Lettera del Santo Padre
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua spagnola
Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Francesco ha inviato ai Sacerdoti della Diocesi di Roma:
Lettera del Santo Padre
Cari fratelli,
in questo tempo pasquale pensavo di incontrarvi e celebrare insieme la Messa Crismale. Non essendo possibile una celebrazione di carattere diocesano, vi scrivo questa lettera. La nuova fase che iniziamo ci chiede saggezza, lungimiranza e impegno comune, in modo che tutti gli sforzi e i sacrifici fatti finora non siano vani.
Durante questo tempo di pandemia, molti di voi hanno condiviso con me, per posta elettronica o telefono, che cosa significava questa situazione imprevista e sconcertante. Così, senza poter uscire né avere un contatto diretto, mi avete permesso di conoscere “di prima mano” ciò che stavate vivendo. Questa condivisione ha nutrito la mia preghiera, in molti casi per ringraziare della testimonianza coraggiosa e generosa che ricevevo da voi; in altri, era la supplica e l’intercessione fiduciosa nel Signore che sempre tende la sua mano (cfr Mt 14,31). Sebbene fosse necessario mantenere il distanziamento sociale, questo non ha impedito di rafforzare il senso di appartenenza, di comunione e di missione che ci ha aiutato a far sì che la carità, specialmente con le persone e le comunità più svantaggiate, non fosse messa in quarantena. Ho potuto constatare, in quei dialoghi sinceri, che la necessaria distanza non era sinonimo di ripiegamento o chiusura in sé che anestetizza, addormenta e spegne la missione.
Incoraggiato da questi scambi, vi scrivo perché voglio essere più vicino a voi per accompagnare, condividere e confermare il vostro cammino. La speranza dipende anche da noi e richiede che ci aiutiamo a mantenerla viva e operante; quella speranza contagiosa che si coltiva e si rafforza nell’incontro con gli altri e che, come dono e compito, ci è data per costruire la nuova “normalità” che tanto desideriamo.
Vi scrivo guardando alla prima comunità apostolica, che pure visse momenti di confinamento, isolamento, paura e incertezza. Trascorsero cinquanta giorni tra l’immobilità, la chiusura, e l’annuncio incipiente che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. I discepoli, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano per paura, furono sorpresi da Gesù che «stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,19-22). Che anche noi ci lasciamo sorprendere!
«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore» (Gv 20,19)
Oggi come ieri sentiamo che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1). Come conosciamo bene tutto questo! Tutti abbiamo ascoltato i numeri e le percentuali che giorno dopo giorno ci assalivano; abbiamo toccato con mano il dolore della nostra gente. Ciò che arrivava non erano dati lontani: le statistiche avevano nomi, volti, storie condivise. Come comunità presbiterale non siamo stati estranei a questa realtà e non siamo stati a guardarla alla finestra; inzuppati dalla tempesta che infuriava, voi vi siete ingegnati per essere presenti e accompagnare le vostre comunità: avete visto arrivare il lupo e non siete fuggiti né avete abbandonato il gregge (cfr Gv 10,12-13).
Abbiamo patito la perdita repentina di familiari, vicini, amici, parrocchiani, confessori, punti di riferimento della nostra fede. Abbiamo visto i volti sconsolati di coloro che non hanno potuto stare vicino e dire addio ai propri cari nelle loro ultime ore. Abbiamo visto la sofferenza e l’impotenza degli operatori sanitari che, sfiniti, si esaurivano in interminabili giornate di lavoro preoccupati di soddisfare così tante richieste. Tutti abbiamo sentito l’insicurezza e la paura di lavoratori e volontari che si esponevano quotidianamente perché i servizi essenziali fossero assicurati; e anche per accompagnare e prendersi cura di coloro che, a causa della loro esclusione e vulnerabilità, subivano ancora di più le conseguenze di questa pandemia. Abbiamo ascoltato e visto le difficoltà e i disagi del confinamento sociale: la solitudine e l’isolamento soprattutto degli anziani; l’ansia, l’angoscia e il senso di non-protezione di fronte all’incertezza lavorativa e abitativa; la violenza e il logoramento nelle relazioni. La paura ancestrale del contagio è tornata a colpire con forza. Abbiamo condiviso anche le angoscianti preoccupazioni di intere famiglie che non sanno cosa mettere nei piatti la prossima settimana.
Abbiamo sperimentato la nostra stessa vulnerabilità e impotenza. Come il forno prova i vasi del vasaio, così siamo stati messi alla prova (cfr Sir 27,5). Frastornati da tutto ciò che accadeva, abbiamo sentito in modo amplificato la precarietà della nostra vita e degli impegni apostolici. L’imprevedibilità della situazione ha messo in luce la nostra incapacità di convivere e confrontarci con l’ignoto, con ciò che non possiamo governare o controllare e, come tutti, ci siamo sentiti confusi, impauriti, indifesi. Viviamo anche quella rabbia sana e necessaria che ci spinge a non farci cadere le braccia di fronte alle ingiustizie e ci ricorda che siamo stati sognati per la Vita. Come Nicodemo, di notte, sorpresi perché «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va», ci siamo chiesti: «Come può accadere questo?»; e Gesù ci ha risposto: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose?» (cfr Gv 3,8-10).
La complessità di ciò che si doveva affrontare non tollerava ricette o risposte da manuale; richiedeva molto più di facili esortazioni o discorsi edificanti, incapaci di radicarsi e assumere consapevolmente tutto quello che la vita concreta esigeva da noi. Il dolore della nostra gente ci faceva male, le sue incertezze ci colpivano, la nostra comune fragilità ci spogliava di ogni falso compiacimento idealistico o spiritualistico, come pure di ogni tentativo di fuga puritana. Nessuno è estraneo a tutto ciò che accade. Possiamo dire che abbiamo vissuto comunitariamente l’ora del pianto del Signore: abbiamo pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro (cfr Gv 11,35), davanti alla chiusura del suo popolo (cfr Lc 13,14; 19,41), nella notte oscura del Getsemani (cfr Mc 14,32-42; Lc 22,44). È anche l’ora del pianto del discepolo davanti al mistero della Croce e del male che colpisce tanti innocenti. È il pianto amaro di Pietro dopo il rinnegamento (cfr Lc 22,62), quello di Maria Maddalena davanti al sepolcro (cfr Gv 20,11).
Sappiamo che in tali circostanze non è facile trovare la strada da percorrere, e nemmeno mancheranno le voci che diranno tutto quello che si sarebbe potuto fare di fronte a questa realtà sconosciuta. I nostri modi abituali di relazionarci, organizzare, celebrare, pregare, convocare e persino affrontare i conflitti sono stati modificati e messi in discussione da una presenza invisibile che ha trasformato la nostra quotidianità in avversità. Non si tratta solo di un fatto individuale, familiare, di un determinato gruppo sociale o di un Paese. Le caratteristiche del virus fanno scomparire le logiche con cui eravamo abituati a dividere o classificare la realtà. La pandemia non conosce aggettivi, confini e nessuno può pensare di cavarsela da solo. Siamo tutti colpiti e coinvolti.
La narrativa di una società della profilassi, imperturbabile e sempre pronta al consumo indefinito è stata messa in discussione, rivelando la mancanza di immunità culturale e spirituale davanti ai conflitti. Una serie di vecchi e nuovi interrogativi e problemi (che molte regioni ritenevano superati e consideravano cose del passato) hanno occupato l’orizzonte e l’attenzione. Domande che non troveranno risposta semplicemente con la riapertura delle varie attività; piuttosto sarà indispensabile sviluppare un ascolto attento ma pieno di speranza, sereno ma tenace, costante ma non ansioso che possa preparare e spianare le strade che il Signore ci chiama a percorrere (cfr Mc 1,2-3). Sappiamo che dalla tribolazione e dalle esperienze dolorose non si esce uguali a prima. Dobbiamo essere vigilanti e attenti. Il Signore stesso, nella sua ora cruciale, pregò per questo: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (Gv 17,15). Esposti e colpiti personalmente e comunitariamente nella nostra vulnerabilità e fragilità e nei nostri limiti, corriamo il grave rischio di ritirarci e di stare a “rimuginare” la desolazione che la pandemia ci presenta, come pure di esasperarci in un ottimismo illimitato, incapace di accettare la reale dimensione degli eventi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 226-228).
Le ore di tribolazione chiamano in causa la nostra capacità di discernimento per scoprire quali sono le tentazioni che minacciano di intrappolarci in un’atmosfera di sconcerto e confusione, per poi farci cadere in un andazzo che impedirà alle nostre comunità di promuovere la vita nuova che il Signore Risorto ci vuole donare. Sono diverse le tentazioni, tipiche di questo tempo, che possono accecarci e farci coltivare certi sentimenti e atteggiamenti che non permettono alla speranza di stimolare la nostra creatività, il nostro ingegno e la nostra capacità di risposta. Dal voler assumere onestamente la gravità della situazione, ma cercando di risolverla solo con attività sostitutive o palliative aspettando che tutto ritorni alla “normalità”, ignorando le ferite profonde e il numero di persone cadute nel frattempo; fino al rimanere immersi in una certa paralizzante nostalgia del recente passato che ci fa dire “niente sarà più come prima” e ci rende incapaci di invitare gli altri a sognare e ad elaborare nuove strade e nuovi stili di vita.
«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20,19-21).
Il Signore non ha scelto o cercato una situazione ideale per irrompere nella vita dei suoi discepoli. Certamente avremmo preferito che tutto ciò che è accaduto non fosse successo, ma è successo; e come i discepoli di Emmaus, possiamo anche continuare a mormorare rattristati lungo la strada (cfr Lc 24,13-21). Presentandosi nel Cenacolo a porte chiuse, in mezzo all’isolamento, alla paura e all’insicurezza in cui vivevano, il Signore è stato in grado di trasformare ogni logica e dare un nuovo significato alla storia e agli eventi. Ogni tempo è adatto per l’annuncio della pace, nessuna circostanza è priva della sua grazia. La sua presenza in mezzo al confinamento e alle assenze forzate annuncia, per i discepoli di ieri come per noi oggi, un nuovo giorno capace di mettere in discussione l’immobilità e la rassegnazione e di mobilitare tutti i doni al servizio della comunità. Con la sua presenza, il confinamento è diventato fecondo dando vita alla nuova comunità apostolica.
Diciamolo con fiducia e senza paura: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). Non temiamo gli scenari complessi che abitiamo perché lì, in mezzo a noi, c’è il Signore; Dio ha sempre compiuto il miracolo di generare buoni frutti (cfr Gv 15,5). La gioia cristiana nasce proprio da questa certezza. In mezzo alle contraddizioni e all’incomprensibile che ogni giorno dobbiamo affrontare, sommersi e persino storditi da tante parole e connessioni, si nasconde la voce del Risorto che ci dice: «Pace a voi!».
È confortante prendere il Vangelo e contemplare Gesù in mezzo al suo popolo, mentre accoglie e abbraccia la vita e le persone così come si presentano. I suoi gesti danno corpo al bellissimo canto di Maria: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,51-52). Egli stesso ha offerto le sue mani e il suo costato ferito come una via di risurrezione. Non nasconde né dissimula le sue piaghe; anzi, invita Tommaso a toccare con mano come un costato ferito può essere fonte di Vita in abbondanza (cfr Gv 20,27-29).
In ripetute occasioni, come accompagnatore spirituale, ho potuto essere testimone del fatto che «la persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore, è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: “Piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15). Saper piangere con gli altri, questo è santità» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 76).
«“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,21-22).
Cari fratelli, in quanto comunità presbiterale siamo chiamati ad annunciare e profetizzare il futuro, come la sentinella che annuncia l’aurora che porta un nuovo giorno (cfr Is 21,11): o sarà qualcosa di nuovo, o sarà di più, molto di più e peggio del solito. La Risurrezione non è solo un evento storico del passato da ricordare e celebrare; è di più, molto di più: è l’annuncio della salvezza di un tempo nuovo che risuona e già irrompe oggi: «Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19); è l’ad-venire che il Signore ci chiama a costruire. La fede ci permette una realistica e creativa immaginazione, capace di abbandonare la logica della ripetizione, della sostituzione o della conservazione; ci invita ad instaurare un tempo sempre nuovo: il tempo del Signore. Se una presenza invisibile, silenziosa, espansiva e virale ci ha messo in crisi e ci ha sconvolto, lasciamo che quest’altra Presenza discreta, rispettosa e non invasiva ci chiami di nuovo e ci insegni a non avere paura di affrontare la realtà. Se una presenza impalpabile è stata in grado di scompaginare e ribaltare le priorità e le apparentemente inamovibili agende globali che tanto soffocano e devastano le nostre comunità e nostra sorella terra, non temiamo che sia la presenza del Risorto a tracciare il nostro percorso, ad aprire orizzonti e a darci il coraggio di vivere questo momento storico e singolare. Un pugno di uomini paurosi è stato capace di iniziare una corrente nuova, annuncio vivo del Dio con noi. Non temete! «La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 109).
Lasciamoci sorprendere ancora una volta dal Risorto. Che sia Lui, dal suo costato ferito, segno di quanto diventa dura e ingiusta la realtà, a spingerci a non voltare le spalle alla dura e difficile realtà dei nostri fratelli. Che sia Lui a insegnarci ad accompagnare, curare e fasciare le ferite del nostro popolo, non con timore ma con l’audacia e la prodigalità evangelica della moltiplicazione dei pani (cfr Mt 14,15-21); con il coraggio, la premura e la responsabilità del samaritano (cfr Lc 10,33-35); con la gioia e la festa del pastore per la sua pecora ritrovata (cfr Lc 15,4-6); con l’abbraccio riconciliante del padre che conosce il perdono (cfr Lc 15,20); con la pietà, la delicatezza e la tenerezza di Maria di Betania (cfr Gv 12,1-3); con la mansuetudine, la pazienza e l’intelligenza dei discepoli missionari del Signore (cfr Mt 10,16-23). Che siano le mani piagate del Risorto a consolare le nostre tristezze, a risollevare la nostra speranza e a spingerci a cercare il Regno di Dio al di là dei nostri rifugi abituali. Lasciamoci sorprendere anche dal nostro popolo fedele e semplice, tante volte provato e lacerato, ma anche visitato dalla misericordia del Signore. Che questo popolo ci insegni a plasmare e temperare il nostro cuore di pastori con la mitezza e la compassione, con l’umiltà e la magnanimità della resistenza attiva, solidale, paziente e coraggiosa, che non resta indifferente, ma smentisce e smaschera ogni scetticismo e fatalismo. Quanto c’è da imparare dalla forza del Popolo fedele di Dio che trova sempre il modo di soccorrere e accompagnare chi è caduto! La Risurrezione è l’annuncio che le cose possono cambiare. Lasciamo che sia la Pasqua, che non conosce frontiere, a condurci creativamente nei luoghi dove la speranza e la vita stanno combattendo, dove la sofferenza e il dolore diventano uno spazio propizio per la corruzione e la speculazione, dove l’aggressività e la violenza sembrano essere l’unica via d’uscita.
Come sacerdoti, figli e membri di un popolo sacerdotale, ci spetta assumere la responsabilità per il futuro e proiettarlo come fratelli. Mettiamo nelle mani piagate del Signore, come offerta santa, la nostra fragilità, la fragilità del nostro popolo, quella dell’umanità intera. Il Signore è Colui che ci trasforma, che si serve di noi come del pane, prende la nostra vita nelle sue mani, ci benedice, ci spezza e ci condivide e ci dà al suo popolo. E con umiltà lasciamoci ungere dalle parole di Paolo affinché si diffondano come olio profumato nei diversi angoli della nostra città e risveglino così la speranza discreta che molti – tacitamente – custodiscono nel loro cuore: «Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,8-10). Partecipiamo con Gesù alla sua passione, la nostra passione, per vivere anche con Lui la forza della risurrezione: certezza dell’amore di Dio capace di muovere le viscere e di uscire agli incroci delle strade per condividere “la Buona Notizia con i poveri, per annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, per dare libertà agli oppressi e proclamare un anno di grazia dal Signore” (cfr Lc 4,18-19), con la gioia che tutti possono partecipare attivamente con la loro dignità di figli del Dio vivente.
Tutte queste cose, che ho pensato e sentito durante questo tempo di pandemia, voglio condividerle fraternamente con voi, perché ci aiutino nel cammino della lode al Signore e del servizio ai fratelli. Spero che a tutti noi servano per “amare e servire di più”.
Il Signore Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi protegga. E, per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me.
Fraternamente,
FRANCESCO
Roma, presso San Giovanni in Laterano, 31 maggio 2020, Solennità di Pentecoste.
[00689-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
Dear Brothers,
During this Easter season I had thought we could meet and celebrate the Chrism Mass together but, since a diocesan celebration was not possible, I am writing this letter to you. This new phase that we have embarked upon demands of us wisdom, farsightedness and shared commitment, so that all the efforts and sacrifices made thus far will not be in vain.
During this time of pandemic, many of you have shared with me by e-mail or telephone your experience of this unexpected and disconcerting situation. In this way, even though I was not able to leave home or encounter you directly, you let me know “first-hand” what you were going through. This in turn I have brought to my prayers, both of thanksgiving for your courageous and generous witness and of petition and trusting intercession before the Lord, who always takes us by the hand (cf. Mt 14:31). The need to maintain social distancing did not prevent us from strengthening our sense of fellowship, communion and mission; and this helped us ensure that charity, especially towards the most vulnerable individuals and communities, was not quarantined. In our frank conversations, I was able to see that necessary distancing was hardly synonymous with withdrawal or the self-absorption which anaesthetises, sedates and extinguishes our sense of mission.
Encouraged by these exchanges, I am writing to you because I want to keep close to you and accompany, support and confirm you along the way. Hope also depends on our efforts, and we have to help one another to keep it alive and active. I mean that contagious hope which is cultivated and reaffirmed in the encounter with others, and which, as a gift and a task, is given to us in order to create the new “normality” that we so greatly desire.
In writing to you, I think of the early apostolic community, which also experienced moments of confinement, isolation, fear and uncertainty. Fifty days passed amid immobility, isolation, yet the first proclamation would change their lives forever. For even as the doors of the place where they stayed were closed out of fear, the disciples were surprised by Jesus who “stood among them and said, ‘Peace be with you!’. After he said this, he showed them his hands and side. The disciples were overjoyed when they saw the Lord. Again Jesus said, ‘Peace be with you! As the Father has sent me, I am sending you’. And with that he breathed on them and said, ‘Receive the Holy Spirit’” (Jn 20:19-22). May we too let ourselves be surprised!
The doors of the house where the disciples met were locked for fear (Jn 20:19)
Today, as then, we sense that “the joys and the hopes, the griefs and the anxieties of the men of this age, especially those who are poor or in any way afflicted… are the joys and hopes, the griefs and anxieties of the followers of Christ. Indeed, nothing genuinely human fails to raise an echo in their hearts” (Gaudium et Spes, 1). How well we know this! We all listened to the numbers and percentages that daily bombarded us; with our own hands we touched the pain of our people. What we heard was not something alien to our own experience: the statistics had names, faces, stories of which we were a part. As a community of priests, we were no strangers to these situations; we did not look out at them from a window. Braving the tempest, you found ways to be present and accompany your communities; when you saw the wolf coming, you did not flee or abandon the flock (cf. Jn 10:12-13).
Suddenly we suffered the loss of family, neighbours, friends, parishioners, confessors, points of reference for our faith. We saw the saddened faces of those unable to be present and bid farewell to their loved ones in their final hours. We felt the suffering and powerlessness experienced by health care workers who, themselves exhausted, continued to work for days on end, out of a concern to meet so many needs. All of us felt the worry and fear experienced by those workers and volunteers who daily exposed themselves to risk in order to ensure that essential services were provided, and to accompany and care for the excluded and the vulnerable who were suffering even more from the effects of the pandemic. We witnessed the difficulties and discomforts of the lockdown: loneliness and isolation, especially among the elderly; anxiety, anguish and a sense of helplessness at the possibility of losing jobs and homes; violence and breakdown in relationships. The age-old fear of being infected once more reared its head. We shared the anguish and concern of entire families uncertain as to whether there would be food on the table in weeks to come.
We also experienced our own vulnerability and helplessness. Just as the kiln tests the potter’s vases, so were we put to the test (cf. Sir 27:5). Distraught, we felt all the more the precariousness of our own lives and our apostolic efforts. The unpredictability of the situation heightened the difficulty we feel in facing the unknown which we cannot control or direct and, like everyone else, we felt confused, fearful and defenceless. At the same time, we also experienced that healthy and necessary courage that refuses to yield in the face of injustice and reminds us that we were created for Life. Like Nicodemus, at night, confused by the fact that “the wind blows where it wills, and you can hear the sound it makes, but you do not know where it comes from or where it goes”, we too wondered: “How can this be?” And Jesus tells us too: “Are you are a teacher of Israel, yet you do not understand these things?” (cf. Jn 3:8-10).
The complexity of the situation we had to face did not allow for textbook recipes or responses. It called for something much more than facile exhortations or edifying speeches incapable of touching hearts and confronting the concrete demands of life. The pain of our people was our pain, their uncertainties our own: our shared sense of frailty stripped us of any pseudo-spiritual complacency or any puritanical attempt to keep at a safe distance. No one can be unaffected by all that has happened. We can say that we experienced as a community the time when the Lord wept: for we too wept before the tomb of Lazarus his friend (cf. Jn 11:35), before the incomprehension of his people (Lk 13:14; 19:41), in the dark night of Gethsemane (cf. Mk 14:32-42; Lk 22:44). It is also the time when his disciples weep before the mystery of the cross and the evil which strikes so many innocent people. It is the bitter weeping of Peter after his denial (cf. Lk 22:62), and that of Mary Magdalene before the tomb (cf. Jn 20:11).
We know that, in situations like these, it is not easy to find the right way forward, and any number of voices will make themselves heard telling us about all that could have been done in the face of this unknown reality. Our usual ways of relating, planning, celebrating, praying, meeting and even dealing with conflict were changed and challenged by an invisible presence that turned our everyday existence upside down. Nor did it simply affect individuals, families, specific social groups or countries. The nature of the virus caused our former ways of dividing and classifying reality to disappear. The pandemic knows no descriptors, no boundaries, and none of us can think of getting by alone. We are all affected and involved.
The notion of a “safe” society, carefree and poised for infinite consumption has been called into question, revealing its lack of cultural and spiritual immunity to conflict. A series of old and new questions and problems (in many places long since considered resolved) came to dominate the horizon and our attention. Those questions will not be answered simply by resuming various activities. They necessarily challenge us to develop a capacity for listening in a way attentive yet filled with hope, serene yet tenacious, persevering yet not fearful. This can prepare and open up the path that the Lord is now calling us to take (cf. Mk 1:2-3). We know that in the wake of tribulation and painful experiences we are never again the same. So all of us need to be vigilant and attentive. The Lord himself, in the hour of his own suffering, prayed for exactly this: “I do not ask that you take them out of the world, but that you keep them from the evil one” (Jn 17:15). Having experienced, as individuals and in our communities, our vulnerability, frailty and limitations, we now run the grave risk of withdrawing and “brooding” over the desolation caused by the pandemic, or else that of seeking refuge in a boundless optimism incapable of grasping the deeper meaning of what is happening all around us (cf. Evangelii Gaudium, 226-228).
Times of tribulation challenge us to discern the temptations that threaten to mire us in bewilderment and confusion, in a mind-set that would prevent our communities from nurturing the new life that the Risen Lord wishes to give us. A variety of temptations can nowadays blind us and encourage sentiments and approaches that block hope from stimulating our creativity, our ingenuity and our ability to respond effectively. Rather than seeking to acknowledge frankly the gravity of the situation, we can attempt to respond merely with new and reassuring activities as we wait for everything to “return to normal”. But in this way we would ignore the deep wounds that have opened and the number of people who have fallen in the meantime. We can also sink into in a kind of numbing nostalgia for the recent past that leads us to keep repeating that “nothing will ever be the same again” and thus show ourselves incapable of inviting others to dream and to develop new paths and new styles of life.
Jesus came and stood in their midst and said to them, “Peace be with you. When he had said this, he showed them his hands and his side. The disciples rejoiced when they saw the Lord. Jesus said to them again, “Peace be with you!” (Jn 20:19-21)
The Lord did not choose the perfect situation to appear suddenly in the midst of his disciples. Certainly we would have preferred that what happened did not have to happen, but it did; and like the disciples on the road to Emmaus, we too can continue to speak sadly and in hushed tones along the way (cf. Lk 24:13-21). Yet by appearing in the Upper Room behind closed doors, amid the isolation, fear and insecurity experienced by the disciples, the Lord was able to surpass all expectations and to give a new meaning to history and human events. Any time is fitting for the message of peace; in no situation is God’s grace ever lacking. Jesus’ appearance in the midst of confinement and forced absence proclaims, for those disciples and for us today, a new day capable of challenging all paralysis and resignation, and harnessing every gift for the service of the community. By his presence, confinement became fruitful, giving life to the new apostolic community.
So let us say with confidence and without fear: “Where sin increased, grace has abounded all the more” (Rom 5:20). Let us be fearless amid the messy situations all around us, because that is where the Lord is, in our midst; God continues to perform his miracle of bringing forth good fruit (cf. Jn 15:5). Christian joy is born precisely of this certainty. In the midst of the contradictions and perplexities we must confront each day, the din of so many words and opinions, there is the quiet voice of the Risen Lord who keeps saying to us: “Peace be with you!”
It is comforting to read the Gospel and think of Jesus in the midst of his people, as he welcomes and embraces life and individuals just as they are. His actions embody Mary’s moving song of praise: “He has shown strength with his arm; he has scattered the proud in the thoughts of their hearts. He has brought down the powerful from their thrones, and lifted up the lowly” (Lk 1:51-52). Jesus offers his own hands and his wounded side as a path to resurrection. He does not hide or conceal those wounds; instead, he invites Thomas to touch his pierced side and to see how those very wounds can be the source of Life in abundance (cf. Jn 20:27-29).
Over and over again, as a spiritual guide, I have been able to witness how “a person who sees things as they truly are and sympathizes with pain and sorrow is capable of touching life’s depths and finding authentic happiness. He or she is consoled, not by the world but by Jesus. Such persons are unafraid to share in the suffering of others; they do not flee from painful situations. They discover the meaning of life by coming to the aid of those who suffer, understanding their anguish and bringing relief. They sense that the other is flesh of our flesh, and are not afraid to draw near, even to touch their wounds. They feel compassion for others in such a way that all distance vanishes. In this way, they can embrace Saint Paul’s exhortation: ‘Weep with those who weep’ (Rom 12:15). Knowing how to mourn with others: that is holiness” (Gaudete et Exsultate, 76).
“As the Father has sent me, so I send you” When he had said this, he breathed on them and said to them: “Receive the Holy Spirit” (Jn 20:21-22)
Dear brothers, as a community of priests, we are called to proclaim and prophesy the future, like the sentinel announcing the dawn that brings a new day (cf. Is 21:11). That new day will either be completely new, or something much worse than what we have been used to. The Resurrection is not simply an event of past history to be remembered and celebrated; it is much more. It is the saving proclamation of a new age that resounds and already bursts onto the scene: “Now it springs up; do you not perceive it?” (Is 43:19); it is the future, the “ad-vent” that the Lord even now is calling us to build. Faith grants us a realistic and creative imagination, one capable of abandoning the mentality of repetition, substitution and maintenance. An imagination that calls us to bring about a time ever new: the time of the Lord. Though an invisible, silent, expansive and viral presence has thrown us into crisis and turmoil, may we let this other discreet, respectful and non-invasive Presence summon us anew and teach us to face reality without fear. If an impalpable presence has been able to disrupt and upset the priorities and apparently overpowering global agendas that suffocate and devastate our communities and our sister earth, let us not be afraid to let the presence of the Risen Lord point out our path, open new horizons and grant us the courage to live to the full this unique moment of our history. A handful of fearful men were able to change the course of history by courageously proclaiming the God who is with us. Do not be afraid! “The powerful witness of the saints is revealed in their lives, shaped by the Beatitudes and the criterion of the final judgement” (Gaudete et Exsultate, 109).
Let us be surprised yet again by the Risen Lord. May he, whose pierced side is a sign of how harsh and unjust reality can be, encourage us not to turn aside from the harsh and difficult realities experienced by our brothers and sisters. May he teach us how to accompany, soothe and bind up the wounds of our people, not with fear but with the audacity and evangelical generosity of the multiplication of the loaves (Mt 14:15-21); with the courage, concern and responsibility of the Good Samaritan (cf. Lk 10:33-35); with the joy of the shepherd at his newfound sheep (Lk 15:4-6); with the reconciling embrace of a father who knows the meaning of forgiveness (cf. Lk 15: 20); with the devotion, gentleness and tender love of Mary of Bethany (cf. Jn 12:1-3); with the meekness, patience and wisdom of the Lord’s missionary disciples (cf. Mt 10:16-23). May the wounded hands of the Risen Lord console us in our sorrows, revive our hope and impel us to seek the Kingdom of God by stepping out of our familiar surroundings . Let us also allow ourselves to be surprised by our good and faithful people, so often tried and torn, yet also visited by the Lord’s mercy. May our people teach us, their pastors, how to mould and temper our hearts with meekness and compassion, with the humility and magnanimity of a lively, supportive, patient and courageous perseverance, one that does not remain indifferent, but rejects and unmasks every form of scepticism and fatalism. How much we have to learn from the strength of God’s faithful people, who always find a way to help and accompany those who have fallen! The Resurrection is the proclamation that things can change. May the Paschal Mystery, which knows no bounds, lead us creatively to those places where hope and life are struggling, where suffering and pain are opening the door to corruption and speculation, where aggression and violence appear to be the only way out.
As priests, sons and members of a priestly people, it is up to us to take responsibility for the future and to plan for it as brothers. Let us place in the wounded hands of the Lord, as a holy offering, our own weakness, the weakness of our people and that of all humanity. It is the Lord who transforms us, who treats us like bread, taking our life into his hands, blessing us, breaking and sharing us, and giving us to his people. And in all humility, let us allow ourselves to be anointed by Paul’s words and let them spread like a fragrant balm throughout our City, thus awakening the seeds of hope that so many people quietly nurture in their hearts: “We are afflicted in every way, but not crushed; perplexed, but not driven to despair; persecuted, but not abandoned; struck down, but not destroyed; always carrying in the body the dying of Jesus, so that the life of Jesus may also be made visible in our bodies” (2 Cor 4:8-10). Let us share with Jesus in his passion, our passion, and experience, also with him, the power of the Resurrection: the certainty of God’s love that affects us deeply and summons us to take to the streets in order to bring “glad tidings to the poor … to proclaim liberty to captives and recovery of sight to the blind, to let the oppressed go free, and to proclaim a year acceptable to the Lord” (cf. Lk 4:18-19), with a joy that all can share in their dignity as children of the living God.
All these things, which I have been thinking about and experiencing during this time of pandemic, I want to share fraternally with you, so that they can help us on our journey of praising the Lord and serving our brothers and sisters. I hope that they can prove useful to each of us, for “ever greater love and service”.
May the Lord Jesus bless you and the Blessed Virgin watch over you. And please, do not forget to keep me in your prayers.
Fraternally,
FRANCIS
Rome, Saint John Lateran, 31 May 2020, the Solemnity of Pentecost.
[00689-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos:
En este tiempo pascual pensaba encontrarlos y celebrar juntos la Misa Crismal. Al no ser posible una celebración de carácter diocesano, les escribo esta carta. La nueva fase que comenzamos nos pide sabiduría, previsión y cuidado común de manera que todos los esfuerzos y sacrificios hasta ahora realizados no sean en vano.
Durante este tiempo de pandemia muchos de ustedes me compartieron, por correo electrónico o teléfono, lo que significaba esta imprevista y desconcertante situación. Así, sin poder salir y tomar contacto directo, me permitieron conocer “de primera mano” lo que vivían. Este intercambio alimentó mi oración, en muchas situaciones para agradecer el testimonio valiente y generoso que recibía de ustedes; en otras, era la súplica y la intercesión confiada en el Señor que siempre tiende su mano (cf. Mt 14,31). Si bien era necesario mantener el distanciamiento social, esto no impidió reforzar el sentido de pertenencia, de comunión y de misión que nos ayudó a que la caridad, principalmente con aquellas personas y comunidades más desamparadas, no fuera puesta en cuarentena. Pude constatar, en esos diálogos sinceros, cómo la necesaria distancia no era sinónimo de repliegue o ensimismamiento que anestesia, adormenta o apaga la misión.
Animado por estos intercambios, les escribo porque quiero estar más cerca de ustedes para acompañar, compartir y confirmar vuestro camino. La esperanza también depende de nosotros y exige que nos ayudemos a mantenerla viva y operante; esa esperanza contagiosa que se nutre y fortalece en el encuentro con los demás y que, como don y tarea, se nos regala para construir esa nueva “normalidad” que tanto deseamos.
Les escribo mirando a la primera comunidad apostólica que también vivió momentos de confinamiento, aislamiento, miedo e incertidumbre. Pasaron cincuenta días entre la inamovilidad, el encierro y el anuncio incipiente que cambiaría para siempre sus vidas. Los discípulos, estando cerradas las puertas del lugar donde se encontraban por temor, fueron sorprendidos por Jesús que «poniéndose en medio de ellos, les dijo: “¡La paz esté con ustedes!”. Mientras decía esto, les mostró sus manos y su costado. Los discípulos se llenaron de alegría cuando vieron al Señor. Jesús les dijo de nuevo: “¡La paz esté con ustedes!” Como el Padre me envió a mí, yo también los envío a ustedes». Al decirles esto, sopló sobre ellos y añadió: “Reciban al Espíritu Santo”» (Jn 20,19-22). ¡Que también nosotros nos dejemos sorprender!
«Estando cerradas las puertas del lugar donde se encontraban los discípulos, por temor» (Jn 20,19).
Hoy, como ayer, sentimos que «el gozo y la esperanza, la tristeza y la angustia de los hombres de nuestro tiempo, sobre todo de los pobres y de todos los afligidos, son también gozo y esperanza, tristeza y angustia de los discípulos de Cristo y no hay nada verdaderamente humano que no tenga resonancia en su corazón» (Const. past. Gaudium et spes, 1). ¡Cuánto sabemos de esto! Todos hemos oído los números y porcentajes que día a día nos asaltaban y palpamos el dolor de nuestro pueblo. Lo que llegaba no eran datos lejanos: las estadísticas tenían nombres, rostros, historias compartidas. Como comunidad presbiteral no fuimos ajenos ni balconeamos esta realidad y, empapados por la tormenta que golpea, ustedes se las ingeniaron para estar presentes y acompañar a vuestras comunidades: vieron venir el lobo y no huyeron ni abandonaron el rebaño (cf. Jn 10,12-13).
Sufrimos la pérdida repentina de familiares, vecinos, amigos, parroquianos, confesores, referentes de nuestra fe. Pudimos mirar el rostro desconsolado de quienes no pudieron acompañar y despedirse de los suyos en sus últimas horas. Vimos el sufrimiento y la impotencia de los trabajadores de la salud que, extenuados, se desgastaban en interminables jornadas de trabajo preocupados por atender tantas demandas. Todos sentimos la inseguridad y el miedo de trabajadores y voluntarios que se expusieron diariamente para que los servicios esenciales fueran mantenidos; y también para acompañar y cuidar a quienes, por su exclusión y vulnerabilidad, sufrían aún más las consecuencias de esta pandemia. Escuchamos y vimos las dificultades y aprietos del confinamiento social: la soledad y el aislamiento principalmente de los ancianos; la ansiedad, la angustia y la sensación de desprotección ante la incertidumbre laboral y habitacional; la violencia y el desgaste en las relaciones. El miedo ancestral a contaminarse volvía a golpear con fuerza. Compartimos también las angustiantes preocupaciones de familias enteras que no saben cómo enfrentarán “la olla” la próxima semana.
Estuvimos en contacto con nuestra propia vulnerabilidad e impotencia. Como el horno pone a prueba los vasos del alfarero, así fuimos probados (cf. Si 27,5). Zarandeados por todo lo que sucede, palpamos de forma exponencial la precariedad de nuestras vidas y compromisos apostólicos. Lo imprevisible de la situación dejó al descubierto nuestra incapacidad para convivir y confrontarnos con lo desconocido, con lo que no podemos gobernar ni controlar y, como todos, nos sentimos confundidos, asustados, desprotegidos. También vivimos ese sano y necesario enojo que nos impulsa a no bajar los brazos contra las injusticias y nos recuerda que fuimos soñados para la Vida. Al igual que Nicodemo, en la noche, sorprendidos porque «el viento sopla donde quiere y oyes su ruido, pero no sabes de dónde viene ni adónde va», nos preguntamos: «¿Cómo puede suceder eso?»; y Jesús nos respondió: «¿Tú eres maestro en Israel, y no lo entiendes?» (cf. Jn 3,8-10).
La complejidad de lo que se debía enfrentar no aceptaba respuestas casuísticas ni de manual; pedía mucho más que fáciles exhortaciones o discursos edificantes incapaces de arraigar y asumir conscientemente todo lo que nos reclamaba la vida concreta. El dolor de nuestro pueblo nos dolía, sus incertidumbres nos golpeaban, nuestra fragilidad común nos despojaba de toda falsa complacencia idealista o espiritualista, así como de todo intento de fuga puritana. Nadie es ajeno a todo lo que sucede. Podemos decir que vivimos comunitariamente la hora del llanto del Señor: lloramos ante la tumba del amigo Lázaro (cf. Jn 11,35), ante la cerrazón de su pueblo (cf. Lc 13,14; 19,41), en la noche oscura de Getsemaní (cf. Mc 14,32-42; Lc 22,44). Es la hora también del llanto del discípulo ante el misterio de la Cruz y del mal que afecta a tantos inocentes. Es el llanto amargo de Pedro ante la negación (cf. Lc 22,62), el de María Magdalena ante el sepulcro (cf. Jn 20,11).
Sabemos que en tales circunstancias no es fácil encontrar el camino a seguir, ni tampoco faltarán las voces que dirán todo lo que se podría haber hecho ante esta realidad altamente desconocida. Nuestros modos habituales de relacionarnos, organizar, celebrar, rezar, convocar e incluso afrontar los conflictos fueron alterados y cuestionados por una presencia invisible que transformó nuestra cotidianeidad en desdicha. No se trata solamente de un hecho individual, familiar, de un determinado grupo social o de un país. Las características del virus hacen que las lógicas con las que estábamos acostumbrados a dividir o clasificar la realidad desaparezcan. La pandemia no conoce de adjetivos ni fronteras y nadie puede pensar en arreglárselas solo. Todos estamos afectados e implicados.
La narrativa de una sociedad profiláctica, imperturbable y siempre dispuesta al consumo indefinido fue puesta en cuestión develando la falta de inmunidad cultural y espiritual ante los conflictos. Un sinfín de nuevos y viejos interrogantes y problemáticas —que muchas regiones creían superados o los consideraban cosas del pasado— coparon el horizonte y la atención. Preguntas que no se responderán simplemente con la reapertura de las distintas actividades, sino que será imprescindible desarrollar una escucha atenta pero esperanzadora, serena pero tenaz, constante pero no ansiosa que pueda preparar y allanar los caminos que el Señor nos invite a transitar (cf. Mc 1,2-3). Sabemos que de la tribulación y de las experiencias dolorosas no se sale igual. Tenemos que velar y estar atentos. El mismo Señor, en su hora crucial, rezó por esto: «No ruego que los retires del mundo, sino que los guardes del maligno» (Jn 17,15). Expuestos y afectados personal y comunitariamente en nuestra vulnerabilidad y fragilidad y en nuestras limitaciones corremos el grave riesgo de replegarnos y quedar “mordisqueando” la desolación que la pandemia nos presenta, así como exacerbarnos en un optimismo ilimitado incapaz de asumir la magnitud de los acontecimientos (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 226-228).
Las horas de tribulación ponen en juego nuestra capacidad de discernimiento para descubrir cuáles son las tentaciones que amenazan atraparnos en una atmósfera de desconcierto y confusión, para luego hacernos caer en derroteros que impedirán a nuestras comunidades promover la vida nueva que el Señor Resucitado nos quiere regalar. Son varias las tentaciones, propias de este tiempo, que pueden enceguecernos y hacernos cultivar ciertos sentimientos y actitudes que no dejan que la esperanza impulse nuestra creatividad, nuestro ingenio y nuestra capacidad de respuesta. Desde querer asumir honestamente la gravedad de la situación, pero tratar de resolverla solamente con actividades sustitutivas o paliativas a la espera de que todo vuelva a “la normalidad”, ignorando las heridas profundas y la cantidad de caídos del tiempo presente; hasta quedar sumergidos en cierta nostalgia paralizante del pasado cercano que nos hace decir “ya nada será lo mismo” y nos incapacita para convocar a otros a soñar y elaborar nuevos caminos y estilos de vida.
«Llegó Jesús y poniéndose en medio de ellos, les dijo: “¡La paz esté con ustedes!”. Mientras decía esto, les mostró sus manos y su costado. Los discípulos se llenaron de alegría cuando vieron al Señor. Jesús les dijo de nuevo: “¡La paz esté con ustedes!”» (Jn 20,19-20).
El Señor no eligió ni buscó una situación ideal para irrumpir en la vida de sus discípulos. Ciertamente, nos hubiera gustado que todo lo sucedido no hubiera pasado, pero pasó; y como los discípulos de Emaús, también podemos quedarnos murmurando entristecidos por el camino (cf. Lc 24,13-21). Presentándose en el cenáculo con las puertas cerradas, en medio del confinamiento, el miedo y la inseguridad que vivían, el Señor fue capaz de alterar toda lógica y regalarles un nuevo sentido a la historia y a los acontecimientos. Todo tiempo vale para el anuncio de la paz, ninguna circunstancia está privada de su gracia. Su presencia en medio del confinamiento y de forzadas ausencias anuncia, para los discípulos de ayer como para nosotros hoy, un nuevo día capaz de cuestionar la inamovilidad y la resignación, y de movilizar todos los dones al servicio de la comunidad. Con su presencia, el confinamiento se volvía fecundo gestando la nueva comunidad apostólica.
Digámoslo confiados y sin miedo: «Donde abundó el pecado, sobreabundó la gracia» (Rm 5,20). No le tengamos miedo a los escenarios complejos que habitamos porque allí, en medio nuestro, está el Señor; Dios siempre ha hecho el milagro de engendrar buenos frutos (cf. Jn 15,5). La alegría cristiana nace precisamente de esta certeza. En medio de las contradicciones y de lo incomprensible que a diario debemos enfrentar, inundados y hasta aturdidos de tantas palabras y conexiones, se esconde esa voz del Resucitado que nos dice: «¡La paz esté con ustedes!».
Reconforta tomar el Evangelio y contemplar a Jesús en medio de su pueblo asumiendo y abrazando la vida y las personas tal como se presentan. Sus gestos le dan vida al hermoso canto de María: «Dispersa a los soberbios de corazón; derriba a los poderosos de su trono y enaltece a los humildes» (Lc 1,51-52). Él mismo ofreció sus manos y su costado llagado como camino de resurrección. No esconde ni disfraza o disimula las llagas; es más, invita a Tomás a hacer la prueba de cómo un costado herido puede ser fuente de Vida en abundancia (cf. Jn 20,27-29).
En reiteradas ocasiones, como acompañante espiritual, pude ser testigo de que «la persona que ve las cosas como realmente son y que se deja traspasar por el dolor y llora en su corazón, es capaz de tocar las profundidades de la vida y de ser auténticamente feliz. Esa persona es consolada, pero con el consuelo de Jesús y no con el del mundo. Y de ese modo se anima a compartir el sufrimiento ajeno y a no escapar de las situaciones dolorosas. De ese modo se da cuenta de que la vida tiene sentido socorriendo al otro en su dolor, comprendiendo la angustia ajena, aliviando a los demás. Esa persona siente que el otro es carne de su carne, no teme acercarse hasta tocar su herida, se compadece y experimenta que las distancias se borran. Así es posible acoger aquella exhortación de san Pablo: “Lloren con los que lloran” (Rm 12,15). Saber llorar con los demás, esto es santidad» (Exhort. ap. Gaudete et exsultate, 76).
«“Como el Padre me envió a mí, yo también los envío a ustedes”. Al decirles esto, sopló sobre ellos y añadió: “Reciban al Espíritu Santo”» (Jn 20,22).
Queridos hermanos: Como comunidad presbiteral estamos llamados a anunciar y profetizar el futuro como el centinela que anuncia la aurora que trae un nuevo día (cf. Is 21,11); o será algo nuevo o será más, mucho más y peor de lo mismo. La Resurrección no es sólo un acontecimiento histórico del pasado para recordar y celebrar; es más, mucho más: es el anuncio de salvación de un tiempo nuevo que resuena y ya irrumpe hoy: «Ya está germinando, ¿no se dan cuenta?» (Is 43,19); es el por-venir que el Señor nos invita a construir. La fe nos permite una realista y creativa imaginación capaz de abandonar la lógica de la repetición, sustitución o conservación; nos invita a instaurar un tiempo siempre nuevo: el tiempo del Señor. Si una presencia invisible, silenciosa, expansiva y viral nos cuestionó y trastornó, dejemos que sea esa otra Presencia discreta, respetuosa y no invasiva la que nos vuelva a llamar y nos enseñe a no tener miedo de enfrentar la realidad. Si una presencia intangible fue capaz de alterar y revertir las prioridades y las aparentes e inamovibles agendas globales que tanto asfixian y devastan a nuestras comunidades y a nuestra hermana tierra, no tengamos miedo de que sea la presencia del Resucitado la que nos trace el camino, abra horizontes y nos dé el coraje para vivir este momento histórico y singular. Un puñado de hombres temerosos fue capaz de iniciar una corriente nueva, anuncio vivo del Dios con nosotros. ¡No teman! «La fuerza del testimonio de los santos está en vivir las bienaventuranzas y el protocolo del juicio final» (Exhort. ap. Gaudete et exsultate, 109).
Dejemos que nos sorprenda una vez más el Resucitado. Que sea Él desde su costado herido, signo de lo dura e injusta que se vuelve la realidad, quien nos impulse a no darle la espalda a la dura y difícil realidad de nuestros hermanos. Que sea Él quien nos enseñe a acompañar, cuidar y vendar las heridas de nuestro pueblo, no con temor sino con la audacia y el derroche evangélico de la multiplicación de los panes (cf. Mt 14,13-21); con la valentía, premura y responsabilidad del samaritano (cf. Lc 10,33-35); con la alegría y la fiesta del pastor por su oveja perdida y encontrada (cf. Lc 15,4-6); con el abrazo reconciliador del padre que sabe de perdón (cf. Lc 15,20); con la piedad, delicadeza y ternura de María en Betania (cf. Jn 12,1-3); con la mansedumbre, paciencia e inteligencia del discípulo del Señor (cf. Mt 10,16-23). Que sean las manos llagadas del Resucitado las que consuelen nuestras tristezas, pongan de pie nuestra esperanza y nos impulsen a buscar el Reino de Dios más allá de nuestros refugios convencionales. Dejémonos sorprender también por nuestro pueblo fiel y sencillo, tantas veces probado y lacerado, pero también visitado por la misericordia del Señor. Que ese pueblo nos enseñe a moldear y templar nuestro corazón de pastor con la mansedumbre y la compasión, con la humildad y la magnanimidad del aguante activo, solidario, paciente pero valiente, que no se desentiende, sino que desmiente y desenmascara todo escepticismo y fatalidad. ¡Cuánto para aprender de la reciedumbre del Pueblo fiel de Dios que siempre encuentra el camino para socorrer y acompañar al que está caído! La Resurrección es el anuncio de que las cosas pueden cambiar. Dejemos que sea la Pascua, que no conoce fronteras, la que nos lleve creativamente a esos lugares donde la esperanza y la vida están en lucha, donde el sufrimiento y el dolor se vuelven espacio propicio para la corrupción y la especulación, donde la agresión y la violencia parecen ser la única salida.
Como sacerdotes, hijos y miembros de un pueblo sacerdotal, nos toca asumir la responsabilidad por el futuro y proyectarlo como hermanos. Pongamos en las manos llagadas del Señor, como ofrenda santa, nuestra propia fragilidad, la fragilidad de nuestro pueblo, la de la humanidad entera. El Señor es quien nos transforma, quien nos trata como el pan, toma nuestra vida en sus manos, nos bendice, parte y comparte, y nos entrega a su pueblo. Y con humildad dejémonos ungir por esas palabras de Pablo para que se propaguen como óleo perfumado por los distintos rincones de nuestra ciudad y despierten así la discreta esperanza que muchos —silenciosamente— albergan en su corazón: «Atribulados por todas partes, pero no abatidos; perplejos, pero no desesperados; perseguidos, pero no abandonados; derribados, pero no aniquilados. Siempre y a todas partes, llevamos en nuestro cuerpo los sufrimientos de la muerte de Jesús, para que también la vida de Jesús se manifieste en nuestro cuerpo» (2 Co 4,8-10). Participamos con Jesús de su pasión, nuestra pasión, para vivir también con Él la fuerza de la resurrección: certeza del amor de Dios capaz de movilizar las entrañas y salir al cruce de los caminos para compartir “la Buena Noticia con los pobres, para anunciar la liberación a los cautivos y la vista a los ciegos, para dar la libertad a los oprimidos y proclamar un año de gracia del Señor” (cf. Lc 4,18-19), con la alegría de que todos ellos pueden participar activamente con su dignidad de hijos del Dios vivo.
Todas estas cosas que pensé y sentí durante este tiempo de pandemia quiero compartirlas fraternalmente con ustedes para ayudarnos en el camino de la alabanza al Señor y del servicio a los hermanos. Deseo que a todos nos sirvan para “más amar y servir”.
Que el Señor Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Y, por favor, les pido que no se olviden de rezar por mí.
Fraternalmente,
FRANCISCO
Roma, en San Juan de Letrán, 31 de mayo de 2020, solemnidad de Pentecostés.
[00689-ES.01] [Texto original: Italiano]
[B0307-XX.02]