trata de un criterio fundado en la inviolable dignidad natural – en cuanto que la vida es el primer bien porque es condición del disfrute de todos los demás bienes – y en la vocación trascendente de todo ser humano, llamado a compartir el Amor trinitario del Dios viviente:[27] «el amor especialísimo que el Creador tiene por cada ser humano le confiere una dignidad infinita».[28] El valor inviolable de la vida es una verdad básica de la ley moral natural y un fundamento esencial del ordenamiento jurídico. Así como no se puede aceptar que otro hombre sea nuestro esclavo, aunque nos lo pidiese, igualmente no se puede elegir directamente atentar contra la vida de un ser humano, aunque este lo pida. Por lo tanto, suprimir un enfermo que pide la eutanasia no significa en absoluto reconocer su autonomía y apreciarla, sino al contrario significa desconocer el valor de su libertad, fuertemente condicionada por la enfermedad y el dolor, y el valor de su vida, negándole cualquier otra posibilidad de relación humana, de sentido de la existencia y de crecimiento en la vida teologal. Es más, se decide al puesto de Dios el momento de la muerte. Por eso, «aborto, eutanasia y el mismo suicidio deliberado degradan la civilización humana, deshonran más a sus autores que a sus víctimas y son totalmente contrarias al honor debido al Creador».[29]

IV. Los obstáculos culturales
que oscurecen el valor sagrado de toda vida humana

Hoy en día algunos factores limitan la capacidad de captar el valor profundo e intrínseco de toda vida humana: el primero se refiere a un uso equivoco del concepto de “muerte digna” en relación con el de “calidad de vida”. Irrumpe aquí una perspectiva antropológica utilitarista, que viene «vinculada preferentemente a las posibilidades económicas, al “bienestar”, a la belleza y al deleite de la vida física, olvidando otras dimensiones más profundas – relacionales, espirituales y religiosas – de la existencia».[30] En virtud de este principio, la vida viene considerada digna solo si tiene un nivel aceptable de calidad, según el juicio del sujeto mismo o de un tercero, en orden a la presencia-ausencia de determinadas funciones psíquicas o físicas, o con frecuencia identificada también con la sola presencia de un malestar psicológico. Según esta perspectiva, cuando la calidad de vida parece pobre, no merece la pena prolongarla. No se reconoce que la vida humana tiene un valor por sí misma.

Un segundo obstáculo que oscurece la percepción de la sacralidad de la vida humana es una errónea comprensión de la “compasión”.[31] Ante un sufrimiento calificado como “insoportable”, se justifica el final de la vida del paciente en nombre de la “compasión”. Para no sufrir es mejor morir: es la llamada eutanasia “compasiva”. Sería compasivo ayudar al paciente a morir a través de la eutanasia o el suicidio asistido. En realidad, la compasión humana no consiste en provocar la muerte, sino en acoger al enfermo, en sostenerlo en medio de las dificultades, en ofrecerle afecto, atención y medios para aliviar el sufrimiento.

El tercer factor, que hace difícil reconocer el valor de la propia vida y la de los otros dentro de las relaciones intersubjetivas, es un individualismo creciente, que induce a ver a los otros como límite y amenaza de la propia libertad. En la raíz de tal actitud está «un neo-pelagianismo para el cual el individuo, radicalmente autónomo, pretende salvarse a sí mismo, sin reconocer que depende, en lo más profundo de su ser, de Dios y de los demás . Un cierto neo-gnosticismo, por su parte, presenta una salvación meramente interior, encerrada en el subjetivismo»,[32] que favorece la liberación de la persona de los límites de su cuerpo, sobre todo cuando está débil y enferma.

El individualismo, en particular, está en la raíz de la que se considerada como la enfermedad latente de nuestro tiempo: la soledad,[33] tematizada en algunos contextos legislativos incluso como “derecho a la soledad”, a partir de la autonomía de la persona y del “principio del permiso-consentimiento”: un permiso-consentimiento que, dadas determinadas condiciones de malestar o de enfermedad, puede extenderse hasta la elección de seguir o no viviendo. Es el mismo “derecho” que subyace a la eutanasia y al suicidio asistido. La idea de fondo es que cuantos se encuentran en una condición de dependencia y no pueden alcanzar la perfecta autonomía y reciprocidad son cuidados en virtud de un favor. El concepto de bien se reduce así a ser el resultado de un acuerdo social: cada uno recibe los cuidados y la asistencia que la autonomía o la utilidad social o económica hacen posible o conveniente. Se produce así un empobrecimiento de las relaciones interpersonales, que se convierten en frágiles, privadas de la caridad sobrenatural, de aquella solidaridad humana y de aquel apoyo social, tan necesarios, para afrontar los momentos y las decisiones más difíciles de la existencia.

Este modo de pensar las relaciones humanas y el significado del bien hacen mella en el sentido mismo de la vida, haciéndola fácilmente manipulable, también a través de leyes que legalizan las prácticas eutanásicas, procurando la muerte de los enfermos. Estas acciones provocan una gran insensibilidad hacia el cuidado de las personas enfermas y deforman las relaciones. En tales circunstancias, surgen a veces dilemas infundados sobre la moralidad de las acciones que, en realidad, no son más que actos debidos de simple cuidado de la persona, como hidratar y alimentar a un enfermo en estado de inconsciencia sin perspectivas de curación.

En este sentido, el Papa Francisco ha hablado de la «cultura del descarte».[34] Las victimas de tal cultura son los seres humanos más frágiles, que corren el riesgo de ser “descartados” por un engranaje que quiere ser eficaz a toda costa. Se trata de un fenómeno cultural fuertemente anti-solidario, que Juan Pablo II calificó como «cultura de la muerte» y que crea auténticas «estructuras de pecado».[35] Esto puede inducir a cumplir acciones en sí mismas incorrectas por el único motivo de “sentirse bien” al cumplirlas, generando confusión entre el bien y el mal, allí donde toda vida personal posee un valor único e irrepetible, siempre prometedor y abierto a la trascendencia. En esta cultura del descarte y de la muerte, la eutanasia y el suicidio asistido aparecen como una solución errónea para resolver los problemas relativos al paciente terminal.

V. La enseñanza del Magisterio

1.     La prohibición de la eutanasia y el suicidio asistido

La Iglesia, en la misión de transmitir a los fieles la gracia del Redentor y la ley santa de Dios, que ya puede percibirse en los dictados de la ley moral natural, siente el deber de intervenir para excluir una vez más toda ambigüedad en relación con el Magisterio sobre la eutanasia y el suicidio asistido, también en aquellos contextos donde las leyes nacionales han legitimado tales prácticas.

Especialmente, la difusión de los protocolos médicos aplicables a las situaciones de final de la vida, como el Do Not Resuscitate Order o el Physician Orders for Life Sustaining Treatament – con todas sus variantes según las legislaciones y contextos nacionales, inicialmente pensados como instrumentos para evitar el ensañamiento terapéutico en las fases terminales de la vida – , despierta hoy graves problemas en relación con el deber de tutelar la vida del paciente en las fases más críticas de la enfermedad. Si por una parte los médicos se sienten cada vez más vinculados a la autodeterminación expresada por el paciente en estas declaraciones, que lleva a veces a privarles de la libertad y del deber de obrar tutelando la vida allí donde podrían hacerlo, por otra parte, en algunos contextos sanitarios, preocupa el abuso denunciado ampliamente del empleo de tales protocolos con una perspectiva eutanásica, cuando ni el paciente, ni mucho menos la familia, es consultado en la decisión final. Esto sucede sobre todo en los países donde la legislación sobre el final de la vida deja hoy amplios márgenes de ambigüedad en relación con la aplicación del deber de cuidado, al introducirse en ellos la práctica de la eutanasia.

Por estas razones, la Iglesia considera que debe reafirmar como enseñanza definitiva que la eutanasia es un crimen contra la vida humana porque, con tal acto, el hombre elige causar directamente la muerte de un ser humano inocente. La definición de eutanasia no procede de la ponderación de los bienes o los valores en juego, sino de un objeto moral suficientemente especificado, es decir la elección de «una acción o una omisión que por su naturaleza, o en la intención, causa la muerte, con el fin de eliminar cualquier dolor».[36] «La eutanasia se sitúa, pues, en el nivel de las intenciones o de los métodos usados».[37] La valoración moral de la eutanasia, y de las consecuencias que se derivan, no depende, por tanto, de un balance de principios, que, según las circunstancias y los sufrimientos del paciente, podrían, según algunos, justificar la supresión de la persona enferma. El valor de la vida, la autonomía, la capacidad de decisión y la calidad de vida no están en el mismo plano.

La eutanasia, por lo tanto, es un acto intrínsecamente malo, en toda ocasión y circunstancia. En el pasado la Iglesia ya ha afirmado de manera definitiva «que la eutanasia es una grave violación de la Ley de Dios, en cuanto eliminación deliberada y moralmente inaceptable de una persona humana. Esta doctrina se fundamenta en la ley natural y en la Palabra de Dios escrita; es transmitida por la Tradición de la Iglesia y enseñada por el Magisterio ordinario y universal. Semejante práctica conlleva, según las circunstancias, la malicia propia del suicidio o del homicidio».[38] Toda cooperación formal o material inmediata a tal acto es un pecado grave contra la vida humana: «Ninguna autoridad puede legítimamente imponerlo ni permitirlo. Se trata, en efecto, de una violación de la ley divina, de una ofensa a la dignidad de la persona humana, de un crimen contra la vida, de un atentado contra la humanidad».[39] Por lo tanto, la eutanasia es un acto homicida que ningún fin puede legitimar y que no tolera ninguna forma de complicidad o colaboración, activa o pasiva. Aquellos que aprueban leyes sobre la eutanasia y el suicidio asistido se hacen, por lo tanto, cómplices del grave pecado que otros llevarán a cabo. Ellos son también culpables de escándalo porque tales leyes contribuyen a deformar la conciencia, también la de los fieles. [40]

La vida tiene la misma dignidad y el mismo valor para todos y cada uno: el respeto de la vida del otro es el mismo que se debe a la propia existencia. Una persona que elije con plena libertad quitarse la vida rompe su relación con Dios y con los otros y se niega a sí mismo como sujeto moral. El suicidio asistido aumenta la gravedad, porque hace partícipe a otro de la propia desesperación, induciéndolo a no dirigir la voluntad hacia el misterio de Dios, a través de la virtud moral de la esperanza, y como consecuencia a no reconocer el verdadero valor de la vida y a romper la alianza que constituye la familia humana. Ayudar al suicida es una colaboración indebida a un acto ilícito, que contradice la relación teologal con Dios y la relación moral que une a los hombres para que compartan el don de la vida y sean coparticipes del sentido de la propia existencia.

También cuando la petición de eutanasia nace de una angustia y de una desesperación,[41] y «aunque en casos de ese género la responsabilidad personal pueda estar disminuida o incluso no existir, sin embargo el error de juicio de la conciencia – aunque fuera incluso de buena fe – no modifica la naturaleza del acto homicida, que en sí sigue siendo siempre inadmisible».[42] Dígase lo mismo para el suicidio asistido. Tales prácticas no son nunca una ayuda auténtica al enfermo, sino una ayuda a morir.

Se trata, por tanto, de una elección siempre incorrecta: «El personal médico y los otros agentes sanitarios – fieles a la tarea de “estar siempre al servicio de la vida y de asistirla hasta el final – no pueden prestarse a ninguna práctica eutanásica ni siquiera a petición del interesado, y mucho menos de sus familiares. No existe, en efecto, un derecho a disponer arbitrariamente de la propia vida, por lo que ningún agente sanitario puede erigirse en tutor ejecutivo de un derecho inexistente».[43]

Es por esto que la eutanasia y el suicidio asistido son siempre un fracaso de quienes los teorizan, de quienes los deciden y de quienes los practican.[44]

Son gravemente injustas, por tanto, las leyes que legalizan la eutanasia o aquellas que justifican el suicidio y la ayuda al mismo, por el falso derecho de elegir una muerte definida inapropiadamente digna solo porque ha sido elegida.[45] Tales leyes golpean el fundamento del orden jurídico: el derecho a la vida, que sostiene todo otro derecho, incluido el ejercicio de la libertad humana. La existencia de estas leyes hiere profundamente las relaciones humanas, la justicia y amenazan la confianza mutua entre los hombres. Los ordenamientos jurídicos que han legitimado el suicidio asistido y la eutanasia muestran, además, una evidente degeneración de este fenómeno social. El Papa Francisco recuerda que «el contexto sociocultural actual está erosionando progresivamente la conciencia de lo que hace que la vida humana sea preciosa. De hecho, la vida se valora cada vez más por su eficiencia y utilidad, hasta el punto de considerar como “vidas descartadas” o “vidas indignas” las que no se ajustan a este criterio. En esta situación de pérdida de los valores auténticos, se resquebrajan también los deberes inderogables de solidaridad y fraternidad humana y cristiana. En realidad, una sociedad se merece la calificación de “civil” si desarrolla los anticuerpos contra la cultura del descarte; si reconoce el valor intangible de la vida humana; si la solidaridad se practica activamente y se salvaguarda como fundamento de la convivencia».[46] En algunos países del mundo, decenas de miles de personas ya han muerto por eutanasia, muchas de ellas porque se quejaban de sufrimientos psicológicos o depresión. Son frecuentes los abusos denunciados por los mismos médicos sobre la supresión de la vida de personas que jamás habrían deseado para sí la aplicación de la eutanasia. De hecho, la petición de la muerte en muchos casos es un síntoma mismo de la enfermedad, agravado por el aislamiento y por el desánimo. La Iglesia ve en esta dificultad una ocasión para la purificación espiritual, que profundiza la esperanza, haciendo que se convierta en verdaderamente teologal, focalizada en Dios, y solo en Dios.

Más bien, en lugar de complacerse en una falsa condescendencia, el cristiano debe ofrecer al enfermo la ayuda indispensable para salir de su desesperación. El mandamiento «no matarás» (Ex 20, 13; Dt 5, 17), de hecho, es un sí a la vida, de la cual Dios se hace garante: «se transforma en la llamada a un amor solícito que tutela e impulsa la vida del prójimo».[47] El cristiano, por tanto, sabe que la vida terrena no es el valor supremo. La felicidad última está en el cielo. Así, el cristiano no pretenderá que la vida física continúe cuando la muerte está cerca. El cristiano ayudará al moribundo a liberarse de la desesperación y a poner su esperanza en Dios.

Desde la perspectiva clínica, los factores que más determinan la petición de eutanasia y suicidio asistido son: el dolor no gestionado y la falta de esperanza, humana y teologal, inducida también por una atención, humana, psicológica y espiritual a menudo inadecuada por parte de quien se hace cargo del enfermo.[48]

Es lo que la experiencia confirma: «las súplicas de los enfermos muy graves que alguna vez invocan la muerte no deben ser entendidas como expresión de una verdadera voluntad de eutanasia; estas en efecto son casi siempre peticiones angustiadas de asistencia y de afecto. Además de los cuidados médicos, lo que necesita el enfermo es el amor, el calor humano y sobrenatural, con el que pueden y deben rodearlo todos aquellos que están cercanos, padres e hijos, médicos y enfermeros».[49] El enfermo que se siente rodeado de una presencia amorosa, humana y cristiana, supera toda forma de depresión y no cae en la angustia de quien, en cambio, se siente solo y abandonado a su destino de sufrimiento y de muerte.

El hombre, en efecto, no vive el dolor solamente como un hecho biológico, que se gestiona para hacerlo soportable, sino como el misterio de la vulnerabilidad humana en relación con el final de la vida física, un acontecimiento difícil de aceptar, dado que la unidad de alma y cuerpo es esencial para el hombre.

Por eso, solo re-significando el acontecimiento mismo de la muerte – mediante la apertura en ella de un horizonte de vida eterna, que anuncia el destino trascendente de toda persona – el “final de la vida” se puede afrontar de una manera acorde a la dignidad humana y adecuada a aquella fatiga y sufrimiento que inevitablemente produce la sensación inminente del final. De hecho, «el sufrimiento es algo todavía más amplio que la enfermedad, más complejo y a la vez aún más profundamente enraizado en la humanidad misma».[50] Y este sufrimiento, con ayuda de la gracia, puede ser animado desde dentro con la caridad divina, como en el caso del sufrimiento de Cristo en la Cruz.

Por eso, la actitud de quien atiende a una persona afectada por una enfermedad crónica o en la fase terminal de la vida, debe ser aquella de “saber estar, velar con quien sufre la angustia del morir, “consolar”, o sea de ser-con en la soledad, de ser co-presencia que abre a la esperanza.[51] Mediante la fe y la caridad expresadas en la intimidad del alma la persona que cuida es capaz de sufrir el dolor del otro y de abrirse a una relación personal con el débil que amplía los horizontes de la vida más allá del acontecimiento de la muerte, transformándose así en una presencia llena de esperanza.

«Llorad con los que lloran» (Rm 12, 15), porque es feliz quien tiene compasión hasta llorar con los otros (cfr. Mt 5, 4). En esta relación, en la que se da la posibilidad de amar, el sufrimiento se llena de significado en el com-partir de una condición humana y con la solidaridad en el camino hacia Dios, que expresa aquella alianza radical entre los hombres[52] que les hace entrever una luz también más allá de la muerte. Ella nos hace ver el acto médico desde dentro de una alianza terapéuticaentre el médico y el enfermo, unidos por el reconocimiento del valor trascendente de la vida y del sentido místico del sufrimiento. Esta alianza es la luz para comprender el buen obrar médico, superando la visión individualista y utilitarista hoy predominante.

2.     La obligación moral de evitar el ensañamiento terapéutico

El Magisterio de la Iglesia recuerda que, cuando se acerca el término de la existencia terrena, la dignidad de la persona humana se concreta como derecho a morir en la mayor serenidad posible y con la dignidad humana y cristiana que le son debidas.[53] Tutelar la dignidad del morir significa tanto excluir la anticipación de la muerte como el retrasarla con el llamado “ensañamiento terapéutico”.[54] La medicina actual dispone, de hecho, de medios capaces de retrasar artificialmente la muerte, sin que el paciente reciba en tales casos un beneficio real. Ante la inminencia de una muerte inevitable, por lo tanto, es lícito en ciencia y en conciencia tomar la decisión de renunciar a los tratamientos que procurarían solamente una prolongación precaria y penosa de la vida, sin interrumpir todavía los cuidados normales debidos al enfermo en casos similares.[55] Esto significa que no es lícito suspender los cuidados que sean eficaces para sostener las funciones fisiológicas esenciales, mientras que el organismo sea capaz de beneficiarse (ayudas a la hidratación, a la nutrición, a la termorregulación y otras ayudas adecuadas y proporcionadas a la respiración, y otras más, en la medida en que sean necesarias para mantener la homeostasis corpórea y reducir el sufrimiento orgánico y sistémico). La suspensión de toda obstinación irrazonable en la administración de los tratamientos no debe ser una retirada terapéutica. Tal aclaración se hace hoy indispensable a la luz de los numerosos casos judiciales que en los últimos años han llevado a la retirada de los cuidados – y a la muerte anticipada – a pacientes en condiciones críticas, pero no terminales, a los cuales se ha decidido suspender los cuidados de soporte vital, porque no había perspectivas de una mejora en su calidad de vida.

En el caso específico del ensañamiento terapéutico, viene reafirmado que la renuncia a medios extraordinarios y/o desproporcionados «no equivale al suicidio o a la eutanasia; expresa más bien la aceptación de la condición humana ante la muerte»[56] o la elección ponderada de evitar la puesta en marcha de un dispositivo médico desproporcionado a los resultados que se podrían esperar. La renuncia a tales tratamientos, que procurarían solamente una prolongación precaria y penosa de la vida, puede también manifestar el respeto a la voluntad del paciente, expresada en las llamadas voluntades anticipadas de tratamiento, excluyendo sin embargo todo acto de naturaleza eutanásica o suicida.[57]

La proporcionalidad, de hecho, se refiere a la totalidad del bien del enfermo. Nunca se puede aplicar el falso discernimiento moral de la elección entre valores (por ejemplo, vida versus calidad de vida); esto podría inducir a excluir de la consideración la salvaguarda de la integridad personal y del bien-vida y el verdadero objeto moral del acto realizado.[58] En efecto, todo acto médico debe tener en el objeto y en las intenciones de quien obra el acompañamiento de la vida y nunca la consecución de la muerte[59]. En todo caso, el médico no es nunca un mero ejecutor de la voluntad del paciente o de su representante legal, conservando el derecho y el deber de sustraerse a la voluntad discordante con el bien moral visto desde la propia conciencia.[60]

3.     Los cuidados básicos: el deber de alimentación e hidratación

Principio fundamental e ineludible del acompañamiento del enfermo en condiciones críticas y/o terminales es la continuidad de la asistencia en sus funciones fisiológicas esenciales. En particular, un cuidado básico debido a todo hombre es el de administrar los alimentos y los líquidos necesarios para el mantenimiento de la homeostasis del cuerpo, en la medida en que y hasta cuando esta administración demuestre alcanzar su finalidad propia, que consiste en el procurar la hidratación y la nutrición del paciente.[61]

Cuando la administración de sustancias nutrientes y líquidos fisiológicos no resulte de algún beneficio al paciente, porque su organismo no está en grado de absorberlo o metabolizarlo, la administración viene suspendida. De este modo, no se anticipa ilícitamente la muerte por privación de las ayudas a la hidratación y a la nutrición, esenciales para las funciones vitales, sino que se respeta la evolución natural de la enfermedad crítica o terminal. En caso contrario, la privación de estas ayudas se convierte en una acción injusta y puede ser fuente de gran sufrimiento para quien lo padece. Alimentación e hidratación no constituyen un tratamiento médico en sentido propio, porque no combaten las causas de un proceso patológico activo en el cuerpo del paciente, sino que representan el cuidado debido a la persona del paciente, una atención clínica y humana primaria e ineludible. La obligatoriedad de este cuidado del enfermo a través de una apropiada hidratación y nutrición puede exigir en algunos casos el uso de una vía de administración artificial,[62] con la condición que esta no resulte dañina para el enfermo o provoque sufrimientos inaceptables para el paciente.[63]

4.     Los cuidados paliativos

De la continuidad de la asistencia forma parte el constante deber de comprender las necesidades del enfermo: necesidad de asistencia, de alivio del dolor, necesidades emotivas, afectivas y espirituales. Como se ha demostrado por la más amplia experiencia clínica, la medicina paliativa constituye un instrumento precioso e irrenunciable para acompañar al paciente en las fases más dolorosas, penosas, crónicas y terminales de la enfermedad. Los así llamados cuidados paliativos son la expresión más auténtica de la acción humana y cristiana del cuidado, el símbolo tangible del compasivo “estar” junto al que sufre. Estos tienen como objetivo «aliviar los sufrimientos en la fase final de la enfermedad y de asegurar al mismo paciente un adecuado acompañamiento humano”[64] digno, mejorándole – en la medida de lo posible – la calidad de vida y el completo bienestar. La experiencia enseña que la aplicación de los cuidados paliativos disminuye drásticamente el número de personas que piden la eutanasia. Por este motivo, parece útil un compromiso decidido, según las posibilidades económicas, para llevar estos cuidados a quienes tengan necesidad, para aplicarlos no solo en las fases terminales de la vida, sino como perspectiva integral de cuidado en relación a cualquier patología crónica y/o degenerativa, que pueda tener un pronóstico complejo, doloroso e infausto para el paciente y para su familia.[65]

La asistencia espiritual al enfermo, y a sus familiares, forma parte de los cuidados paliativos. Esta infunde confianza y esperanza en Dios al moribundo y a los familiares, ayudándoles a aceptar la muerte del pariente. Es una contribución esencial que compete a los agentes de pastoral y a toda la comunidad cristiana, con el ejemplo del Buen Samaritano, para que al rechazo le siga la aceptación, y sobre la angustia prevalezca la esperanza,[66] sobre todo cuando el sufrimiento se prolonga por la degeneración de la patología, al aproximarse el final. En esta fase, la prescripción de una terapia analgésica eficaz permite al paciente afrontar la enfermedad y la muerte sin miedo a un dolor insoportable. Este remedio estará asociado, necesariamente, a un apoyo fraternal que pueda vencer la sensación de soledad del paciente causada, con frecuencia, por no sentirse suficientemente acompañado y comprendido en su difícil situación.

La técnica no da una respuesta radical al sufrimiento y no se puede pensar que esta pueda llegar a eliminarlo de la vida de los hombres.[67] Una pretensión semejante genera una falsa esperanza, causando una desesperación todavía mayor en el que sufre. La ciencia médica es capaz de conocer cada vez mejor el dolor físico y debe poner en práctica los mejores recursos técnicos para tratarlo; pero el horizonte vital de una enfermedad terminal genera un sufrimiento profundo en el enfermo, que requiere una atención no meramente técnica. Spe salvi facti sumus, en la esperanza, teologal, dirigida hacia Dios, hemos sido salvados, dice San Pablo (Rm 8, 24).

“El vino de la esperanza” es la contribución específica de la fe cristiana en el cuidado del enfermo y hace referencia al modo como Dios vence el mal en el mundo. En el sufrimiento el hombre debe poder experimentar una solidaridad y un amor que asume el sufrimiento ofreciendo un sentido a la vida, que se extiende más allá de la muerte. Todo esto posee una gran relevancia social: «Una sociedad que no logra aceptar a los que sufren y no es capaz de contribuir mediante la compasión a que el sufrimiento sea compartido y sobrellevado, también interiormente, es una sociedad cruel e inhumana».[68]

Debe, sin embargo, precisarse que la definición de los cuidados paliativos ha asumido en años recientes una connotación que puede resultar equívoca. En algunos países del mundo, las legislaciones nacionales que regulan los cuidados paliativos (Palliative Care Act) así como las leyes sobre el “final de la vida” (End-of-Life Law), prevén, junto a los cuidados paliativos, la llamada Asistencia Médica a la Muerte (MAiD), que puede incluir la posibilidad de pedir la eutanasia y el suicidio asistido. Estas previsiones legislativas constituyen un motivo de confusión cultural grave, porque hacen creer que la asistencia médica a la muerte voluntaria sea parte integrante de los cuidados paliativos y que, por lo tanto, sea moralmente lícito pedir la eutanasia o el suicidio asistido.

Además, en estos mismos contextos legislativos, las intervenciones paliativas para reducir el sufrimiento de los pacientes graves o moribundos pueden consistir en la administración de fármacos dirigidos a anticipar la muerte o en la suspensión/interrupción de la hidratación y la alimentación, incluso cuando hay un pronóstico de semanas o meses. Sin embargo, estas prácticas equivalen a una acción u omisión directa para procurar la muerte y son por tanto ilícitas. La difusión progresiva de estas leyes, también a través de los protocolos de las sociedades científicas nacionales e internacionales, además de inducir a un número creciente de personas vulnerables a elegir la eutanasia o el suicidio, constituye una irresponsabilidad social frente a tantas personas, que solo tendrían necesidad de ser mejor atendidas y consoladas.

5.     El papel de la familia y los hospices

En el cuidado del enfermo terminal es central el papel de la familia.[69] En ella la persona se apoya en relaciones fuertes, viene apreciada por sí misma y no solo por su productividad o por el placer que pueda generar. En el cuidado es esencial que el enfermo no se sienta una carga, sino que tenga la cercanía y el aprecio de sus seres queridos. En esta misión, la familia necesita la ayuda y los medios adecuados. Es necesario, por tanto, que los Estados reconozcan la función social primaria y fundamental de la familia y su papel insustituible, también en este ámbito, destinando los recursos y las estructuras necesarias para ayudarla. Además, el acompañamiento humano y espiritual de la familia es un deber en las estructuras sanitarias de inspiración cristiana; nunca debe descuidarse, porque constituye una única unidad de cuidado con el enfermo.

Junto a la familia, la creación de los hospices, centros y estructuras donde acoger los enfermos terminales, para asegurar el cuidado hasta el último momento, es algo bueno y de gran ayuda. Después de todo, «la respuesta cristiana al misterio del sufrimiento y de la muerte no es una explicación sino una Presencia»[70] que se hace cargo del dolor, lo acompaña y lo abre a una esperanza confiada. Estas estructuras se ponen como ejemplo de humanidad en la sociedad, santuarios del dolor vivido con plenitud de sentido. Por esto deben estar equipadas con personal especializado y medios materiales específicos de cuidado, siempre abiertos a la familia: «A este respecto, pienso en lo bien que funcionan los hospices para los cuidados paliativos, en los que los enfermos terminales son acompañados con un apoyo médico, psicológico y espiritual cualificado, para que puedan vivir con dignidad, confortados por la cercanía de sus seres queridos, la fase final de su vida terrenal. Espero que estos centros continúen siendo lugares donde se practique con compromiso la “terapia de la dignidad”, alimentando así el amor y el respeto por la vida».[71] En estas situaciones, así como en cualquier estructura sanitaria católica, es necesaria la presencia de agentes sanitarios y pastorales preparados no solo bajo el perfil clínico, sino también practicantes de una verdadera vida teologal de fe y esperanza, dirigida hacia Dios, porque esta constituye la forma más elevada de humanización del morir.[72]

6.     El acompañamiento y el cuidado en la edad prenatal y pediátrica

En relación al acompañamiento de los neonatos y de los niños afectados de enfermedades crónicas degenerativas incompatibles con la vida, o en las fases terminales de la vida misma, es necesario reafirmar cuanto sigue, siendo conscientes de la necesidad de desarrollar una estrategia operativa capaz de garantizar calidad y bienestar al niño y a su familia.

Desde la concepción, los niños afectados por malformaciones o patologías de cualquier tipo son pequeños pacientes que la medicina hoy es capaz de asistir y acompañar de manera respetuosa con la vida. Su vida es sagrada, única, irrepetible e inviolable, exactamente como aquella de toda persona adulta.

En el caso de las llamadas patologías prenatales “incompatibles con la vida” – es decir que seguramente lo llevaran a la muerte dentro de un breve espacio de tiempo – y en ausencia de tratamientos fetales o neonatales capaces de mejorar las condiciones de salud de estos niños, de ninguna manera son abandonados en el plano asistencial, sino que son acompañados, como cualquier otro paciente, hasta la consecución de la muerte natural; el comfort care perinatal favorece, en este sentido, un proceso asistencial integrado, que, junto al apoyo de los médicos y de los agentes de pastoral sostiene la presencia constante de la familia. El niño es un paciente especial y requiere por parte del acompañante una preparación específica ya sea en términos de conocimiento como de presencia. El acompañamiento empático de un niño en fase terminal, que está entre los más delicados, tiene el objetivo de añadir vida a los años del niño y no años a su vida.

Especialmente, los Hospices Perinatales proporcionan un apoyo esencial a las familias que acogen el nacimiento de un hijo en condiciones de fragilidad. En tales casos, el acompañamiento médico competente y el apoyo de otras familias-testigos, que han pasado por la misma experiencia de dolor y de pérdida, constituyen un recurso esencial, junto al necesario acompañamiento espiritual de estas familias. Es un deber pastoral de los agentes sanitarios de inspiración cristiana trabajar para favorecer la máxima difusión de los mismos en el mundo.

Todo esto se revela especialmente importante en el caso de aquellos niños que, en el estado actual del conocimiento científico, están destinados a morir inmediatamente después del parto o en un corto periodo de tiempo. Cuidar a estos niños ayuda a los padres a elaborar el luto y a concebirlo no solo como una pérdida, sino como una etapa de un camino de amor recorrido junto al hijo.

Desafortunadamente, la cultura hoy dominante no promueve esta perspectiva: a nivel social, el uso a veces obsesivo del diagnóstico prenatal y el afirmarse de una cultura hostil a la discapacidad inducen, con frecuencia, a la elección del aborto, llegando a configurarlo como una práctica de “prevención”. Este consiste en la eliminación deliberada de una vida humana inocente y como tal nunca es lícito. Por lo tanto, el uso del diagnóstico prenatal con una finalidad selectiva es contrario a la dignidad de la persona y gravemente ilícito porque es expresión de una mentalidad eugenésica. En otros casos, después del nacimiento, la misma cultura lleva a suspender, o no iniciar, los cuidados al niño apenas nacido, por la presencia o incluso solo por la posibilidad que desarrolle en el futuro una discapacidad. También esta perspectiva, de matriz utilitarista, no puede ser aprobada. Un procedimiento semejante, además de inhumano, es gravemente ilícito desde el punto de vista moral.

Un principio fundamental de la asistencia pediátrica es que el niño en la fase final de la vida tiene el derecho al respeto y al cuidado de su persona, evitando tanto el ensañamiento terapéutico y la obstinación irrazonable como toda anticipación intencional de su muerte. En la perspectiva cristiana, el cuidado pastoral de un niño enfermo terminal reclama la participación a la vida divina en el Bautismo y la Confirmación.

En la fase terminal del recorrido de una enfermedad incurable, incluso si se suspenden las terapias farmacológicas o de otra naturaleza destinadas a luchar contra la patología que sufre el niño, porque no son apropiadas a su deteriorada condición clínica y son consideradas por los médicos como fútiles o excesivamente gravosas para él, en cuanto causa de un mayor sufrimiento, no deben reducirse los cuidados integrales del pequeño enfermo, en sus diversas dimensiones fisiológica, psicológica, afectivo-relacional y espiritual. Cuidar no significa solo poner en práctica una terapia o curar; así como interrumpir una terapia, cuando esta ya no beneficia al niño incurable, no implica suspender los cuidados eficaces para sostener las funciones fisiológicas esenciales para la vida del pequeño paciente, mientras su organismo sea capaz de beneficiarse (ayuda a la hidratación, a la nutrición, a la termorregulación y todavía otras, en la medida en que estas se requieran para sostener la homeostasis corporal y reducir el sufrimiento orgánico y sistémico). La abstención de toda obstinación terapéutica, en la administración de los tratamientos juzgados ineficaces, no debe ser una retirada terapéutica en los cuidados, sino que debe mantener abierto el camino de acompañamiento a la muerte. Se debe considerar, también, que las intervenciones rutinarias, como la ayuda a la respiración, se administren de manera indolora y proporcionada, personalizando sobre el paciente el tipo de ayuda adecuada, para evitar que la justa preocupación por la vida contraste con la imposición injusta de un dolor evitable.

En este contexto, la evaluación y la gestión del dolor físico del neonato y del niño son esenciales para respetarlo y acompañarlo en las fases más estresantes de la enfermedad. Los cuidados personalizados y delicados, que hoy en día se llevan a cabo en la asistencia clínica pediátrica, acompañados por la presencia de los padres, hacen posible una gestión integrada y más eficaz de cualquier intervención asistencial.

El mantenimiento del vínculo afectivo entre los padres y el hijo es parte integrante del proceso de cuidado. La relación de cuidado y de acompañamiento padre-niño viene favorecida con todos los instrumentos necesarios y constituye la parte fundamental del cuidado, también para las enfermedades incurables y las situaciones de evolución terminal. Además del contacto afectivo, no se debe olvidar el momento espiritual. La oración de las personas cercanas, por la intención del niño enfermo, tiene un valor sobrenatural que sobrepasa y profundiza la relación afectiva.

El concepto ético/jurídico del “mejor interés del niño” – hoy utilizado para efectuar la evaluación costes-beneficios de los cuidados que se lleven a cabo – de ninguna manera puede constituir el fundamento para decidir abreviar su vida con el objetivo de evitarle sufrimientos, con acciones u omisiones que por su naturaleza o en la intención se puedan configurar como eutanásicas. Como se ha dicho, la suspensión de terapias desproporcionadas no puede conducir a la supresión de aquellos cuidados básicos necesarios para acompañarlo a una muerte digna, incluidas aquellas para aliviar el dolor, y tampoco a la suspensión de aquella atención espiritual que se ofrece a quienes pronto se encontrarán con Dios.

7.     Terapias analgésicas y supresión de la conciencia

Algunos cuidados especializados requieren, por parte de los agentes sanitarios, una atención y competencias específicas para llevar a cabo la mejor práctica médica, desde el punto de vista ético, siempre conscientes de acercarse a las personas en su situación concreta de dolor.

Para disminuir los dolores del enfermo, la terapia analgésica utiliza fármacos que pueden causar la supresión de la conciencia (sedación). Un profundo sentido religioso puede permitir al paciente vivir el dolor como un ofrecimiento especial a Dios, en la óptica de la Redención;[73] sin embargo, la Iglesia afirma la licitud de la sedación como parte de los cuidados que se ofrecen al paciente, de tal manera que el final de la vida acontezca con la máxima paz posible y en las mejores condiciones interiores. Esto es verdad también en el caso de tratamientos que anticipan el momento de la muerte (sedación paliativa profunda en fase terminal),[74] siempre, en la medida de lo posible, con el consentimiento informado del paciente. Desde el punto de vista pastoral, es bueno cuidar la preparación espiritual del enfermo para que llegue conscientemente tanto a la muerte como al encuentro con Dios.[75] El uso de los analgésicos es, por tanto, una parte de los cuidados del paciente, pero cualquier administración que cause directa e intencionalmente la muerte es una práctica eutanásica y es inaceptable.[76] La sedación debe por tanto excluir, como su objetivo directo, la intención de matar, incluso si con ella es posible un condicionamiento a la muerte en todo caso inevitable.[77]

Se necesita aquí una aclaración en relación al contexto pediátrico: en el caso del niño incapaz de entender, como por ejemplo un neonato, no se debe cometer el error de suponer que el niño podrá soportar el dolor y aceptarlo, cuando existen sistemas para aliviarlo. Por eso, es un deber médico trabajar para reducir al máximo posible el sufrimiento del niño, de tal manera que pueda alcanzar la muerte natural en paz y pudiendo percibir lo mejor posible la presencia amorosa de los médicos y, sobre todo, de la familia.

8.     El estado vegetativo y el estado de mínima consciencia

Otras situaciones relevantes son la del enfermo con falta persistente de consciencia, el llamado “estado vegetativo”, y la del enfermo en estado “de mínima consciencia”. Es siempre engañoso pensar que el estado vegetativo, y el estado de mínima consciencia, en sujetos que respiran autónomamente, sean un signo de que el enfermo haya cesado de ser persona humana con toda la dignidad que le es propia.[78] Al contrario, en estos estados de máxima debilidad, debe ser reconocido en su valor y asistido con los cuidados adecuados. El hecho que el enfermo pueda permanecer por años en esta dolorosa situación sin una esperanza clara de recuperación implica, sin ninguna duda, un sufrimiento para aquellos que lo cuidan.

Puede ser útil recordar lo que nunca se puede perder de vista en relación con semejante situación dolorosa. Es decir, el paciente en estos estados tiene derecho a la alimentación y a la hidratación; alimentación e hidratación por vías artificiales son, en línea de principio, medidas ordinarias; en algunos casos, tales medidas pueden llegar a ser desproporcionadas, o porque su administración no es eficaz, o porque los medios para administrarlas crean una carga excesiva y provocan efectos negativos que sobrepasan los beneficios.

En la óptica de estos principios, el compromiso del agente sanitario no puede limitarse al paciente sino que debe extenderse también a la familia o a quien es responsable del cuidado del paciente, para quienes se debe prever también un oportuno acompañamiento pastoral. Por lo tanto, es necesario prever una ayuda adecuada a los familiares para llevar el peso prolongado de la asistencia al enfermo en estos estados, asegurándoles aquella cercanía que los ayude a no desanimarse y, sobre todo, a no ver como única solución la interrupción de los cuidados. Hay que estar adecuadamente preparados, y también es necesario que los miembros de la familia sean ayudados debidamente.

9.     La objeción de conciencia por parte de los agentes sanitarios y de las instituciones sanitarias católicas.

Ante las leyes que legitiman – bajo cualquier forma de asistencia médica – la eutanasia o el suicidio asistido, se debe negar siempre cualquier cooperación formal o material inmediata. Estas situaciones constituyen un ámbito específico para el testimonio cristiano, en las cuales «es necesario obedecer a Dios antes que a los hombres» (Hch 5, 29). No existe el derecho al suicidio ni a la eutanasia: el derecho existe para tutelar la vida y la coexistencia entre los hombres, no para causar la muerte. Por tanto, nunca le es lícito a nadie colaborar con semejantes acciones inmorales o dar a entender que se pueda ser cómplice con palabras, obras u omisiones. El único verdadero derecho es aquel del enfermo a ser acompañado y cuidado con humanidad. Solo así se custodia su dignidad hasta la llegada de la muerte natural. «Ningún agente sanitario, por tanto, puede erigirse en tutor ejecutivo de un derecho inexistente, aun cuando la eutanasia fuese solicitada con plena conciencia por el sujeto interesado».[79]

A este respecto, los principios generales referidos a la cooperación al mal, es decir a acciones ilícitas, son reafirmados: «Los cristianos, como todos los hombres de buena voluntad, están llamados, por un grave deber de conciencia, a no prestar su colaboración formal a aquellas prácticas que, aun permitidas por la legislación civil, se oponen a la Ley de Dios. En efecto, desde el punto de vista moral, nunca es lícito cooperar formalmente con el mal. Esta cooperación se produce cuando la acción realizada, o por su misma naturaleza o por la configuración que asume en un contexto concreto, se califica como colaboración directa en un acto contra la vida humana inocente o como participación en la intención moral del agente principal. Esta cooperación nunca puede justificarse invocando el respeto a la libertad de los demás, ni apoyarse en el hecho de que la ley civil la prevea y exija. En efecto, los actos que cada cual realiza personalmente tienen una responsabilidad moral, a la que nadie puede nunca substraerse y sobre la que todos y cada uno serán juzgados por Dios mismo (cfr. Rm 2, 6; 14, 12)».[80]

Es necesario que los Estados reconozcan la objeción de conciencia en ámbito médico y sanitario, en el respeto a los principios de la ley moral natural, y especialmente donde el servicio a la vida interpela cotidianamente la conciencia humana.[81]Donde esta no esté reconocida, se puede llegar a la situación de deber desobedecer a la ley, para no añadir injusticia a la injusticia, condicionando la conciencia de las personas. Los agentes sanitarios no deben vacilar en pedirla como derecho propio y como contribución específica al bien común.

Igualmente, las instituciones sanitarias deben superar las fuertes presiones económicas que a veces les inducen a aceptar la práctica de la eutanasia. Y donde la dificultad para encontrar los medios necesarios hiciese gravoso el trabajo de las instituciones públicas, toda la sociedad está llamada a un aumento de responsabilidad de tal manera que los enfermos incurables no sean abandonados a su suerte o a los únicos recursos de sus familiares. Todo esto requiere una toma de posición clara y unitaria por parte de las Conferencias Episcopales, las Iglesias locales, así como de las comunidades y de las instituciones católicas para tutelar el propio derecho a la objeción de conciencia en los contextos legislativos que prevén la eutanasia y el suicidio.

Las instituciones sanitarias católicas constituyen un signo concreto del modo con el que la comunidad eclesial, tras el ejemplo del Buen Samaritano, se hace cargo de los enfermos. El mandamiento de Jesús, “cuidad a los enfermos” (Lc 10, 9), encuentra su concreta actuación no solo imponiendo sobre ellos las manos, sino también recogiéndolos de la calle, asistiéndolos en sus propias casas y creando estructuras especiales de acogida y de hospitalidad. Fiel al mandamiento del Señor, la Iglesia ha creado, a lo largo de los siglos varias estructuras de acogida, donde la atención médica encuentra una específica declinación en la dimensión del servicio integral a la persona enferma.

Las instituciones sanitarias “católicas” están llamadas a ser fieles testigos de la irrenunciable atención ética por el respeto a los valores fundamentales y a aquellos cristianos constitutivos de su identidad, mediante la abstención de comportamientos de evidente ilicitud moral y la declarada y formal obediencia a las enseñanzas del Magisterio eclesial. Cualquier otra acción, que no corresponda a la finalidad y a los valores a los cuales las instituciones católicas se inspiran, no es éticamente aceptable y, por tanto, perjudica la atribución de la calificación de “católica”, a la misma institución sanitaria.

En este sentido, no es éticamente admisible una colaboración institucional con otras estructuras hospitalarias hacia las que orientar y dirigir a las personas que piden la eutanasia. Semejantes elecciones no pueden ser moralmente admitidas ni apoyadas en su realización concreta, aunque sean legalmente posibles. De hecho, las leyes que aprueban la eutanasia «no sólo no crean ninguna obligación de conciencia, sino que, por el contrario, establecen una grave y precisa obligación de oponerse a ellas mediante la objeción de conciencia. Desde los orígenes de la Iglesia, la predicación apostólica ha inculcado a los cristianos el deber de obedecer a las autoridades públicas legítimamente constituidas (cfr. Rm 13, 1-7, 1 P 2, 13-14), pero al mismo tiempo ha enseñado firmemente que “hay que obedecer a Dios antes que a los hombres” (Hch 5, 29)».[82]

El derecho a la objeción de conciencia no debe hacernos olvidar que los cristianos no rechazan estas leyes en virtud de una concepción religiosa privada, sino de un derecho fundamental e inviolable de toda persona, esencial para el bien común de toda la sociedad. Se trata, de hecho, de leyes contrarias al derecho natural en cuanto que minan los fundamentos mismos de la dignidad humana y de una convivencia basada en la justicia.

10.     El acompañamiento pastoral y el apoyo de los sacramentos

El momento de la muerte es un paso decisivo del hombre en su encuentro con Dios Salvador. La Iglesia está llamada a acompañar espiritualmente a los fieles en esta situación, ofreciéndoles los “recursos sanadores” de la oración y los sacramentos. Ayudar al cristiano a vivirlo en un contexto de acompañamiento espiritual es un acto supremo de caridad. Simplemente porque «ningún creyente debería morir en la soledad y en el abandono»,[83] es necesario crear en torno al enfermo una sólida plataforma de relaciones humanas y humanizadoras que lo acompañen y lo abran a la esperanza.

La parábola del Buen Samaritano indica cual debe ser la relación con el prójimo que sufre, que actitudes hay que evitar – indiferencia, apatía, prejuicio, miedo a mancharse las manos, encerrarse en sus propias preocupaciones – y cuales hay que poner en práctica – atención, escucha, comprensión, compasión, discreción.

La invitación a la imitación, «Ve y haz también tú lo mismo» (Lc 10, 37), es una llamada a no subestimar todo el potencial humano de presencia, de disponibilidad, de acogida, de discernimiento, de implicación, que la proximidad hacia quien está en una situación de necesidad exige y que es esencial en el cuidado integral de la persona enferma.

La calidad del amor y del cuidado de las personas en las situaciones críticas y terminales de la vida contribuye a alejar de ellas el terrible y extremo deseo de poner fin a la propia vida. Solo un contexto de calor humano y de fraternidad evangélica es capaz de abrir un horizonte positivo y de sostener al enfermo en la esperanza y en un confiado abandono.

Este acompañamiento forma parte de la ruta definida por los cuidados paliativos y debe incluir al paciente y a su familia.

La familia, desde siempre, ha tenido un papel importante en el cuidado, cuya presencia, apoyo, afecto, constituyen para el enfermo un factor terapéutico esencial. Ella, de hecho, recuerda el Papa Francisco, «ha sido siempre el “hospital” más cercano. Aún hoy, en muchas partes del mundo, el hospital es un privilegio para pocos, y a menudo está distante. Son la mamá, el papá, los hermanos, las hermanas, las abuelas quienes garantizan las atenciones y ayudan a sanar».[84]

El hacerse cargo del otro o el hacerse cargo de los sufrimientos de otros es una tarea que implica no solo a algunos, sino que abraza la responsabilidad de todos, de toda la comunidad cristiana. San Pablo afirma que, cuando un miembro sufre, todo el cuerpo está sufriendo (cfr. 1 Cor 12, 26) y todo entero se inclina sobre el miembro enfermo para darle alivio. Cada uno, por su parte, está llamado a ser “siervo del consuelo” frente a las situaciones humanas de desolación y desánimo.

El acompañamiento pastoral reclama el ejercicio de las virtudes humanas y cristianas de la empatía (en-pathos), de la compasión (cum-passio), del hacerse cargo del sufrimiento del enfermo compartiéndolo, y del consuelo (cum-solacium), del entrar en la soledad del otro para hacerle sentirse amado, acogido, acompañado, apoyado.

El ministerio de la escucha y del consuelo que el sacerdote está llamado a ofrecer, haciéndose signo de la solicitud compasiva de Cristo y de la Iglesia, puede y debe tener un papel decisivo. En esta importante misión es extremadamente importante testimoniar y conjugar aquella verdad y caridad con las que la mirada del Buen Pastor no deja de acompañar a todos sus hijos. Dada la importancia de la figura del sacerdote en el acompañamiento humano, pastoral y espiritual de los enfermos en las fases terminales de la vida, es necesario que en su camino de formación esté prevista una preparación actualizada y orientada en este sentido. También es importante que sean formados en este acompañamiento cristiano los médicos y los agentes sanitarios, porque pueden darse circunstancias específicas que hacen muy difícil una adecuada presencia de los sacerdotes a la cabecera del enfermo terminal.

Ser hombres y mujeres expertos en humanidad significa favorecer, a través de las actitudes con las que se cuida del prójimo que sufre, el encuentro con el Señor de la vida, el único capaz de verter, de manera eficaz, sobre las heridas humanas el aceite del consuelo y el vino de la esperanza.

Todo hombre tiene el derecho natural de ser atendido en esta hora suprema según las expresiones de la religión que profesa.

El momento sacramental es siempre el culmen de toda la tarea pastoral de cuidado que lo precede y fuente de todo lo que sigue.

La Iglesia llama sacramentos «de curación»[85] a la Penitencia y a la Unción de los enfermos, que culminan en la Eucaristía como “viático” para la vida eterna.[86] Mediante la cercanía de la Iglesia, el enfermo vive la cercanía de Cristo que lo acompaña en el camino hacia la casa del Padre (cfr. Jn 14, 6) y lo ayuda a no caer en la desesperación,[87] sosteniéndolo en la esperanza, sobre todo cuando el camino se hace más penoso.[88]

11.     El discernimiento pastoral hacia quien pide la eutanasia o el suicidio asistido

Un caso del todo especial en el que hoy es necesario reafirmar la enseñanza de la Iglesia es el acompañamiento pastoral de quien ha pedido expresamente la eutanasia o el suicidio asistido. Respecto al sacramento de la Reconciliación, el confesor debe asegurarse que haya contrición, la cual es necesaria para la validez de la absolución, y que consiste en el «dolor del alma y detestación del pecado cometido, con propósito de no pecar en adelante».[89] En nuestro caso nos encontramos ante una persona que, más allá de sus disposiciones subjetivas, ha realizado la elección de un acto gravemente inmoral y persevera en él libremente. Se trata de una manifiesta no-disposición para la recepción de los sacramentos de la Penitencia,[90] con la absolución, y de la Unción,[91] así como del Viático.[92] Podrá recibir tales sacramentos en el momento en el que su disposición a cumplir los pasos concretos permita al ministro concluir que el penitente ha modificado su decisión. Esto implica también que una persona que se haya registrado en una asociación para recibir la eutanasia o el suicidio asistido debe mostrar el propósito de anular tal inscripción, antes de recibir los sacramentos. Se recuerda que la necesidad de posponer la absolución no implica un juicio sobre la imputabilidad de la culpa, porque la responsabilidad personal podría estar disminuida o incluso no existir.[93] En el caso en el que el paciente estuviese desprovisto de conciencia, el sacerdote podría administrar los sacramentos sub condicione si se puede presumir el arrepentimiento a partir de cualquier signo dado con anterioridad por la persona enferma.

Esta posición de la Iglesia no es un signo de falta de acogida al enfermo. De hecho, debe ser el ofrecimiento de una ayuda y de una escucha siempre posible, siempre concedida, junto a una explicación profunda del contenido del sacramento, con el fin de dar a la persona, hasta el último momento, los instrumentos para poder escogerlo y desearlo. La Iglesia está atenta a escrutar los signos de conversión suficientes, para que los fieles puedan pedir razonablemente la recepción de los sacramentos. Se recuerda que posponer la absolución es también un acto medicinal de la Iglesia, dirigido, no a condenar al pecador, sino a persuadirlo y acompañarlo hacia la conversión.

También en el caso en el que una persona no se encuentre en las disposiciones objetivas para recibir los sacramentos, es necesaria una cercanía que invite siempre a la conversión. Sobre todo si la eutanasia, pedida o aceptada, no se lleva a cabo en un breve periodo de tiempo. Se tendrá entonces la posibilidad de un acompañamiento para hacer renacer la esperanza y modificar la elección errónea, y que el enfermo se abra al acceso a los sacramentos.

Sin embargo, no es admisible por parte de aquellos que asisten espiritualmente a estos enfermos ningún gesto exterior que pueda ser interpretado como una aprobación de la acción eutanásica, como por ejemplo el estar presentes en el instante de su realización. Esta presencia solo puede interpretarse como complicidad. Este principio se refiere de manera particular, pero no solo, a los capellanes de las estructuras sanitarias donde puede practicarse la eutanasia, que no deben dar escándalo mostrándose de algún modo cómplices de la supresión de una vida humana.

12.     La reforma del sistema educativo y la formación de los agentes sanitarios

En el contexto social y cultural actual, tan denso en desafíos en relación con la tutela de la vida humana en las fases más críticas de la existencia, el papel de la educación es ineludible. La familia, la escuela, las demás instituciones educativas y las comunidades parroquiales deben trabajar con perseverancia para despertar y madurar aquella sensibilidad hacia el prójimo y su sufrimiento, de la que se ha convertido en símbolo la figura evangélica del Samaritano.[94]

A las capellanías hospitalarias se les pide ampliar la formación espiritual y moral de los agentes sanitarios, incluidos médicos y personal de enfermería, así como de los grupos de voluntariado hospitalario, para que sepan dar la atención humana y espiritual necesaria en las fases terminales de la vida. El cuidado psicológico y espiritual del paciente durante toda la evolución de la enfermedad debe ser una prioridad para los agentes pastorales y sanitarios, teniendo cuidado de poner en el centro al paciente y a su familia.

Los cuidados paliativos deben difundirse en el mundo y es obligatorio preparar, para tal fin, los cursos universitarios para la formación especializada de los agentes sanitarios. También es prioritaria la difusión de una correcta y meticulosa información sobre la eficacia de los auténticos cuidados paliativos para un acompañamiento digno de la persona hasta la muerte natural. Las instituciones sanitarias de inspiración cristiana deben preparar protocolos para sus agentes sanitarios que incluyan una apropiada asistencia psicológica, moral y espiritual como componente esencial de los cuidados paliativos.

La asistencia humana y espiritual debe volver a entrar en los recorridos formativos académicos de todos los agentes sanitarios y en las prácticas hospitalarias.

Además de todo esto, las estructuras sanitarias y asistenciales deben preparar modelos de asistencia psicológica y espiritual para los agentes sanitarios que tienen a su cargo los pacientes en las fases terminales de la vida humana. Hacerse cargo de quienes cuidan es esencial para evitar que sobre los agentes y los médicos recaiga todo el peso (burn out) del sufrimiento y de la muerte de los pacientes incurables. Estos tienen necesidad de apoyo y de momentos de discusión y de escucha adecuados para poder procesar no solo valores y emociones, sino también el sentido de la angustia, del sufrimiento y de la muerte en el ámbito de su servicio a la vida. Tienen que poder percibir el sentido profundo de la esperanza y la conciencia que su misión es una verdadera vocación a apoyar y acompañar el misterio de la vida y de la gracia en las fases dolorosas y terminales de la existencia.[95]

Conclusión

El misterio de la Redención del hombre está enraizado de una manera sorprendente en el compromiso amoroso de Dios con el sufrimiento humano. Por eso podemos fiarnos de Dios y trasmitir esta certeza en la fe al hombre sufriente y asustado por el dolor y la muerte.

El testimonio cristiano muestra como la esperanza es siempre posible, también en el interior de la cultura del descarte. «La elocuencia de la parábola del buen Samaritano, como también la de todo el Evangelio, es concretamente esta: el hombre debe sentirse llamado personalmente a testimoniar el amor en el sufrimiento».[96]

La Iglesia aprende del Buen Samaritano el cuidado del enfermo terminal y obedece así el mandamiento unido al don de la vida: «¡respeta, defiende, ama y sirve a la vida, a toda vida humana!».[97] El evangelio de la vida es un evangelio de la compasión y de la misericordia dirigido al hombre concreto, débil y pecador, para levantarlo, mantenerlo en la vida de la gracia y, si es posible, curarlo de toda posible herida.

No basta, sin embargo, compartir el dolor, es necesario sumergirse en los frutos del Misterio Pascual de Cristo para vencer el pecado y el mal, con la voluntad de «desterrar la miseria ajena como si fuese propia».[98] Sin embargo, la miseria más grande es la falta de esperanza ante la muerte. Esta es la esperanza anunciada por el testimonio cristiano que, para ser eficaz, debe ser vivida en la fe implicando a todos, familiares, enfermeros, médicos, y la pastoral de las diócesis y de los hospitales católicos, llamados a vivir con fidelidad el deber de acompañar a los enfermos en todas las fases de la enfermedad, y en particular, en las fases críticas y terminales de la vida, así como se ha definido en el presente documento.

El Buen Samaritano, que pone en el centro de su corazón el rostro del hermano en dificultad, sabe ver su necesidad, le ofrece todo el bien necesario para levantarlo de la herida de la desolación y abrir en su corazón hendiduras luminosas de esperanza.

El “querer el bien” del Samaritano, que se hace prójimo del hombre herido no con palabras ni con la lengua, sino con los hechos y en la verdad (cfr. 1 Jn 3, 18), toma la forma de cuidado, con el ejemplo de Cristo que pasó haciendo el bien y sanando a todos (cfr. Hch 10, 38).

Curados por Jesús, nos transformamos en hombres y mujeres llamados a anunciar su potencia sanadora, a amar y a hacernos cargo del prójimo como él nos ha enseñado.

Esta vocación al amor y al cuidado del otro,[99] que lleva consigo ganancias de eternidad, se anuncia de manera explícita por el Señor de la vida en esta paráfrasis del juicio final: recibid en heredad el reino, porque estaba enfermo y me habéis visitado. ¿Cuándo, Señor? Todas las veces que habéis hecho esto con un hermano vuestro más pequeño, a un hermano vuestro que sufre, lo habéis hecho conmigo (cfr. Mt 25, 31-46).

El Sumo Pontífice Francisco, en fecha 25 de junio de 2020 ha aprobado esta Carta, decidida en la Sesión Plenaria de esta Congregación el 29 de enero de 2020, y ha ordenado su publicación.

Dada en Roma, desde la sede de la Congregación para la Doctrina de la Fe, el 14 de julio de 2020, memoria litúrgica de san Camilo de Lelis.

Luis F. Card. LADARIA, S.I.
Prefecto

 Giacomo MORANDI
Arzobispo Titular de Cerveteri
Secretario

__________________

[1] Misal Romano reformado por mandato del Concilio Ecuménico Vaticano II, promulgado por la autoridad del papa Pablo VI, revisado por el papa Juan Pablo II, Conferencia Episcopal Española, Madrid 2017, Prefacio común VIII, p. 515.

[2] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, Ed. Salterrae, Maliaño (Cantabria – España) 2017, n. 6.

[3] Benedicto XVI, Carta Enc. Spes salvi (30 noviembre 2007), n. 22: AAS 99 (2007), 1004: «Si el progreso técnico no se corresponde con un progreso en la formación ética del hombre, con el crecimiento del hombre interior (cfr. Ef 3, 16; 2 Cor 4, 16), no es un progreso sino una amenaza para el hombre y para el mundo».

[4] Cfr. Francisco, Discurso a la Asociación Italiana contra las leucemias-linfomas y mielomas (AIL) (2 marzo 2019): L’Osservatore Romano, 3 marzo 2019, 7.

[5] Francisco, Exhort. Ap. Amoris laetitia (19 marzo2016), n. 3: AAS 108 (2016), 312.

[6] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Const. Past. Gaudium et spes (7 diciembre 1965), n. 10: AAS 58 (1966), 1032-1033.

[7] Cfr. Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 4: AAS 76 (1984), 203.

[8] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 144.

[9] Francisco, Mensaje para la XLVIII Jornada Mundial de las Comunicaciones Sociales (24 enero 2014): AAS 106 (2014), 114.

[10] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 87: AAS 87 (1995), 500.

[11] Cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Centesimus annus (1 mayo 1991), n. 37: AAS 83 (1991), 840.

[12] Juan Pablo II, Carta Enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), n. 50; AAS 85 (1993), 1173.

[13] Juan Pablo II, Discurso a los participantes al Congreso Internacional sobre “Los tratamientos de soporte vital y estado vegetativo. Progresos científicos y dilemas éticos” (20 marzo 2004), n. 7: AAS 96 (2004), 489.

[14] Cfr. Congregación para la Doctrina de la Fe, Carta Placuit Deo (22 febrero 2018), n. 6: AAS 110 (2018), 430.

[15] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 9.

[16] Cfr. Pablo VI, Mensaje en la última sesión pública del Concilio (7 diciembre 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[17] Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 9.

[18] Congregación para la Doctrina de la Fe, Carta Placuit Deo (22 febrero 2018), n. 12: AAS 110 (2018), 433-434.

[19] Francisco, Discurso a los participantes en la Asamblea Plenaria de la Congregación para la Doctrina de la Fe (30 enero 2020): L’Osservatore Romano, 31 enero 2020, 7.

[20] Benedicto XVI, Carta Enc. Deus caritas est (25 diciembre 2005), n. 31: AAS 98 (2006), 245.

[21] Benedicto XVI, Carta Enc. Caritas in veritate (29 junio 2009), n. 76: AAS 101 (2009), 707.

[22] Cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 49: AAS 87 (1995), 455: «El sentido más verdadero y profundo de la vida: ser un don que se realiza al darse».

[23] Conc. Ecum. Vat. II, Const. Dogm. Dei Verbum (8 noviembre 1965), n. 2: AAS 58 (1966), 818.

[24] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 34: AAS 87 (1995), 438.

[25] Cfr. Declaración conjunta de las Religiones Monoteístas Abrahámicas sobre las cuestiones del final de la vida, Ciudad del Vaticano, 28 octubre 2019: «Nos oponemos a cualquier forma de eutanasia -que es el acto directo, deliberado e intencional de quitar la vida - así como al suicidio médicamente asistido - que es el apoyo directo, deliberado e intencional para suicidarse porque contradicen fundamentalmente el valor inalienable de la vida humana y, por lo tanto, son inherente y consecuentemente erróneos desde el punto de vista moral y religioso, y deben ser prohibidos sin excepciones».

[26] Cfr. Francisco, Discurso al Congreso de la Asociación de Médicos Católicos Italianos en el 70 aniversario de su fundación (15 noviembre 2014): AAS 106 (2014), 976.

[27] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 1; Congregación para la Doctrina de la Fe, Instr. Dignitas personae (8 septiembre 2008), n. 8: AAS 100 (2008), 863.

[28] Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), n. 65: AAS 107 (2015), 873.

[29] Con. Ecum. Vat. II, Const. Past. Gaudium et spes (7 diciembre 1965), n. 27: AAS 58 (1966), 1047-1048.

[30] Francisco, Discurso al Congreso de la Asociación de Médicos Católicos Italianos en el 70 aniversario de su fundación (15 noviembre 2014): AAS 106 (2014), 976.

[31] Cfr. Francisco, Discurso a la Federación Nacional de las Ordenes de Médicos Cirujanos y de los Odontólogos (20 septiembre 2019): L’Osservatore Romano, 21 septiembre 2019, 8: «Son formas apresuradas de tratar opciones que no son, como podría parecer, una expresión de la libertad de la persona, cuando incluyen el descarte del enfermo como una posibilidad, o la falsa compasión frente a la petición de que se le ayude a anticipar la muerte».

[32] Congregación para la Doctrina de la Fe, Carta Placuit Deo (22 febrero 2018), n. 3: AAS 110 (2018), 428-429; cfr.Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), n.162: AAS 107 (2015), 912.

[33] Benedicto XVI, Carta Enc. Caritas in veritate (29 junio 2009), n. 53: AAS 101 (2009), 688: «Una de las pobrezas más hondas que el hombre puede experimentar es la soledad. Ciertamente, también las otras pobrezas, incluidas las materiales, nacen del aislamiento, del no ser amados o de la dificultad de amar».

[34] Cfr. Francisco, Exhort. Ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), n. 53: AAS 105 (2013), 1042; se puede ver también: Id., Discurso a la delegación del Instituto “Dignitatis Humanae” (7 diciembre 2013): AAS 106 (2014) 14-15; Id., Encuentro con los ancianos (28 septiembre 2014): AAS 106 (2014), 759-760.

[35] Cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 12: AAS 87 (1995), 414.

[36] Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[37] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; cfr. Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[38] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 477. Es una doctrina propuesta de modo definitivo en la cual la Iglesia compromete su infalibilidad: cfr. Congragación para la Doctrina de la Fe, Nota doctrinal ilustrativa de la fórmula conclusiva de la Professio fidei (29 junio 1998), n. 11: AAS 90 (1998), 550.

[39] Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[40] Cfr. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2286.

[41] Cfr. ibidem, nn. 1735 y 2282.

[42] Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[43] Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 169.

[44] Cfr. ibidem, n. 170.

[45] Cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 72: AAS 87 (1995), 484-485.

[46] Francisco, Discurso a los participantes en la Asamblea Plenaria de la Congregación para la Doctrina de la Fe (30 enero 2020): L’Osservatore Romano, 31 enero 2020, 7.

[47] Juan Pablo II, Carta Enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), n. 15; AAS 85 (1993), 1145.

[48] Cfr. Benedicto XVI, Carta Enc. Spes salvi (30 noviembre 2007), nn. 36-37: AAS 99 (2007), 1014-1016.

[49] Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[50] Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 5: AAS 76 (1984), 204.

[51] Cfr. Benedicto XVI, Carta. Enc. Spe salvi (30 noviembre 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[52] Cfr. Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244: «No puede el hombre “prójimo” pasar con desinterés ante el sufrimiento ajeno, en nombre de la fundamental solidaridad humana; y mucho menos en nombre del amor al prójimo. Debe “pararse”, “conmoverse”, actuando como el Samaritano de la parábola evangélica. La parábola en sí expresa una verdad profundamente cristiana, pero a la vez tan universalmente humana».

[53] Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), IV: AAS 72 (1980), 549-551.

[54] Cfr. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2278; Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Carta de los Agentes sanitarios, Ciudad del Vaticano, 1995, n. 119; Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Francisco, Mensaje a los participantes en la reunión de la región europea de la Asociación Médica Mundial (7 noviembre 2017): «Y si sabemos que no siempre se puede garantizar la curación de la enfermedad, a la persona que vive debemos y podemos cuidarla siempre: sin acortar su vida nosotros mismos, pero también sin ensañarnos inútilmente contra su muerte»; Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 149.

[55] Cfr. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2278; Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), IV: AAS 72 (1980), 550-551; Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 150.

[56] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[57] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 150.

[58] Cfr. Juan Pablo II, Discurso a los participantes en un encuentro de estudio sobre la procreación responsable (5 junio 1987), n.1: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/2 (1987), 1962: «Hablar de “conflicto de valores o bienes” y de la consiguiente necesidad de llevar a cabo como una especie de “equilibrio” de los mismos, eligiendo uno y rechazando el otro, no es moralmente correcto».

[59] Cfr. Juan Pablo II, Discurso a la Asociación de Médicos Católicos Italianos (28 diciembre 1978): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I (1978), 438.

[60] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 150.

[61] Cfr. Congregación para la Doctrina de la Fe, Respuesta a algunas preguntas de la Conferencia Episcopal Estadounidense acerca de la alimentación y la hidratación artificiales (1 agosto 2007): AAS 99 (2007), 820.

[62] Cfr. ibidem.

[63] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 152: «La alimentación y la hidratación, aun artificialmente administradas, son parte de los tratamientos normales que siempre han de proporcionarse al moribundo, cuando no resulten demasiados gravosos o de ningún beneficio para él. Su indebida suspensión significa verdadera y propia eutanasia. “Suministrar alimento y agua, incluso por vía artificial, es, en principio, un medio ordinario y proporcionado para la conservación de la vida. Por lo tanto, es obligatorio en la medida y mientras se demuestre que cumple su propia finalidad, que consiste en procurar la hidratación y la nutrición del paciente. De este modo se evitan el sufrimiento y la muerte derivados de la inanición y la deshidratación”».

[64] Francisco, Discurso a la plenaria de la Pontificia Academia para la Vida (5 marzo 2015): AAS 107 (2015), 274, citando a: Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476. Cfr. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2279.

[65] Cfr. [65] Francisco, Discurso a la Plenaria de la Pontificia Academia para la Vida (5 marzo 2015): AAS 107 (2015), 275.

[66] Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 147.

[67] Cfr. Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 2: AAS 76 (1984), 202: «El sufrimiento parece pertenecer a la trascendencia del hombre; es uno de esos puntos en los que el hombre está en cierto sentido “destinado” a superarse a sí mismo, y de manera misteriosa es llamado a hacerlo».

[68] Benedicto XVI, Carta. Enc. Spe salvi (30 noviembre 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[69] Cfr. Francisco, Exhort. Ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 48: AAS 108 (2016), 330.

[70] C. Saunders, Velad conmigo. Inspiración para una vida en cuidados paliativos. Ed. Obra Social de la Caixa, 2011, p. 56.

[71] Francisco, Discurso a los participantes a la Asamblea Plenaria de la Congregación para la Doctrina de la Fe (30 enero 20202): L’Osservatore Romano, 31 enero 2020, 7.

[72] Cfr. Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 148.

[73] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febrero 1957): AAS 49 (1957) 134-136; Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), III: AAS 72 (1980), 547; Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 19: AAS 76 (1984), 226.

[74] Cfr. Pio XII, Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico » indicto (9 septiembre 1958): AAS 50 (1958), 694; Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2779; Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 155: «Se da, además, la posibilidad de provocar con los analgésicos y los narcóticos la supresión de la conciencia del moribundo. Este uso merece una consideración particular. En presencia de dolores insoportables, resistentes a las terapias analgésicas habituales, en proximidad del momento de la muerte o en la previsión fundada de una crisis particular en ese momento, una seria indicación clínica puede conllevar, con el consentimiento del enfermo, el suministro de fármacos que suprimen la conciencia. Esta sedación paliativa profunda en la fase terminal, clínicamente fundamentada, puede ser moralmente aceptable siempre que se realice con el consenso del enfermo, se informe a los familiares, se excluya toda intencionalidad eutanásica y el enfermo haya podido satisfacer sus deberes morales, familiares y religiosos: “acercándose a la muerte, los hombres deben estar en condiciones de poder cumplir sus obligaciones morales y familiares y, sobre todo, deben poder prepararse con plena conciencia para el encuentro definitivo con Dios”. Por consiguiente, “no es lícito privar al moribundo de la conciencia propia sin grave motivo”».

[75] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febrero 1957): AAS 49 (1957) 145; Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Juan Pablo II,Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[76] Cfr. Francisco, Discurso al Congreso de la Asociación de Médicos Católicos Italianos en el 70 aniversario de su fundación (15 noviembre 2014): AAS 106 (2014), 978.

[77] Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 febrero 1957): AAS 49 (1957) 146; Id., Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali. Romae habito, a «Collegio Internationali Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 septiembre 1958): AAS 50 (1958), 695; Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2779; Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476; Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 154.

[78] Cfr. Juan Pablo II, Discurso a los participantes al Congreso Internacional sobre «Los tratamientos de soporte vital y estado vegetativo. Progresos científicos y dilemas éticos» (20 marzo 2004), n. 3: AAS 96 (2004), 487: «Un hombre, aunque esté gravemente enfermo o se halle impedido en el ejercicio de sus funciones más elevadas, es y será siempre un hombre; jamás se convertirá en un “vegetal” o en un “animal”».

[79] Pontificio Consejo para los Agentes Sanitarios, Nueva carta de los Agentes sanitarios, n. 151.

[80] Ibidem, n. 151; cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 74: AAS 87 (1995), 487.

[81] Cfr. Francisco, Discurso al Congreso de la Asociación de Médicos Católicos Italianos en el 70 aniversario de su fundación (15 noviembre 2014): AAS 106 (2014), 977.

[82] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 73 AAS 87 (1995), 486.

[83] Benedicto XVI, Discurso a los participantes al Congreso de la Pontificia Academia para la Vida sobre el tema “Junto al enfermo incurable y al moribundo: orientaciones éticas y operativas” (25 febrero 2008): AAS 100 (2008), 171.

[84] Francisco, Audiencia General (10 junio 2015): L’Osservatore Romano, 11 junio 2015, 8.

[85] Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1420.

[86] Cfr. Rituale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instaruratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio typica, Praenotanda, Typis Polyglotis Vaticanis, Civitate Vaticana 1972, n. 26; Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1524.

[87] Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), n. 235: AAS 107 (2015), 939.

[88] Cfr. Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 67: AAS 87 (1995), 478-479.

[89] Concilio de Trento, Ses. XIV, De sacramento penitentiae, cap. 4: DH 1676.

[90] Cfr. CIC, can. 987.

[91] Cfr. CIC, can. 1007: «No se dé la unción de los enfermos a quienes persisten obstinadamente en un pecado grave manifiesto».

[92] Cfr. CIC, can. 915 y can. 843 § 1.

[93] Cfr. Congregación para la Doctrina de la Fe, Declarac. Iura et bona (5 mayo 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[94] Cfr. Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244-246.

[95] Cfr. Francisco, Discurso a los presidentes de los Colegios de Médicos de España e Hispanoamérica (9 junio 2016): AAS108 (2016), 727-728. «La fragilidad el dolor y la enfermedad son una dura prueba para todos, también para el personal médico, son un llamado a la paciencia, al padecer-con; por ello no se puede ceder a la tentación funcionalista de aplicar soluciones rápidas y drásticas, movidos por una falsa compasión o por meros criterios de eficacia y ahorro económico. Está en juego la dignidad de la vida humana; está en juego la dignidad de la vocación médica».

[96] Juan Pablo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 febrero 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 246.

[97] Juan Pablo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 5: AAS 87 (1995), 407.

[98] Santo Tomás de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3.

[99] Cfr. Benedicto XVI, Carta. Enc. Spe salvi (30 noviembre 2007), n. 39: AAS 99 (2007), 1016: «Sufrir con el otro, por los otros; sufrir por amor de la verdad y de la justicia; sufrir a causa del amor y con el fin de convertirse en una persona que ama realmente, son elementos fundamentales de humanidad, cuya pérdida destruiría al hombre mismo».

[01077-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

 

Congregação para a Doutrina da Fé

Carta
Samaritanus Bonus

Sobre o cuidado das pessoas nas fases críticas e terminais da vida

Introdução

O Bom Samaritano que deixa o seu caminho para socorrer o homem doente (cfr. Lc 10, 30-37) é a imagem de Jesus Cristo que encontra o homem necessitado de salvação e cuida das suas feridas e da sua dor com «o óleo da consolação e o vinho da esperança»[1]. Ele é o médico das almas e dos corpos e «a testemunha fiel» (Ap 3, 14) da Presença salvífica de Deus no mundo. Mas como tornar concreta hoje esta mensagem? Como traduzi-la em capacidade de acompanhamento da pessoa doente nas fases terminais da vida, de modo a assisti-la respeitando e promovendo sempre a sua inalienável dignidade humana, o seu chamado à santidade e, por conseguinte, o valor supremo da sua própria existência?

O extraordinário e progressivo desenvolvimento das tecnologias biomédicas aumentou de maneira exponencial as capacidades clínicas da medicina no diagnóstico, na terapia e no cuidado dos pacientes. A Igreja olha com esperança as pesquisas científicas e tecnológicas e nelas vê uma oportunidade favorável de serviço ao bem integral da vida e da dignidade de cada ser humano[2]. Todavia, esses progressos da tecnologia médica, ainda que preciosos, não são por si mesmos determinantes para qualificar o sentido próprio e o valor da vida humana. De fato, cada progresso nas habilidades dos profissionais da saúde requer uma crescente e sábia capacidade de discernimento moral[3] para evitar a utilização desproporcional e desumanizante das tecnologias, sobretudo nas fases críticas ou terminais da vida humana.

Além disso, a gestão organizativa e as elevadas articulação e complexidade dos sistemas sanitários contemporâneos podem reduzir o vínculo de confiança entre médico e paciente a uma relação meramente técnica e contratual, um risco que se corre sobretudo nos Países onde estão sendo aprovadas leis que legitimam formas de suicídio assistido e eutanásia voluntária dos doentes mais vulneráveis. Essas práticas negam os confins éticos e jurídicos da autodeterminação do sujeito doente, obscurecendo de maneira preocupante o valor da vida humana na doença, o sentido do sofrimento e o significado do tempo que precede a morte. Com efeito, a dor e a morte não podem ser os critérios últimos que medem a dignidade humana, a qual é própria de cada pessoa pelo simples fato de que é um “ser humano”.

Frente a tais desafios, capazes de colocar em jogo o nosso modo de pensar a medicina, o sentido do cuidado da pessoa doente e a responsabilidade social em relação aos mais vulneráveis, o presente documento deseja iluminar os pastores e os fieis nas suas preocupações e nas suas dúvidas acerca da assistência médica, espiritual e pastoral devida aos doentes nas fases críticas e terminais da vida. Todos são chamados a dar testemunho junto ao doente e a tornar-se “comunidade curante”, para que o desejo de Jesus, de que todos sejam uma só carne, a partir dos mais fracos e vulneráveis, seja atuado concretamente[4]. De fato, percebe-se em toda parte a necessidade de um esclarecimento moral e de índole prática sobre como assistir estas pessoas, já que «é necessária uma unidade de doutrina e de práxis»[5] a respeito de um tema tão delicado e que se refere aos doentes mais fracos, nos estágios mais delicados e decisivos da vida de uma pessoa.

Diversas Conferências Episcopais já publicaram documentos e cartas pastorais, com que procuraram dar uma resposta aos desafios postos pelo suicídio assistido e pela eutanásia voluntária – legitimados por algumas normativas nacionais – com particular referência a quantos trabalham ou são internados nas estruturas hospitalares, inclusive católicas. Mas a assistência espiritual e as dúvidas emergentes, em determinadas circunstâncias e em contextos particulares, acerca da celebração dos Sacramentos para aqueles que desejam pôr fim à própria vida, requerem hoje uma intervenção mais clara e puntual da Igreja, a fim de:

- reafirmar a mensagem do Evangelho e as suas expressões como fundamentos doutrinais propostos pelo Magistério, relembrando a missão de quantos estão em contato com os doentes nas fases críticas e terminais (os familiares ou os tutores legais, os capelães hospitalares, os ministros extraordinários da Eucaristia e os agentes de pastoral, os voluntários e os profissionais da saúde), além dos próprios doentes;

- fornecer orientações pastorais precisas e concretas, a fim de que em nível local se possam enfrentar e gerir essas complexas situações, para favorecer o encontro pessoal do paciente com o Amor misericordioso de Deus.

I. Cuidar do Próximo

É difícil reconhecer o profundo valor da vida humana quando, não obstante todo esforço de assistência, ela continua a se nos apresentar na sua fraqueza e fragilidade. O sofrimento, longe de ser removido do horizonte existencial da pessoa, continua a gerar uma inexaurível pergunta sobre o sentido do viver[6]. A solução desta dramática interrogação não poderá jamais ser oferecida somente à luz do pensamento humano, já que o sofrimento contém a grandeza de um específico mistério que somente a Revelação de Deus pode desvelar[7]. Em particular, a cada profissional da saúde é confiada a missão de um fiel cuidado da vida humana até o seu cumprimento natural[8], através de um percurso de assistência que seja capaz de fazer renascer em cada paciente o sentido profundo de sua existência, quando é marcada pelo sofrimento e pela doença. Mostra-se necessário, para isso, partir de uma atenta consideração do significado próprio do cuidado, para compreender o sentido da específica missão confiada por Deus a cada pessoa, profissional da saúde e agente de pastoral, como também ao próprio doente e à sua família.

A experiência do cuidado médico parte daquela condição humana, marcada pela finitude e pelo limite, que é a vulnerabilidade. Em relação à pessoa, ela se insere na fragilidade do nosso ser conjuntamente – “corpo”, material e temporalmente finito, e “alma”, desejo de infinito e destinação à eternidade. O fato de sermos criaturas “finitas”, porém destinadas à eternidade, revela seja a nossa dependência dos bens materiais e da ajuda recíproca dos outros, seja o nosso liame originário e profundo com Deus. Tal vulnerabilidade dá fundamento à ética do cuidado, de modo particular no âmbito da medicina, entendida como solicitude, premura, participação e responsabilidade para com as mulheres e os homens que nos são confiados porque necessitados de assistência física e espiritual.

Em particular, a relação de cuidado revela um princípio de justiça, na sua dúplice dimensão de promoção da vida humana (suum cuique tribuere) e de não causar dano à pessoa (alterum non laedere): o mesmo princípio que Jesus transforma na regra de ouro positiva – «Tudo quanto quiserdes que os homens vos façam, fazei-o vós a eles» (Mt 7, 12). É a regra que na ética médica tradicional encontra um eco no aforisma primum non nocere.

O cuidado da vida é pois a primeira responsabilidade que o médico experimenta no encontro com o doente. Ela não é redutível à capacidade de curar o doente, sendo o seu horizonte antropológico e moral mais amplo: também quando a cura é impossível ou improvável, o acompanhamento do médico/enfermeiro (cuidado das funções fisiológicas essenciais do corpo), como também psicológico e espiritual, é um dever imprescindível, já que o oposto constituiria um desumano abandono do doente. A medicina, com efeito, que se serve de muitas ciências, possui também uma importante dimensão de “arte terapêutica” que implica uma relação estreita entre paciente, profissionais da saúde, familiares e membros das várias comunidades de pertença do doente: arte terapêutica, atos clínicos e cuidado são incindivelmente unidos na prática médica, sobretudo nas fases críticas e terminais da vida.

O Bom Samaritano, de fato, «não só se faz próximo, mas cuida do homem que encontra quase morto ao lado da estrada»[9]. Investe nele não somente o dinheiro que tem, bem como o que não tem e que espera de ganhar em Jericó, prometendo que pagará no seu retorno. Assim Cristo nos convida a confiar na sua invisível graça e impele à generosidade baseada na caridade sobrenatural, identificando-se com cada doente: «Toda vez que fizestes isto a um só desses meus irmãos mais pequeninos, a mim o fizestes» (Mt 25, 40). A afirmação de Jesus é uma verdade moral de âmbito universal: «trata-se de “cuidar” da vida toda e da vida de todos»[10], para revelar o Amor originário e incondicional de Deus, fonte do sentido de cada vida.

A este fim, sobretudo nas estruturas hospitalares e assistenciais inspiradas nos valores cristãos, é mais que nunca necessário fazer um esforço, também espiritual, para deixar espaço a uma relação construída a partir do reconhecimento da fragilidadee vulnerabilidade da pessoa doente. A fraqueza, com efeito, recorda-nos a nossa dependência de Deus e convida a responder-lhe no respeito devido ao próximo. Daqui nasce a responsabilidade moral, ligada à tomada de consciência de cada sujeito que cuida do doente (médico, enfermeiro, familiar, voluntário, pastor) de encontrar-se diante de um bem fundamental e inalienável – a pessoa humana – que impõe não poder ultrapassar o limite em que se dá o respeito de si e do outro, ou seja o acolhimento, a tutela e a promoção da vida humana até que sobrevenha naturalmente a morte. Trata-se, neste sentido, de ter um olhar contemplativo[11], que sabe colher na existência própria e alheia um prodígio único e irrepetível, recebido e acolhido como um dom. É o olhar de quem não pretende apossar-se da realidade da vida, mas sabe acolhê-la assim como é, com as suas fadigas e os seus sofrimentos, buscando reconhecer na doença um sentido pelo qual se deixa interpelar e “guiar”, com a confiança de quem se abandona ao Senhor da vida que nele se manifesta.

Certamente, a medicina deve aceitar o limite da morte como parte da condição humana. Chega um momento em que não há outra coisa a fazer senão reconhecer a impossibilidade de intervir com terapias específicas em uma doença, que se apresenta em breve tempo como mortal. É um fato dramático, que deve ser comunicado ao doente com grande humanidade e também com confiante abertura à perspectiva sobrenatural, conscientes da angústia que a morte gera, sobretudo em uma cultura que a esconde. Não se pode, de fato, pensar a vida física como algo a ser conservado a todo custo – o que é impossível – mas como algo a ser vivido de modo tal a se poder chegar à livre aceitação do sentido da existência corpórea: «só fazendo referência à pessoa humana na sua “totalidade unificada”, ou seja, “alma que se exprime no corpo e corpo informado por um espírito imortal”, pode ser lido o significado especificamente humano do corpo»[12].

Reconhecer a impossibilidade de curar, na perspectiva próxima da morte, não significa todavia o fim do agir médico e dos enfermeiros. Exercitar a responsabilidade para com a pessoa doente significa assegurar-lhe o cuidado até o fim: «curar se possível, cuidar sempre (to cure if possible, always to care[13]. Esta intenção de cuidar sempre do doente oferece o critério para avaliar as diversas ações a se empreender na situação de doença “incurável”: incurável, com efeito, não é jamais sinônimo de “incuidável”. O olhar contemplativo convida ao alargamento da noção de cuidado. O objetivo da assistência deve mirar à integridade da pessoa, garantindo com os meios adequados e necessários o suporte físico, psicológico, social, familiar e religioso. A fé viva, mantida nas almas das pessoas ao entorno, pode contribuir à verdadeira vida teologal da pessoa doente, mesmo se isso não é imediatamente visível. O cuidado pastoral da parte de todos, familiares, médicos, enfermeiros e capelães, pode ajudar o doente a perseverar na graça santificante e morrer na caridade, no Amor de Deus. Perante o caráter inelutável da doença, sobretudo se é crônica e degenerativa, vindo a faltar a fé, o medo do sofrimento e da morte, e o desconforto que disso deriva, constituem hoje as causas principais da tentativa de controlar e gerir a chegada da morte, até antecipando-a, com o pedido de eutanásia ou de suicídio assistido.

II. A experiência viva do Cristo Sofredore
o anúncio da esperança

Se a figura do Bom Samaritano ilumina com nova luz a práxis do cuidar, a experiência viva do Cristo sofredor, da sua agonia na Cruz e da sua Ressurreição, são os lugares em que se manifesta a proximidade do Deus feito homem às múltiplas formas da angústia e da dor, que podem atingir os doentes e os seus familiares, durante os longos dias da doença e no final da vida.

Não só a pessoa de Cristo é anunciada pelas palavras do Profeta Isaías, como o homem acostumado à dor e ao sofrer (cfr. Is53), mas se relermos as páginas da paixão de Cristo, encontraremos nela a experiência da imcompreensão, do escárnio, do abandono, da dor física e da angústia. São experiências que hoje atingem muitos doentes, frequentemente considerados um peso para a sociedade; às vezes não compreendidos nas suas demandas, vivem não raro formas de abandono afetivo, de perda dos laços interpessoais.

Cada doente necessita não somente de ser escutado, mas de perceber que o próprio interlocutor “sabe” o que significa sentir-se só, abandonado, angustiado diante da perspectiva da morte, da dor da carne, do sofrimento que surge quando o olhar da sociedade mede o seu valor em termos de qualidade de vida, fazendo-o sentir-se como um peso para os projetos dos outros. Por isso, voltar o olhar a Cristo significa saber que se pode apelar a quem provou na sua carne a dor das chicotadas e dos cravos, a ridicularização por parte dos flageladores, o abandono e a traição dos amigos mais caros.

Frente ao desafio da doença e em presença de incômodos emocionais e espirituais de quem vive a experiência da dor, emerge de maneira inexorável a necessidade de saber dizer uma palavra de conforto, haurida da compaixão cheia de esperança de Jesus crucificado. Uma esperança credível, aquela professada por Jesus sobre a Cruz, capaz de enfrentar o momento da prova, o desafio da morte. Na Cruz de Cristo – cantada pela liturgia na sexta-feira santa: Ave crux, spes unica – são concentrados e resumidos todos os males e os sofrimentos do mundo. Todo o mal físico, de que a cruz, como instrumento de morte infame e infamante, é o emblema; todo o mal psicológico, expresso na morte de Jesus na mais obscura solidão, no abandono e na traição; todo o mal moral, manifestado na condenação à morte do Inocente; todo o mal espiritual, evidenciado na desolação que faz perceber o silêncio de Deus.

Cristo é aquele que sente em torno a si a consternação dolorosa da Mãe e dos discípulos, que “estão” junto à Cruz: neste seu “estar”, aparentemente carregado de impotência e resignação, há toda a proximidade afetiva que permite ao Deus feito homem viver aquelas horas que parecem sem sentido.

Há, ainda, a Cruz: um instrumento de tortura e de execução reservado somente aos últimos, que se assemelha tanto, na sua carga simbólica, àquelas doenças que cravam a pessoa em um leito, que prefiguram só a morte e parecem tolher o significado ao tempo e ao seu transcorrer. Contudo, aqueles que “estão” em torno ao doente não são somente testemunhas, mas são sinal vivente daqueles afetos, daqueles laços, daquela íntima disponibilidade ao amor, que permitem ao sofredor encontrar sobre si um olhar humano, capaz de devolver o sentido ao tempo da doença. Porque na experiência de sentir-se amado toda a vida encontra a sua justificação. Cristo foi sustentado, no percurso da sua paixão, pela confiança no amor no Pai, que se manifestava, nas horas da cruz, também através do amor da Mãe. De fato, o Amor de Deus se evidencia sempre na história humana graças ao amor de quem não nos abandona, de quem “está”, apesar de tudo, ao nosso lado.

Se refletimos sobre o fim da vida das pessoas, não podemos esquecer que nelas se faz presente muitas vezes a preocupação por aqueles que deixam: pelos filhos, o cônjuge, os pais, os amigos. Este é um elemento humano que não podemos jamais transcurar e a que se deve oferecer um apoio e uma ajuda.

É a mesma preocupação de Cristo, que antes de morrer pensa na Mãe que ficará sozinha, dentro de uma dor que deverá carregar na história. Na enxuta crônica do Evangelho de João, Cristo se dirige à Mãe para tranquilizá-la, para confiá-la ao discípulo amado, a fim de que cuidasse dela: «Mãe, eis o teu filho» (cfr. Jo 19, 26-27). O tempo do fim da vida é um tempo de relações, um tempo em que se devem vencer a solidão e o abandono (cfr. Mt 27, 46 e Mc 15, 34), em vista de uma entrega confiante da própria vida a Deus (cfr. Lc 23, 46).

Nesta perspectiva, olhar o Crucificado significa ver uma cena coral, em que Cristo está no centro porque resume na própria carne, e realmente transfigura, as horas mais tenebrosas da experiência humana, aquelas em que se apresenta, silenciosa, a possibilidade do desespero. A luz da fé nos faz colher, naquela plástica e escassa descrição que os Evangelhos nos fornecem, a Presença Trinitária, porque Cristo confia no Pai graças ao Espírito Santo, que sustenta a Mãe e os discípulos, que “estão” e, neste seu “estar” junto à Cruz, participam, com a sua humana dedicação ao Sofredor, do mistério da Redenção.

Assim, ainda que marcada por um doloroso fim, a morte pode se tornar ocasião de uma grande esperança, graças à fé, que nos torna partícipes da obra redentora de Cristo. De fato, a dor é suportável existencialmente apenas onde há esperança. A esperança que Cristo transmite ao sofredor e ao doente é aquela da sua presença, da sua real proximidade. A esperança não é só uma espera por um futuro melhor, mas é um olhar ao presente, que o torna cheio de significado. Na fé cristã, o evento da Ressurreição não somente desvela a vida eterna, mas manifesta que na história a palavra última não é jamais a morte, a dor, a traição, o mal. Cristo ressurge na história, e no mistério da Ressurreição se confirma o amor do Pai que nunca abandona.

Reler, então, a experiência viva do Cristo sofredor significa doar aos homens de hoje uma esperança capaz de dar sentido ao tempo da doença e da morte. Esta esperança é o amor que resiste à tentação do desespero.

Por mais importantes e cheios de valor que sejam, os cuidados paliativos não bastam se não há ninguém que “esteja” junto ao doente e lhe testemunhe o seu valor único e irrepetível. Para quem tem fé, olhar o Crucificado significa confiar na compreensão e no Amor de Deus: e é importante, numa época histórica em que se exalta a autonomia e se celebram os esplendores do indivíduo, recordar que, se é verdade que cada um vive o seu sofrimento, a sua dor e a sua morte, tais vivências são sempre carregadas do olhar e da presença de outros. Perto da Cruz estavam também os funcionários do Estado Romano, os curiosos, os distraídos, os indiferentes e os ressentidos: eram todos em torno à Cruz, mas não “estavam” com o Crucificado.

Nas unidades de terapia intensiva, nas casas de cuidado para os doentes crônicos, pode-se estar presente como funcionários ou como pessoas que “estão” com o doente.

A experiência da Cruz permite assim oferecer ao sofredor um interlocutor credível a quem dirigir a palavra, o pensamento, a quem entregar a angústia e o medo. Àqueles que cuidam do doente, a cena da Cruz fornece um ulterior elemento para compreender que mesmo quando parece que não exista mais nada a fazer, há ainda muito a fazer, porque o “estar” é um dos sinais do amor e da esperança que ele traz consigo. O anúncio da vida além da morte não é uma ilusão ou uma consolação, mas uma certeza que está no centro do amor, o qual não desaparece com a morte.

III. O “coração que vê” do Samaritano:
a vida humana é um dom sagrado e inviolável

O homem, em qualquer condição física ou psíquica em que se encontre, mantém a sua dignidade originária de ser criado à imagem de Deus. Pode viver e crescer no esplendor divino porque é chamado a ser à «imagem e glória de Deus» (1Cor 11, 7; 2Cor 3, 18). A sua dignidade está nesta vocação. Deus se fez Homem para salvar-nos, prometendo-nos a salvação e destinando-nos à comunhão consigo: aqui reside o fundamento último da dignidade humana[14].

É próprio da Igreja acompanhar com misericórdia os mais fracos no seu caminho de dor, para manter neles a vida teologal e orientá-los à salvação de Deus[15]. É a Igreja do Bom Samaritano[16] que «considera o serviço aos doentes como parte integrante da sua missão»[17]. Compreender esta mediação salvífica da Igreja numa perspectiva de comunhão e solidariedade entre os homens é uma ajuda essencial para superar toda tendência reducionista e individualista[18].

Em particular, o programa do Bom Samaritano é “um coração que vê”. Ele «ensina que é necessário converter o olhar do coração, porque muitas vezes quem olha não vê. Por que? Porque falta a compaixão […]. Sem compaixão, quem olha não se comove com o que vê e passa adiante; ao contrário, quem tem um coração compassivo deixa-se tocar e comover, pára e cuida»[19]. Este coração vê onde há necessidade de amor e age de modo consequente[20]. Os olhos percebem na fraqueza um chamado de Deus a agir, reconhecendo na vida humana o primeiro bem comum da sociedade[21]. A vida humana é um bem altíssimo e a sociedade é chamada a reconhecê-lo. A vida é um dom[22] sagrado e inviolável e cada homem, criado por Deus, tem uma vocação transcendente e uma relação única com Aquele que dá a vida, porque «Deus invisível, no seu grande amor»[23] oferece a cada homem um plano de salvação, de modo a poder afirmar: «A vida é sempre um bem. Esta é uma intuição ou até um dado de experiência, cuja razão profunda o homem é chamado a compreender»[24]. Por isso a Igreja se alegra sempre em colaborar com todos os homens de boa vontade, com crentes de outras confissões ou religiões ou não-crentes, que respeitam a dignidade da vida humana, também nas suas fases extremas de sofrimento e morte, e rejeitam todo ato contrário a ela[25]. Deus Criador, de fato, oferece ao homem a vida e a sua dignidade como um dom precioso a ser preservado e incrementado e do qual se deverá por fim prestar contas a Ele.

A Igreja afirma o sentido positivo da vida humana como um valor já perceptível pela reta razão, que a luz da fé confirma e valoriza na sua inalienável dignidade[26]. Não se trata de um critério subjetivo ou arbitrário; trata-se ao contrário de um critério fundado na dignidade natural inviolável – enquanto a vida é o primeiro bem, porque condição para a fruição de qualquer outro bem – e na vocação transcendente de cada ser humano, chamado a compartilhar o Amor trinitário do Deus vivo:[27] «o amor muito especial que o Criador tem por cada ser humano “confere-lhe uma dignidade infinita”»[28]. O valor inviolável da vida é uma verdade basilar da lei moral natural e um fundamento essencial da ordem jurídica. Assim como não se pode aceitar que um outro homem seja nosso escravo, mesmo se no-lo pedisse, do mesmo modo não se pode escolher diretamente atentar contra a vida de um ser humano, mesmo se este o requeresse. Portanto, suprimir um doente que pede a eutanásia não significa de nenhum modo reconhecer a sua autonomia e valorizá-la, mas ao invés significa desconhecer o valor da sua liberdade, fortemente condicionada pela doença e pela dor, e o valor da sua vida, negando-lhe qualquer ulterior possibilidade de relação humana, de sentido da existência e de crescimento na vida teologal. Ainda mais, decide-se no lugar de Deus o momento da morte. Por isso, «aborto, eutanásia e suicídio voluntário (…) corrompem a civilização humana, desonram mais aqueles que assim procedem do que os que os padecem; e ofendem gravemente a honra devida ao Criador»[29].

IV. Os obstáculos culturais
que obscurecem o valor sagrado de cada vida humana

Alguns fatores atualmente limitam a capacidade de colher o valor profundo e intrínseco de cada vida humana: o primeiro é a referência ao uso equívoco do conceito de “morte digna” em relação ao de “qualidade de vida”. Emerge aqui uma perspectiva antropológica utilitarista, que é «ligada prevalentemente às possibilidades econômicas, ao “bem-estar”, à beleza e à fruição da vida física, esquecendo outras dimensões mais profundas — relacionais, espirituais e religiosas — da existência»[30]. Em virtude deste princípio, a vida é considerada digna somente se tem um nível aceitável de qualidade, segundo o juízo do sujeito mesmo ou de terceiros, em ordem à presença-ausência de determinadas funções psíquicas ou físicas, muitas vezes identificada também com a simples presença de um incômodo psicológico. Segundo esta abordagem, quando a qualidade da vida aparece pobre, não merece ser continuada. Assim, porém, não se reconhece mais que a vida humana tem um valor em si mesma.

Um segundo obstáculo que obscurece a percepção da sacralidade da vida humana é uma errônea compreensão da “compaixão”[31]. Diante de um sofrimento qualificado como “insuportável”, justifica-se o fim da vida do paciente em nome da “compaixão”. Para não sofrer é melhor morrer: é a eutanásia assim chamada “compassiva”. Seria compassivo ajudar o paciente a morrer através da eutanásia ou do suicídio assistido. Na realidade, a compaixão humana não consiste em provocar a morte, mas em acolher o doente, em dar-lhe suporte nas dificuldades, em oferecer-lhe afeto, atenção e os meios para aliviar o sofrimento.

O terceiro fator que torna difícil reconhecer o valor da vida própria e alheia, ao interno das relações intersubjetivas, é um individualismo crescente que induz a ver os outros como limite e ameaça à própria liberdade. Na raiz de uma tal atitude está «um neo-pelagianismo em que o homem, radicalmente autônomo, pretende salvar-se a si mesmo sem reconhecer que ele depende, no mais profundo do seu ser, de Deus e dos outros […]. Um certo neo-gnosticismo, por outro lado, apresenta uma salvação meramente interior, fechada no subjetivismo»[32], que espera a libertação da pessoa dos limites do seu corpo, sobretudo quando é frágil e doente.

O individualismo, em particular, está na raiz daquela que é considerada a doença mais latente do nosso tempo: a solidão[33], tematizada em alguns contextos normativos até mesmo como “direito à solidão”, a partir da autonomia da pessoa e do “princípio da permissão-consentimento”: uma permissão-consentimento que, dadas determinadas condições de mal-estar ou de doença, pode estender-se até a escolha de continuar a viver ou não. É o mesmo “direito” que subjaz à eutanásia e ao suicídio assistido. A ideia de fundo é de que quantos se encontram em uma condição de dependência e não podem ser assimilados à perfeita autonomia e reciprocidade são cuidados em virtude de um favor. O conceito de bem se reduz assim a ser o resultado de um acordo social: cada um recebe os cuidados e a assitência que a autonomia ou a utilidade social e econômica tornam possíveis ou convenientes. Disso deriva um empobrecimento das relações interpessoais, que se tornam frágeis, privadas de caridade sobrenatural, daquela solidariedade humana e daquele suporte social tão necessários para enfrentar os momentos e as decisões mais difíceis da existência.

Este modo de pensar as relações humanas e o significado do bem não pode não afetar o sentido mesmo da vida, tornando-a facilmente manipulável, também através de leis que legalizam práticas eutanásicas, provocando a morte dos doentes. Estas ações causam uma grave insensibilidade quanto ao cuidado da pessoa doente e deformam as relações. Em tais circunstâncias, surgem às vezes dilemas infundados sobre a moralidade de ações que, na verdade, não são mais que atos devidos de simples atenção à pessoa, como hidratar e alimentar um doente em estado de inconsciência, sem perspectiva de cura.

Neste sentido, Papa Francisco tem falado da «cultura do descarte»[34]. As vítimas de tal cultura são propriamente os seres humanos mais frágeis, que correm o perigo de serem “descartados” por uma engrenagem que quer ser eficiente a todo custo. Trata-se de um fenômeno cultural fortemente antisolidário que João Paulo II qualificou como «cultura de morte» e que cria autênticas «estruturas de pecado»[35]. Isso pode induzir a realizar ações em si erradas, só pelo motivo de “sentir-se bem” ao cometê-las, gerando confusão entre bem e mal, onde, ao contrário, cada vida pessoal possui um valor único e irrepetível, sempre prometente e aberto à transcendência. Nesta cultura do descarte e da morte, a eutanásia e o suicídio assistido aparecem como uma solução errônea para resolver os problemas relativos ao paciente terminal.

V. O Ensinamento do Magistério

1.     A proibição da eutanásia e do suicídio assistido

A Igreja, na missão de transmitir aos fieis a graça do Redentor e a santa lei de Deus, já perceptível nos ditames da lei moral natural, sente o dever de intervir nesta sede para excluir ainda uma vez toda ambiguidade acerca do ensinamento do Magistério sobre a eutanásia e o suicídio assistido, também naqueles contextos em que as leis nacionais legitimaram tais práticas.

Em particular, o difundir-se de protocolos médicos aplicáveis às situações de fim-de-vida, como o Do Not Resuscitate Orderou os Physician Orders for Life Sustaining Treatment – com todas as suas variantes segundo os ordenamentos e contextos nacionais, inicialmente pensados como instrumentos para evitar a obstinação terapêutica nas fases terminais da vida – levanta hoje graves problemas em relação ao dever de tutelar a vida dos pacientes nas fases mais críticas da doença. Se de um lado, com efeito, os médicos se sentem sempre mais vinculados pela autodeterminação expressa pelos pacientes, segundo estas declarações, o que chega até mesmo a privá-los da liberdade e do dever de agir em tutela da vida, também onde poderiam fazê-lo; de outro, em alguns contextos sanitários, preocupa o abuso, já amplamante denunciado, na utilização de tais protocolos em uma perspectiva eutanásica, quando nem os pacientes, nem tampouco as famílias são consultados na decisão extrema. Isto acontece sobretudo nos países onde as leis sobre o fim-da-vida deixam hoje amplas margens de ambiguidade em mérito à aplicação do dever do cuidado, tendo introduzido a prática da eutanásia.

Por tais razões, a Igreja considera que deve reafirmar como ensinamento definitivo que a eutanásia é um crime contra a vida humana porque, com tal ato, o homem escolhe causar diretamente a morte de um outro ser humano inocente. A definição de eutanásia não procede da ponderação dos bens ou valores em jogo, mas de um objeto moral suficientemente especificado, ou seja da escolha de «uma ação ou omissão que, por sua natureza ou nas intenções, provoca a morte a fim de eliminar toda a dor»[36]. «A eutanásia situa-se, portanto, ao nível das intenções e ao nível dos métodos empregados»[37]. A sua avaliação moral, bem como a das consequências que dela derivam, não depende portanto de um balanceamento de princípios que, de acordo com as circunstâncias e o sofrimento do paciente, poderiam segundo alguns justificar a supressão da pessoa doente. Valor da vida, autonomia, capacidade decisional e qualidade de vida não estão no mesmo plano.

A eutanásia, portanto, é um ato intrinsecamente mau, em qualquer ocasião ou circunstância. A Igreja no passado já afirmou de modo definitivo «que a eutanásia é uma violação grave da Lei de Deus, enquanto morte deliberada moralmente inaceitável de uma pessoa humana. Tal doutrina está fundada sobre a lei natural e sobre a Palavra de Deus escrita, é transmitida pela Tradição da Igreja e ensinada pelo Magistério ordinário e universal. A eutanásia comporta, segundo as circunstâncias, a malícia própria do suicídio ou do homicídio»[38]. Qualquer cooperação formal ou material imediata a um tal ato é um pecado grave contra a vida humana: «Não há autoridade alguma que o possa legitimamente impor ou permitir. Trata-se, com efeito, de uma violação da lei divina, de uma ofensa à dignidade da pessoa humana, de um crime contra a vida e de um atentado contra a humanidade»[39]. Por isso, a eutanásia é um ato homicida que nenhum fim pode legitimar e que não tolera nenhuma forma de cumplicidade ou colaboração, ativa ou passiva. Aqueles que aprovam leis sobre a eutanásia e o suicídio assistido se tornam, portanto, cúmplices do grave pecado que outros realizarão. Eles são outrossim culpados de escândalo porque tais leis contribuem a deformar a consciência, mesmo dos fieis[40].

A vida humana tem a mesma dignidade e o mesmo valor para cada um: o respeito da vida do outro é o mesmo que se deve para com a própria existência. Uma pessoa que escolhe com plena liberdade tirar a própria vida rompe a sua relação com Deus e com os outros e nega si mesma como sujeito moral. O suicídio assistido aumenta a sua gravidade, enquanto torna partícipe um outro do próprio desespero, induzindo-o a não direcionar a vontade para o mistério de Deus, através da virtude teologal da esperança, e por consequência a não reconhecer o verdadeiro valor da vida e a romper a aliança que constitui a família humana. Ajudar o suicida é uma indevida colaboração a um ato ilícito, que contradiz a relação teologal com Deus e a realização moral que une os homens a fim de que compartilhem o dom da vida e participem do sentido da própria existência.

Mesmo quando o pedido de eutanásia nascer de uma angústia e de um desespero[41] e «embora em tais casos a responsabilidade possa ficar atenuada ou até não existir, o erro de juízo da consciência — mesmo de boa fé — não modifica a natureza deste gesto homicida que, em si, permanece sempre inaceitável»[42]. O mesmo se diga do suicídio assistido. Tais práticas jamais são uma autêntica ajuda ao doente, mas uma ajuda a morrer.

Trata-se, por isso, de uma escolha sempre errada: «o pessoal médico e os outros profissionais da saúde – fieis à tarefa de “estar sempre a serviço da vida e assisti-la até o fim” – não podem prestar-se a nenhuma prática eutanásica nem mesmo a pedido do interessado, menos ainda dos seus familiares. Não existe, de fato, um direito a dispor arbitrariamente da própria vida, pelo que nenhum profissional da saúde pode fazer-se tutor executivo de um direito inexistente»[43].

É por isso que a eutanásia e o suicídio assistido são uma derrota para quem os teoriza, para quem os decide e para quem os pratica[44].

São gravemente injustas, portanto, as leis que legalizam a eutanásia ou aquelas que justificam o suicídio e a ajuda ao mesmo, pelo falso direito de escolher uma morte definida impropriamente como digna somente porque escolhida[45]. Tais leis atingem o fundamento da ordem jurídica: o direito à vida, que sustenta todo outro direito, inclusive o exercício da liberdade humana. A existência destas leis fere profundamente as relações humanas e a justiça, ameaçando a mútua confiança entre os homens. Os ordenamentos jurídicos que legitimaram o suicídio assistido e a eutanásia mostram, além disso, uma evidente degeneração deste fenômeno social. Papa Francisco recorda que «o atual contexto sociocultural está progressivamente a desgastar a consciência do que torna a vida humana preciosa. Na realidade, ela está a ser cada vez mais avaliada com base na sua eficiência e utilidade, a ponto de considerar “vidas descartadas” ou “vidas indignas” aquelas que não correspondem a este critério. Nesta situação de perda dos valores autênticos, vêm a faltar os deveres inalienáveis de solidariedade e fraternidade humana e cristã. Na realidade, uma sociedade merece a qualificação de “civilizada" se desenvolver anticorpos contra a cultura do descarte; se reconhecer o valor intangível da vida humana; se a solidariedade for ativamente praticada e salvaguardada como fundamento da convivência»[46]. Em alguns países do mundo, dezenas de milhares de pessoas já morreram por eutanásia, muitas das quais porque lamentavam-se de sofrimentos psicológicos ou depressão. E frequentes são os abusos denunciados pelos próprios médicos pela supressão da vida de pessoas que jamais teriam desejado para si a aplicação da eutanásia. Com efeito, o pedido de morte, em muitos casos, é já um sintoma da doença, agravado pelo isolamento e pelo desconforto. A Igreja vê nestas dificuldades uma ocasião para a purificação espiritual, que aprofunda a esperança, a fim de que se torne realmente teologal, focalizada em Deus e somente em Deus.

Mais que isso, ao invés de ceder a uma falsa condescendência, o cristão deve oferecer ao doente a ajuda indispensável para sair do seu desespero. O mandamento «não matar» (Ex 20, 13; Dt 5, 17), de fato, é um sim à vida, da qual Deus se faz garante: «torna-se apelo a um amor solícito que tutela e promove a vida do próximo»[47]. O cristão portanto sabe que a vida terrena não é o supremo valor. A beatitude última está no céu. Assim, o cristão não pretenderá que a vida física continue quando evidentemente a morte é próxima. O cristão ajudará o moribundo a se libertar do desespero e a colocar sua esperança em Deus.

Sob o perfil clínico, os fatores que mormente determinam o pedido de eutanásia e suicídio assistido são: a dor não administrada; a falta de esperança, humana e teologal, induzida também por uma assistência humana, psicológica e espiritual muitas vezes inadequada por parte de quem cuida do doente[48].

É isto que a experiência confirma: «as súplicas dos doentes muito graves que, por vezes, pedem a morte, não devem ser compreendidas como expressão de uma verdadeira vontade de eutanásia; nestes casos são quase sempre pedidos angustiados de ajuda e de afeto. Para além dos cuidados médicos, aquilo de que o doente tem necessidade é de amor, de calor humano e sobrenatural, que podem e devem dar-lhe todos os que o rodeiam, pais e filhos, médicos e enfermeiros»[49]. O doente que se sente circundado pela presença amorosa, humana e cristã, supera toda forma de depressão e não cai na angústia de quem, ao invés, se sente só e abandonado ao seu destino de sofrimento e de morte.

De fato, o homem vive a dor não somente como um fato biológico que deve ser administrado para que seja suportável, mas como o mistério da vulnerabilidade humana em relação ao fim da vida física, um evento difícil de aceitar, dado que a unidade de alma e corpo é essencial para o homem.

Por isso, somente re-significando o evento mesmo da morte – mediante a abertura a um horizonte de vida eterna, que anuncia a destinação transcendente de cada pessoa – o “fim-da-vida” pode ser enfrentado de modo cônsono à dignidade humana e adequado àquele sentimento de perturbação e sofrimento que a percepção do fim iminente produz inevitavelmente. Com efeito, «o sofrimento é algo mais amplo e mais complexo do que a doença e, ao mesmo tempo, algo mais profundamente enraizado na própria humanidade»[50]. E este sofrimento, com a ajuda da graça, pode ser animado desde dentro com a caridade divina, assim como no caso do sofrimento de Cristo na Cruz.

Portanto, a capacidade de quem assiste uma pessoa atingida por doença crônica ou na fase terminal da vida deve ser aquela de “saber estar”, vigiar com quem sofre a angústia do morrer, “consolar”, ou seja estar-com na solidão, ser co-presença que abre à esperança[51]. Mediante a fé e a caridade expressas na intimidade da alma, a pessoa que assiste é capaz de sofrer a dor do outro e de abrir-se a uma relação pessoal com o fraco, que alarga os horizontes da vida para além do evento da morte, tornando-se assim uma presença plena de esperança.

«Chorai com os que choram» (Rm 12, 15), porque é feliz quem tem compaixão ao ponto de chorar com os outros (cfr. Mt 5, 4). Nesta relação, que se faz possibilidade de amor, o sofrimento se enche de significado no com-partilhamento da condição humana e na solidariedade no caminho para Deus, que exprime aquela aliança radical entre os homens[52], que os faz entrever uma luz mesmo para além da morte. Isso nos faz ver o ato médico desde dentro de uma aliança terapêutica entre o médico e o doente, ligados pelo reconhecimento do valor transcendente da vida e do sentido místico do sofrimento. Tal aliança é a luz para compreender um bom agir médico, superando a visão individualista e utilitarista hoje predominante.

2.     A obrigação moral de excluir a obstinação terapêutica

O Magistério da Igreja recorda que, quando se aproxima o término da existência terrena, a dignidade da pessoa humana é precisada como direito a morrer na maior serenidade possível e com a dignidade humana e cristã que lhe é devida[53]. Tutelar a dignidade do morrer significa excluir seja a antecipação da morte, seja sua dilação com a assim chamada “obstinação terapêutica”[54]. A medicina atual dispõe de meios capazes de retardar artificialmente a morte, sem que o paciente receba, em alguns casos, um real benefício. Na iminência de uma morte inevitável, pois, é lícito tomar a decisão, em ciência e consciência, de renunciar a tratamentos que provocariam somente um prolongamento precário e penoso da vida, sem todavia interromper os cuidados normais devidos ao doente em casos similares[55]. Isto significa que não é lícito suspender os cuidados eficazes para sustentar as funções fisiológicas essenciais, até quando o organismo seja capaz de se beneficiar deles (suportes à hidratação, à nutrição, à termorregulação; outrossim, ajudas adequadas e proporcionadas à respiração e ainda outras, na medida em que sejam requeridas para suportar a homeostase corpórea e reduzir o sofrimento do órgão e sistêmico). A suspensão de toda obstinação irrazoável na administração dos tratamentos não deve ser desistência terapêutica. Tal precisação se torna hoje indispensável à luz dos numerosos casos judiciais que nos últimos anos têm conduzido à desistência do cuidado – e à morte antecipada – de pacientes em condições críticas, mas não terminais, a quem se decidiu suspender os cuidados de suporte vital, já não tendo eles perspectivas de melhora da qualidade de vida.

No caso específico da obstinação terapêutica, deve-se reafirmar que a renúncia a meios extraordinários e/ou desproporcionais «não equivale ao suicídio ou à eutanásia; exprime antes a aceitação da condição humana diante da morte»[56] ou a escolha ponderada de evitar a aplicação de um dispositivo médico desproporcionado aos resultados que se poderiam esperar. A renúncia a tais tratamentos, que provocariam somente um prolongamento precário e penoso da vida, pode também querer exprimir o respeito à vontade do moribundo, expressa nas assim chamadas declarações antecipadas de vontade quanto ao tratamento, excluindo porém todo ato eutanásico ou suicida[57].

Com efeito, a proporcionalidade se refere à totalidade do bem do doente. Jamais se pode aplicar o falso discernimento moral da escolha entre valores (por exemplo, vida versus qualidade de vida). Isso poderia induzir a excluir da consideração a salvaguarda da integridade pessoal e do bem-vida e o verdadeiro objeto moral do ato realizado[58]. Todo ato médico deve sempre ter como objeto, nas intenções de quem age, o acompanhamento da vida e nunca a busca da morte[59]. O médico, em todo caso, não é jamais um mero executor da vontade do paciente ou do seu representante legal, conservando o direito e o dever de subtrair-se a vontades discordantes do bem moral visto pela própria consciência[60].

3.     Os cuidados básicos: o dever de alimentação e hidratação

Princípio fundamental e ineludível do acompanhamento do doente em condições críticas e/ou terminais é a continuidade da assistência às suas funções fisiológicas essenciais. Em particular, um cuidado básico devido a cada ser humano é o de administrar os alimentos e os líquidos necessários à manutenção da homeostase do corpo, na medida em que e até quando esta administração demonstra alcançar sua finalidade própria, que consiste em promover a hidratação e a nutrição do paciente[61].

Quando o fornecer substâncias nutrientes e líquidos fisiológicos não produz nenhum benefício ao paciente, porque o seu organismo não mais está em condições de absorvê-los ou metabolizá-los, a sua administração deve ser suspensa. Deste modo não se antecipa ilicitamente a morte por privação de suportes hidratantes e nutricionais essenciais às funções vitais, mas se respeita o decurso natural da doença crítica ou terminal. Em caso contrário, a privação destes suportes se torna uma ação injusta e pode ser fonte de grandes sofrimentos para quem a padece. Alimentação e hidratação não constituem uma terapia médica em sentido próprio, enquanto não combatem as causas de um processo patológico em ato no corpo do paciente, mas representam um cuidado devido à pessoa do paciente, uma atenção clínica e humana primária e ineludível. A obrigatoriedade deste cuidado do doente, através de apropriada hidratação e nutrição, pode exigir em alguns casos o uso de via artificial na sua administração[62], sob condição de que ela não resulte danosa ao doente ou lhe provoque sofrimentos inaceitáveis[63].

4.     Os cuidados paliativos

Da continuidade da assistência faz parte o dever constante de compreensão das necessidades do doente: necessidades de assistência, alívio da dor, necessidades emocionais, afetivas e espirituais. Como demonstrado pela mais ampla experiência clínica, a medicina paliativa constitui um instrumento precioso e irrenunciável para acompanhar o paciente nas fases mais dolorosas, sofridas, crônicas e terminais da doença. Os assim chamados cuidados paliativos são a expressão mais autêntica da ação humana e cristã de cuidar, o símbolo tangível do compassivo “estar” junto a quem sofre. Eles têm como objetivo «aliviar os sofrimentos na fase final da doença e, ao mesmo tempo, assegurar ao paciente um adequado acompanhamento humano»[64] digno, melhorando-lhe – quanto possível – a qualidade de vida e o bem-estar em geral. A experiência ensina que a aplicação dos cuidados paliativos diminui drasticamente o número de pessoas que pedem a eutanásia. A tal fim, aparece útil um decidido empenho, segundo as possibilidades econômicas, para difundir tais cuidados àqueles que deles venham a ter necessidade, o que deve ser implementado não somente nas fases terminais da vida, mas como abordagem integrada de cuidado em relação a qualquer patologia crônica e/ou degenerativa que possa ter um prognóstico complexo, doloroso e infausto para o paciente e para a sua família[65].

Dos cuidados paliativos faz parte a assistência espiritual ao doente e aos seus familiares. Esta infunde confiança e esperança em Deus ao moribundo e aos familiares, ajudando-os a aceitar a sua morte. É uma contribuição essencial que diz respeito aos agentes de pastoral e à inteira comunidade cristã, a exemplo do Bom Samaritano, para que a rejeição dê lugar à aceitação e sobre a angústia prevaleça a esperança[66], sobretudo quando o sofrimento se prolonga pela degeneração patológica, ao aproximar-se do fim. Nesta fase, a determinação de uma eficaz terapia contra a dor permite ao paciente enfrentar a doença e a morte sem o medo de uma dor insuportável. Tal tratamento deverá necessariamente ser associado a um apoio fraterno, que possa vencer o sentimento de solidão do paciente, muitas vezes causado pelo não sentir-se suficientemente acompanhado e compreendido na sua difícil situação.

A técnica não dá uma resposta radical ao sofrimento e não se pode considerar que ela possa chegar a removê-lo da vida humana[67]. Similar pretensão gera uma falsa esperança, que causa um desespero ainda maior naquele que sofre. A ciência médica é capaz de conhecer sempre melhor a dor física e deve colocar em campo os melhores recursos técnicos para tratá-la; mas o horizonte vital de uma doença terminal gera um sofrimento profundo no doente, que pede uma atenção não meramente técnica. Spe salvi facti sumus: na esperança, aquela teologal, direcionada a Deus, fomos salvos, diz São Paulo (Rm 8, 24).

“O vinho da esperança” é o específico contributo da fé cristã no cuidado do doente e faz referência ao modo com que Deus vence o mal no mundo. No sofrimento, homem deve poder experimentar uma solidariedade e um amor que assumem a dor, oferecendo um sentido à vida, que se estende para além da morte. Tudo isto possui um grande relevo social: «Uma sociedade que não consegue aceitar os que sofrem e não é capaz de contribuir, mediante a com-paixão, para fazer com que o sofrimento seja compartilhado e assumido, também interiormente, é uma sociedade cruel e desumana»[68].

Todavia, deve ser precisado que a definição dos cuidados paliativos assumiu em anos recentes uma conotação que pode resultar equívoca. Em alguns países do mundo, as normativas nacionais que disciplinam os cuidados paliativos (Palliative Care Act), assim como as leis sobre o “fim-da-vida” (End-of-life Law), prevêem junto aos cuidados paliativos a assim chamada Assistência Médica à Morte (MAiD), que pode incluir a possibilidade de requerer eutanásia e suicídio assistido. Tal previsão normativa constitui um motivo de grave confusão cultural, porque faz crer que seja parte integrante dos cuidados paliativos a assistência médica à morte voluntária e que portanto seja moralmente lícito requerer a eutanásia ou o suicídio assistido.

Além disso, nestes mesmos contextos normativos, os interventos paliativos para reduzir o sofrimento dos pacientes graves ou moribundos podem consistir na administração de fármacos orientados a antecipar a morte ou na suspensão/interrupção de hidratação e alimentação, mesmo onde haja um prognóstico de semanas ou meses. Tais práticas equivalem, porém, a uma ação ou omissão voltadas a provocar a morte e são portanto ilícitas. O difundir-se progressivo dessas normativas, também através de diretrizes das sociedades científicas nacionais e internacionais, além de induzir um número crescente de pessoas vulneráveis a escolher a eutanásia ou o suicídio, constitui uma desresponsabilização social diante de tantas pessoas que teriam somente necessidade de serem melhor assistidas e confortadas.

5.     O papel da família e das casas de acolhida (hospice)

No cuidado do doente terminal é central o papel da família[69]. Nela a pessoa se apóia em relações sólidas, é valorizada em si mesma e não somente por sua produtividade ou pelo prazer que pode proporcionar. No cuidado, é essencial que o doente não se sinta um peso, mas que tenha a proximidade e a consideração dos seus caros. Nesta missão, a família tem necessidade de ajuda e de meios adequados. É necessário, portanto, que os Estados reconheçam a primária e fundamental função social da família e o seu papel insubstituível, também neste âmbito, predispondo recursos e estruturas necessárias a sustentá-la. Além disso, o acompanhamento humano e espiritual da família é um dever nas estruturas sanitárias de inspiração cristã; ela jamais seja transcurada, pois constitui uma única unidade de cuidado com o doente.

Junto à família, a instituição das casas de acolhida (hospice), onde se recebem os doentes terminais para assegurar-lhes o cuidado até o momento extremo, é algo bom e de grande ajuda. De resto, «a resposta cristã ao mistério da morte e do sofrimento não é uma explicação, mas uma Presença»[70] que toma sobre si a dor, acompanha-a e a abre a uma esperança confiável. Tais estruturas se colocam como um exemplo de humanidade na sociedade, santuários de uma dor vivida com plenitude de sentido. Por isso, devem ser equipadas com pessoal especializado e meios materiais próprios de cuidado, sempre abertas às famílias: «A este respeito, penso quanto bem fazem os hospice para os cuidados paliativos, onde os doentes terminais são assistidos com apoio médico, psicológico e espiritual qualificado, para que possam viver com dignidade, confortados pela proximidade dos seus entes queridos, a fase final da sua vida terrena. Espero que estes centros continuem a ser lugares onde a “terapia da dignidade” seja praticada com esmero, alimentando assim o amor e o respeito pela vida»[71]. Nestes contextos, assim como em qualquer estrutura sanitária católica, deve haver a presença de profissionais da saúde e agentes de pastoral preparados não somente no aspecto clínico, mas que também se exercitem em uma verdadeira vida teologal de fé e esperança, orientadas a Deus, pois esta constitui a mais alta forma de humanização do morrer[72].

6.     O acompanhamento e o cuidado em idade pré-natal e pediátrica

Em relação ao acompanhamento dos recém-nascidos e das crianças atingidos por doenças crônicas degenerativas incompatíveis com a vida ou nas fases terminais da vida, é preciso reafirmar quanto segue, com a consciência da necessidade de desenvolver uma estratégia operativa capaz de garantir qualidade e bem-estar à criança e à sua família.

Desde a concepção, as crianças atingidas por malformações ou patologias de qualquer gênero são pequenos pacientes que a medicina hoje é capaz de assistir e acompanhar, de modo a respeitar a vida. A vida delas é sagrada, única, irrepetível e inviolável, exatamente como aquela de cada pessoa adulta.

Em caso de patologias pré-natais assim chamadas “incompatíveis com a vida” – isto é, que seguramente levarão à morte dentro de breve lapso de tempo – e em ausência de terapias fetais ou neonatais capazes de melhorar as condições de saúde destas crianças, de nenhum modo sejam elas abandonadas no âmbito assistencial, mas sejam acompanhadas como todo outro paciente até que sobrevenha a morte natural; o comfort care perinatal favorece neste sentido um percurso assistencial integrado que, junto ao suporte dos médicos e dos agentes de pastoral, coloca a presença constante da família. A criança é um paciente especial e requer da parte dos que a acompanham uma preparação particular, seja em termos de conhecimento, seja de presença. O acompanhamento empático de uma criança em fase terminal, que está entre os mais delicados, tem a finalidade de acrescentar vida aos anos da criança e não anos à sua vida.

As casas de acolhida (hospice) perinatais, em particular, fornecem um essencial suporte às famílias que acolhem o nascimento de um filho em condições de fragilidade. Nestes contextos, o acompanhamento médico competente e o suporte de outras famílias-testemunhas, que passaram pela mesma experiência de dor e de perda, constituem um recurso essencial, juntamente ao necessário acompanhamento espiritual dessas famílias. É dever pastoral dos profissionais da saúde de inspiração cristã esforçar-se para favorecer sua máxima difusão no mundo.

Tudo isso se revela particularmente necessário em relação àquelas crianças que, ao estado atual dos conhecimentos científicos, são destinadas a morrer logo após o parto ou pouco tempo depois. Cuidar dessas crianças ajuda os pais a elaborar o luto e a entendê-lo não só como perda, mas como etapa de um caminho de amor percorrido junto com o filho.

Infelizmente, a cultura hoje dominante não promove esta abordagem: em nível social, o uso às vezes excessivo do diagnóstico pré-natal e o afirmar-se de uma cultura hostil à deficiência induzem frequentemente à escolha do aborto, chegando a configurá-lo como prática de “prevenção”. Este consiste no assassinato deliberado de uma vida humana inocente e como tal jamais é lícito. A utilização do diagnóstico pré-natal para finalidades seletivas, portanto, é contrário à dignidade da pessoa e gravemente ilícito, porque expressão de uma mentalidade eugenista. Em outros casos, depois do nascimento, a mesma cultura leva à suspensão ou ao não-início dos cuidados à criança recém-nascida, pela presença ou, até mesmo, só pela possibilidade de desenvolver no futuro uma deficiência. Também esta abordagem, de matriz utilitarista, não pode ser aprovada. Semelhante procedimento, além de ser desumano, é gravemente ilícito do ponto de vista moral.

Princípio fundamental da assistência pediátrica é que a criança na fase final da vida tem direito ao respeito e ao cuidado de sua pessoa, evitando seja a obstinação terapêutica não razoável, seja toda antecipação intencional de sua morte. Em perspectiva cristã, o cuidado pastoral de uma criança doente terminal enseja sua participação à vida divina através do Batismo e da Crisma.

Na fase terminal do decurso de uma doença incurável, mesmo quando sejam suspensas as terapias farmacológicas ou de outra natureza – direcionadas a combater a patologia de que sofre a criança, enquanto não mais apropriadas à sua deteriorada condição clínica e consideradas pelos médicos como fúteis ou excessivamente pesadas para ela, causando apenas mais sofrimento – não se pode deixar, porém, o cuidado integral da pessoa do pequeno doente, nas suas diversas dimensões: fisológica, psicológica, afetivo-relacional e espiritual. Cuidar não significa só aplicar uma terapia e curar; assim como interromper uma terapia, quando ela não ajuda mais a criança incurável, não implica suspender os cuidados eficazes para sustentar as funções fisiológicas essenciais para a vida do pequeno paciente, até quando seu organismo seja capaz de se beneficiar deles (suportes à hidratação, à nutrição, à termorregulação e outros ainda, na medida em que estes sejam requeridos para suportar a homeostase corpórea e reduzir o sofrimento do órgão e sistêmica). A abstenção de toda obstinação terapêutica na administração dos tratamentos julgados ineficazes não deve ser desistência do cuidado, mas deve manter aberto o percurso de acompanhamento à morte. Quanto ao mais, deve-se ter presente que mesmo intervenções rotineiras, como a ajuda à respiração, sejam prestadas de maneira indolor e proporcionada, personalizando o tipo de ajuda adequado de acordo com o paciente, para evitar que a justa premura pela vida contraste com uma injusta imposição de dor evitável.

Neste contexto, a avaliação e a gestão da dor física do recém-nascido e da criança é essencial para respeitá-los e acompanhá-los nas fases mais estressantes da doença. Cuidados personalizados e suaves, hoje já verificados na assistência clínica pediátrica, junto com a presença dos pais, tornam possível uma gestão integrada e mais eficaz de qualquer intervenção assistencial.

A manutenção do vínculo afetivo entre pais e filho é parte integrante do processo de cuidado. A relação de atenção e de acompanhamento pais-criança deve ser favorecida com todos os instrumentos necessários e constitui parte fundamental do cuidado, mesmo nas patologias incuráveis e nas situações em evolução terminal. Além do contato afetivo, não se deve esquecer o momento espiritual. A oração das pessoas próximas, na intenção da criança doente, tem um valor sobrenatural que sobrepassa e aprofunda o liame afetivo.

O conceito ético-jurídico do “melhor interesse do menor” – hoje utilizado para efetuar a avaliação custo-benefício dos cuidados a serem atuados – em nenhum modo pode constituir o fundamento para decidir abreviar a sua vida, em vista de evitar-lhe sofrimentos, mediante ações e omissões que, por sua natureza ou na intenção de quem as realiza, possam se configurar como eutanásicas. Como se disse, a interrupção de terapias desproporcionais não pode conduzir à suspensão daqueles cuidados básicos, necessários para acompanhar o paciente a uma morte natural digna, inclusive aqueles para aliviar a dor, nem mesmo a suspensão daquela atenção espiritual que se oferece a quem logo encontrará Deus.

7.     Terapias analgésicas e supressão da consciência

Alguns cuidados especializados requerem da parte dos profissionais da saúde atenção e competências particulares para realizar a melhor prática médica do ponto de vista ético, sempre conscientes de aproximar-se às pessoas na sua concreta situação de dor.

Para atenuar as dores do doente, a terapia analgésica usa fármacos que podem causar a supressão da consciência (sedação). Um profundo sentido religioso pode permitir ao paciente viver a dor como uma oferta especial a Deus, na óptica da Redenção[73]; todavia, a Igreja afirma a liceidade da sedação como parte do cuidado que se oferece ao paciente, para que o fim da vida sobrevenha na máxima paz possível e nas melhores condições interiores. Isto se aplica também ao caso de tratamentos que aproximam o momento da morte (sedação paliativa profunda em fase terminal)[74], sempre, na medida do possível, com o consentimento informado do paciente. Do ponto de vista pastoral, faz bem cuidar da preparação espiritual do doente para que chegue conscientemente à morte, entendida como encontro com Deus[75]. O uso dos analgésicos é, pois, parte do cuidado com o paciente, mas qualquer administração que lhe cause direta e intencionalmente a morte é uma prática eutanásica e é inaceitável[76]. A sedação deve assim excluir, como seu escopo direto, a intenção de matar, mesmo se dela resultar um possível condicionamento sobre a morte, de qualquer modo inevitável[77].

Necessita-se fazer aqui uma precisação em referência aos contextos pediátricos: no caso da criança não capaz de entender, como por exemplo um recém-nascido, não se deve cometer o erro de supor que ela possa suportar a dor e aceitá-la, quando existem sistemas para aliviá-la. Por isso, é um dever médico esforçar-se para reduzir o mais possível o sofrimento da criança, para que possa chegar à morte natural em paz e podendo perceber o mais possível a presença amorosa dos médicos e, sobretudo, da família.

8.     O estado vegetativo e o estado de consciência mínima

Outras situações relevantes são aquela do doente em ausência persistente de consciência, o assim chamado “estado vegetativo” e aquela do doente em estado de “consciência mínima”. É sempre totalmente desviante pensar que o estado vegetativo e o estado de consciência mínima, em sujeitos que respiram autonomamente, sejam sinal de que o doente tenha deixado de ser pessoa humana, com toda a dignidade que lhe é própria[78]. Ao contrário, nesses estados de máxima fraqueza, ele deve ser reconhecido no seu valor e assistido com cuidados adequados. O fato de que o doente possa permanecer por anos nesta dolorosa situação, sem uma esperança clara de recuperação, implica inegável sofrimento para aqueles que dele cuidam.

Pode ser útil, antes de tudo, relembrar aquilo que não se pode perder de vista numa situação assim tão dolorosa, a saber: o paciente nesses estados tem direito à alimentação e à hidratação; alimentação e hidratação por via artificial são a princípio medidas ordinárias; em alguns casos, tais medidas podem se tornar desproporcionadas ou porque a sua administração não é mais eficaz ou porque os meios para administrá-las criam um peso excessivo e provocam efeitos negativos que superam os benefícios.

Na óptica destes princípios, o empenho do profissional da saúde não pode se limitar ao paciente, mas deve estender-se à família ou a quem é o responsável pelo cuidado do paciente, para os quais é também necessário prever um oportuno acompanhamento pastoral. Por isso, precisa-se prever um suporte adequado aos familiares que carregam o peso prolongado da assistência a doentes em tais estados, assegurando-lhes aquela proximidade que os ajude a não desanimar e sobretudo a não ver como única solução a interrupção dos cuidados. Para tanto, é preciso que haja boa preparação dos agentes, como também que os familiares sejam apropriadamente apoiados.

9.     A objeção de consciência por parte dos profissionais da saúde e das instituições sanitárias católicas

Diante de leis que legitimam – sob qualquer forma de assistência médica – a eutanásia ou o suicídio assistido, deve-se sempre negar qualquer cooperação formal ou material imediata. Tais contextos constituem um âmbito específico para o testemunho cristão, em que «é necessário obedecer mais a Deus do que aos homens» (At 5, 29). Não existe o direito ao suicídio nem à eutanásia: o direito existe para tutelar a vida e a co-existência entre os homens, não para causar a morte. Portanto, nunca é lícito a ninguém colaborar com tais ações imorais ou deixar entender que se lhe possa ser cúmplice com palavras, atos ou omissões. O único verdadeiro direito é aquele do doente de ser acompanhado e cuidado com humanidade. Só assim se preserva a sua dignidade até o sobrevir da morte natural. «Nenhum profissional da saúde, pois, pode fazer-se tutor executivo de um direito inexistente, mesmo quando a eutanásia fosse requerida em plena consciência pelo sujeito interessado»[79].

A esse respeito, os princípios gerais acerca da cooperação ao mal, ou seja, a ações ilícitas, são assim reafirmados: «Os cristãos, como todos os homens de boa vontade, são chamados, por um grave dever de consciência, a não dar a sua colaboração formal àquelas práticas que, mesmo admitidas pela legislação civil, estão em contraste com a Lei de Deus. De fato, do ponto de vista moral, jamais é lícito cooperar formalmente ao mal. Tal cooperação se verifica quando a ação realizada, ou pela sua própria natureza ou pela configuração que ela assume em um contexto concreto, qualifica-se como participação direta a um ato contra a vida humana inocente ou como compartilhamento da intenção imoral do agente principal. Esta cooperação jamais pode ser justificada nem invocando o respeito à liberdade alheia, nem argumentando que a lei civil a prevê e a requer: pelos atos que cada um pessoalmente realiza existe, de fato, uma responsabilidade moral a que ninguém pode subtrair-se e sobre a qual será julgado por Deus mesmo (cfr. Rm 2, 6; 14, 12)»[80].

É necessário que os Estados reconheçam a objeção de consciência em campo médico e sanitário, no respeito aos princípios da lei moral natural, especialmente onde o serviço à vida interpela cotidianamente a consciência humana[81]. Onde ela não fosse reconhecida, pode-se chegar à situação de dever desobedecer à lei, para não acrescentar injustiça a injustiça, condicionando a consciência das pessoas. Os profissionais da saúde não devem hesitar a pedi-la como direito próprio e como contribuição específica ao bem comum.

Igualmente, as istituições sanitárias devem superar as fortes pressões econômicas que talvez as induzam a aceitar a prática da eutanásia. E quando a dificuldade em encontrar os meios necessários tornasse muito pesado o empenho das instituições públicas, toda a sociedade é chamada a um suplemento de responsabilidade a fim de que os doentes incuráveis não sejam abandonados a si mesmos ou apenas aos recursos de seus familiares. Tudo isto requer uma tomada de posição clara e unitária por parte das Conferências Episcopais, das Igrejas locais, assim como das comunidades e das instituições católicas para tutelar o próprio direito à objeção de consciência nos contextos legislativos que prevêem a eutanásia e o suicídio.

As instituições sanitárias católicas constituem um sinal concreto do modo com que a comunidade eclesial, a exemplo do Bom Samaritano, cuida dos enfermos. O mandato de Jesus «curai os doentes» (Lc 10, 9) encontra uma concreta atuação não só impondo-lhes as mãos, mas recolhendo-os da estrada, assistindo-os nas próprias casas e instaurando apropriadas estruturas de acolhimento e de hospitalidade. Fiel ao mandato do Senhor, a Igreja tem efetivado, no curso dos séculos, várias estruturas de acolhimento, onde o cuidado médico encontra uma específica modalidade na dimensão de serviço integral à pessoa doente.

As instituições sanitárias católicas são chamadas a ser fieis testemunhas da irrenunciável atenção ética e do respeito aos valores humanos fundamentais e àqueles cristãos, constitutivos da sua identidade, mediante a abstenção de evidentes comportamentos moralmente ilícitos, bem como a formal obediência aos ensinamentos do Magistério eclesial. Toda ação que não corresponda às finalidades e aos valores nos quais as instituições católicas se inspiram não é eticamente aceitável e, portanto, prejudica a atribuição da qualificação “católica” à mesma instituição.

Neste sentido, não é eticamente admissível uma colaboração institucional com outras estruturas hospitalares, direcionando a estas as pessoas que pedem a eutanásia. Tais escolhas não podem ser eticamente admitidas nem apoiadas na sua realização concreta, mesmo se são legalmente possíveis. Com efeito, as leis que aprovam a eutanásia «não só não criam obrigação alguma para a consciência, como, ao contrário, geram uma grave e precisa obrigação de opor-se a elas através da objeção de consciência. Desde as origens da Igreja, a pregação apostólica inculcou nos cristãos o dever de obedecer às autoridades públicas legitimamente constituídas (cfr. Rm 13, 1-7; 1Pd 2, 13-14), mas, ao mesmo tempo, advertiu firmemente que “é preciso obedecer mais a Deus do que aos homens” (At 5, 29)»[82].

O direito à objeção de consciência não deve fazer-nos esquecer que os cristãos rejeitam essas leis não em virtude de uma convicção religiosa privada, mas de um direito fundamental e inviolável de cada pessoa, essencial ao bem comum de toda a sociedade. Trata-se, de fato, de leis contrárias ao direito natural, enquanto minam os próprios fundamentos da dignidade humana e de uma convivência justa.

10.     O acompanhamento pastoral e o apoio dos sacramentos

O momento da morte é um passo decisivo do homem no seu encontro com Deus Salvador. A Igreja é chamada a acompanhar espiritualmente os fieis nesta situação, oferecendo-lhes os “recursos sanantes” da oração e dos sacramentos. Ajudar o cristão a viver tal momento em um contexto de acompanhamento espiritual é um ato supremo de caridade. Dado que «nenhuma pessoa de fé deveria morrer na solidão e no abandono»[83], é necessário criar em torno ao doente uma sólida plataforma de relações humanas e humanizantes que o acompanhem e o abram à esperança.

A parábola do Bom Samaritano indica qual deve ser a relação com o próximo sofredor, quais atitudes se precisam evitar – indiferença, apatia, julgamentos, medo de sujar as mãos, fechamento nos próprios assuntos – e quais assumir – atenção, escuta, compreensão, compaixão, discrição.

O convite à imitação, «Vai e faze o mesmo» (Lc 10, 37), é uma advertência a não subestimar todo o potencial humano de presença, de disponibilidade, de acolhimento, de discernimento, de participação, que a proximidade para com quem está em situação de necessidade exige e que é essencial no cuidado integral da pessoa doente.

A qualidade do amor e do cuidado às pessoas em situações críticas e terminais da vida concorre a afastar delas o terrível e extremo desejo de dar fim à própria vida. Só um contexto de calor humano e de fraternidade evangélica, de fato, é capaz de abrir um horizonte positivo e de sustentar o doente na esperança e numa confiante entrega.

Tal acompanhamento faz parte do percurso definido pelos cuidados paliativos e deve compreender o paciente e sua família.

A família, desde sempre, tem desempenhado um papel importante no cuidado. A sua presença, o apoio, o afeto constituem para o doente um fator terapêutico essencial. Ela, recorda Papa Francisco, «foi desde sempre o “hospital” mais próximo. Ainda hoje, em tantas partes do mundo, o hospital é um privilégio para poucos e muitas vezes é distante. São a mãe, o pai, os irmãos, as irmãs, as avós que garantem os cuidados e ajudam a curar»[84].

O assumir para si o peso do outro ou o cuidar dos sofrimentos alheios é um empenho que envolve não só alguns, mas abraça a responsabilidade de todos, de toda a comunidade cristã. São Paulo afirma que quando um membro sofre, todo o corpo sofre (cfr. 1Cor 12, 26) e inteiramente se inclina sobre o membro doente para aliviá-lo. Cada um, no que lhe diz respeito, é chamado a ser “servo da consolação” frente a qualquer situação humana de desolação e de desconforto.

O acompanhamento pastoral chama em causa o exercício das virtudes humanas e cristãs da empatia (en-pathos), da compaixão (cum-passio), do responsabilizar-se pelo sofrimento e compartilhá-lo, e da consolação (cum-solacium), de entrar na solidão do outro para fazê-lo sentir-se amado, acolhido, acompanhado e apoiado.

O ministério da escuta e da consolação que o sacerdote é chamado a oferecer, fazendo-se sinal da solicitude compassiva de Cristo e da Igreja, pode e deve ter um papel decisivo. Nesta importante missão é de capital importância testemunhar e conjugar a verdade e a caridade com as quais o olhar do Bom Pastor não deixa de acompanhar todos os seus. Dado o relevo da figura do sacerdote no acompanhamento humano, pastoral e espiritual dos doentes nas fases terminais da vida, é preciso que no seu percurso de formação seja prevista uma atualizada e direcionada preparação a respeito. É igualmente importante que sejam formados para tal acompanhamento cristão também os médicos e demais profissionais da saúde, já que podem haver circunstâncias particulares que tornam muito difícil a adequada presença dos sacerdotes junto ao leito dos doentes terminais.

Ser homens e mulheres especialistas em humanidade significa favorecer, através das atitudes com que se cuida do próximo sofredor, o encontro com o Senhor da vida, o único capaz de derramar de maneira eficaz sobre as feridas humanas o óleo da consolação e o vinho da esperança.

Cada homem tem o direito natural de ser assistido nessa hora suprema segundo as expressões da religião que professa.

O momento sacramental é sempre o ápice de todo empenho pastoral de cuidado que o precede e fonte de tudo que o segue.

A Igreja chama sacramentos «de cura»[85] a Penitência e a Unção dos Enfermos, que culminam na Eucaristia como “viático” para a vida eterna[86]. Mediante a proximidade da Igreja, o doente vive a proximidade de Cristo que o acompanha no caminho para a casa do Pai (cfr. Jo 14, 6) e o ajuda a não cair no desespero[87], sustentando-o na esperança, sobretudo quando o caminho se faz mais árduo[88].

11.     O discernimento pastoral para quem pede eutanásia ou suicídio assistido

Um caso todo particular em que hoje é necessário reafirmar o ensinamento da Igreja é o acompanhamento pastoral de quem pediu expressamente a eutanásia ou o suicídio assistido. A respeito do sacramento da Reconciliação, o confessor deve assegurar-se que haja a contrição, a qual é necessária para a validade da absolvição, e que consiste na «dor da alma e a reprovação do pecado cometido, acompanhada do propósito de não mais pecar no futuro»[89]. No nosso caso, encontramo-nos diante de uma pessoa que, além de suas disposições subjetivas, realizou a escolha de um ato gravemente imoral e persevera nisso livremente. Trata-se de uma manifesta não-disposição para a recepção dos sacramentos da Penitência, com a absolvição[90], e da Unção[91], assim como do Viático[92]. Poderá receber tais sacramentos no momento em que a sua disposição em dar passos concretos permita ao ministro concluir que o penitente modificou sua decisão. Isto comporta também que uma pessoa que se registrou em uma associação para receber a eutanásia ou o suicídio assitido deva mostrar o propósito de anular tal inscrição antes de receber os sacramentos. Recorde-se que a necessidade de postergar a absolvição não implica um juízo sobre a imputabilidade da culpa, dado que a responsabilidade pessoal poderia ser diminuída ou até mesmo não subsistir[93]. No caso em que o paciente fosse já privado de consciência, o sacerdote poderia administrar os sacramentos sub condicione se se pode presumir o arrependimento a partir de algum sinal dado anteriormente pela pessoa doente.

Esta posição da Igreja não é sinal de falta de acolhimento ao doente. Ela deve ser, de fato, unida à oferta da ajuda e da escuta sempre possíveis, sempre concedidas, junto com uma aprofundada explicação do conteúdo do sacramento, a fim de dar à pessoa, até o último momento, os instrumentos para poder escolhê-lo e desejá-lo. A Igreja, com efeito, é atenta a perscrutar os sinais de conversão suficientes, para que os fieis possam pedir razoavelmente a recepção dos sacramentos. Recorde-se que postergar a absolvição é também um ato medicinal da Igreja, voltado não a condenar o pecador, mas a movê-lo e a acompanhá-lo rumo à conversão.

Deste modo, também no caso em que uma pessoa não se encontre nas condições objetivas para receber os sacramentos, é necessária uma proximidade que a convide sempre à conversão, sobretudo se a eutanásia, requerida ou aceitada, não será praticada em breve tempo. Haverá então a possibilidade de um acompanhamento para fazer renascer a esperança e modificar a escolha errônea, de modo que ao doente seja aberto o acesso aos sacramentos.

Todavia, não é admissível, da parte daqueles que assistem espiritualmente estes enfermos, qualquer gesto exterior que possa ser interpretado como uma aprovação da ação eutanásica, como, por exemplo, o estar presente no momento de sua realização. Tal presença não se pode interpretar senão como cumplicidade. Este princípio se refere de modo particular, mas não só, aos capelães das estruturas sanitárias onde pode ser praticada a eutanásia, que não devem dar escândalo, mostrando-se de algum modo cúmplices da supressão de uma vida humana.

12.     A reforma do sistema educativo e da formação dos profissionais da saúde

No contexto social e cultural hodierno, tão denso de desafios em relação à tutela da vida humana nas fases mais críticas da existência, o papel da educação é ineludível. A família, a escola, as outras instituições educativas e as comunidades paroquiais devem trabalhar com perseverança para o despertar e o aperfeiçoamento daquela sensibilidade para com o próximo e o seu sofrimento, de que se tornou símbolo a figura do Samaritano evangélico[94].

As capelanias hospitalares têm a obrigação de ampliar a formação espiritual e moral dos profissionais da saúde, inclusive dos médicos e enfermeiros, assim como dos grupos de voluntariado hospitalar, para que saibam fornecer a assistência humana e psicológica necessária nas fases terminais da vida. O cuidado psicológico e espiritual do paciente durante todo o decurso da doença deve ser uma prioridade para os agentes de pastoral e profissionais da saúde, premurando-se em colocar ao centro o paciente e sua família.

Os cuidados paliativos devem ser difundidos no mundo e é necessário predispor a tal fim cursos acadêmicos para a formação especializada dos profissionais da saúde. Prioritária é também a difusão de uma correta e capilar informação sobre a eficácia de autênticos cuidados paliativos para um acompanhamento digno da pessoa até a morte natural. As instituições sanitárias de inspiração cristã devem predispor diretrizes para os próprios profissionais da saúde que incluam uma apropriada assistência psicológica, moral e espiritual como componente essencial dos cuidados paliativos.

A assistência humana e espiritual precisa entrar nos percursos formativos acadêmicos de todos os profissionais da saúde e nos estágios hospitalares.

Além disso, as estruturas sanitárias e assitenciais são chamadas a oferecer modelos de assistência psicológica e espiritual para os profissionais da saúde que têm sob sua responsabilidade pacientes terminais. Cuidar de quem cuida é essencial para evitar que sobre os agentes e médicos caia todo o peso (burn out) do sofrimento e da morte dos pacientes incuráveis. Eles precisam de suporte e de momentos adequados de encontro e de escuta para poder elaborar não somente valores e emoções, mas também o sentido da angústia, do sofrimento e da morte no âmbito do seu serviço à vida. Devem poder perceber o sentido profundo de esperança e a consciência de que a própria missão é uma verdadeira vocação a sustentar e acompanhar o mistério da vida e da graça nas fases dolorosas e terminais da existência[95].

Conclusão

O Mistério da Redenção do homem é surpreendentemente enraizado no envolvimento amoroso de Deus com o sofrimento humano. Eis porque podemos confiar em Deus e transmitir esta certeza de fé ao homem sofredor e assustado pela dor e pela morte.

O testemunho cristão mostra como a esperança seja sempre possível, também ao interno da cultura do descarte. «A eloquência da parábola do Bom Samaritano, como também de todo o Evangelho, está sobretudo nisto: o homem deve sentir-se como que chamado em primeira pessoa a testemunhar o amor no sofrimento»[96].

A Igreja aprende do Bom Samaritano o cuidado com o doente terminal e obedece assim ao mandamento conexo ao dom da vida: «respeita, defende, ama e serve a vida, cada vida humana!»[97]. O evangelho da vida é um evangelho da compaixão e da misericórdia, direcionado ao homem concreto, fraco e pecador, para aliviá-lo, mantê-lo na vida da graça e, se possível, curá-lo de toda ferida.

Não basta, todavia, compartilhar a dor, é preciso mergulhar nos frutos do Mistério Pascal de Cristo para vencer o pecado e o mal, com a vontade de «remover a miséria alheia como se se tratasse da própria»[98]. A maior miséria consiste, porém, na falta de esperança diante da morte. Esta é a esperança anunciada pelo testemunho cristão, o qual para ser eficaz deve ser vivido na fé, envolvendo a todos, familiares, enfermeiros, médicos e a pastoral das dioceses e dos centros hospitalares católicos, chamados a viver com fidelidade o dever do acompanhamento dos doentes em todas as fases da doença, em particular nas fases críticas e terminais da vida, assim como definido no presente documento.

O Bom Samaritano, que põe no centro do seu coração o rosto do irmão em dificuldade, sabe ver a sua necessidade, oferece-lhe todo o bem de que precisa para aliviá-lo da ferida da desolação e abre no seu coração luminosas brechas de esperança.

O “querer bem” do Samaritano, que se faz próximo do homem ferido não com palavras nem com a língua, mas com ações e de verdade (cfr. 1Jo 3, 18), toma a forma do cuidado, a exemplo de Cristo, que passou fazendo o bem e curando a todos (cfr. At 10, 38).

Curados por Jesus, tornamo-nos homens e mulheres chamados a anunciar a seu poder que cura, a amar e a cuidar do próximo como Ele nos testemunhou.

Esta vocação ao amor e ao cuidado do outro[99], que traz consigo ganhos de eternidade, é tornada explícita pelo Senhor da vida na paráfrase do juízo final: recebei em herança o reino, porque eu era doente e fostes me visitar. Quando, Senhor? Todas as vezes que o fizestes a um irmão mais pequenino, a um irmão sofredor, a mim o fizestes (cfr. Mt 25, 31-46).

O Sumo Pontífice Francisco, na data de 25 de junho de 2020, aprovou esta Carta, decidida na Sessão Plenária desta Congregação em 29 de janeiro de 2020, e ordenou a sua publicação.

Dado em Roma, da sede da Congregação para a Doutrina da Fé, em 14 de julho de 2020, memória litúrgica de São Camilo de Lélis.

Luis F. Card. LADARIA, S.I.
Prefeito

 Giacomo MORANDI
Arcebispo tit. de Cerveteri
Secretário

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[1] Missal Romano reformado segundo os decretos do Concílio Vaticano II, promulgado pelo Papa Paulo VI. Conferências Episcopais de Portugal, Moçambique, Angola e São Tomé e Dioceses de Bissau e Cabo Verde, 1992. Prefácio comum VIII, p. 507.

[2] Cfr. Pontifício Conselho Para a Pastoral no Campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2016, n. 6.

[3] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Spe salvi (30 de novembro de 2007), n. 22: AAS 99 (2007), 1004: «Se ao progresso técnico não corresponde um progresso na formação ética do homem, no crescimento do homem interior (cf. Ef 3,16; 2Cor 4,16), então aquele não é um progresso, mas uma ameaça para o homem e para o mundo».

[4] Cfr. Francisco, Discurso à Associação Italiana contra as leucemias-linfomas e mieloma (AIL) (2 de março de 2019): L’Osservatore Romano, 3 de março de 2019, 7.

[5] Id., Exort. Ap. Amoris laetitia (19 de março de 2016), n. 3: AAS 108 (2016), 312.

[6] Cfr. Conc. Ecum. Vaticano II, Const. Past. Gaudium et spes (7 de dezembro de 1965), n. 10: AAS 58 (1966), 1032-1033.

[7] Cfr. João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 4: AAS 76 (1984), 203.

[8] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 144.

[9] Francisco, Mensagem para a XLVIII Jornada Mundial das Comunicações Sociais (24 de janeiro de 2014): AAS 106 (2014), 114.

[10] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 87: AAS 87 (1995), 500.

[11] Cfr. Id., Carta Enc. Centesimus annus (1° de maio de 1991), n. 37: AAS 83 (1991), 840.

[12] Id., Carta Enc. Veritatis splendor (6 de agosto de 1993), n. 50: AAS 85 (1993), 1173.

[13] Id., Discurso aos participantes do Congresso Internacional sobre “Os tratamentos de suporte vital e estado vegetativo. Progressos científicos e dilemas éticos” (20 de março de 2004), n. 7: AAS 96 (2004), 489.

[14] Cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Carta Placuit Deo (22 de fevereiro de 2018), n. 6: AAS 110 (2018), 430.

[15] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 9.

[16] Cfr. Paulo VI, Alocução na última sessão pública do Concílio (7 de dezembro de 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[17] Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 9.

[18] Cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Carta Placuit Deo (22 de fevereiro de 2018), n.12: AAS 110 (2018), 433-434.

[19] Francisco, Discurso aos participantes da Plenária da Congregação para a Doutrina da Fé (30 de janeiro de 2020): L’Osservatore Romano, 31 de janeiro de 2020, 7.

[20] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Deus caritas est (25 de dezembro de 2005), n. 31: AAS 98 (2006), 245.

[21] Cfr. Id., Carta Enc. Caritas in veritate (29 de junho de 2009), n. 76: AAS 101 (2009), 707.

[22] Cfr. João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 49: AAS 87 (1995), 455: «O sentido mais verdadeiro e profundo da vida: ser um dom que se consuma no dar-se».

[23] Conc. Ecum. Vaticano II, Const. Dogm. Dei Verbum (8 de novembro de 1965), n. 2: AAS 58 (1966), 818.

[24] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 34: AAS 87 (1995), 438.

[25] Cfr. Declaração conjunta das Religiões Monoteístas Abramíticas sobre as problemáticas do fim da vida, Cidade do Vaticano, 28 de outubro de 2019: «Opomo-nos a toda forma de eutanásia – que é um ato direto, deliberado e intencional de tirar a vida – como também ao suicídio medicamente assistido – que é um direto, deliberado e intencional suporte ao suicidar-se – enquanto são atos completamente em contradição com o valor da vida humana e por isso, em consequência, são ações equivocadas do ponto de vista seja moral, seja religioso e deveriam ser proibidas sem exceções».

[26] Cfr. Francisco, Discurso ao Congresso da Associação dos Médicos Católicos Italianos no 70° aniversário de fundação (15 de novembro de 2014): AAS 106 (2014), 976.

[27] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 1; Congregação para a Doutrina da Fé, Instr. Dignitas personae (8 de setembro de 2008), n. 8: AAS 100 (2008), 863.

[28] Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 de maio de 2015), n. 65: AAS 107 (2015), 873.

[29] Conc. Ecum. Vaticano II, Const. Past. Gaudium et spes (7 de dezembro de 1965), n. 27: AAS 58 (1966), 1047-1048.

[30] Francisco, Discurso ao Congresso da Associação dos Médicos Católicos Italianos no 70° aniversário de fundação (15 de novembro de 2014): AAS 106 (2014), 976.

[31] Cfr. Id., Discurso à Federação Nacional da Ordem dos Médicos Cirurgiões e dos Dentistas (20 de setembro de 2019): L’Osservatore Romano, 21 de setembro de 2019, 8: «São modos apressados de lidar com escolhas que não são, como poderiam parecer, uma expressão de liberdade da pessoa, quando incluem o descarte do paciente como possibilidade, ou falsa compaixão diante do pedido de ser ajudado a antecipar a morte».

[32] Congregação para a Doutrina da Fé, Carta Placuit Deo (22 de fevereiro de 2018), n. 3: AAS 110 (2018), 428-429; cfr. Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 de maio de 2015), n. 162: AAS 107 (2015), 912.

[33] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Caritas in veritate (29 de junho de 2009), n. 53: AAS 101 (2009), 688: «Uma das pobrezas mais profundas que o homem pode experimentar é a solidão. Vistas bem as coisas, as outras pobrezas, incluindo a material, também nascem do isolamento, de não ser amado ou da dificuldade de amar».

[34] Cfr. Francisco, Exort. Ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), n. 53: AAS 105 (2013), 1042; veja-se também: Id., Discurso à delegação do Instituto “Dignitatis Humanae” (7 de dezembro de 2013): AAS 106 (2014), 14-15; Id., Encontro com os anciãos (28 de setembro de 2014): AAS 106 (2014), 759-760.

[35] Cfr. João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 12: AAS 87 (1995), 414.

[36] Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[37] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[38] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 477. É uma doutrina proposta de modo definitivo, na qual a Igreja empenha a sua infalibilidade: cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Nota doutrinal ilustrativa da fórmula conclusiva da Professio fidei (29 de junho de 1998), n. 11: AAS 90 (1998), 550.

[39] Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[40] Cfr. Catecismo da Igreja Católica, n. 2286.

[41] Cfr. Ibidem, nn. 1735 e 2282.

[42] Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura e bona (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[43] Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n.169.

[44] Cfr. Ibidem, n.170.

[45] Cfr. João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 72: AAS 87 (1995), 484-485.

[46] Francisco, Discurso aos participantes da Assembleia Plenária da Congregação para a Doutrina da Fé (30 de janeiro de 2020): L’Osservatore Romano, 31 de janeiro de 2020, 7.

[47] João Paulo II, Carta Enc. Veritatis splendor (6 de agosto de 1993), n. 15: AAS 85 (1993), 1145.

[48] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Spe salvi (30 de novembro de 2007), nn. 36-37: AAS 99 (2007), 1014-1016.

[49] Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[50] João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 5: AAS 76 (1984), 204.

[51] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Spe salvi (30 de novembro de 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[52] Cfr. João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244: «O homem que é o “próximo” não pode passar com indiferença diante do sofrimento de outrem; e isso, por motivo da solidariedade humana fundamental e em nome do amor ao próximo. Deve “parar”, “deixar-se comover”, como fez o Samaritano da parábola evangélica. Esta parábola, em si mesma, exprime uma verdade profundamente cristã e, ao mesmo tempo, universalmente, muitíssimo humana».

[53] Cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), IV: AAS 72 (1980), 549-551.

[54] Cfr. Catecismo da Igreja Católica, n. 2278; Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Carta dos Profissionais da Saúde, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, n. 119; João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae(25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Francisco, Mensagem aos participantes do meeting regional europeu da World Medical Association (7 de novembro de 2017): «E se sabemos que nem sempre podemos garantir a cura da doença, devemos e podemos sempre cuidar da pessoa viva: sem abreviar nós mesmos a sua vida, mas também sem nos obstinarmos inutilmente contra a sua morte»; Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 149.

[55] Cfr. Catecismo da Igreja Católica, n. 2278; Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), IV: AAS 72 (1980), 550-551; João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 475; Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 150.

[56] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[57] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 150.

[58] Cfr. João Paulo II, Discurso aos participantes de um encontro de estudo sobre a procriação responsável (5 de junho de 1987), n. 1: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/2 (1987), 1962: «Falar de “conflito de valores ou bens” e da consequente necessidade de realizar como que uma espécie de “balanceamento” dos mesmos, escolhendo um e rejeitando o outro, não é moralmente correto».

[59] Cfr. Id., Discurso à Associação dos Médicos Católicos Italianos (28 de dezembro de 1978): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I (1978), 438.

[60] Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 150.

[61] Cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Respostas a perguntas da Conferência Episcopal dos Estados Unidos sobre a alimentação e a hidratação artificiais (1 de agosto de 2007): AAS 99 (2007), 820.

[62] Ibidem.

[63] Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 152: «A nutrição e a hidratação, também administradas artificialmente, fazem parte dos cuidados básicos devidos ao moribundo, quando não resultem demasiadamente pesados ou sem nenhum benefício. A sua suspensão não justificada pode ter o significado de um verdadeiro ato eutanásico: “A administração de alimento e água, mesmo por vias artificiais, é em linha de princípio um meio ordinário e proporcionado de conservação da vida. Ela é pois obrigatória, na medida em que e até quando demonstra alcançar a sua finalidade própria, que consiste em promover a hidratação e a nutrição do paciente. Desse modo se evitam os sofrimentos e a morte devidos à inanição e à desidratação”».

[64] Francisco, Discurso à Plenária da Pontifícia Academia para a Vida (5 de março de 2015): AAS 107 (2015), 274, com referência a: João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476. Cfr. Catecismo da Igreja Católica, n. 2279.

[65] Cfr. Francisco, Discurso à Plenária da Pontifícia Academia para a Vida (5 de março de 2015): AAS 107 (2015), 275.

[66] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 147.

[67] Cfr. João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 2: AAS 76 (1984), 202: «O sofrimento parece pertencer à transcendência do homem: este é um daqueles pontos nos quais o homem é de certo modo “destinado” a superar a si mesmo, sendo chamado a isto de modo misterioso».

[68] Bento XVI, Carta Enc. Spe salvi (30 de novembro de 2007), n. 38: AAS 99 (2007), 1016.

[69] Francisco, Exort. Ap. Amoris laetitia (19 de março de 2016), n. 48: AAS 108 (2016), 330.

[70] C. Saunders, Watch with me. Inspiration for a life in hospice care. Observatory House, Lancaster, UK, 2005, p. 29.

[71] Francisco, Discurso aos participantes da Assembleia Plenária da Congregação para a Doutrina da Fé (30 de janeiro de 2020): L’Osservatore Romano, 31 de janeiro de 2020, 7.

[72] Cfr. Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 148.

[73] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 de fevereiro de 1957): AAS 49 (1957), 134-136; Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), III: AAS 72 (1980), 547; João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 19: AAS 76 (1984), 226.

[74] Cfr. Pio XII, Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali Romae habito a «Collegio Internationale Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 de setembro de 1958): AAS 50 (1958), 694; Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catecismo da Igreja Católica, n. 2779; Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 155: «Dá-se ainda a eventualidade de causar com os analgésicos e os narcóticos a supressão da consciência no moribundo. Tal emprego merece uma particular consideração. Em presença de dores insuportáveis, refratárias às terapias analgésicas usuais, em proximidade do momento da morte, ou na fundada previsão de uma particular crise no momento da morte, uma séria indicação clínica pode comportar, com o consentimento do doente, a administração de fármacos supressivos da consciência. Esta sedação paliativa profunda em fase terminal, clinicamente motivada, pode ser moralmente aceitável sob a condição de que seja feita com o consentimento do doente, que seja dada uma oportuna informação aos familiares, que seja excluída toda intencionalidade eutanásica e que o doente tenha podido satisfazer seus deveres morais, familiares e religiosos: “aproximando-se à morte, os homens devem ser capazes de poder satisfazer suas obrigações morais e familiares e sobretudo devem poder se preparar com plena consciência ao encontro definitivo com Deus”. Portanto, “não se deve privar o moribundo da consciência de si sem grave motivo”».

[75] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 de fevereiro de 1957): AAS 49 (1957), 145; Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), III: AAS 72 (1980), 548; João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476.

[76] Cfr. Francisco, Discurso ao Congresso da Associação dos Médicos Católicos Italianos no 70° aniversário de fundação (15 de novembro de 2014): AAS 106 (2014), 978.

[77] Cfr. Pio XII, Allocutio. Trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie (24 de fevereiro de 1957): AAS 49 (1957), 146; Id., Allocutio. Iis qui interfuerunt Conventui internationali Romae habito a «Collegio Internationale Neuro-Psycho-Pharmacologico» indicto (9 de setembro de 1958): AAS 50 (1958), 695; Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona (5 de maio de 1980), III: AAS 72 (1980), 548; Catecismo da Igreja Católica, n. 2279; João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 65: AAS 87 (1995), 476; Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 154.

[78] Cfr. João Paulo II, Discurso aos participantes do Congresso Internacional sobre “Os tratamentos de suporte vital e estado vegetativo. Progressos científicos e dilemas éticos” (20 de março de 2004), n. 3: AAS 96 (2004), 487: «Um homem, mesmo se gravemente doente ou impedido no exercício das suas funções mais elevadas, é e será sempre um homem, jamais se tornará um “vegetal” ou um “animal”».

[79] Pontifício Conselho para a Pastoral no campo da Saúde, Nova carta dos Profissionais da Saúde, n. 151.

[80] Ibidem, n. 151; cfr. João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 74: AAS 87 (1995), 487.

[81] Cfr. Francisco, Discurso ao Congresso da Associação dos Médicos Católicos Italianos no 70° aniversário de fundação (15 de novembro de 2014): AAS 106 (2014), 977.

[82] João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 73: AAS 87 (1995), 486.

[83] Bento XVI, Discurso ao Congresso da Pontifícia Academia para a Vida sobre o tema “Junto ao doente incurável e ao moribundo: orientações éticas e operativas” (25 de fevereiro de 2008): AAS 100 (2008), 171.

[84] Francisco, Audiência Geral (10 de junho de 2015): L’Osservatore Romano, 11 de junho de 2015, 8.

[85] Catecismo da Igreja Católica, n. 1420.

[86] Cfr. Rituale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio typica, Praenotanda, Typis Poliglotis Vaticanis, Civitate Vaticana, 1972, n. 26; Catecismo da Igreja Católica, n. 1524.

[87] Cfr. Francisco, Carta Enc. Laudato si’ (24 de maio de 2015), n. 235: AAS 107 (2015), 939.

[88] Cfr. João Paulo II, Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 67: AAS 87 (1995), 478-479.

[89] Concílio de Trento, Sess. XIV, De sacramento penitentiae, cap. 4. In: Denzinger-Hünermann, 1676.

[90] Cfr. CIC, can. 987.

[91] Cfr. CIC, can. 1007: «Não se administre a Unção dos Enfermos aos que perseverarem obstinadamente em pecado grave manifesto».

[92] Cfr. CIC, can. 915 e can. 843 §1.

[93] Cfr. Congregação para a Doutrina da Fé, Decl. Iura et bona, (5 de maio de 1980), II: AAS 72 (1980), 546.

[94] Cfr. João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 244-246.

[95] Cfr. Francisco, Discurso aos dirigentes das Ordens dos Médicos da Espanha e da América Latina (9 de junho de 2016): AAS 108 (2016), 727-728: «A fragilidade, a dor e a doença são uma provação difícil para todos, até para o pessoal médico, são um apelo à paciência, ao padecer-com; portanto não se pode ceder à tentação funcional de aplicar soluções rápidas e drásticas, movidos por uma falsa compaixão, nem por meros critérios de eficiência e de economia. É a dignidade da vida humana que está em jogo; e também a dignidade da vocação médica».

[96] João Paulo II, Carta Ap. Salvifici doloris (11 de fevereiro de 1984), n. 29: AAS 76 (1984), 246.

[97] Id., Carta Enc. Evangelium vitae (25 de março de 1995), n. 5: AAS 87 (1995), 407.

[98] Tomás de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3.

[99] Cfr. Bento XVI, Carta Enc. Spe salvi (30 de novembro de 2007), n. 39: AAS 99 (2007), 1016: «Sofrer com o outro, pelos outros; sofrer por amor da verdade e da justiça; sofrer por causa do amor e para se tornar uma pessoa que ama verdadeiramente: estes são elementos fundamentais de humanidade, o seu abandono destruiria o próprio homem».

[01077-PO.01] [Texto original: Italiano]

[B0476-XX.02]