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Veglia Pasquale nella Notte Santa di Pasqua, 11.04.2020


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 21.00 di questa sera, il Santo Padre Francesco ha presieduto, all’Altare della Cattedra, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia Pasquale nella Notte Santa.

Il rito della Benedizione del fuoco si è svolto ai piedi dell’Altare della Confessione. La processione iniziale si è svolta dall’Altare della Confessione a quello della Cattedra passando dal lato dell’“Altare di San Giuseppe”. Per l’emergenza sanitaria in atto è stata omessa la preparazione del Cero pasquale, così come l’accensione dei lumini ai presenti. Al canto del Gloria, si è tenuta la progressiva accensione della Basilica, fino all’illuminazione completa. Nel corso della cerimonia, non hanno avuto luogo i battesimi, ma la sola Rinnovazione delle promesse battesimali.

Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Veglia Pasquale, dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

Omelia del Santo Padre

«Dopo il sabato» (Mt 28,1) le donne andarono alla tomba. È iniziato così il Vangelo di questa Veglia santa, con il sabato. È il giorno del Triduo pasquale che più trascuriamo, presi dalla fremente attesa di passare dalla croce del venerdì all’alleluia della domenica. Quest’anno, però, avvertiamo più che mai il sabato santo, il giorno del grande silenzio. Possiamo specchiarci nei sentimenti delle donne in quel giorno. Come noi, avevano negli occhi il dramma della sofferenza, di una tragedia inattesa accaduta troppo in fretta. Avevano visto la morte e avevano la morte nel cuore. Al dolore si accompagnava la paura: avrebbero fatto anche loro la stessa fine del Maestro? E poi i timori per il futuro, tutto da ricostruire. La memoria ferita, la speranza soffocata. Per loro era l’ora più buia, come per noi.

Ma in questa situazione le donne non si lasciano paralizzare. Non cedono alle forze oscure del lamento e del rimpianto, non si rinchiudono nel pessimismo, non fuggono dalla realtà. Di sabato compiono qualcosa di semplice e straordinario: nelle loro case preparano i profumi per il corpo di Gesù. Non rinunciano all’amore: nel buio del cuore accendono la misericordia. La Madonna, di sabato, nel giorno che verrà a lei dedicato, prega e spera. Nella sfida del dolore, confida nel Signore. Queste donne, senza saperlo, preparavano nel buio di quel sabato «l’alba del primo giorno della settimana», il giorno che avrebbe cambiato la storia. Gesù, come seme nella terra, stava per far germogliare nel mondo una vita nuova; e le donne, con la preghiera e l’amore, aiutavano la speranza a sbocciare. Quante persone, nei giorni tristi che viviamo, hanno fatto e fanno come quelle donne, seminando germogli di speranza! Con piccoli gesti di cura, di affetto, di preghiera.

All’alba le donne vanno al sepolcro. Lì l’angelo dice loro: «Voi non abbiate paura. Non è qui, è risorto» (vv. 5-6). Davanti a una tomba sentono parole di vita… E poi incontrano Gesù, l’autore della speranza, che conferma l’annuncio e dice: «Non temete» (v. 10). Non abbiate paura, non temete: ecco l’annuncio di speranza. È per noi, oggi. Oggi. Sono le parole che Dio ci ripete nella notte che stiamo attraversando.

Stanotte conquistiamo un diritto fondamentale, che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza. È una speranza nuova, viva, che viene da Dio. Non è mero ottimismo, non è una pacca sulle spalle o un incoraggiamento di circostanza, con un sorriso di passaggio. No. È un dono del Cielo, che non potevamo procurarci da soli. Tutto andrà bene, diciamo con tenacia in queste settimane, aggrappandoci alla bellezza della nostra umanità e facendo salire dal cuore parole di incoraggiamento. Ma, con l’andare dei giorni e il crescere dei timori, anche la speranza più audace può evaporare. La speranza di Gesù è diversa. Immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita.

La tomba è il luogo dove chi entra non esce. Ma Gesù è uscito per noi, è risorto per noi, per portare vita dove c’era morte, per avviare una storia nuova dove era stata messa una pietra sopra. Lui, che ha ribaltato il masso all’ingresso della tomba, può rimuovere i macigni che sigillano il cuore. Perciò non cediamo alla rassegnazione, non mettiamo una pietra sopra la speranza. Possiamo e dobbiamo sperare, perché Dio è fedele. Non ci ha lasciati soli, ci ha visitati: è venuto in ogni nostra situazione, nel dolore, nell’angoscia, nella morte. La sua luce ha illuminato l’oscurità del sepolcro: oggi vuole raggiungere gli angoli più bui della vita. Sorella, fratello, anche se nel cuore hai seppellito la speranza, non arrenderti: Dio è più grande. Il buio e la morte non hanno l’ultima parola. Coraggio, con Dio niente è perduto!

Coraggio: è una parola che nei Vangeli esce sempre dalla bocca di Gesù. Una sola volta la pronunciano altri, per dire a un bisognoso: «Coraggio! Alzati, [Gesù] ti chiama!» (Mc 10,49). È Lui, il Risorto, che rialza noi bisognosi. Se sei debole e fragile nel cammino, se cadi, non temere, Dio ti tende la mano e ti dice: “Coraggio!”. Ma tu potresti dire, come don Abbondio: «Il coraggio, uno non se lo può dare» (I Promessi Sposi, XXV). Non te lo puoi dare, ma lo puoi ricevere, come un dono. Basta aprire il cuore nella preghiera, basta sollevare un poco quella pietra posta all’imboccatura del cuore per lasciare entrare la luce di Gesù. Basta invitarlo: “Vieni, Gesù, nelle mie paure e di’ anche a me: Coraggio!”. Con Te, Signore, saremo provati, ma non turbati. E, qualunque tristezza abiti in noi, sentiremo di dover sperare, perché con Te la croce sfocia in risurrezione, perché Tu sei con noi nel buio delle nostre notti: sei certezza nelle nostre incertezze, Parola nei nostri silenzi, e niente potrà mai rubarci l’amore che nutri per noi.

Ecco l’annuncio pasquale, annuncio di speranza. Esso contiene una seconda parte, l’invio. «Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea» (Mt 28,10), dice Gesù. «Vi precede in Galilea» (v. 7), dice l’angelo. Il Signore ci precede, ci precede sempre. È bello sapere che cammina davanti a noi, che ha visitato la nostra vita e la nostra morte per precederci in Galilea, nel luogo, cioè, che per Lui e per i suoi discepoli richiamava la vita quotidiana, la famiglia, il lavoro. Gesù desidera che portiamo la speranza lì, nella vita di ogni giorno. Ma la Galilea per i discepoli era pure il luogo dei ricordi, soprattutto della prima chiamata. Ritornare in Galilea è ricordarsi di essere stati amati e chiamati da Dio. Ognuno di noi ha la propria Galilea. Abbiamo bisogno di riprendere il cammino, ricordandoci che nasciamo e rinasciamo da una chiamata gratuita d’amore, là, nella mia Galilea. Questo è il punto da cui ripartire sempre, soprattutto nelle crisi, nei tempi di prova. Nella memoria della mia Galilea.

Ma c’è di più. La Galilea era la regione più lontana da dove si trovavano, da Gerusalemme. E non solo geograficamente: la Galilea era il luogo più distante dalla sacralità della Città santa. Era una zona popolata da genti diverse che praticavano vari culti: era la «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Gesù invia lì, chiede di ripartire da lì. Che cosa ci dice questo? Che l’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti. Perché tutti hanno bisogno di essere rincuorati e, se non lo facciamo noi, che abbiamo toccato con mano «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1), chi lo farà? Che bello essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita! Mettiamo a tacere le grida di morte, basta guerre! Si fermino la produzione e il commercio delle armi, perché di pane e non di fucili abbiamo bisogno. Cessino gli aborti, che uccidono la vita innocente. Si aprano i cuori di chi ha, per riempire le mani vuote di chi è privo del necessario.

Le donne, alla fine, «abbracciarono i piedi» di Gesù (Mt 28,9), quei piedi che per venirci incontro avevano fatto un lungo cammino, fino ad entrare e uscire dalla tomba. Abbracciarono i piedi che avevano calpestato la morte e aperto la via della speranza. Noi, pellegrini in cerca di speranza, oggi ci stringiamo a Te, Gesù Risorto. Voltiamo le spalle alla morte e apriamo i cuori a Te, che sei la Vita.

[00479-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

«Après le sabbat» (Mt 28, 1) les femmes allèrent au tombeau. C’est ainsi qu’a commencé l’Evangile de cette Veillée sainte, avec le sabbat. C’est le jour du Triduum pascal que nous négligeons le plus, pris par la frémissante attente de passer de la croix du vendredi à l’alleluia du dimanche. Cette année, cependant, nous percevons plus que jamais le samedi saint, le jour du grand silence. Nous pouvons nous retrouver dans les sentiments des femmes en ce jour. Comme nous, elles avaient dans les yeux le drame de la souffrance, d’une tragédie inattendue arrivée trop vite. Elles avaient vu la mort et avaient la mort dans leur cœur. A la souffrance s’ajoutait la peur: leur sera-t-il réservé, à elles aussi, le même sort qu’à leur Maître? Et puis les craintes pour l’avenir, tout à reconstruire. La mémoire blessée, l’espérance étouffée. Pour elles c’était l’heure la plus sombre, comme pour nous.

Mais dans cette situation les femmes ne se laissent pas paralyser. Elles ne cèdent pas aux forces obscures de la lamentation et du regret, elles ne se renferment pas dans le pessimisme, elles ne fuient pas la réalité. Elles font quelque chose de simple et d’extraordinaire: dans leurs maisons elles préparent les parfums pour le corps de Jésus. Elles ne renoncent pas à l’amour: dans l’obscurité du cœur, elles allument la miséricorde. La Vierge, le samedi, jour qui lui sera dédié, prie et espère. Dans le défi de la souffrance, elle a confiance dans le Seigneur. Ces femmes, sans le savoir, préparaient dans l’obscurité de ce samedi «l’aube du premier jour de la semaine», le jour qui aurait changé l’histoire. Jésus, comme une semence dans la terre, allait faire germer dans le monde une vie nouvelle; et les femmes, par la prière et l’amour, aidaient l’espérance à éclore. Combien de personnes, dans les jours tristes que nous vivons, ont fait et font comme ces femmes, en semant des germes d’espérance! Avec de petits gestes d’attention, d’affection, de prière.

A l’aube, les femmes vont au sépulcre. Là l’ange leur dit: «Vous, soyez sans crainte. Il n’est pas ici, il est ressuscité» (vv.5-6). Devant une tombe, elles entendent des paroles de vie… Et ensuite elles rencontrent Jésus, l’auteur de l’espérance, qui confirme l’annonce et dit: «Soyez sans crainte» (v. 10). N’ayez pas peur, soyez sans crainte: voici l’annonce d’espérance. Elle est pour nous, aujourd’hui. Aujourd’hui! Ce sont les paroles que Dieu nous répète dans la nuit que nous traversons.

Cette nuit nous conquerrons un droit fondamental, qui ne nous sera pas enlevé: le droit à l’espérance. C’est une espérance nouvelle, vivante, qui vient de Dieu. Ce n’est pas un simple optimisme, ce n’est pas une tape sur l’épaule ou un encouragement de circonstance, avec un sourire fuyant. Non! C’est un don du Ciel que nous ne pouvons pas nous procurer tout seuls. Tout ira bien, disons-nous avec ténacité en ces semaines, nous agrippant à la beauté de notre humanité et faisant monter du cœur des paroles d’encouragement. Mais, avec les jours qui passent et les peurs qui grandissent, même l’espérance la plus audacieuse peut s’évaporer. L’espérance de Jésus est autre. Elle introduit dans le cœur la certitude que Dieu sait tout tourner en bien, parce que, même de la tombe, il fait sortir la vie.

La tombe est le lieu d’où celui qui rentre ne sort pas. Mais Jésus est sorti pour nous, il est ressuscité pour nous, pour apporter la vie là où il y avait la mort, pour commencer une histoire nouvelle là où on avait mis une pierre dessus. Lui, qui a renversé le rocher à l’entrée de la tombe, peut déplacer les rochers qui scellent notre cœur. Par conséquent, ne cédons pas à la résignation, ne mettons pas une pierre sur l’espérance. Nous pouvons et nous devons espérer, parce que Dieu est fidèle. Il ne nous a pas laissé seuls, il nous a visité: il est venu dans chacune de nos situations, dans la souffrance, dans l’angoisse, dans la mort. Sa lumière a illuminé l’obscurité du sépulcre: aujourd’hui il veut rejoindre les coins les plus obscures de la vie. Sœur, frère, même si dans ton cœur tu as enseveli l’espérance, ne te rends pas: Dieu est plus grand. L’obscurité et la mort n’ont pas le dernier mot. Confiance, avec Dieu rien n’est perdu.

Confiance: C’est une parole qui dans l’Evangile sort toujours de la bouche de Jésus. Une seule fois d’autres la prononcent, pour dire à une personne dans le besoin:«Confiance! lève-toi, [Jésus] t’appelle» (Mc 10, 49). C’est lui, le Ressuscité, qui nous relève nous qui sommes dans le besoin. Si tu es faible et fragile sur le chemin, si tu tombes, ne crains pas, Dieu te tend la main et te dit: “Confiance”. Mais tu pourrais dire, comme don Abbondio: «La confiance, personne ne peut se la donner» ( I Promessi Sposi - Les fiancés, XXV). Tu ne peux pas te la donner, mais tu peux la recevoir, comme un don. Il suffit d’ouvrir ton cœur dans la prière, il suffit de soulever un peu cette pierre mise à l’entrée de ton cœur pour laisser entrer la lumière de Jésus. Il suffit de l’inviter: “Viens, Jésus, dans mes peurs et dis-moi aussi: Confiance”. Avec toi, Seigneur, nous serons éprouvés mais non ébranlés. Et, quelle que soit la tristesse qui habite en nous, nous sentirons devoir espérer, parce qu’avec toi la croix débouche sur la résurrection, parce que tu es avec nous dans l’obscurité de nos nuits: tu es certitude dans nos incertitudes, Parole dans nos silences, et rien ne pourra jamais nous voler l’amour que tu nourris pour nous.

Voilà l’annonce pascale, une annonce d’espérance. Elle contient une deuxième partie, l’envoi. «Allez annoncer à mes frères qu’ils doivent se rendre en Galilée» (Mt 28, 10), dit Jésus. «Il vous précède en Galilée» (v. 7), dit l’ange. Le Seigneur nous précède, il nous précède toujours. Il est beau de savoir qu’il marche devant nous, qu’il a visité notre vie et notre mort pour nous précéder en Galilée, c’est-à-dire dans le lieu qui pour lui et pour ses disciples rappelait la vie quotidienne, la famille, le travail. Jésus désire que nous portions l’espérance là, dans la vie de chaque jour. Mais la Galilée, pour les disciples, c’était aussi le lieu des souvenirs, surtout du premier appel. Retourner en Galilée c’est se souvenir d’avoir été aimés et appelés par Dieu. Chacun d’entre nous a sa propre Galilée. Nous avons besoin de reprendre le chemin, en nous rappelant que nous naissons et renaissons d’un appel gratuit d’amour, là, dans ma Galilée. Cela est le point d’où repartir toujours, surtout dans les crises, dans les temps d’épreuve, en me souvenant de ma Galilée.

Mais il y a plus. La Galilée était la région la plus éloignée d’où ils se trouvaient, de Jérusalem. Et pas seulement géographiquement: la Galilée était le lieu le plus distant de la sacralité de la Ville sainte. C’était une région peuplée de gens divers qui pratiquaient des cultes variés: c’étaitla «Galilée des nations» (Mt 4, 15). Jésus envoie là, il demande de repartir de là. Qu’est-ce que cela nous dit? Que l’annonce de l’espérance ne doit pas être confinée dans nos enceintes sacrées, mais doit être portée à tous. Parce que tous ont besoin d’être encouragés et, si nous ne le faisons pas nous, qui avons touché de la main «le Verbe de vie» (1 Jn 1, 1), qui le fera? Qu’il est beau d’être des chrétiens qui consolent, qui portent les poids des autres, qui encouragent: annonciateurs de vie en temps de mort! En chaque Galilée, en chaque région de cette humanité à laquelle nous appartenons et qui nous appartient, parce que nous sommes tous frères et sœurs, portons le chant de la vie! Faisons taire le cri de mort, ça suffit les guerres! Que s’arrête la production et le commerce des armes, parce que c’est de pain et non de fusils dont nous avons besoin. Que cessent les avortements, qui tuent la vie innocente. Que s’ouvrent les cœurs de ceux qui ont, pour remplir les mains vides de ceux qui sont privés du nécessaire.

Les femmes, à la fin, «embrassèrent les pieds» de Jésus (Mt 28, 9), ces pieds qui pour venir à leur rencontre avaient fait un long chemin, jusqu’à entrer et sortir de la tombe. Elles embrassèrent les pieds qui avaient piétiné la mort et ouvert le chemin de l’espérance. Nous, pèlerins en recherche d’espérance, aujourd’hui nous nous serrons contre toi, Jésus Ressuscité. Nous tournons le dos à la mort et nous t’ouvrons nos cœurs, toi qui es la Vie.

[00479-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

“After the Sabbath” (Mt 28:1), the women went to the tomb. This is how the Gospel of this holy Vigil began: with the Sabbath. It is the day of the Easter Triduum that we tend to neglect as we eagerly await the passage from Friday’s cross to Easter Sunday’s Alleluia. This year however, we are experiencing, more than ever, the great silence of Holy Saturday. We can imagine ourselves in the position of the women on that day. They, like us, had before their eyes the drama of suffering, of an unexpected tragedy that happened all too suddenly. They had seen death and it weighed on their hearts. Pain was mixed with fear: would they suffer the same fate as the Master? Then too there was fear about the future and all that would need to be rebuilt. A painful memory, a hope cut short. For them, as for us, it was the darkest hour.

Yet in this situation the women did not allow themselves to be paralyzed. They did not give in to the gloom of sorrow and regret, they did not morosely close in on themselves, or flee from reality. They were doing something simple yet extraordinary: preparing at home the spices to anoint the body of Jesus. They did not stop loving; in the darkness of their hearts, they lit a flame of mercy. Our Lady spent that Saturday, the day that would be dedicated to her, in prayer and hope. She responded to sorrow with trust in the Lord. Unbeknownst to these women, they were making preparations, in the darkness of that Sabbath, for “the dawn of the first day of the week”, the day that would change history. Jesus, like a seed buried in the ground, was about to make new life blossom in the world; and these women, by prayer and love, were helping to make that hope flower. How many people, in these sad days, have done and are still doing what those women did, sowing seeds of hope! With small gestures of care, affection and prayer.

At dawn the women went to the tomb. There the angel says to them: “Do not be afraid. He is not here; for he has risen” (vv. 5-6). They hear the words of life even as they stand before a tomb... And then they meet Jesus, the giver of all hope, who confirms the message and says: “Do not be afraid” (v. 10). Do not be afraid, do not yield to fear: This is the message of hope. It is addressed to us, today. These are the words that God repeats to us this very night.

Tonight we acquire a fundamental right that can never be taken away from us: the right to hope. It is a new and living hope that comes from God. It is not mere optimism; it is not a pat on the back or an empty word of encouragement, uttered with an empty smile. No! It is a gift from heaven, which we could not have earned on our own. Over these weeks, we have kept repeating, “All will be well”, clinging to the beauty of our humanity and allowing words of encouragement to rise up from our hearts. But as the days go by and fears grow, even the boldest hope can dissipate. Jesus’ hope is different. He plants in our hearts the conviction that God is able to make everything work unto good, because even from the grave he brings life.

The grave is the place where no one who enters ever leaves. But Jesus emerged for us; he rose for us, to bring life where there was death, to begin a new story in the very place where a stone had been placed. He, who rolled away the stone that sealed the entrance of the tomb, can also remove the stones in our hearts. So, let us not give in to resignation; let us not place a stone before hope. We can and must hope, because God is faithful. He did not abandon us; he visited us and entered into our situations of pain, anguish and death. His light dispelled the darkness of the tomb: today he wants that light to penetrate even to the darkest corners of our lives. Dear sister, dear brother, even if in your heart you have buried hope, do not give up: God is greater. Darkness and death do not have the last word. Be strong, for with God nothing is lost!

Courage. This is a word often spoken by Jesus in the Gospels. Only once do others say it, to encourage a person in need: “Courage; rise, [Jesus] is calling you!” (Mk 10:49). It is he, the Risen One, who raises us up from our neediness. If, on your journey, you feel weak and frail, or fall, do not be afraid, God holds out a helping hand and says to you: “Courage!”. You might say, as did Don Abbondio (in Manzoni’s novel), “Courage is not something you can give yourself” (I Promessi Sposi, XXV). True, you cannot give it to yourself, but you can receive it as a gift. All you have to do is open your heart in prayer and roll away, however slightly, that stone placed at the entrance to your heart so that Jesus’ light can enter. You only need to ask him: “Jesus, come to me amid my fears and tell me too: Courage!” With you, Lord, we will be tested but not shaken. And, whatever sadness may dwell in us, we will be strengthened in hope, since with you the cross leads to the resurrection, because you are with us in the darkness of our nights; you are certainty amid our uncertainties, the word that speaks in our silence, and nothing can ever rob us of the love you have for us.

This is the Easter message, a message of hope. It contains a second part, the sending forth. “Go and tell my brethren to go to Galilee” (Mt 28:10), Jesus says. “He is going before you to Galilee” (v. 7), the angel says. The Lord goes before us; he goes before us always. It is encouraging to know that he walks ahead of us in life and in death; he goes before us to Galilee, that is, to the place which for him and his disciples evoked the idea of daily life, family and work. Jesus wants us to bring hope there, to our everyday life. For the disciples, Galilee was also the place of remembrance, for it was the place where they were first called. Returning to Galilee means remembering that we have been loved and called by God. Each one of us has their own Galilee. We need to resume the journey, reminding ourselves that we are born and reborn thanks to an invitation given gratuitously to us out of love, there in our respective Galilees. This is always the point from which we can set out anew, especially in times of crisis and trial, remembering our Galilee.

But there is more. Galilee was the farthest region from where they were: from Jerusalem. And not only geographically. Galilee was also the farthest place from the sacredness of the Holy City. It was an area where people of different religions lived: it was the “Galilee of the Gentiles” (Mt 4:15). Jesus sends them there and asks them to start again from there. What does this tell us? That the message of hope should not be confined to our sacred places, but should be brought to everyone. For everyone is in need of reassurance, and if we, who have touched “the Word of life” (1 Jn 1:1) do not give it, who will? How beautiful it is to be Christians who offer consolation, who bear the burdens of others and who offer encouragement: messengers of life in a time of death! In every Galilee, in every area of the human family to which we all belong and which is part of us – for we are all brothers and sisters – may we bring the song of life! Let us silence the cries of death, no more wars! May we stop the production and trade of weapons, since we need bread, not guns. Let the abortion and killing of innocent lives end. May the hearts of those who have enough be open to filling the empty hands of those who do not have the bare necessities.

Those women, in the end, “took hold” of Jesus’ feet (Mt 28:9); feet that had travelled so far to meet us, to the point of entering and emerging from the tomb. The women embraced the feet that had trampled death and opened the way of hope. Today, as pilgrims in search of hope, we cling to you, Risen Jesus. We turn our backs on death and open our hearts to you, for you are Life itself.

[00479-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

……

[00479-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

«Pasado el sábado» (Mt 28,1) las mujeres fueron al sepulcro. Así comenzaba el evangelio de esta Vigilia santa, con el sábado. Es el día del Triduo pascual que más descuidamos, ansiosos por pasar de la cruz del viernes al aleluya del domingo. Sin embargo, este año percibimos más que nunca el sábado santo, el día del gran silencio. Nos vemos reflejados en los sentimientos de las mujeres durante aquel día. Como nosotros, tenían en los ojos el drama del sufrimiento, de una tragedia inesperada que se les vino encima demasiado rápido. Vieron la muerte y tenían la muerte en el corazón. Al dolor se unía el miedo, ¿tendrían también ellas el mismo fin que el Maestro? Y después, la inquietud por el futuro, quedaba todo por reconstruir. La memoria herida, la esperanza sofocada. Para ellas, como para nosotros, era la hora más oscura.

Pero en esta situación las mujeres no se quedaron paralizadas, no cedieron a las fuerzas oscuras de la lamentación y del remordimiento, no se encerraron en el pesimismo, no huyeron de la realidad. Realizaron algo sencillo y extraordinario: prepararon en sus casas los perfumes para el cuerpo de Jesús. No renunciaron al amor: la misericordia iluminó la oscuridad del corazón. La Virgen, en el sábado, día que le sería dedicado, rezaba y esperaba. En el desafío del dolor, confiaba en el Señor. Sin saberlo, esas mujeres preparaban en la oscuridad de aquel sábado el amanecer del «primer día de la semana», día que cambiaría la historia. Jesús, como semilla en la tierra, estaba por hacer germinar en el mundo una vida nueva; y las mujeres, con la oración y el amor, ayudaban a que floreciera la esperanza. Cuántas personas, en los días tristes que vivimos, han hecho y hacen como aquellas mujeres: esparcen semillas de esperanza. Con pequeños gestos de atención, de afecto, de oración.

Al amanecer, las mujeres fueron al sepulcro. Allí, el ángel les dijo: «Vosotras, no temáis […]. No está aquí: ¡ha resucitado!» (vv. 5-6). Ante una tumba escucharon palabras de vida… Y después encontraron a Jesús, el autor de la esperanza, que confirmó el anuncio y les dijo: «No temáis» (v. 10). No temáis, no tengáis miedo: He aquí el anuncio de la esperanza. Que es también para nosotros, hoy. Hoy. Son las palabras que Dios nos repite en la noche que estamos atravesando.

En esta noche conquistamos un derecho fundamental, que no nos será arrebatado: el derecho a la esperanza; es una esperanza nueva, viva, que viene de Dios. No es un mero optimismo, no es una palmadita en la espalda o unas palabras de ánimo de circunstancia, con una sonrisa pasajera. No. Es un don del Cielo, que no podíamos alcanzar por nosotros mismos: Todo irá bien, decimos constantemente estas semanas, aferrándonos a la belleza de nuestra humanidad y haciendo salir del corazón palabras de ánimo. Pero, con el pasar de los días y el crecer de los temores, hasta la esperanza más intrépida puede evaporarse. La esperanza de Jesús es distinta, infunde en el corazón la certeza de que Dios conduce todo hacia el bien, porque incluso hace salir de la tumba la vida.

El sepulcro es el lugar donde quien entra no sale. Pero Jesús salió por nosotros, resucitó por nosotros, para llevar vida donde había muerte, para comenzar una nueva historia que había sido clausurada, tapándola con una piedra. Él, que quitó la roca de la entrada de la tumba, puede remover las piedras que sellan el corazón. Por eso, no cedamos a la resignación, no depositemos la esperanza bajo una piedra. Podemos y debemos esperar, porque Dios es fiel, no nos ha dejado solos, nos ha visitado y ha venido en cada situación: en el dolor, en la angustia y en la muerte. Su luz iluminó la oscuridad del sepulcro, y hoy quiere llegar a los rincones más oscuros de la vida. Hermana, hermano, aunque en el corazón hayas sepultado la esperanza, no te rindas: Dios es más grande. La oscuridad y la muerte no tienen la última palabra. Ánimo, con Dios nada está perdido.

Ánimo: es una palabra que, en el Evangelio, está siempre en labios de Jesús. Una sola vez la pronuncian otros, para decir a un necesitado: «Ánimo, levántate, que [Jesús] te llama» (Mc 10,49). Es Él, el Resucitado, el que nos levanta a nosotros que estamos necesitados. Si en el camino eres débil y frágil, si caes, no temas, Dios te tiende la mano y te dice: «Ánimo”. Pero tú podrías decir, como don Abundio: «El valor no se lo puede otorgar uno mismo» (A. Manzoni, Los Novios (I Promessi Sposi), XXV). No te lo puedes dar, pero lo puedes recibir como don. Basta abrir el corazón en la oración, basta levantar un poco esa piedra puesta en la entrada de tu corazón para dejar entrar la luz de Jesús. Basta invitarlo: “Ven, Jesús, en medio de mis miedos, y dime también: Ánimo”. Contigo, Señor, seremos probados, pero no turbados. Y, a pesar de la tristeza que podamos albergar, sentiremos que debemos esperar, porque contigo la cruz florece en resurrección, porque Tú estás con nosotros en la oscuridad de nuestras noches, eres certeza en nuestras incertidumbres, Palabra en nuestros silencios, y nada podrá nunca robarnos el amor que nos tienes.

Este es el anuncio pascual; un anuncio de esperanza que tiene una segunda parte: el envío. «Id a comunicar a mis hermanos que vayan a Galilea» (Mt 28,10), dice Jesús. «Va por delante de vosotros a Galilea» (v. 7), dice el ángel. El Señor nos precede, nos precede siempre. Es hermoso saber que camina delante de nosotros, que visitó nuestra vida y nuestra muerte para precedernos en Galilea; es decir, el lugar que para Él y para sus discípulos evocaba la vida cotidiana, la familia, el trabajo. Jesús desea que llevemos la esperanza allí, a la vida de cada día. Pero para los discípulos, Galilea era también el lugar de los recuerdos, sobre todo de la primera llamada. Volver a Galilea es acordarnos de que hemos sido amados y llamados por Dios. Cada uno de nosotros tiene su propia Galilea. Necesitamos retomar el camino, recordando que nacemos y renacemos de una llamada de amor gratuita, allí, en mi Galilea. Este es el punto de partida siempre, sobre todo en las crisis y en los tiempos de prueba. Con la memoria de mi Galilea.

Pero hay más. Galilea era la región más alejada de Jerusalén, el lugar donde se encontraban en ese momento. Y no sólo geográficamente: Galilea era el sitio más distante de la sacralidad de la Ciudad santa. Era una zona poblada por gentes distintas que practicaban varios cultos, era la «Galilea de los gentiles» (Mt 4,15). Jesús los envió allí, les pidió que comenzaran de nuevo desde allí. ¿Qué nos dice esto? Que el anuncio de la esperanza no se tiene que confinar en nuestros recintos sagrados, sino que hay que llevarlo a todos. Porque todos necesitan ser reconfortados y, si no lo hacemos nosotros, que hemos palpado con nuestras manos «el Verbo de la vida» (1 Jn 1,1), ¿quién lo hará? Qué hermoso es ser cristianos que consuelan, que llevan las cargas de los demás, que animan, que son mensajeros de vida en tiempos de muerte. Llevemos el canto de la vida a cada Galilea, a cada región de esa humanidad a la que pertenecemos y que nos pertenece, porque todos somos hermanos y hermanas. Acallemos los gritos de muerte, que terminen las guerras. Que se acabe la producción y el comercio de armas, porque necesitamos pan y no fusiles. Que cesen los abortos, que matan la vida inocente. Que se abra el corazón del que tiene, para llenar las manos vacías del que carece de lo necesario.

Al final, las mujeres «abrazaron los pies» de Jesús (Mt 28,9), aquellos pies que habían hecho un largo camino para venir a nuestro encuentro, incluso entrando y saliendo del sepulcro. Abrazaron los pies que pisaron la muerte y abrieron el camino de la esperanza. Nosotros, peregrinos en busca de esperanza, hoy nos aferramos a Ti, Jesús Resucitado. Le damos la espalda a la muerte y te abrimos el corazón a Ti, que eres la Vida.

[00479-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

«Terminado o sábado» (Mt 28, 1), as mulheres foram ao sepulcro. O Evangelho desta santa Vigília começa assim: com o sábado. Este é o dia do Tríduo Pascal que mais descuramos, ansiosos de passar da cruz de sexta-feira à aleluia de domingo. Este ano, porém, damo-nos conta, mais do que nunca, do sábado santo, o dia do grande silêncio; podemos rever-nos nos sentimentos que tinham as mulheres naquele dia. Como nós, tinham nos olhos o drama do sofrimento, duma tragédia inesperada, que se verificou demasiado rapidamente. Viram a morte e tinham a morte no coração. À amargura, juntou-se o medo: acabariam, também elas, como o Mestre? E depois os receios pelo futuro, carecido todo ele de ser reconstruído. A memória ferida, a esperança sufocada. Para elas, era a hora mais escura, como o é hoje para nós.

Contudo, nesta situação, as mulheres não se deixam paralisar. Não cedem às forças obscuras da lamentação e da lamúria, não se fecham no pessimismo, nem fogem da realidade. Realizam algo simples e extraordinário: nas suas casas, preparam os perfumes para o corpo de Jesus. Não renunciam ao amor: na escuridão do coração, acendem a misericórdia. Nossa Senhora, no sábado – dia que Lhe será dedicado –, reza e espera. No desafio da tristeza, confia no Senhor. Sem o saber, estas mulheres preparavam na escuridão daquele sábado «o romper do primeiro dia da semana» (Mt 28, 1), o dia que havia de mudar a história. Jesus, como semente na terra, estava para fazer germinar no mundo uma vida nova; e as mulheres, com a oração e o amor, ajudavam a esperança a desabrochar. Quantas pessoas, nos dias tristes que vivemos, fizeram e fazem como aquelas mulheres, disseminando rebentos de esperança com pequenos gestos de solicitude, de carinho, de oração!

Ao amanhecer, as mulheres vão ao sepulcro. Lá diz-lhes o anjo: «Não tenhais medo. Não está aqui; ressuscitou» (cf. Mt 28, 5-6). Diante dum túmulo, ouvem palavras de vida... E depois encontram Jesus, o autor da esperança, que confirma o anúncio dizendo-lhes: «Não temais» (28, 10). Não tenhais medo, não temais: eis o anúncio de esperança para nós, hoje. Tais são as palavras que Deus nos repete hoje, na noite que estamos a atravessar.

Nesta noite, conquistamos um direito fundamental, que não nos será tirado: o direito à esperança. É uma esperança nova, viva, que vem de Deus. Não é mero otimismo, não é uma palmadinha nas costas nem um encorajamento de circunstância, com o aflorar dum sorriso. Não. É um dom do Céu, que não podíamos obter por nós mesmos. Tudo correrá bem: repetimos com tenacidade nestas semanas, agarrando-nos à beleza da nossa humanidade e fazendo subir do coração palavras de encorajamento. Mas, à medida que os dias passam e os medos crescem, até a esperança mais audaz pode desvanecer. A esperança de Jesus é diferente. Coloca no coração a certeza de que Deus sabe transformar tudo em bem, pois até do túmulo faz sair a vida.

O túmulo é o lugar donde, quem entra, não sai. Mas Jesus saiu para nós, ressuscitou para nós, para trazer vida onde havia morte, para começar uma história nova no ponto onde fora colocada uma pedra em cima. Ele, que derrubou a pedra da entrada do túmulo, pode remover as rochas que fecham o coração. Por isso, não cedamos à resignação, não coloquemos uma pedra sobre a esperança. Podemos e devemos esperar, porque Deus é fiel. Não nos deixou sozinhos, visitou-nos: veio a cada uma das nossas situações, no sofrimento, na angústia, na morte. A sua luz iluminou a obscuridade do sepulcro: hoje quer alcançar os cantos mais escuros da vida. Minha irmã, meu irmão, ainda que no coração tenhas sepultado a esperança, não desistas! Deus é maior. A escuridão e a morte não têm a última palavra. Coragem! Com Deus, nada está perdido.

Coragem: é uma palavra que, nos Evangelhos, sai sempre da boca de Jesus. Só uma vez é pronunciada por outros, quando dizem a um mendigo: «Coragem, levanta-te que [Jesus] chama-te» (Mc 10, 49). É Ele, o Ressuscitado, que nos levanta a nós, mendigos. Se te sentes fraco e frágil no caminho, se cais, não tenhas medo; Deus estende-te a mão dizendo: «Coragem!» Entretanto poderias exclamar como padre Abbondio: «A coragem, não no-la podemos dar» (I promessi sposi, XXV). Não a podes dar a ti mesmo, mas podes recebê-la, como um presente. Basta abrir o coração na oração, basta levantar um pouco aquela pedra colocada à boca do coração, para deixar entrar a luz de Jesus. Basta convidá-Lo: «Vinde, Jesus, aos meus medos e dizei também a mim: “coragem!” Convosco, Senhor, seremos provados; mas não turvados. E, seja qual for a tristeza que habite em nós, sentiremos o dever de esperar, porque convosco a cruz desagua na ressurreição, porque Vós estais connosco na escuridão das nossas noites: sois certeza nas nossas incertezas, Palavra nos nossos silêncios e nada poderá jamais roubar-nos o amor que nutris por nós».

Eis o anúncio pascal, anúncio de esperança. Este contém uma segunda parte, o envio. «Ide anunciar aos meus irmãos que partam para a Galileia» (Mt 28,10): diz Jesus. Ele «vai à vossa frente para a Galileia» (28, 7): diz o anjo. O Senhor precede-nos, precede-nos sempre. É bom saber que caminha diante de nós, que visitou a nossa vida e a nossa morte para nos preceder na Galileia, isto é, no lugar que, para Ele e para os seus discípulos, lembrava a vida diária, a família, o trabalho. Jesus deseja que levemos a esperança lá, à vida de cada dia. Mas, para os discípulos, a Galileia era também o lugar das recordações, sobretudo da primeira chamada. Voltar à Galileia é lembrar-se de ter sido amado e chamado por Deus. Cada um de nós tem a sua própria Galileia. Precisamos de retomar o caminho, lembrando-nos de que nascemos e renascemos a partir duma chamada gratuita de amor, lá, na minha Galileia. Este é o ponto donde recomeçar sempre, sobretudo nas crises, nos tempos de provação: na recordação da minha Galileia.

Mais ainda. A Galileia era a região mais distante de Jerusalém, onde estavam. E não só geograficamente: a Galileia era o lugar mais distante do caráter sacro da Cidade Santa. Era uma região habitada por povos diferentes, que praticavam vários cultos: era a «Galileia dos gentios» (Mt 4, 15). Jesus envia para lá, pede para recomeçar de lá. Que nos diz isto? Que o anúncio da esperança não deve ficar confinado nos nossos recintos sagrados, mas ser levado a todos. Porque todos têm necessidade de ser encorajados e, se não o fizermos nós que tocamos com a mão «o Verbo da vida» (1 Jo 1, 1), quem o fará? Como é belo ser cristãos que consolam, que carregam os fardos dos outros, que encorajam: anunciadores de vida em tempo de morte! A cada Galileia, a cada região desta humanidade a que pertencemos e que nos pertence, porque todos somos irmãos e irmãs, levemos o cântico da vida! Façamos calar os gritos de morte: de guerras, basta! Pare a produção e o comércio das armas, porque é de pão que precisamos, não de metralhadoras. Cessem os abortos, que matam a vida inocente. Abram-se os corações daqueles que têm, para encher as mãos vazias de quem não dispõe do necessário.

No fim, as mulheres «estreitaram os pés» de Jesus (Mt 28, 9), aqueles pés que, para nos encontrar, haviam percorrido um longo caminho até entrar e sair do túmulo. Abraçaram os pés que espezinharam a morte e abriram o caminho da esperança. Hoje nós, peregrinos em busca de esperança, estreitamo-nos a Vós, Jesus ressuscitado. Voltamos as costas à morte e abrimos os corações para Vós, que sois a Vida.

[00479-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

„Po upływie szabatu” (Mt 28,1) kobiety poszły do grobu. W ten sposób rozpoczęła się Ewangelia tej świętej Wigilii, od szabatu. Jest to dzień Triduum Paschalnego, który najbardziej zaniedbujemy, ogarnięci gorączkowym oczekiwaniem na przejście od piątkowego krzyża do niedzielnego alleluja. Jednak w tym roku, bardziej niż kiedykolwiek zauważamy Wielką Sobotę, dzień wielkiego milczenia. Możemy dostrzec swoje odbicie w uczuciach kobiet tego dnia. Podobnie jak my, miały w oczach dramat cierpienia, nieoczekiwanej tragedii, która wydarzyła się nazbyt szybko. Widziały śmierć i miały śmierć w swoich sercach. Cierpieniu towarzyszył lęk: czy i je czeka taki sam koniec jak Mistrza? A ponadto obawy o przyszłość, wszystko trzeba odbudować. Zraniona pamięć, przytłumiona nadzieja. Dla nich, podobnie jak dla nas, była to najciemniejsza godzina.

Ale w tej sytuacji kobiety nie dają się obezwładnić. Nie poddają się mrocznym siłom narzekań i żalu, nie zamykają się w pesymizmie, nie uciekają od rzeczywistości. W szabat czynią coś prostego i niezwykłego: w swoich domach przygotowują wonności, by namaścić ciało Jezusa. Nie wyrzekają się miłości; w mrokach swoich serc rozpalają miłosierdzie. Matka Boża, w sobotę, w dniu, który będzie Jej poświęcony, modli się i żywi nadzieję. Stając przed wyzwaniem cierpienia, pokłada ufność w Panu. Te niewiasty, nie wiedząc o tym, przygotowały w ciemnościach tamtego szabatu „świt pierwszego dnia tygodnia”, dnia, który zmieni historię. Jezus, jak ziarno złożone w glebie, miał sprawić, że na świecie wypuści pąki nowe życie; a kobiety, modlitwą i miłością, pomogły by zakwitła nadzieja. Iluż osób, w przeżywanych przez nas smutnych dniach, czyniło to i czyni jak te niewiasty zasiewające pędy nadziei! Poprzez drobne gesty troski, uczucia, modlitwy.

O świcie kobiety idą do grobu. Tam anioł mówi im: „Wy się nie bójcie! … Nie ma Go tu, bo zmartwychwstał” (ww. 5-6). Stojąc przed grobem słyszą słowa życia... A potem spotykają Jezusa, sprawcę nadziei, który potwierdza wieść i mówi: „Nie bójcie się” (w. 10). Nie lękajcie się, nie bójcie się: oto obwieszczenie nadziei. Jest to wieść dla nas dzisiaj. Dzisiaj! Są to słowa, które Bóg powtarza nam w nocy, której doświadczamy.

Tej nocy zdobywamy podstawowe prawo, które nie zostanie nam zabrane: prawo do nadziei. Jest to nadzieja nowa, żywa, pochodząca od Boga. Nie jest to zwykły optymizm, nie jest to poklepywanie po plecach ani też okolicznościowe dodanie otuchy, nie przelotny uśmiech. Nie. To dar z nieba, którego nie mogliśmy zapewnić sobie sami. Będzie dobrze - mówimy wytrwale w tych tygodniach, kurczowo trzymając się piękna naszego człowieczeństwa i sprawiając, że z serca wypływają słowa otuchy. Ale, w miarę upływu dni i narastania obaw, nawet najśmielsza nadzieja może się ulotnić. Nadzieja Jezusa jest inna. Wnosi do naszych serc pewność, że Bóg potrafi wszystko obrócić ku dobru, bo nawet z grobu wydobywa życie.

Grób jest miejscem, skąd ci, którzy tam wchodzą już nie wychodzą. Ale Jezus wyszedł dla nas, dla nas zmartwychwstał, aby wnieść życie tam, gdzie była śmierć, aby rozpocząć nową historię tam, gdzie na górze położono kamień. On, który odsunął kamień leżący u wejściu do grobu, może usunąć głazy, które zamykają serce. Nie poddawajmy się zatem rezygnacji, nie kładźmy kamienia na nadziei. Możemy i musimy żywić nadzieję, bo Bóg jest wierny. Nie zostawił nas samych, nawiedził nas: wszedł we wszystkie nasze sytuacje, w cierpienie, w udrękę, w śmierć. Jego światło oświetliło ciemności grobu: dziś chce dotrzeć do najmroczniejszych zakątków życia. Siostro, bracie, nawet jeśli pogrzebałeś nadzieję w swoim sercu, nie poddawaj się: Bóg jest większy. Mrok i śmierć nie mają ostatniego słowa. Odwagi, z Bogiem nic nie jest stracone!

Odwaga: to słowo w Ewangelii zawsze wypływa z ust Jezusa. Tylko raz wymawiają je inni, mówiąc do kogoś potrzebującego: „Odwagi, wstań, [Jezus] woła cię!” (Mk 10, 49). To On, Zmartwychwstały, podnosi nas potrzebujących. Jeśli jesteś słaby i kruchy w drodze, jeśli upadniesz, nie lękaj się, Bóg wyciąga do ciebie rękę i mówi ci: „Odwagi!” Ale możesz powiedzieć, jak Don Abbondio: „Człowiek nie może dać sobie odwagi” (Narzeczni, XXV). Nie możesz jej sobie dać, ale możesz ją otrzymać w darze. Wystarczy otworzyć serce na modlitwie, wystarczy unieść nieco ów kamień, umieszczony u drzwi serca, aby pozwolić wejść światłu Jezusa. Wystarczy Go zaprosić: „Przyjdź, Jezu, w moje lęki i powiedz także i mnie: Odwagi!”. Z Tobą, Panie, będziemy doświadczani, ale nie roztrzęsieni. I niezależnie od tego, jak wielki byłby w nas smutek, poczujemy, że musimy mieć nadzieję, bo z Tobą krzyż prowadzi do zmartwychwstania, bo jesteś z nami w mrokach naszych nocy: jesteś pewnością w naszych niepewnościach, Słowem w naszym milczeniu, i nic nigdy nie może skraść nam tej miłości, którą dla nas żywisz.

Oto orędzie wielkanocne, orędzie nadziei. Zawiera ono drugą część - posłanie. „Idźcie i oznajmijcie moim braciom: niech idą do Galilei” (Mt 28, 10) - mówi Jezus. „Udaje się przed wami do Galilei” (w. 7) - mówi anioł. Pan nas uprzedza, zawsze nas uprzedza. Wspaniale, gdy wiemy, że idzie przed nami, że nawiedził nasze życie i naszą śmierć, aby poprzedzić nas do Galilei, to znaczy do miejsca, które jemu i Jego uczniom przypominało życie codzienne, rodzinę, pracę. Jezus pragnie, abyśmy zanieśli nadzieję tam, w życie dnia powszedniego. Ale Galilea była dla uczniów także miejscem wspomnień, zwłaszcza pierwszego powołania. Wrócić do Galilei to pamiętać, że zostaliśmy umiłowani i powołani przez Boga. Każdy z nas ma swoją Galileę. Musimy podjąć drogę na nowo pamiętając, że rodzimy się i odradzamy z bezinteresownego powołania miłości, tam, w mojej Galilei. Jest to punkt, od którego zawsze musimy wyruszać na nowo, zwłaszcza w sytuacjach kryzysowych, w czasach próby. Ze wspomnienia mojej Galilei.

Ale jest też coś więcej. Galilea była regionem najbardziej oddalonym od tego, w którym byli, od Jerozolimy. I to nie tylko geograficznie: Galilea była miejscem najbardziej oddalonym od sakralności miasta świętego. Był to region zamieszkany przez różne ludy, które praktykowały rozliczne kulty: „Galilea pogan” (Mt 4, 15). Jezus tam posyła, żąda, by stamtąd wyruszać na nowo. Co nam to mówi? Że orędzie nadziei nie może ograniczać się do naszych obszarów sakralnych, ale powinno być zaniesione do wszystkich. Ponieważ każdy potrzebuje podniesienia na duchu, a jeśli nie uczynimy tego my, którzy dotknęliśmy naszymi rękoma „Słowa życia” (1J 1, 1), to któż to uczyni? Jakże wspaniale być chrześcijanami, którzy pocieszają, którzy niosą brzemiona innych, którzy dodają otuchy: zwiastuni życia w czasie śmierci! W każdej Galilei, w każdym regionie tej ludzkości, do której należymy i która należy do nas, bo wszyscy jesteśmy braćmi i siostrami, nieśmy pieśń życia! Uciszmy krzyki śmierci, dość wojen! Niech ustanie produkcja i handel bronią, bo potrzebujemy chleba, a nie karabinów. Niech ustaną aborcje, które zabijają niewinne życie. Niech otworzą się serca tych, którzy mają, aby napełnić puste ręce tych, którzy są pozbawieni tego, co niezbędne.

W końcu kobiety „objęły Jezusa za nogi” (Mt 28, 9), te nogi, które przeszły długą drogę, aby wyjść nam na spotkanie, aż po wejście i wyjście z grobu. Objęły nogi, które podeptały śmierć i otworzyły drogę nadziei. My, pielgrzymi poszukujący nadziei, gromadzimy się dziś przy Tobie, Jezu Zmartwychwstały. Odwracamy się od śmierci i otwieramy serca dla Ciebie, który jesteś Życiem.

[00479-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

عشيّة عيد القيامة

بازليك القدّيس بطرس

سبت النور – 11 أبريل / نيسان 2020

"ولمَّا انقَضى السَّبتُ" (متى 28، 1) ذهبت النسوة إلى القبر. هكذا بدأ إنجيل هذه الليلة المقدّسة، مع يوم السبت. إنه اليوم الذي نهمله أكثر مِن أيّ يوم آخر مِن أيام عيد الفصح، لأن انتظارنا المتلهّف للانتقال من صليب يوم الجمعة إلى تهليل يوم الأحد، يجعلنا ننشغل عن السبت. ولكننا هذا العام، نشعر أكثر من أيّ وقت مضى بيوم سبت النور، يوم الصمت الكبير. يمكننا أن نعكس ذواتنا في مشاعر النسوة في ذلك اليوم. مثلنا، كان في عيونهن مأساة الألم، مأساة غير متوقّعة حدثت بسرعة كبيرة. رأوا الموت وكان الموت في قلوبهنّ. كان الألم مصحوبًا بالخوف: هل سوف يلقين أيضًا نفس مصير المعلم؟ ثم تأتي المخاوف بشأن المستقبل، الذي يجب إعادة بنائه بالكامل. الذاكرة مجروحة، والرجاء مخنوق. كانت بالنسبة إليهنّ أحلك ساعة، كما هي بالنسبة لنا.

ولكن النساء لم يسمحن لهذا الوضع بأن يشلّهنّ. لم يستسلمن لقوى النحيب والندم، ولم يحبسن أنفسهنّ في التشاؤم، ولم يهربن من الواقع. بل صنعنَ شيئًا بسيطًا واستثنائيًا: حضّرن الطيب في منازلهن لدهن جسد يسوع. ولم يتخلّين عن الحبّ: أشعلن الرحمة في ظلمة القلب. وصلّت ورجت العذراء، يوم السبت، في اليوم الذي سوف يكرّس لها. وفي تحدّي الألم، وثقت بالربّ. كانت تلك النسوة تعدّ، دون علمهن، في ظلام ذلك السبت، "فجرَ اليوم الأوّل من الأسبوع"، اليوم الذي سوف يغيّر مجرى التاريخ. كان يسوع، كالبذرة في الأرض، على وشك أن يبعث حياة جديدة في العالم؛ وكانت النسوة، بالصلاة والمحبّة، تساعد الرجاء على الازهرار. كم من الأشخاص، في الأيام المحزنة التي نعيشها، فَعَلوا ويفعلون مثل تلك النسوة، يزرعون براعم الرجاء! عبر أعمال صغيرة من الرعاية والمودّة والصلاة.

ذهبت المرأتان إلى القبر عند الفجر. وهناك قال لهما الملاك: " لا تخافا... إِنَّه ليسَ هَهُنا" (آيات 5-6). سمعتا أمام القبر كلمات حياة... ثم التقيتا يسوع، صاحب الرجاء، فأكّد البشارة وقال: "لا تخافا" (آية 10). لا تخافا، لا تقلقا: ها هي بشارة الرجاء. وهذه البشارة هي لنا اليوم، اليوم. إنها الكلمات التي يردّدها الله لنا في هذه الليلة التي نعيشها.

ننال في هذه الليلة حقًّا أساسيًّا لن يُنزَع منّا: الحقّ في الرجاء. إنه رجاء حيّ جديد يأتي من الله. وهو ليس مجرّدَ تفاؤل، وليس تربيتًا على الكتف أو تشجيعًا ظرفيّا، مع ابتسامة عابرة. كلّا. إنه هبة من السماء، لم نكن نستطيع الحصول عليها بمفردنا. لقد ردّدنا بثباتٍ طوال الأسابيع الماضية، كل شيء سينتهي على خير، متمسّكين بجمال إنسانيّتنا ومُطلقين من قلبنا كلمات تشجيع. ولكن مع مرور الأيام وتزايد المخاوف، يمكن أن يتبخّر حتى الرجاء الأكثر جرأة. لكن رجاء يسوع مختلف. يولّد في القلب اليقين بأن الله يعرف كيف يحوّل كلّ شيء إلى خير، لأنه يُخرِجُ الحياة حتى من القبر.

القبر هو المكان الذي إذا دخله الإنسان لا يخرج منه. لكن يسوع خرج منه من أجلنا، لقد قام من أجلنا، كي يضع الحياة حيث الموت، وكي يبدأ قصّة جديدة حيث وُضِعَ حجرٌ فوقها. هو، الذي أزاح الصخرة عن مدخل القبر، يستطيع إزالة الصخور التي تختم القلب. لذلك لا يجب أن نرضخ للاستسلام ولا أن نضع حجرًا فوق الرجاء. يمكننا ويجب علينا أن نرجو، لأن الله أمين. لم يتركنا وحدنا، بل زارنا: ارتاد كلّ وضع من أوضاعنا، من ألمٍ، وقلقٍ، وموت. لقد أضاء نورُه ظلام القبر: ويريد اليوم الوصول إلى أحلك زوايا الحياة. أيتها الأخت وأيها الأخ، حتى لو دفنت الرجاء في قلبك، فلا تستسلم: الله أعظم من ذلك. وكلمة الفصل لا تعود إلى الظلام والموت. تشجّع، فمع الله لا يضيع شيء!

تشجّع: كلمة توضع دومًا على لسان يسوع في الأناجيل. يقولها آخرون مرّة واحدة فقط متوجّهين إلى شخص محتاج: "تَشَدَّدْ وقُم فإِنَّه يَدْعوك!" (مر 10، 49). لأنه هو، القائم من الموت، الذي يقيمنا نحن المحتاجين. إذا كنت ضعيفًا وهشًا في الطريق، إذا سقطت، فلا تخف، فالله يمدّ لك يده ويقول لك: "تشجّع!". ولكن قد تقول، مثل الأب أبونديو: "لا يمكن للإنسان أن يمنح ذاته الشجاعة" (الخطيبان، الفصل XXV). لا يمكنك أن تمنح ذاتك الشجاعة، ولكن يمكنك أن تنالها كهبة. يكفي أن تفتح قلبك في الصلاة، وأن تزيح قليلًا ذاك الحجر الموضوع على باب القلب حتى تسمح لنور يسوع بالدخول. يكفي أن تدعوه: "تعال، يا يسوع، في مخاوفي وقل لي أيضًا: تشجّع!". معك يا ربّ، سوف نعيش المحن، لكننا لن نضطرب. وأيًا كان الحزن الذي يسكن فينا، سوف نشعر أنه يجب أن نرجو، لأن الصليب، معك، يقود إلى القيامة، لأنك معنا في ظلام ليالينا: فأنت اليقين في شكّنا، والكلمة في صمتنا، ولا شيء يقدر أن يسلبنا حبّك لنا.

ها هي بشارة عيد الفصح، بشارة الرجاء. إنها تحتوي على جزء ثان، الإرسال. يقول يسوع: "إِذْهَبا فبَلِّغا إِخوَتي أَن يَمضوا إِلى الجَليل، فهُناكَ يَرَونَني" (متى 28، 10)، ويقول الملاك: "ها هُوذا يَتَقَدَّمُكم إِلى الجَليل" (آية 7). الربّ يسبقنا، يتقدّمنا على الدوام. من الجميل أن نعرف أنه يسير أمامنا، وأنه زار حياتنا وموتنا كي يتقدّمنا إلى الجليل، أي إلى المكان الذي يذكرّه ويذكّر تلاميذه بالحياة اليوميّة والعائلة والعمل. يريدنا يسوع أن نعيد الرجاء إلى هذا المكان، إلى الحياة اليوميّة. لكن الجليل بالنسبة للتلاميذ كان أيضًا مكان الذكريات، ولا سيّما مكان الدعوة الأولى. العودة إلى الجليل تعني التذكّر أن الله قد أحبّنا ودعانا. لكلّ منّا جليله الخاصّ. إننا بحاجة إلى استئناف مسيرتنا متذكّرين أننا ولدنا ونولد مجدّدًا مِن دعوة حبّ مجانيّة، هناك، في جليلي الخاصّ. هذه هي النقطة التي يجب أن ننطلق منها على الدوام، وخاصّة في الأزمات، وفي المحن. في ذكرى جليلي الخاصّ.

ولكن هناك المزيد. كانت الجليل المنطقة الأبعد من مكان وجودهم، أي من أورشليم. وليس فقط من الناحية الجغرافية: كان الجليل أبعد مكان عن قدسيّة المدينة المقدّسة. كانت منطقة مأهولة بأشخاص مختلفين يمارسون طقوسًا مختلفة: كانت "جليل الأمم" (متى 4، 15). ويسوع يرسلهم إلى هناك، ويطلب منهم الانطلاق من هناك. ماذا يقول لنا هذا؟ أنه لا ينبغي أن تقتصر بشارة الرجاء على "أسوارنا المقدّسة"، بل يجب أن نحملها إلى الجميع. لأن الجميع بحاجة إلى التشجيع، وإذا لم نفعل ذلك، نحن الذين لمسنا بيدنا "كلمة الحياة" (1 يو 1، 1)، فمن سيفعل ذلك؟ كم هو جميل أن نكون مسيحيّين يحملون العزاء، وأعباء الآخرين، ويشجّعون: يبشّرون بالحياة في زمن الموت! لنحمل أنشودة الحياة في كلّ جليل، وفي كلّ منطقة من هذه الإنسانية التي ننتمي إليها والتي تنتمي إلينا، لأننا جميعًا إخوة وأخوات! لنُسْكِت صرخات الموت، يكفينا حروب! ليتوقّف إنتاج الأسلحة والاتّجار بها، لأننا نحتاج إلى الخبز وليس إلى البنادق. لتتوقّف عمليّات الإجهاض التي تقتل الأبرياء. ولتنفتح قلوب الذين يملكون ما يملؤون به الأيدي الفارغة، أيدي مَن يفتقر إلى ما هو ضروريّ.

أمسكت المرأتان في النهاية قَدَمَي يسوع (را. متى 28، 9)، تلك الأقدام التي قطعت شوطًا طويلًا كي تأتي للقائنا، حتى أنها دخلت القبر وخرجت منه. أمسكتا القدمين اللتين داستا الموت وفتحتا طريق الرجاء. ونحن اليوم حجّاج نبحث عن الرجاء، نتمسّك بك، يا يسوع القائم من الموت. ندير ظهورنا للموت ونفتح قلوبنا لك، يا مَن أنت الحياة.

[00479-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0221-XX.02]