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Visita del Santo Padre Francesco a Bari in occasione dell’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace (19-23 febbraio 2020) - Intervento del Santo Padre, 23.02.2020


Discorso del Santo Padre

Saluto ai fedeli davanti alla Basilica di San Nicola

Alle ore 7 di questa mattina il Santo Padre Francesco è partito dall’eliporto del Vaticano per recarsi in visita a Bari in occasione dell’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace”, promosso e organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana dal 19 al 23 febbraio 2020.

Al Suo arrivo nel Piazzale Cristoforo Colombo di Bari, il Papa è stato accolto dall’Arcivescovo di Bari-Bitonto, S.E. Mons. Francesco Cacucci, dal Presidente della Regione Puglia, On. Michele Emiliano, dal Prefetto di Bari, Dott.ssa Antonia Bellomo, e dal Sindaco della Città, On. Antonio Decaro. Subito dopo si è trasferito alla Basilica Pontificia di San Nicola.

Alle ore 8.30 Papa Francesco, giunto in Basilica, ha incontrato i Vescovi del Mediterraneo.

Dopo l’introduzione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Em.mo Card. Gualtiero Bassetti, e gli interventi dell’Arcivescovo di Vrhbosna-Sarajevo e Presidente della Conferenza Episcopale di Bosnia ed Erzegovina, Em.mo Card. Vinko Puljić, e dell’Amministratore Apostolico “sede vacante” del Patriarcato Latino di Gerusalemme, Arcivescovo tit. di Verbe, S.E. Mons. Pierbattista Pizzaballa, O.F.M., il Santo Padre ha pronunciato il suo discorso.

Al termine, dopo le parole di ringraziamento dell’Arcivescovo di Alger (Algeria), Presidente della Conferenza Episcopale Regionale del Nordafrica (CERNA), S.E. Mons. Paul Desfarges, S.I., il Papa ha salutato i Vescovi partecipanti all’Incontro ed è sceso nella cripta della Basilica per venerare le reliquie di San Nicola e salutare la Comunità dei Padri Domenicani. Quindi, uscendo dalla Basilica, il Papa ha rivolto un saluto ai fedeli che lo attendeva all’esterno. Poi si è trasferito in papamobile a Corso Vittorio Emanuele II per la Concelebrazione Eucaristica.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre Francesco ha pronunciato nel corso dell’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace” e il saluto rivolto a braccio ai fedeli davanti alla Basilica di San Nicola:

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli,

sono lieto di incontrarvi e grato ad ognuno di voi per avere accettato l’invito della Conferenza Episcopale Italiana a partecipare a questo incontro che riunisce le Chiese del Mediterraneo. E guardando oggi questa chiesa [la Basilica di San Nicola], mi viene in mente l’altro incontro, quello che abbiamo avuto con i capi delle Chiese cristiane – ortodosse, cattoliche… - qui a Bari. È la seconda volta in pochi mesi che si fa un gesto di unità così: quella era la prima volta, dopo il grande scisma, che eravamo tutti insieme; e questa è una prima volta di tutti i vescovi che si affacciano sul Mediterraneo. Credo che potremmo chiamare Bari la capitale dell’unità, dell’unità della Chiesa – se Monsignor Cacucci lo permette! Grazie dell’accoglienza, Eccellenza, grazie.

Quando, a suo tempo, il Cardinale Bassetti mi presentò l’iniziativa, la accolsi subito con gioia, intravedendo in essa la possibilità di avviare un processo di ascolto e di confronto, con cui contribuire all’edificazione della pace in questa zona cruciale del mondo. Per tale ragione ho voluto essere presente e testimoniare il valore contenuto nel nuovo paradigma di fraternità e collegialità, di cui voi siete espressione. Mi è piaciuta quella parola che voi avete aggiunto al dialogo: convivialità.

Trovo significativa la scelta di tenere questo incontro nella città di Bari, così importante per i legami che intrattiene con il Medio Oriente come con il continente africano, segno eloquente di quanto radicate siano le relazioni tra popoli e tradizioni diverse. La diocesi di Bari, poi, da sempre tiene vivo il dialogo ecumenico e interreligioso, adoperandosi instancabilmente a stabilire legami di reciproca stima e di fratellanza. Non è un caso se proprio qui, un anno e mezzo fa – come ho detto – ho scelto di incontrare i responsabili delle comunità cristiane del Medio Oriente, per un importante momento di confronto e comunione, che aiutasse Chiese sorelle a camminare insieme e sentirsi più vicine.

In questo particolare contesto, vi siete riuniti per riflettere sulla vocazione e le sorti del Mediterraneo, sulla trasmissione della fede e la promozione della pace. Il Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale nel quale ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi. Proprio in virtù della sua conformazione, questo mare obbliga i popoli e le culture che vi si affacciano a una costante prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna e a rammentare che solo vivendo nella concordia possono godere delle opportunità che questa regione offre dal punto di vista delle risorse, della bellezza del territorio, delle varie tradizioni umane.

Ai nostri giorni, l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico. Il Mediterraneo rimane una zona strategica, il cui equilibrio riflette i suoi effetti anche sulle altre parti del mondo.

Si può dire che le sue dimensioni siano inversamente proporzionali alla sua grandezza, la quale porta a paragonarlo, più che a un oceano, a un lago, come già fece Giorgio La Pira. Definendolo “il grande lago di Tiberiade”, egli suggerì un’analogia tra il tempo di Gesù e il nostro, tra l’ambiente in cui Lui si muoveva e quello in cui vivono i popoli che oggi lo abitano. E come Gesù operò in un contesto eterogeneo di culture e credenze, così noi ci collochiamo in un quadro poliedrico e multiforme, lacerato da divisioni e diseguaglianze, che ne aumentano l’instabilità. In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici, siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace. Lo facciamo a partire dalla nostra fede e dall’appartenenza alla Chiesa, chiedendoci quale sia il contributo che, come discepoli del Signore, possiamo offrire a tutti gli uomini e le donne dell’area mediterranea.

La trasmissione della fede non può che trarre frutto dal patrimonio di cui il Mediterraneo è depositario. È un patrimonio custodito dalle comunità cristiane, reso vivo mediante la catechesi e la celebrazione dei sacramenti, la formazione delle coscienze e l’ascolto personale e comunitario della Parola del Signore. In particolare, nella pietà popolare l’esperienza cristiana trova un’espressione tanto significativa quanto irrinunciabile: davvero la devozione del popolo è, per lo più, espressione di fede semplice e genuina. E su questo mi piace citare spesso quel gioiello che è il numero 48 dell’Evangelii nuntiandi sulla pietà popolare, dove San Paolo VI cambia il nome di “religiosità” in “pietà”, e dove sono presentate le sue ricchezze e anche le sue mancanze. Quel numero deve essere di guida nel nostro annuncio del Vangelo ai popoli.

In quest’area, un deposito di enorme potenzialità è anche quello artistico, che unisce i contenuti della fede alla ricchezza delle culture, alla bellezza delle opere d’arte. È un patrimonio che attrae continuamente milioni di visitatori da tutto il mondo e che va custodito con cura, quale preziosa eredità ricevuta “in prestito” e da consegnare alle generazioni future.

Su questo sfondo l’annuncio del Vangelo non può disgiungersi dall’impegno per il bene comune e ci spinge ad agire come instancabili operatori di pace. Oggi l’area del Mediterraneo è insidiata da tanti focolai di instabilità e di guerra, sia nel Medio Oriente, sia in vari Stati del nord Africa, come pure tra diverse etnie o gruppi religiosi e confessionali; né possiamo dimenticare il conflitto ancora irrisolto tra israeliani e palestinesi, con il pericolo di soluzioni non eque e, quindi, foriere di nuove crisi.

La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione, secondo l’insegnamento di san Giovanni XXIII (cfr Enc. Pacem in terris, 62; 67). In altre parole, essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai.

Il fine ultimo di ogni società umana rimane la pace, tanto che si può ribadire che «non c’è alternativa alla pace, per nessuno».[1] Non c’è alcuna alternativa sensata alla pace, perché ogni progetto di sfruttamento e supremazia abbruttisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, dato che priva del futuro non solo l’altro, ma anche se stessi. La guerra appare così come il fallimento di ogni progetto umano e divino: basta visitare un paesaggio o una città, teatri di un conflitto, per accorgersi come, a causa dell’odio, il giardino si trasformi in una terra desolata e inospitale e il paradiso terrestre in un inferno. E a questo io vorrei aggiungere il grave peccato di ipocrisia, quando nei convegni internazionali, nelle riunioni, tanti Paesi parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi che sono in guerra. Questo si chiama la grande ipocrisia.

La costruzione della pace, che la Chiesa e ogni istituzione civile devono sempre sentire come priorità, ha come presupposto indispensabile la giustizia. Essa è calpestata dove sono ignorate le esigenze delle persone e dove gli interessi economici di parte prevalgono sui diritti dei singoli e della comunità. La giustizia è ostacolata, inoltre, dalla cultura dello scarto, che tratta le persone come fossero cose, e che genera e accresce le diseguaglianze, così che in modo stridente sulle sponde dello stesso mare vivono società dell’abbondanza e altre in cui molti lottano per la sopravvivenza.

A contrastare tale cultura contribuiscono in maniera decisiva le innumerevoli opere di carità, di educazione e di formazione attuate dalle comunità cristiane. E ogni volta che le diocesi, le parrocchie, le associazioni, il volontariato – il volontariato è uno dei grandi tesori della pastorale italiana – o i singoli si adoperano per sostenere chi è abbandonato o nel bisogno, il Vangelo acquista nuova forza di attrazione.

Nel perseguire il bene comune – che è un altro nome della pace – è da assumere il criterio indicato dallo stesso La Pira: lasciarsi guidare dalle «attese della povera gente».[2] Tale principio, che non è mai accantonabile in base a calcoli o a ragioni di convenienza, se assunto in modo serio, permette una svolta antropologica radicale, che rende tutti più umani.

A cosa serve, del resto, una società che raggiunge sempre nuovi risultati tecnologici, ma che diventa meno solidale verso chi è nel bisogno? Con l’annuncio evangelico, noi trasmettiamo invece la logica per la quale non ci sono ultimi e ci sforziamo affinché la Chiesa, le Chiese, mediante un impegno sempre più attivo, sia segno dell’attenzione privilegiata per i piccoli e i poveri, perché «quelle membra del corpo che sembrano più deboli, sono più necessarie» (1 Cor 12,22) e, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26).

Tra coloro che nell’area del Mediterraneo più faticano, vi sono quanti fuggono dalla guerra o lasciano la loro terra in cerca di una vita degna dell’uomo. Il numero di questi fratelli – costretti ad abbandonare affetti e patria e ad esporsi a condizioni di estrema precarietà – è andato aumentando a causa dell’incremento dei conflitti e delle drammatiche condizioni climatiche e ambientali di zone sempre più ampie. È facile prevedere che tale fenomeno, con le sue dinamiche epocali, segnerà la regione mediterranea, per cui gli Stati e le stesse comunità religiose non possono farsi trovare impreparati. Sono interessati i Paesi attraversati dai flussi migratori e quelli di destinazione finale, ma lo sono anche i Governi e le Chiese degli Stati di provenienza dei migranti, che con la partenza di tanti giovani vedono depauperarsi il loro futuro.

Siamo consapevoli che in diversi contesti sociali è diffuso un senso di indifferenza e perfino di rifiuto, che fa pensare all’atteggiamento, stigmatizzato in molte parabole evangeliche, di quanti si chiudono nella propria ricchezza e autonomia, senza accorgersi di chi, con le parole o semplicemente con il suo stato di indigenza, sta invocando aiuto. Si fa strada un senso di paura, che porta ad alzare le proprie difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione. La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio. L’inadempienza o, comunque, la debolezza della politica e il settarismo sono cause di radicalismi e terrorismo. La comunità internazionale si è fermata agli interventi militari, mentre dovrebbe costruire istituzioni che garantiscano uguali opportunità e luoghi nei quali i cittadini abbiano la possibilità di farsi carico del bene comune.

A nostra volta, fratelli, alziamo la voce per chiedere ai Governi la tutela delle minoranze e della libertà religiosa. La persecuzione di cui sono vittime soprattutto – ma non solo – le comunità cristiane è una ferita che lacera il nostro cuore e non ci può lasciare indifferenti.

Nel contempo, non accettiamo mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso o che chi giunge da lontano diventi vittima di sfruttamento sessuale, sia sottopagato o assoldato dalle mafie.

Certo, l’accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia, è impensabile poterlo affrontare innalzando muri. A me fa paura quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo, e mi fa sentire discorsi che seminavano paura e poi odio nel decennio ’30 del secolo scorso. Questo processo di accoglienza e dignitosa integrazione è impensabile, ho detto, poterlo affrontare innalzando muri. In tale modo, piuttosto, ci si preclude l’accesso alla ricchezza di cui l’altro è portatore e che costituisce sempre un’occasione di crescita. Quando si rinnega il desiderio di comunione, inscritto nel cuore dell’uomo e nella storia dei popoli, si contrasta il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità. La settimana scorsa, un artista torinese mi ha inviato un quadretto, fatto con la tecnica del bruciato sopra il legno, sulla fuga in Egitto e c’era un San Giuseppe, non così tranquillo come siamo abituati a vederlo nelle immaginette, ma un San Giuseppe con l’atteggiamento di un rifugiato siriano, col bambino sulle spalle: fa vedere il dolore, senza addolcire il dramma di Gesù Bambino quando dovette fuggire in Egitto. È lo stesso che sta succedendo oggi.

Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, «culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione».[3] Le purezze delle razze non hanno futuro. Il messaggio del meticciato ci dice tanto. Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta dunque una straordinaria potenzialità: non lasciamo che a causa di uno spirito nazionalistico, si diffonda la persuasione contraria, che cioè siano privilegiati gli Stati meno raggiungibili e geograficamente più isolati. Solamente il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio sé stessi. Il dialogo e quella parola che ho sentito oggi: convivialità.

Una particolare opportunità, a questo riguardo, è rappresentata dalle nuove generazioni, quando è loro assicurato l’accesso alle risorse e sono poste nelle condizioni di diventare protagoniste del loro cammino: allora si rivelano linfa capace di generare futuro e speranza. Tale risultato è possibile solo dove vi sia un’accoglienza non superficiale, ma sincera e benevola, praticata da tutti e a tutti i livelli, sul piano quotidiano delle relazioni interpersonali come su quello politico e istituzionale, e promossa da chi fa cultura e ha una responsabilità più forte nei confronti dell’opinione pubblica.

Per chi crede nel Vangelo, il dialogo non ha semplicemente un valore antropologico, ma anche teologico. Ascoltare il fratello non è solo un atto di carità, ma anche un modo per mettersi in ascolto dello Spirito di Dio, che certamente opera anche nell’altro e parla al di là dei confini in cui spesso siamo tentati di imbrigliare la verità. Conosciamo poi il valore dell’ospitalità: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

C’è bisogno di elaborare una teologia dell’accoglienza e del dialogo, che reinterpreti e riproponga l’insegnamento biblico. Può essere elaborata solo se ci si sforza in ogni modo di fare il primo passo e non si escludono i semi di verità di cui anche gli altri sono depositari. In questo modo, il confronto tra i contenuti delle diverse fedi potrà riguardare non solo le verità credute, ma temi specifici, che diventano punti qualificanti di tutta la dottrina.

Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà, estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani. È anche per questo che si rende urgente un incontro più vivo tra le diverse fedi religiose, mosso da un sincero rispetto e da un intento di pace.

Tale incontro muove dalla consapevolezza, fissata nel Documento sulla fratellanza firmato ad Abu Dhabi, che «i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune». Anche attorno al sostegno dei poveri e all’accoglienza dei migranti, si può quindi realizzare una più attiva collaborazione tra i gruppi religiosi e le diverse comunità, in modo che il confronto sia animato da intenti comuni e si accompagni a un impegno fattivo. Quanti insieme si sporcano le mani per costruire la pace e praticare l’accoglienza, non potranno più combattersi per motivi di fede, ma percorreranno le vie del confronto rispettoso, della solidarietà reciproca, della ricerca dell’unità. E il contrario è quello che ho sentito quando sono andato a Lampedusa, quell’aria di indifferenza: nell’isola c’era accoglienza, ma poi nel mondo la cultura dell’indifferenza.

Questi sono gli auspici che desidero comunicarvi, cari Confratelli, a conclusione del fruttuoso e consolante incontro di questi giorni. Vi affido all’intercessione dell’apostolo Paolo, che per primo ha solcato il Mediterraneo, affrontando pericoli e avversità di ogni genere per portare a tutti il Vangelo di Cristo: il suo esempio vi indichi le vie lungo le quali proseguire il gioioso e liberante impegno di trasmettere la fede nel nostro tempo.

Come mandato, vi consegno le parole del profeta Isaia, perché diano speranza e comunichino forza a voi e alle vostre rispettive comunità. Davanti alla desolazione di Gerusalemme a seguito dell’esilio, il profeta non cessa di intravedere un futuro di pace e prosperità: «Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni» (Is 61,4). Ecco l’opera che il Signore vi affida per questa amata area del Mediterraneo: ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello. E guardare questo, che è già diventato cimitero, come un luogo di futura risurrezione di tutta l’area. Il Signore accompagni i vostri passi e benedica la vostra opera di riconciliazione e di pace. Grazie.

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[1] Conclusione del dialogo con i capi delle Chiese e delle comunità cristiane del Medio Oriente, Bari, 7 luglio 2018.

[2] G. La Pira, «Le attese della povera gente», in Cronache sociali 1/1950.

[3] Ivi.

[00263-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères,

Je suis heureux de vous rencontrer et reconnaissant envers chacun de vous pour avoir accepté l’invitation de la Conférence Episcopale Italienne à participer à cette rencontre qui réunit les Eglises de la Méditerranée. Et en regardant aujourd’hui cette église [la Basilique Saint Nicolas], il me vient à l’esprit l’autre rencontre, celle que nous avons eue avec les chefs des Eglises chrétiennes – orthodoxes, catholiques… - ici à Bari. C’est la seconde fois en peu de mois qu’à lieu un geste d’unité de la sorte: c’était la première fois après le grand schisme que nous étions tous ensemble; et cette fois ci c’est la première fois pour tous les évêques qui donnent sur la Méditerranée. Je crois que nous pourrions appeler Bari la capitale de l’unité, de l’unité de l’Eglise – si Monseigneur Cacucci le permet! Merci pour l’accueil, Excellence, Merci.

Lorsque, en son temps, le Cardinal Bassetti m’a présenté l’initiative, je l’ai accueillie immédiatement avec joie, entrevoyant en elle la possibilité d’engager un processus d’écoute et d’échange par lequel contribuer à l’édification de la paix dans cette région cruciale du monde. C’est pourquoi j’ai voulu être présent et témoigner de la valeur contenue dans le nouveau paradigme de fraternité et de collégialité dont vous êtes l’expression. Cette parole que vous avez ajoutée au dialogue m’a plu: convivialité.

Je trouve significatif le choix d’organiser cette rencontre dans la ville de Bari, si importante pour les liens qu’elle entretient avec le Moyen-Orient comme avec le continent africain, signe éloquent qui montre à quel point sont profondes les relations entre les peuples et les traditions différentes. De plus, le diocèse de Bari entretient depuis toujours le dialogue œcuménique et interreligieux, en veillant sans relâche à établir des liens d’estime réciproque et de fraternité. Ce n’est pas un hasard si, ici justement, il y a un an et demi – comme je l’ai dit -, j’ai choisi de rencontrer les responsables des communautés chrétiennes du Moyen-Orient pour un moment important d’échange et de communion, qui aide des Eglises sœurs à marcher ensemble et à se sentir plus proches.

Dans ce contexte particulier, vous vous êtes réunis pour réfléchir sur la vocation et le destin de la Méditerranée, sur la transmission de la foi et la promotion de la paix. Le Mare nostrum est le lieu physique et spirituel dans lequel notre civilisation a pris forme, comme résultat de la rencontre de plusieurs peuples. Justement en vertu de sa configuration, cette mer oblige les peuples et les cultures riverains à une constante proximité, en les invitant à faire mémoire de ce qui les unit, et à rappeler que c’est seulement en vivant dans la concorde qu’ils peuvent jouir des opportunités que cette région offre du point de vue des ressources, de la beauté du territoire, des différentes traditions humaines.

De nos jours, l’importance de cette région n’a pas diminué suite aux dynamiques déterminées par la globalisation; au contraire, cette dernière a accentué le rôle de la Méditerranée, ce carrefour d’intérêts et d’évènements significatifs du point de vue social, politique, religieux et économique. La Méditerranée demeure une zone stratégique dont l’équilibre reflète ses effets sur les autres parties du monde.

On peut dire que ses dimensions sont inversement proportionnelles à sa grandeur, ce qui amène à la comparer à un lac plus qu’à un océan, comme l’a fait Giorgio La Pira. En la définissant comme “le grand lac de Tibériade”, il a suggéré une analogie entre le temps de Jésus et le nôtre, entre l’environnement dans lequel il vivait et celui dans lequel vivent les peuples qui l’habitent aujourd’hui. Et de même que Jésus a œuvré dans un contexte hétérogène de cultures et de croyances, nous nous situons aussi dans un contexte polyédrique et multiforme, affecté par des divisions et des inégalités qui en augmentent l’instabilité. Dans cet épicentre de lignes profondes de rupture et de conflits économiques, religieux, confessionnels et politiques, nous sommes appelés à offrir notre témoignage d’unité et de paix. Nous le faisons à partir de notre foi et de l’appartenance à l’Eglise, en nous demandant quelle est la contribution que, comme disciples du Seigneur, nous pouvons offrir à tous les hommes et les femmes de la région méditerranéenne.

La transmission de la foi ne peut que tirer profit du patrimoine dont la Méditerranée est dépositaire. C’est un patrimoine gardé par les communautés chrétiennes, rendu vivant grâce à la catéchèse et la célébration des sacrements, la formation des consciences et l’écoute personnelle et communautaire de la Parole du Seigneur. En particulier, l’expérience chrétienne trouve dans la piété populaire une expression aussi significative qu’indispensable: vraiment, la dévotion du peuple est, principalement, l’expression d’une foi simple et authentique. Et à ce sujet j’aime citer souvent ce joyau qu’est le numéro 48 d’Evangelii nuntiandi sur la piété populaire, où saint Paul VI change le mot “religiosité” en “piété”, et où sont présentés ses richesses mais aussi ses défauts. Ce numéro doit être le guide de notre annonce de l’Evangile.

Le patrimoine artistique qui unit les contenus de la foi à la richesse des cultures, à la beauté des œuvres d’art, est aussi d’une énorme potentialité dans cette région. C’est un patrimoine qui attire continuellement des millions de visiteurs du monde entier et qui doit être gardé avec soin, tel un héritage précieux reçu “en prêt” et à remettre aux générations futures.

Dans ce contexte, l’annonce de l’Evangile ne peut pas se séparer de l’engagement pour le bien commun et nous pousse à agir comme des infatigables ouvriers de paix. Aujourd’hui la région de la Méditerranée est menacée par de nombreux foyers d’instabilité et de guerre, soit dans le Moyen-Orient, soit dans les divers Etats de l’Afrique du Nord, comme aussi entre les différentes ethnies et groupes religieux et confessionnels; nous ne pouvons pas oublier le conflit encore irrésolu entre juifs et palestiniens, avec le danger des solutions non équitables, et donc porteuses de nouvelles crises.

La guerre - qui oriente les ressources vers l’achat des armes et l’effort militaire, en les détournant des fonctions vitales d’une société, comme le soutien aux familles, à la santé et à l’instruction - est contraire à la raison, selon l’enseignement de saint Jean XXIII (Cf. Enc. Pacem in terris, n. 114; 127). En d’autres termes, elle est une folie parce qu’il est fou de détruire des maisons, des ponts, des entreprises, des hôpitaux, de tuer des personnes et d’anéantir des ressources au lieu de construire des relations humaines et économiques. Elle est une folie à laquelle nous ne pouvons pas nous résigner: jamais la guerre ne pourra être considérée comme normale ou acceptée comme une voie inéluctable pour résoudre des divergences et des intérêts opposés. Jamais.

La fin ultime de toute société humaine est la paix, au point qu’on peut répéter qu’«il n’y a, pour personne, aucune alternative à la paix».[1] Il n’y a aucune alternative sensée à la paix, parce que tout projet d’exploitation et de suprématie dégrade à la fois celui qui frappe et celui qui est frappé, et révèle une conception myope de la réalité puisqu’il prive d’avenir non seulement l’autre, mais aussi soi-même. La guerre apparaît comme l’échec de tout projet humain et divin: il suffit de visiter un paysage ou une ville, théâtres d’un conflit, pour se rendre compte comment, à cause de la haine, le jardin s’est transformé en terre désolée et inhospitalière, et le paradis terrestre en enfer. Et je voudrais ajouter à ce sujet le grave péché d’hypocrisie, lorsque dans les rencontres internationales, dans les réunions, beaucoup de pays parlent de paix et ensuite vendent des armes au pays qui sont en guerre. Cela s’appelle une grande hypocrisie.

L’édification de la paix, que l’Eglise et toute institution civile doivent toujours considérer comme une priorité, a comme présupposé indispensable la justice. Elle est foulée aux pieds là où sont ignorées les exigences des personnes et là où les intérêts économiques d’une partie prévalent sur les droits des individus et de la communauté. La justice est entravée, en outre, par la culture du rejet qui traite les personnes comme si elles étaient des choses, et qui génère et accroît les inégalités de manière flagrante, de sorte que, sur les rives de la même mer, certaines sociétés vivent dans l’abondance tandis que, dans d’autres, de nombreuses personnes se battent pour la survie.

Les nombreuses œuvres de charité, d’éducation et de formation mises en œuvre par les communautés chrétiennes contribuent de manière décisive à la lutte contre cette culture. Et chaque fois que les diocèses, les paroisses, les associations, le volontariat – le volontariat est l’un des grands trésors de la pastorale italienne - ou des individus s’efforcent de soutenir celui qui est abandonné ou dans le besoin, l’Evangile acquiert une nouvelle force d’attraction.

Dans la poursuite du bien commun – qui est un autre nom de la paix -, il faut assumer le critère indiqué par le même La Pira: se laisser guider par «les attentes des pauvresgens ».[2] Ce principe, qui n’est jamais identifiable à des calculs ou à des raisons de convenances, s’il est assumé sérieusement, permet un changement anthropologique radical qui rend chacun plus humain.

A quoi sert, du reste, une société qui atteint toujours de nouveaux résultats technologiques, mais qui devient moins solidaire envers celui qui est dans le besoin? Par l’annonce évangélique, nous transmettons, au contraire, la logique selon laquelle il n’y a pas de derniers, et nous nous efforçons à ce que l’Eglise, les Eglises, par un engagement toujours plus actif, soit le signe de l’attention privilégiée pour les petits et les pauvres, parce que «les parties du corps qui paraissent les plus délicates sont indispensables»(1Co 12, 22) et que «si un seul membre souffre, tous les membres partagent sa souffrance» (1Co 12, 26).

Parmi ceux qui, dans la région Méditerranéenne, peinent le plus, il y’a ceux qui fuient la guerre ou qui laissent leur terre en quête d’une vie digne de l’homme. Le nombre de ces frères – contraints d’abandonner affections et patrie et de s’exposer à des conditions d’extrême précarité – a augmenté à cause de la multiplication des conflits et des conditions climatiques et environnementales dramatiques de régions toujours plus vastes. Il est facile de prévoir que ce phénomène, avec ses dynamiques de l’époque actuelle, marquera la région méditerranéenne. C’est pour cela que les Etats et les communautés religieuses ne peuvent pas ne pas être préparés. Les pays traversés par les flux migratoires et ceux de la destination finale sont concernés, mais également les gouvernements et les Eglises des Etats de provenance des migrants qui, avec le départ de tant de jeunes, voient leur avenir appauvri.

Nous sommes conscients qu’en divers contextes sociaux un sentiment d’indifférence, et même de refus, est répandu, qui fait penser au comportement, stigmatisé dans de nombreuses paraboles évangéliques, de ceux qui s’enferment dans leur richesse et leur autonomie, sans remarquer celui qui, par ses paroles ou simplement par son état d’indigence, demande de l’aide. Un sentiment de peur s’introduit, qui pousse à ériger ses défenses face à ce qui est présenté instrumentalement comme une invasion. La rhétorique de l’affrontement des civilisations ne sert qu’à justifier la violence et à alimenter la haine. La défaillance, ou du moins la faiblesse, de la politique et le sectarisme sont les causes des radicalismes et du terrorisme. La communauté internationale s’est contentée d’interventions militaires alors qu’elle devrait mettre en place des institutions qui garantissent des opportunités égales et des lieux où les citoyens auraient la possibilité de prendre en charge le bien commun.

A notre tour, frères, élevons la voix pour demander aux gouvernements la protection des minorités et de la liberté religieuse. La persécution dont sont victimes surtout – mais pas seulement – les communautés chrétiennes est une blessure qui déchire notre cœur et ne peut pas nous laisser indifférents.

Dans le même temps, nous n’accepterons jamais que celui qui cherche l’espérance en prenant la mer meurt sans recevoir de secours, ou que celui qui arrive de loin devienne la victime d’exploitation sexuelle, soit sous-payé ou recruté par les mafias.

Certes, l’accueil et une intégration digne sont des étapes d’un processus qui n’est pas facile. Cependant, il est impensable de s’y engager en construisant des murs. Cela me fait peur quand j’écoute des discours de certains leaders des nouvelles formes de populisme, et cela me fait entendre les discours qui semaient la peur et la haine dans les années 30 du siècle dernier. Ce processus d’accueil et d’intégration digne est impensable, je l’ai dit, en construisant des murs. En faisant ainsi, au contraire, on s’interdit l’accès à la richesse dont l’autre est porteur et qui constitue toujours une occasion de croissance. Quand on nie le désir de communion, inscrit dans le cœur de l’homme et dans l’histoire des peuples, on contrecarre le processus d’unification de la famille humaine qui se fraie un chemin déjà entre mille adversités. La semaine dernière, un artiste de Turin m’a envoyé un tableau en pyrogravure sur la fuite en Egypte, et il y a un Saint Joseph, pas aussi tranquille que nous avons l’habitude de le voir sur les images; mais un Saint Joseph dans une attitude de réfugié syrien, avec l’enfant sur les épaules: cela montre la souffrance, sans adoucir le drame de l’enfant Jésus lorsqu’il a dû fuir en Egypte. C’est la même chose qui arrive aujourd’hui.

La Méditerranée a une vocation particulière en ce sens: elle est la mer du métissage, «culturellement toujours ouverte à la rencontre, au dialogue et à l’inculturation réciproque ».[3] La pureté des races n’a pas d’avenir. Le message du métissage nous en dit long. Donner sur la Méditerranée représente donc une extraordinaire potentialité: ne laissons pas se répandre, par esprit nationaliste, la conviction du contraire, c’est-à-dire que les Etats moins accessibles et géographiquement plus isolés seraient privilégiés. Seul le dialogue permet de se rencontrer, de dépasser les préjugés et les stéréotypes, de se raconter et de se mieux connaître soi-même. Le dialogue et ce mot que j’ai entendu aujourd’hui: convivialité.

En ce sens, une opportunité particulière se rencontre chez les nouvelles générations, lorsque l’accès aux ressources leur est assuré et qu’elles sont mises dans des conditions qui leur permettent de devenir les protagonistes de leur chemin: apparaissent alors la sève capable de générer avenir, et l’espérance. Ce résultat est possible seulement là où il y a un accueil, non pas superficiel mais sincère et bienveillant, pratiqué par tous et à tous les niveaux, sur le plan quotidien des relations interpersonnelles comme sur le plan politique et institutionnel, et promu par ceux qui œuvrent dans la culture et ont une responsabilité plus grande vis à vis de l’opinion publique.

Pour celui qui croit à l’Evangile, le dialogue n’a pas seulement une valeur anthropologique, mais aussi théologique. Ecouter le frère n’est pas seulement un acte de charité mais aussi un moyen pour se mettre à l’écoute de l’Esprit de Dieu qui œuvre certainement chez l’autre et parle au-delà des frontières dans lesquelles nous sommes souvent tentés de brider la vérité. Nous connaissons aussi la valeur de l’hospitalité: «Elle a permis à certains, sans le savoir, de recevoir chez eux des anges » (He 13, 2).

Il faut élaborer une théologie de l’accueil et du dialogue qui réinterprète et repropose l’enseignement biblique. Elle peut être élaborée seulement si l’on s’efforce par tous les moyens de faire le premier pas et en n’excluant pas les semences de vérité dont les autres sont dépositaires. De cette manière, la confrontation entre les contenus des diverses fois pourra concerner non seulement les vérités crues, mais aussi des thèmes spécifiques qui deviennent des points qualifiants de toute la doctrine.

Trop souvent, l’histoire a connu des antagonismes et des luttes fondés sur la conviction faussée que nous défendons Dieu en combattant celui qui ne partage pas notre credo. En réalité, les extrémismes et les fondamentalismes nient la dignité de l’homme et sa liberté religieuse, en causant un déclin moral et en favorisant une conception antagoniste des rapports humains. C’est aussi pourquoi une rencontre plus vivante entre les diverses fois religieuses, portée par un respect sincère et par une volonté de paix, devient urgente.

Une telle rencontre, portée par la conscience - fixée dans le Document sur la Fraternité signé à Abou Dhabi - que «les vrais enseignements des religions invitent à demeurer ancrés dans les valeurs de la paix; à soutenir les valeurs de la connaissance réciproque, de la fraternité humaine et de la coexistence commune ». Par conséquent, concernant le soutien des pauvres et l’accueil des migrants, on peut réaliser également une collaboration plus active entre les groupes religieux et les diverses communautés de sorte que la confrontation soit animée d’intentions communes et soit accompagnée d’un engagement concret. Ceux qui se salissent ensemble les mains pour construire la paix et pratiquer l’accueil ne pourront plus se combattre pour des motifs de foi, mais ils parcourront les voies de la confrontation respectueuse, de la solidarité réciproque, de la recherche de l’unité. Et le contraire c’est ce que j’ai entendu lorsque je suis allé à Lampedusa, cette ambiance d’indifférence: sur l’île il y avait de l’accueil, mais ensuite, dans le monde, la culture de l’indifférence.

Voilà les vœux que je désire vous communiquer, chers confrères, en conclusion de la rencontre fructueuse et consolante de ces jours. Je vous confie à l’intercession de l’Apôtre Paul qui, le premier, a traversé la Méditerranée en affrontant les dangers et les adversités en tout genre pour porter l’Evangile du Christà tous : que son exemple vous indique les voies sur lesquelles poursuivre le joyeux et libérant engagement de transmettre la foi à notre temps.

Comme mission je vous livre les paroles du prophète Isaïe pour qu’elles donnent de l’espérance et communiquent de la force, à vous et à vos communautés respectives. Devant la désolation de Jérusalem à la suite de l’exil, le prophète ne cesse pas d’entrevoir un avenir de paix et de prospérité: «Ils rebâtiront les ruines antiques, ils relèveront les demeures dévastées des ancêtres, ils restaureront les villes en ruines, dévastées depuis des générations » (Is 61, 4). Voilà l’œuvre que le Seigneur vous confie pour cette région de la Méditerranée: reconstruire les liens qui ont été coupés, relever les villes détruites par la violence, faire fleurir un jardin là où sont aujourd’hui des terres desséchées, susciter de l’espérance à celui qui l’a perdue, et exhorter celui qui est fermé sur lui-même à ne pas craindre le frère. Et regarder cela, qui est déjà devenu un cimetière, comme un lieu d’avenir et de résurrection de toute la région. Que le Seigneur accompagne vos pas et qu’il bénisse votre œuvre de réconciliation et de paix. Merci.

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[1] Conclusion du dialogue avec les chefs des Eglises et des communautés chrétiennes du Moyen Orient, Bari, 7 juillet 2018.

[2] G. La Pira, « Le attese della povera gente », in Cronache sociali 1/1950.

[3] Ibid.

[00263-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brothers,

I am pleased that we can meet you and I am grateful that each of you has accepted the invitation of the Italian Episcopal Conference to take part in this meeting, which assembles the Churches of the Mediterranean. In looking around this Church [the Basilica of St. Nicholas], I think of another meeting, our meeting with the Heads of the Christian Churches, both Orthodox and Catholic, here in Bari. This is the second time in a few months that we have made a gesture of unity of this kind. That earlier meeting was the first time after the great schism that all of us were together, and this is the first meeting of bishops from around the Mediterranean. I think we could call Bari the capital of unity, of the unity of the Church – if Archbishop Cacucci will let us! Thank you for your welcome, Excellency, thank you.

When Cardinal Bassetti presented the idea to me, I readily accepted it, seeing it as an opportunity to begin a process of listening and discussion aimed at helping to build peace in this crucial part of the world. For that reason, I wanted to be present and testify to the importance of the new model of fraternity and collegiality that you represent. I like the word that you joined to dialogue: conviviality.

I find it significant that this meeting takes place in Bari, since this city is so important for its links with the Middle East and Africa; it is an eloquent sign of the deeply rooted relationships between different peoples and traditions. The Diocese of Bari has always fostered ecumenical and interreligious dialogue, working tirelessly to create bonds of mutual esteem and fraternity. I purposely chose Bari a year and a half ago, as I said, to meet leaders of Christian communities in the Middle East for an important moment of discussion and fellowship meant to help our sister Churches to journey together and feel closer to one another.

You have come together in this particular context to reflect on the vocation and future of the Mediterranean, on the transmission of the faith and the promotion of peace. The Mare nostrum is the physical and spiritual locus where our civilization took shape as a result of the encounter of diverse peoples. By its very configuration, this sea forces surrounding peoples and cultures to constant interact, to recall what they have in common, and to realize that only by living in concord can they enjoy the opportunities this region offers, thanks to its resources, its natural beauty and its varied human traditions.

In our own day, the importance of this area has not decreased in the wake of the process of globalization; on the contrary, globalization has highlighted the role of the Mediterranean as a crossroads of interests and important social, political, religious and economic currents. The Mediterranean remains a strategic region whose equilibrium has an impact on the other parts of the world.

It could be said that the size of the Mediterranean is inversely proportional to its importance, to see it more as a lake than an ocean, as Giorgio La Pira once said. Defining it as “the great Sea of Galilee”, he drew an analogy between Jesus’ time and our own, between his milieu and that of the peoples of our time. Just as Jesus lived and worked in a context of differing cultures and beliefs, so we find ourselves in a multifaceted environment scarred by divisions and forms of inequality that lead to instability. Amid deep fault lines and economic, religious, confessional and political conflicts, we are called to offer our witness to unity and peace. We do so prompted by our faith and membership in the Church, seeking to understand the contribution that we, as disciples of the Lord, can make to all the men and women of the Mediterranean region.

The transmission of the faith necessarily draws upon the heritage of the Mediterranean region. That heritage has been fostered, preserved and kept alive by Christian communities through catechesis and the celebration of the sacraments, the formation of consciences, and individual and communal hearing of the Lord’s word. Specifically, thanks to popular piety, the Christian experience has taken on a form both meaningful and enduring: popular devotion is for the most part the expression of straightforward and authentic faith. Here I often like to cite that gem which is No. 48 of the Exhortation Evangelii Nuntiandi on popular piety, where Saint Paul VI prefers, in place of “religiosity”, to speak of “popular piety”, pointing out both its richness and its shortcomings. That passage should guide us in our proclamation of the Gospel to the peoples.

In this region, one deposit of remarkable potential is its art, which combines the content of the faith with cultural treasures and beautiful artworks. This heritage continues to attract millions of visitors from every part of the world and must be carefully preserved as a precious legacy received “on loan”, to be handed on to future generations.

In the light of all this, the preaching of the Gospel cannot be detached from commitment to the common good; it impels us to act tirelessly as peacemakers. The Mediterranean region is currently threatened by outbreaks of instability and conflict, both in the Middle East and different countries of North Africa, as well as between various ethnic, religious or confessional groups. Nor can we overlook the still unresolved conflict between Israelis and Palestinians, with the danger of inequitable solutions and, hence, a prelude to new crises.

War, by allocating resources to the acquisition of weapons and military power, diverts those resources from vital social needs, such as the support of families, health care and education. As Saint John XXIII teaches, it is contrary to reason (cf. Pacem in Terris, 114; 127). In other words, it is madness; it is madness to destroy houses, bridges, factories and hospitals, to kill people and annihilate resources, instead of building human and economic relationships. It is a kind of folly to which we cannot resign ourselves: war can never be considered normal, or accepted as an inevitable means of settling differences and conflicts of interest. Never.

The ultimate goal of every human society is peace; indeed, we can affirm once more that “in spite of everything, there is no real alternative to peacemaking” (Meeting with Heads of Churches and Christian Communities in the Middle East, Bari, 7 July 2018). There is no reasonable alternative to peace, because every attempt at exploitation or supremacy demeans both its author and its target. It shows a myopic grasp of reality, since it can offer no future to either of the two. War is thus the failure of every plan, human and divine. One need only visit a countryside or city that has been a theatre of war to realize how, as a result of hatred, a garden turns into a desolate and inhospitable landscape, how the earthly paradise turns into hell. Here I would also mention the grave sin of hypocrisy, when at international meetings many countries talk about peace and then sell weapons to countries at war. This can be called hypocrisy on a grand scale.

Peace, which the Church and every civic institution must always consider their first priority, has justice as its indispensable condition. Justice is trampled underfoot when the needs of individuals are ignored and where partisan economic interests prevail over the rights of individuals and communities. Moreover, justice is blocked by a throwaway culture that treats persons as if they were things, generating and promoting inequality. So much so that on the shores of this very sea there are some societies of immense wealth and others in which many people struggle simply to survive.

A decisive contribution to combating this culture is made by the countless charitable and educational works carried out by Christian communities. Whenever dioceses, parishes, associations, volunteer organizations – one of the great treasures of Italian pastoral care – or individuals strive to support those abandoned or in need, the Gospel becomes all the more powerful and attractive.

In the pursuit of the common good – another name for peace – we should employ the criterion pointed out by La Pira: to let ourselves be guided by the “expectations of the poor” (“Le attese della povera gente”, in Cronache sociali 1/1950). This principle, which can never be set aside for calculation or convenience, if taken seriously, enables a radical anthropological shift that makes everyone more human.

What use is a society of constant technological progress, if it becomes increasingly indifferent to its members in need? In preaching the Gospel, we hand on a way of thinking that respects each person by our unremitting effort to make the Church, the Churches, a sign of special care for the vulnerable and the poor. For “the parts of the body which seem to be weaker are indispensable” (1 Cor 12:22) and “if one member suffers, all suffer together” (1 Cor 12:26).

In the Mediterranean region, these include all who are fleeing war or who have left their homelands in search of a humanly dignified life. The number of these brothers and sisters – forced to abandon their loved ones and their lands, and to face conditions of extreme insecurity – has risen as a result of spreading conflicts and increasingly dramatic environmental and climatic conditions. It is easy to anticipate that this phenomenon, with its momentous developments, will have an effect on the Mediterranean, for which states and religious communities must not be found unprepared. While countries experiencing this flow of migrants and countries to which they travel are affected by this, so too are the governments and Churches of the migrants’ countries of origin, which, with the departure of so many young people, witness the impoverishment of their own future.

We are aware that, in different social contexts, there is a growing attitude of indifference and even rejection that reflects the mentality, condemned in many of the Gospel parables, of those who, caught up in their own wealth and freedom, are blind to others who, by speaking out or by the very fact of their poverty, are pleading for help. Fear is leading to a sense that we need to defend ourselves against what is depicted in demagogic terms as an invasion. The rhetoric of the clash of civilizations merely serves to justify violence and to nurture hatred. The failure or, in any case, the weakness of politics, and factionalism are leading to forms of radicalism and terrorism. The international community has been content with military interventions, whereas it should have built institutions that can guarantee equal opportunities and enable citizens to assume their responsibility for the common good.

For our part, brothers, let us speak out to demand that government leaders protect minorities and religious freedom. The persecution experienced above all – but not only – by Christian communities is a heart-rending fact that cannot leave us indifferent.

In the meantime, we can never resign ourselves to the fact that someone who seeks hope by way of the sea can die without receiving help, or that someone from afar can fall prey to sexual exploitation, be underpaid or recruited by gangs.

To be sure, acceptance and a dignified integration are stages in a process that is not easy. Yet it is unthinkable that we can address the problem by putting up walls. I grow fearful when I hear certain speeches by some leaders of the new forms of populism; it reminds me of speeches that disseminated fear and hatred back in the thirties of the last century. As I said, it is unthinkable that this process of acceptance and dignified integration can be accomplished by building walls. When we do so, we cut ourselves off from the richness brought by others, which always represents an opportunity for growth. When we reject the desire for fellowship present deep within the human heart and is part of the history of peoples, we stand in the way of the unification of the human family, which despite many challenges, continues to advance. Last week, an artist from Turin sent me a little wood-burned picture of the flight to Egypt with Saint Joseph, not the peaceful Saint Joseph we are used to seeing on holy cards, but Saint Joseph in the guise of a Syrian refugee bearing a child on his shoulders. It portrayed the pain and the bitter tragedy of the Child Jesus on the flight to Egypt. The same thing that is happening today.

The Mediterranean has a unique vocation in this regard: it is the sea of intermingling, “culturally always open to encounter, dialogue and mutual inculturation” (Meeting with Heads of Churches and Christian Communities in the Middle East, Bari, 7 July 2018). Notions of racial purity have no future. The message of intermingling has much to tell us. To be part of the Mediterranean region is a source extraordinary potential: may we not allow a spirit of nationalism to spread the opposite view, namely, that those states less accessible and geographically more isolated should be privileged. Dialogue alone enables us to come together, to overcome prejudices and stereotypes, to tell our stories and to come to know ourselves better. Dialogue is the word I heard today: conviviality.

Young people, too, represent a special opportunity. When they are provided the resources and possibilities they need to take charge of their own future, they show that they are capable of generating a promising and hope-filled future. This will only happen as the result of an acceptance that is not superficial but heartfelt and benevolent, practised by everyone at all levels, both the everyday level of interpersonal relationships and the political and institutional levels, and fostered by those who shape culture and bear greater responsibility in the area of public opinion.

For those who believe in the Gospel, dialogue is advantageous not only from an anthropological but also from a theological standpoint. Listening to our brothers and sisters is not only an act of charity but also a way of listening to the Spirit of God who surely works in others and whose voice transcends the limits in which we are often tempted to constrain the truth. Let us come to know the value of hospitality: “for thereby some have entertained angels unawares” (Heb 13:1).

We need to develop a theology of acceptance and of dialogue leading to a renewed understanding and proclamation of the teaching of Scripture. This can only happen if we make every effort to take the first step and not exclude the seeds of truth also possessed by others. In this way, the discussion of our various religious convictions can concern not only the truths we believe, but also specific themes that can become defining points of our teaching as a whole.

All too often, history has known conflicts and struggles based on the distorted notion that we are defending God by opposing anyone who does not share our set of beliefs. Indeed, extremism and fundamentalism deny the dignity of the human person and his or her religious freedom, and thus lead to moral decline and the spread of an antagonistic view of human relationships. This too shows us the urgent need of a more vital encounter between different religious confessions, one motivated by sincere respect and a desire for peace.

This encounter is spurred by the awareness, set forth in the Document on Human Fraternity signed at Abu Dhabi, that “the authentic teachings of religions invite us to remain rooted in the values of peace; to defend the values of mutual understanding, human fraternity and harmonious coexistence”. Religious groups and different communities can cooperate more actively in helping the poor and welcoming immigrants, in such a way that our relationships are motivated by common goals and accompanied by active commitment. Those who together dirty their hands in building peace and fraternal acceptance will no longer be able to fight over matters of faith, but will pursue the paths of respectful discussion, mutual solidarity, and the quest for unity. Its opposite is what I felt when I went to Lampedusa, that air of indifference: on the island there was acceptance and welcome, but then, in the world, the culture of indifference.

Dear brothers, these are the hopes I wanted to share with you at the conclusion of our fruitful and consoling encounter in these days. I entrust you to the intercession of the Apostle Paul who was the first to cross the Mediterranean, facing dangers and hardships of every kind, in order to bring the Gospel of Christ to everyone. May his example show you the paths to pursue in the joyful and liberating task of handing on the faith in our own time.

I leave you with the words of the Prophet Isaiah, in the hope that they will provide you and your respective communities with hope and strength. Witnessing the destruction of Jerusalem after the exile, the prophet did not fail to look forward to a future of peace and prosperity: “They shall build up the ancient ruins, they shall raise up the former devastations; they shall repair the ruined cities, the devastations of many generations” (Is 61:4). This is the work the Lord entrusts to you on behalf of this beloved Mediterranean region: to restore relationships that have been broken, to rebuild cities destroyed by violence, to make a garden flourish in what is now a desert, to instil hope in the hopeless, and to encourage those caught up in themselves not to fear their brothers or sisters. And to look upon this [sea], which has already become a cemetery, as a place of future resurrection for the entire area. May the Lord accompany your steps and bless your work of reconciliation and peace. Thank you.

[00263-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder,

ich bin froh, euch zu treffen und danke jedem Einzelnen von euch, dass ihr die Einladung der Italienischen Bischofskonferenz angenommen habt, an dieser Zusammenkunft der Kirchen des Mittelmeerraums teilzunehmen. Und wenn ich heute diese Kirche betrachte [die Basilika des heiligen Nikolaus], kommt mir eine andere Begegnung in den Sinn, jene, die wir mit den Oberhäuptern der christlichen Kirchen – der orthodoxen, katholischen… - hier in Bari hatten. Es ist das zweite Mal innerhalb von wenigen Monaten, dass solch eine Geste der Einheit gesetzt wird: Damals war es das erste Mal, dass wir nach dem Großen Schisma, alle zusammen waren; und dies ist das erste Mal, dass alle Bischöfe, deren Sitze am Mittelmeer gelegen sind, sich treffen. Ich glaube, dass wir Bari die Hauptstadt der Einheit nennen könnten, der Einheit der Kirche – wenn Erzbischof Cacucci es uns erlaubt! Danke für den Empfang, Exzellenz, danke.

Als Kardinal Bassetti mir die Initiative seinerzeit vorstellte, habe ich sie sofort mit Freude aufgenommen, weil ich darin die Möglichkeit sah, einen Prozess des Hörens und des Austauschs einzuleiten, der zum Aufbau des Friedens an diesem Kreuzungspunkt der Welt beiträgt. Aus diesem Grunde wollte ich hier anwesend sein und den Wert bezeugen, der dem neuen, durch euch zum Ausdruck gebrachten Paradigma der Brüderlichkeit und der Kollegialität innewohnt. Mir hat jenes Wort gefallen, das ihr dem Dialog hinzugefügt habt: fröhliches Miteinander.

Die Entscheidung, dieses Treffen in der Stadt Bari durchzuführen, halte ich für sehr bedeutsam. Sie ist sowohl wichtig für die Beziehungen mit dem Nahen Osten, wie auch mit dem afrikanischen Kontinent. Das ist ein beredtes Zeichen dafür, wie tief verwurzelt die Verbindung zwischen den Völkern und den verschiedenen Traditionen ist. Die Diözese Bari hält dann auch immer schon den ökumenischen und interreligiösen Dialog am Leben, indem sie sich unermüdlich dafür einsetzt, Bande gegenseitiger Wertschätzung und Brüderlichkeit zu etablieren. Nicht zufällig habe ich mich entschieden, - wie ich sagte - gerade hier vor anderthalb Jahren die Verantwortlichen der verschiedenen christlichen Gemeinschaften des Nahen Ostens zu einem wichtigen Moment des Austauschs und der Gemeinschaft zu treffen, der uns als geschwisterliche Kirchen helfe, sich gemeinsam aufzumachen und enger verbunden zu fühlen.

Vor diesem besonderen Hintergrund habt ihr euch versammelt, um über die Berufung und die Geschicke des Mittelmeerraums nachzudenken, über die Weitergabe des Glaubens und die Förderung des Friedens. Das Mare nostrum ist der reale und spirituelle Ort, an dem unsere Kultur Form angenommen hat als Ergebnis der Begegnung verschiedener Völker. Gerade kraft seiner Eigenart fordert dieses Meer die anliegenden Völker und Kulturen zu einer beständigen Nähe auf. Es lädt sie ein, sich an das zu erinnern, was sie verbindet, und im Gedächtnis zu behalten, dass nur ein Leben in Eintracht, die Möglichkeiten entfaltet, die diese Region hinsichtlich der Ressourcen, der landschaftlichen Schönheit und der verschiedenen menschlichen Traditionen besitzt.

In unseren Tagen hat sich die Bedeutung dieses Gebiets trotz der Dynamik der Globalisierung nicht verringert. Im Gegenteil hat jene die Rolle des Mittelmeers als Kreuzungspunkt von Interessen und wichtigen Ereignissen unter sozialem, politischem, religiösem und wirtschaftlichem Gesichtspunkt noch aufgewertet. Das Mittelmeer bleibt ein strategischer Raum, dessen Gleichgewicht Auswirkungen auch auf die anderen Teile der Welt hat.

Man kann sagen, dass seine Ausmaße, die eher mit denen eines Sees als mit denen eines Ozeans zu vergleichen wären - wie es bereits Giorgio La Pira tat -, umgekehrt proportional zu seiner Größe sind. Er nannte das Mittelmeer den „großen See Genezareth“ und spielte damit auf eine Analogie zwischen der Zeit Jesu und der unsrigen an; zwischen dem Umfeld, in dem Jesus sich bewegte, und dem, wo die Völker leben, die heute dort wohnen. Und wie Jesus in einer an Kultur und Glauben heterogenen Umgebung wirkte, so befinden auch wir uns innerhalb eines polyedrischen und vielgestaltigen Rahmens, der von Spaltungen und Ungleichheiten zerrissen ist, die seine Instabilität verstärken. In diesem Epizentrum tiefer Bruchlinien sowie wirtschaftlicher, religiöser, konfessioneller und politischer Konflikte sind wir gerufen, unser Zeugnis von Einheit und Frieden zu geben. Wir gehen dabei von unserem Glauben und der Zugehörigkeit zur Kirche aus und fragen uns, was der Beitrag sei, den wir als Jünger des Herrn allen Männern und Frauen des Mittelmeergebiets anbieten können.

Die Weitergabe des Glaubens kann aus dem Erbe des Mittelmeerraums nur Frucht ziehen. Es ist ein Erbe, das von den christlichen Gemeinschaften gehütet wird und mittels der Katechese und der Feier der Sakramente, der Gewissensbildung und des persönlichen wie gemeinschaftlichen Hörens des Wortes Gottes lebendig gemacht wird. Besonders in der Volksfrömmigkeit findet die christliche Erfahrung einen so bedeutungsvollen wie unverzichtbaren Ausdruck: In der Tat ist die Devotion des Volkes meist Ausdruck eines einfachen und aufrichtigen Glaubens. Und diesbezüglich zitiere ich gern jenes Juwel, das die Nummer 48 aus Evangelii nuntiandi über die Volksfrömmigkeit ist, wo der heilige Paul VI. die Bezeichnung von „Religiosität“ in „Frömmigkeit“ ändert, und wo ihre Reichtümer und auch ihre Mängel dargestellt werden. Diese Nummer muss uns in unserer Verkündigung des Evangeliums an die Völker leiten.

In diesem Bereich bildet auch das künstlerische Erbe einen Schatz mit enormen Möglichkeiten, da es die Glaubensinhalte mit dem Reichtum der Kulturen und der Schönheit der Kunstwerke verbindet. Dieses Erbe, das fortwährend Millionen von Besuchern aus der ganzen Welt anzieht, bedarf einer sorgfältigen Pflege als eine wertvolle Hinterlassenschaft, die wir nur als „Leihgabe“ erhalten haben, die wir an die künftigen Generationen weiterzugeben haben.

Vor diesem Hintergrund kann man die Verkündigung des Evangeliums nicht vom Einsatz für das Allgemeingut trennen. Sie treibt uns an, als unermüdliche Arbeiter des Friedens zu handeln. Heute wird der Mittelmeerraum von vielen Brandherden der Instabilität und des Krieges bedroht, sei es im Nahen Osten oder in verschiedenen Staaten Nordafrikas sowie auch unter diversen Ethnien oder religiösen und konfessionellen Gruppen. Wir dürfen auch den noch ungelösten Konflikt zwischen Israelis und Palästinensern nicht vergessen, der die Gefahr unausgewogener Lösungen in sich birgt und daher neue Krisen heraufbeschwört.

Der Krieg, der die Ressourcen auf den Erwerb von Waffen und auf militärische Anstrengungen ausrichtet und sie damit den Vitalfunktionen einer Gesellschaft – der Unterstützung der Familien, des Gesundheitswesens und der Bildung – entzieht, ist gegen die Vernunft, entsprechend der Lehre des heiligen Johannes XXIII. (vgl. Enzyklika Pacem in terris, 62; 67). Mit anderen Worten, der Krieg ist ein Wahnsinn, denn es ist wahnsinnig, Häuser, Brücken, Fabriken, Krankenhäuser zu zerstören, Menschen zu töten und Ressourcen zu vernichten, anstatt menschliche und wirtschaftliche Beziehungen aufzubauen. Es ist ein Irrsinn, mit dem wir uns nicht abfinden dürfen: Niemals darf der Krieg mit der Normalität verwechselt oder als unvermeidlicher Weg zur Austragung von Meinungsverschiedenheiten oder gegensätzlichen Interessen angesehen werden. Niemals.

Oberstes Ziel jeder menschlichen Gemeinschaft bleibt der Frieden, so sehr, dass man bekräftigen kann: »Es gibt keine Alternative zum Frieden, für niemanden«.[1] Es gibt keinerlei sinnvolle Alternative zum Frieden, weil jedes Vorhaben der Ausbeutung und Vorherrschaft den Nutznießer und den Leidtragenden gleichermaßen hässlich macht und eine kurzsichtige Auffassung der Wirklichkeit offenbart, wodurch man nicht nur den anderen, sondern auch sich selbst der Zukunft beraubt. Der Krieg erscheint so als das Scheitern jedes menschlichen und göttlichen Plans: Es genügt, eine Landschaft oder eine Stadt zu besuchen, die Schauplätze eines Konflikts sind, um wahrzunehmen, wie aufgrund des Hasses der Garten sich in einen öden und unwirtlichen Landstrich und das irdische Paradies in eine Hölle verwandeln. Und dem möchte ich die schwere Sünde der Scheinheiligkeit hinzufügen, wenn bei internationalen Zusammenkünften, in den Versammlungen viele Länder über Frieden sprechen und dann den Ländern, die Krieg führen, die Waffen verkaufen. Das nennt sich große Scheinheiligkeit.

Der Aufbau des Friedens, den die Kirche und jede zivile Institution immer als vorrangig betrachten müssen, hat als unverzichtbare Voraussetzung die Gerechtigkeit. Diese wird dort mit Füßen getreten, wo die Bedürfnisse der Menschen missachtet werden und wo sich einseitige Wirtschaftsinteressen über die Rechte der Einzelnen und der Gemeinschaft hinwegsetzen. Die Gerechtigkeit wird darüber hinaus durch die Wegwerfkultur eingeschränkt, die die Menschen so behandelt, als wären sie Dinge, und Ungleichheiten hervorbringt und steigert, so dass an den Ufern desselben Meeres in krasser Weise Gesellschaften des Überflusses neben anderen leben, in denen viele um das Überleben kämpfen.

Um dieser Kultur entgegenzuwirken, leisten die unzähligen, von den christlichen Gemeinschaften geleisteten Werke der Nächstenliebe, der Erziehung und der Bildung ihren entscheidenden Beitrag. Und jedes Mal, wenn sich die Diözesen, die Pfarreien, die Vereinigungen, die Ehrenamtlichen – die Ehrenamtlichen sind einer der großen Schätze der italienische Pastoral - oder die Einzelnen einsetzen, um die Zurückgelassenen oder Bedürftigen zu unterstützen, erlangt das Evangelium eine neue Anziehungskraft.

In der Verfolgung des Gemeinwohles, das eine andere Bezeichnung für Frieden ist, muss das von La Pira selbst angegebene Kriterium angewendet werden: sich von den »Erwartungen der armen Leute« leiten lassen.[2] Dieses Prinzip, das niemals aufgrund von Berechnungen oder aus Zweckmäßigkeit hintangesetzt werden darf, erlaubt, wenn es ernsthaft angewendet wird, eine radikale anthropologische Wende, die alle menschlicher macht.

Wozu bedarf es im Übrigen einer Gesellschaft, die immer neue technologische Errungenschaften aufweist, die aber weniger solidarisch den Bedürftigen gegenüber wird? Mit der Verkündigung des Evangeliums vermitteln wir hingegen die Logik, dass es keine Letzten gibt, und wir bemühen uns, dass die Kirche, die Kirchen durch einen immer aktiveren Einsatz Zeichen der bevorzugten Aufmerksamkeit für die Kleinen und die Armen sei, da »gerade die schwächer scheinenden Glieder des Leibes unentbehrlich sind« (1 Kor 12,22) und »wenn darum ein Glied leidet, leiden alle Glieder mit« (1 Kor 12,26).

Im Mittelmeerraum am meisten geplagt sind diejenigen, die vor dem Krieg flüchten oder ihr Land auf der Suche nach einem menschenwürdigen Leben verlassen. Die Anzahl dieser Geschwister – die gezwungen sind, geliebte Menschen und Heimat zu verlassen und sich Bedingungen äußerster Armut auszusetzen –, hat sich aufgrund der Zunahme der Konflikte und der dramatischen Klima- und Umweltbedingungen in immer weitläufigeren Gebieten erhöht. Es ist einfach vorauszusehen, dass dieses Phänomen, mit seiner epochalen Dynamik, die Mittelmeerregion prägen wird. Deshalb dürfen die Staaten und die religiösen Gemeinschaften selbst nicht unvorbereitet sein. Es betrifft die Länder, die von den Migrationsflüssen durchquert werden, und die Zielländer, aber auch die Regierungen und die Kirchen der Herkunftsstaaten der Migranten, die mit dem Weggang so vieler junger Menschen ihre Zukunft verelenden sehen.

Wir sind uns bewusst, dass in verschiedenen sozialen Umfeldern ein Sinn der Gleichgültigkeit und sogar der Ablehnung verbreitet ist, der an die in vielen Gleichnissen aus dem Evangelium gebrandmarkte Haltung derer erinnert, sich im eigenen Reichtum und in der Selbstgefälligkeit verschließen, ohne den zu bemerken, der mit Worten oder einfach durch seinen Zustand der Bedürftigkeit um Hilfe ruft. Ein Gefühl der Angst bahnt sich den Weg, der dazu führt, die Selbstverteidigung aufzufahren angesichts dessen, was instrumentalisierend wie eine Invasion dargestellt wird. Die Rhetorik des Kampfs der Kulturen dient nur dazu, die Gewalt zu rechtfertigen und den Hass zu nähren. Die Nachlässigkeit oder zumindest die Schwäche der Politik und die Abschottung sind Gründe für Radikalität und Terrorismus. Die internationale Gemeinschaft ist bei militärischen Eingriffen stehengeblieben, während sie Institutionen einsetzen sollte, die gleiche Chancen und Orte gewährleisten, in denen die Bürger die Möglichkeit haben, Verantwortung für das Gemeinwohl zu übernehmen.

Unsererseits, Brüder, erheben wir die Stimme, um die Regierungen um den Schutz der Minderheiten und der Religionsfreiheit zu bitten. Die Verfolgung, der vor allem - aber nicht ausschließlich - die christlichen Gemeinschaften zum Opfer fallen, ist eine Wunde, die unser Herz zerreißt und uns nicht gleichgültig lassen kann.

Wir dürfen auch niemals akzeptieren, dass Menschen, die sich mit einem Weg über das Meer Hoffnung machen, sterben, ohne Rettung zu erfahren, oder dass jemand, der aus der Ferne kommt, Opfer sexueller Ausbeutung wird, beziehungsweise unterbezahlt oder von der Mafia gedungen wird.

Gewiss sind die Aufnahme und die würdige Integration Schritte eines nicht einfachen Prozesses; dennoch ist es undenkbar, ihn anzugehen, wenn man Mauern errichtet. Mir macht es Angst, wenn ich manche Reden einiger Anführer der neuen Formen des Populismus höre, und sie lassen mich die Reden wieder hören, die in den 30er-Jahren des vergangenen Jahrhunderts Angst und dann Hass gesät haben. Es ist undenkbar, so habe ich gesagt, diesen Prozess der Aufnahme und würdigen Integration anzugehen, wenn man Mauern errichtet. Auf diese Weise versperrt man sich vielmehr den Zugang zum Reichtum, dessen Träger der Nächste ist und der immer eine Gelegenheit zum Wachstum darstellt. Wenn man die Sehnsucht nach Gemeinschaft verleugnet, die im Herzen des Menschen und in der Geschichte der Völker eingeschrieben sind, wirkt man dem Prozess zur Einheit der Menschheitsfamilie entgegen, der sich unter tausenden Widrigkeiten bereits den Weg bahnt. Vergangene Woche hat mir ein Künstler aus Turin ein kleines Bild von der Flucht nach Ägypten geschickt, das auf Holz als Brandmalerei gefertigt wurde, und es war ein heiliger Josef dargestellt, der nicht so ruhig war, wie wir gewohnt sind, ihn auf den Heiligenbildchen zu sehen, sondern ein heiliger Josef in der Art eines syrischen Flüchtlings mit dem Kind auf den Schultern: Es zeigt den Schmerz, ohne das Drama des Jesuskindes zu mildern, als es nach Ägypten fliehen musste. Es ist das Gleiche, was heute passiert.

Das Mittelmeer hat eine besondere Berufung in diesem Sinn: Es ist das Meer der Vermischung der Völker, »das kulturell immer offen ist für die Begegnung, den Dialog und die gegenseitige Inkulturation«.[3] Die Rassenreinheiten haben keine Zukunft. Die Botschaft der Vermischung der Völker sagt uns viel. Am Mittelmeer gelegen zu sein, stellt somit ein außerordentliches Potenzial dar: Lassen wir nicht zu, dass aufgrund eines nationalistischen Geistes sich eine gegenteilige Auffassung verbreite und dass sozusagen die weniger erreichbaren und geografisch isolierteren Staaten bevorzugt werden. Nur der Dialog erlaubt es, sich zu begegnen, Vorurteile und Klischees zu überwinden, sich selbst besser kennenzulernen und von sich besser zu erzählen. Der Dialog und jenes Wort, das ich heute gehört habe: fröhliches Miteinander.

Eine besondere Chance stellen in diesem Sinn die neuen Generationen dar, wenn ihnen der Zugang zu den Ressourcen gewährleistet wird und sie in die Lage versetzt werden, Hauptakteure ihres Weges zu werden: Dann erweisen sie sich als Lebensader, die fähig ist, Zukunft und Hoffnung hervorzubringen. Dieses Ergebnis ist nur möglich, wo es eine nicht oberflächliche, sondern ehrliche und wohlwollende Aufnahme gibt, die von allen und auf allen Ebenen praktiziert wird, auf der alltäglichen Ebene der zwischenmenschlichen Beziehungen wie auch auf der politischen und institutionellen Ebene, und von denen gefördert wird, die Kultur schaffen und eine größere Verantwortung gegenüber der öffentlichen Meinung haben.

Für den, der an das Evangelium glaubt, hat der Dialog nicht nur einen anthropologischen Wert, sondern auch einen theologischen. Dem Bruder zuhören, ist nicht nur eine Tat der Nächstenliebe, sondern auch eine Art, um dem Geist Gottes Gehör zu schenken, der gewiss auch im anderen am Werk ist und über die Grenzen hinaus spricht, die wir oft versucht sind, die Wahrheit im Zaum zu halten. Wir kennen darüber hinaus den Wert der Gastfreundlichkeit: »Durch sie haben einige, ohne es zu ahnen, Engel beherbergt« (Hebr 13,1).

Es bedarf der Ausarbeitung einer Theologie der Aufnahme und des Dialogs, die die biblische Lehre erneut auslegt und nahebringt. Sie kann nur entwickelt werden, wenn man sich auf jegliche Weise bemüht, den nächsten Schritt zu gehen und man die Samen der Wahrheit nicht ausschließt, die auch von anderen verwahrt werden. Auf diese Weise wird der Vergleich der Inhalte der verschiedenen Glaubensüberzeugungen nicht nur die geglaubten Wahrheiten ins Auge fassen können, sondern wird auch spezifische Themen miteinbeziehen, die zu wichtigen Punkten der gesamten Lehre werden.

Zu oft hat die Geschichte Gegensätze und Kämpfe erlebt, die auf der verfehlten Überzeugung gründen, dass wir Gott verteidigen, wenn wir uns demjenigen entgegensetzen, der unser Glaubensbekenntnis nicht teilt. In Wirklichkeit verleugnen extreme Auffassungen und Fundamentalismen die Würde des Menschen und seine Religionsfreiheit, verursachen einen moralischen Verfall und befeuern eine antagonistische Sicht der menschlichen Beziehungen. Auch deswegen wird eine lebendigere Begegnung unter den verschiedenen religiösen Glaubensrichtungen dringlicher, die von einer ehrlichen Achtung und einer Absicht des Friedens getragen wird.

Diese Begegnung geht vom Bewusstsein aus, das in dem in Abu Dhabi unterzeichneten Dokument über die Brüderlichkeit festgehalten wurde, dass »die wahren Lehren der Religionen dazu einladen, in den Werten des Friedens verankert zu bleiben; dass sie dazu anregen, die Werte des gegenseitigen Kennens, derBrüderlichkeit aller Menschen und des allgemeinen Miteinanders zu vertreten«. Auch im Kontext der Unterstützung der Armen und der Aufnahme der Migranten kann man demnach eine aktivere Zusammenarbeit unter den religiösen Gruppen und den verschiedenen Gemeinschaften verwirklichen, so dass die Begegnung durch gemeinsame Absichten belebt wird und man sich mit einem tatkräftigen Engagement begleitet. Diejenigen, die sich gemeinsam die Hände schmutzig machen, um Frieden aufzubauen und aufzunehmen, werden sich nicht mehr wegen Glaubensgründen bekämpfen können, sondern sie werden die Wege der respektvollen Begegnung, der gegenseitigen Solidarität, der Suche nach der Einheit beschreiten. Und das Gegenteil ist das, was ich gespürt habe, als ich nach Lampedusa gegangen bin, jene Stimmung der Gleichgültigkeit: Auf der Insel gab es Aufnahme, aber dann in der Welt die Kultur der Gleichgültigkeit.

Dies sind die Wünsche, die ich euch, liebe Mitbrüder, zum Abschluss der fruchtbaren und trostbringenden Begegnung dieser Tage übermitteln möchte. Ich vertraue euch der Fürsprache des Apostels Paulus an, der als Erster das Mittelmeer durchquert hat, wobei er Gefahren und Widrigkeiten jeder Art ausgesetzt war, um allen das Evangelium Christi zu bringen: Sein Beispiel möge euch die Wege aufzeigen, auf denen der freudige und befreiende Einsatz zur Weitergabe des Glaubens in unserer Zeit fortgesetzt werden muss.

Als Auftrag übergebe ich euch die Worte des Propheten Jesajas, auf dass sie euch und euren jeweiligen Gemeinschaften Hoffnung und Kraft geben. Die Verwüstung Jerusalems im Anschluss an das Exil hält den Propheten nicht davon ab, eine Zukunft des Friedens und des Wohlstandes zu schauen: »Dann bauen sie die uralten Trümmerstätten wieder auf und richten die Ruinen der Vorfahren wieder her. Die verödeten Städte erbauen sie neu, die Ruinen vergangener Generationen« (Jes 61,4). Dies ist das Werk, das der Herr euch für dieses geliebte Mittelmeergebiet anvertraut: die Verbindungen, die unterbrochen wurden, wiederaufzunehmen, die von der Gewalt zerstörten Städte wiederaufzubauen, einen Garten dort zur Blüte zu bringen, wo heute verdorrter Boden ist, Hoffnung für den zu wecken, der sie verloren hat, und diejenigen zu ermahnen, die in sich selbst verschlossen sind, den Bruder nicht zu fürchten. Und auf das, was schon zu einem Friedhof geworden ist, wie auf einen Ort der künftigen Auferstehung des ganzen Gebiets zu blicken. Der Herr begleite eure Schritte und segne euer Werk der Versöhnung und des Friedens. Danke.

______________________

[1] Abschluss des Dialogtreffens mit den Oberhäuptern der Kirchen und christlichen Gemeinschaften des Nahen Ostens, Bari, 7. Juli 2018.
[2]
G. La Pira, «Le attese della povera gente», in Cronache sociali 1/1950.
[3]
Ivi.

[00263-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos:

Me alegra encontraros y os agradezco a cada uno de vosotros el haber aceptado la invitación de la Conferencia Episcopal Italiana para participar en este encuentro que reúne a las Iglesias del Mediterráneo. Y mirando hoy esta iglesia [la Basílica de San Nicolás], recuerdo el otro encuentro, el que tuvimos con los jefes de las Iglesias cristianas —ortodoxas, católicas...— aquí en Bari. Es la segunda vez en pocos meses que se tiene un gesto de unidad como este: aquella fue la primera vez, después del gran cisma, en que estábamos todos juntos; y esta es la primera vez de todos los obispos de las costas del Mediterráneo. Creo que podríamos llamar a Bari la capital de la unidad, de la unidad de la Iglesia ―¡si Monseñor Cacucci lo permite!―. Gracias por la acogida; Excelencia, gracias.

Cuando, en su momento, el cardenal Bassetti me presentó la iniciativa, la acepté inmediatamente con alegría, viendo en ella la posibilidad de iniciar un proceso de escucha y diálogo, mediante el cual contribuir a la construcción de la paz en esta zona destacada del mundo. Por esta razón, quería estar presente y dar testimonio del valor que tiene el nuevo paradigma de fraternidad y colegialidad, del cual vosotros sois expresión. Me gusta esa palabra que habéis agregado al diálogo: convivialidad.

Considero significativa la decisión de celebrar este encuentro en la ciudad de Bari, tan importante por los lazos que mantiene tanto con Oriente Medio como con el continente africano, signo elocuente de cuán arraigadas están las relaciones entre pueblos y tradiciones diferentes. Además, la diócesis de Bari siempre ha mantenido vivo el diálogo ecuménico e interreligioso, trabajando incansablemente para establecer lazos de estima y de fraternidad mutua. No es casualidad que haya elegido reunirme aquí, hace un año y medio ―como ya dije―, con los responsables de las comunidades cristianas de Oriente Medio, para un momento importante de diálogo y comunión, que ayudase a las Iglesias hermanas a caminar juntas y a sentirse más cercanas.

En este contexto particular, os habéis reunido para reflexionar sobre la vocación y el destino del Mediterráneo, sobre la transmisión de la fe y la promoción de la paz. El Mare nostrum es el lugar físico y espiritual en el que se formó nuestra civilización, como resultado del encuentro de diferentes pueblos. Precisamente en virtud de su conformación, este mar obliga a las culturas y a los pueblos costeros a una proximidad constante, invitándolos a hacer memoria de lo que tienen en común y a recordar que sólo viviendo en armonía pueden disfrutar de las oportunidades que ofrece esta región desde el punto de vista de los recursos, de la belleza del territorio y de las diversas tradiciones humanas.

En nuestros días, la importancia de esta región no ha disminuido como consecuencia de las dinámicas determinadas por la globalización; al contrario, esta última ha acentuado el rol del Mediterráneo como encrucijada de intereses y acontecimientos relevantes desde un punto de vista social, político, religioso y económico. El Mediterráneo sigue siendo un área estratégica, cuyo equilibrio también manifiesta sus efectos en otras partes del mundo.

Se puede decir que sus dimensiones son inversamente proporcionales a su tamaño, lo que nos lleva a compararlo, más que a un océano, a un lago, como ya lo hizo Giorgio La Pira. Llamándolo “el gran lago de Tiberíades”, sugirió una analogía entre el tiempo de Jesús y el nuestro, entre el ambiente en que Él se movía y el que viven los pueblos que hoy lo habitan. Y así como Jesús obraba en un contexto heterogéneo de culturas y creencias, nos situamos en un marco multiforme y poliédrico, golpeado por divisiones y desigualdades, lo que aumenta su inestabilidad. En este epicentro de profundas líneas de ruptura y de conflictos económicos, religiosos, confesionales y políticos, estamos llamados a ofrecer nuestro testimonio de unidad y paz. Lo hacemos a partir de nuestra fe y de la pertenencia a la Iglesia, preguntándonos qué contribución podemos ofrecer, como discípulos del Señor, a todos los hombres y mujeres de la zona mediterránea.

La transmisión de la fe sólo puede sacar fruto del patrimonio del que el Mediterráneo es depositario. Es un patrimonio custodiado por las comunidades cristianas, que se reaviva a través de la catequesis y la celebración de los sacramentos, la formación de conciencias y la escucha personal y comunitaria de la Palabra del Señor. De modo particular, la experiencia cristiana encuentra en la piedad popular una expresión tan significativa como indispensable: de hecho, la devoción del pueblo es principalmente una expresión de fe sencilla y genuina. Y, sobre esto, me gusta mencionar a menudo esa joya que es el número 48 de la Evangelii nuntiandi sobre la piedad popular, donde san Pablo VI cambia el nombre de “religiosidad” en “piedad”, y donde se presentan sus riquezas y también sus carencias. Ese número debe servirnos de guía para el anuncio del Evangelio a todos los pueblos.

En esta región, un depósito de gran potencialidad es también el artístico, que combina los contenidos de la fe con la riqueza de las culturas y con la belleza de las obras de arte. Es un patrimonio que atrae continuamente a millones de visitantes de todo el mundo y que debe preservarse cuidadosamente, como un legado precioso que ha sido recibido “en préstamo” y que debe entregarse a las generaciones futuras.

En este contexto, el anuncio del Evangelio no puede separarse del compromiso por el bien común y nos empuja a actuar como perseverantes constructores de la paz. Hoy el área del Mediterráneo está amenazada por muchos focos de inestabilidad y guerra, tanto en Oriente Medio como en varios Estados del norte de África, y también entre diferentes grupos étnicos o grupos religiosos y confesionales. Tampoco podemos olvidar el conflicto, aún sin resolver, entre israelíes y palestinos, con el peligro de soluciones no equitativas y, por lo tanto, amenazantes de nuevas crisis.

La guerra, que destina los recursos a la compra de armas y la fuerza militar, desviándolos de las funciones vitales de una sociedad, como el apoyo a las familias, a la salud y a la educación, es contraria a la razón, según la enseñanza de san Juan XXIII (cf. Carta enc. Pacem in terris, 114, 126). En otras palabras, es una locura, porque es irracional destruir casas, puentes, fábricas, hospitales, matar personas y aniquilar recursos en vez de construir relaciones humanas y económicas. Es un sinsentido al que no podemos resignarnos: la guerra nunca puede confundirse con la normalidad, ni ser aceptada como una forma ineludible para regular las divergencias y los intereses opuestos. Jamás.

El objetivo final de toda sociedad humana sigue siendo la paz, tanto que se puede reiterar: «No hay alternativa posible a la paz».[1] No existe una alternativa sensata a la paz, porque cada proyecto de explotación y supremacía degrada a quien golpea y a quien es golpeado, y revela una concepción miope de la realidad, puesto que priva del futuro no sólo al otro, sino también a uno mismo. La guerra se presenta como el fracaso de todo proyecto humano y divino: basta con visitar un lugar o una ciudad, escenarios de conflicto, para darse cuenta de cómo, a causa del odio, el jardín se convierte en una tierra desolada e inhóspita y el paraíso terreno en un infierno. Y a esto me gustaría agregar el grave pecado de hipocresía, cuando en las conferencias internacionales, en las reuniones, muchos países hablan de paz y luego venden armas a los países que están en guerra. Esto es una gran hipocresía.

La construcción de la paz, que la Iglesia y todas las instituciones civiles deben sentir siempre como prioridad, tiene la justicia como premisa esencial. Esta es pisoteada cuando se ignoran las necesidades de las personas y prevalecen los intereses económicos partidistas sobre los derechos de los individuos y de la comunidad. La justicia se ve obstaculizada, además, por la cultura del descarte, que trata a las personas como si fueran cosas, y que genera y aumenta las desigualdades; así que, de modo escandaloso, en las costas del mismo mar viven sociedades de la abundancia y otras en las que muchos luchan por la supervivencia. Las innumerables obras de caridad, educación y capacitación realizadas por las comunidades cristianas contribuyen decisivamente a contrastar esta cultura. Y cada vez que las diócesis, parroquias, asociaciones, voluntarios ―el voluntariado es uno de los grandes tesoros de la pastoral italiana― o particulares trabajan para sostener a quienes están abandonados o necesitados, el Evangelio adquiere una nueva fuerza de atracción.

En la búsqueda del bien común —que es otro nombre de la paz— se debe asumir el criterio indicado por el mismo La Pira: dejarse guiar por las «expectativas de los pobres».[2] Este principio —que jamás puede ser identificable en base a cálculos o a razones de conveniencia—, si se toma en serio, permite un cambio antropológico radical, que hace a todos más humanos.

Por otra parte, ¿para qué sirve una sociedad que siempre logra nuevos resultados tecnológicos, pero que se vuelve menos solidaria con quien pasa necesidad? En cambio, con el anuncio del Evangelio, nosotros transmitimos la lógica por la cual no hay últimos y nos esforzamos por garantizar que la Iglesia, las Iglesias, a través de un compromiso cada vez más activo, sea signo de la atención privilegiada a los pequeños y los pobres, porque «los miembros que parecen más débiles son necesarios» (1 Co 12,22) y, «si un miembro sufre, todos sufren con él» (1 Co 12,26).

Entre los que más sufren en el área del Mediterráneo, están los que huyen de la guerra o dejan su tierra en busca de una vida humana digna. El número de estos hermanos —obligados a abandonar sus seres queridos y la patria, y a exponerse a condiciones extremadamente precarias— ha aumentado a causa del incremento de los conflictos y las dramáticas condiciones climáticas y ambientales de zonas cada vez más grandes. Es fácil predecir que este fenómeno, con su dinámica histórica, marcará la región mediterránea, por lo que los Estados y las comunidades religiosas no pueden encontrarse desprevenidos. Están involucrados los países transitados por los flujos migratorios y los de destino final, pero también los gobiernos y las iglesias de los Estados de origen de los migrantes, que con la partida de muchos jóvenes ven empobrecido su futuro.

Somos conscientes de que en diferentes contextos sociales existe un sentido de indiferencia e incluso de rechazo, que hace pensar en la actitud, estigmatizada en muchas parábolas evangélicas, de aquellos que se cierran en su propia riqueza y autonomía, sin darse cuenta de quién está pidiendo ayuda con palabras o simplemente con su estado de indigencia. Se abre paso una sensación de miedo que lleva a elevar las defensas frente a lo que se presenta de manera instrumentalizada como una invasión. La retórica del choque de civilizaciones sólo sirve para justificar la violencia y alimentar el odio. El incumplimiento o, en cualquier caso, la debilidad de la política y el sectarismo son causas del radicalismo y del terrorismo. La comunidad internacional se ha quedado en intervenciones militares, mientras que debería construir instituciones que garanticen la igualdad de oportunidades y lugares donde los ciudadanos tengan la posibilidad de asumir el bien común.

Por nuestra parte, hermanos, alcemos la voz para pedir a los gobiernos que defiendan las minorías y la libertad religiosa. La persecución, cuyas víctimas son sobre todo —pero no sólo— las comunidades cristianas, es una herida que nos desgarra el corazón y no puede dejarnos indiferentes.

Al mismo tiempo, no aceptemos nunca que quien busca la esperanza cruzando el mar muera sin recibir ayuda o que quien viene de lejos sea víctima de explotación sexual, sea explotado o reclutado por las mafias.

Por supuesto, la hospitalidad y la integración digna son etapas de un proceso difícil; sin embargo, es impensable poder enfrentarlo levantando muros. Me asusta cuando escucho algunos discursos de ciertos líderes de las nuevas formas de populismo,  me parece estar oyendo discursos que sembraron miedo y luego odio en la década de los años 30 del siglo pasado. Como dije, este proceso de hospitalidad y de digna integración es impensable poder afrontarlo levantando muros. De esta manera, más bien se impide el acceso a la riqueza que trae el otro y que siempre constituye una oportunidad de crecimiento. Cuando se renuncia al deseo de comunión, inscrito en el corazón del hombre y en la historia de los pueblos, se va en contra del proceso de unificación de la familia humana, que ya se está abriendo camino a través de mil adversidades. La semana pasada, un artista de Turín me envió un cuadrito de la huida a Egipto, realizado con la técnica del  pirograbado en madera. Había un san José, no tan tranquilo como estamos acostumbrados a verlo en las estampitas religiosas, sino un san José con la actitud de un refugiado sirio, con el niño sobre sus hombros: muestra el dolor, sin endulzar el drama, del Niño Jesús cuando tuvo que huir a Egipto. Es lo mismo que está sucediendo hoy.

El Mediterráneo tiene una vocación peculiar en este sentido: es el mar del mestizaje, «culturalmente siempre abierto al encuentro, al diálogo y a la inculturación mutua».[3] La pureza de las razas no tiene futuro. El mensaje del mestizaje nos dice mucho. Mirar al Mediterráneo, por lo tanto, representa un potencial extraordinario: no dejemos que una percepción contraria se difunda a causa de un espíritu nacionalista; es decir, que los Estados menos accesibles y geográficamente más aislados sean privilegiados. Sólo el diálogo nos permite encontrarnos, superar prejuicios y estereotipos, hablarnos y conocernos mejor. El diálogo y la otra palabra que escuché hoy: convivialidad. Una oportunidad particular, en este sentido, está representada por las nuevas generaciones, cuando se les garantiza el acceso a los recursos y se les coloca en las condiciones para convertirse en protagonistas de su camino; entonces se revelan como la savia capaz de generar futuro y esperanza. Este resultado es posible sólo cuando hay una acogida no superficial, sino sincera y compasiva, practicada por todos y en todos los ámbitos, en lo cotidiano de las relaciones interpersonales, así como en lo político e institucional, y promovida por aquellos que crean cultura y tienen una responsabilidad más relevante ante la opinión pública.

Para quien cree en el Evangelio, el diálogo no sólo tiene un valor antropológico, sino también teológico. Escuchar al hermano no es solamente un acto de caridad, sino también una forma de disponernos para oír al Espíritu de Dios, quien ciertamente actúa en el otro y habla más allá de las fronteras, donde a menudo estamos tentados a encadenar la verdad. Además, conocemos el valor de la hospitalidad: «Por ella algunos, sin saberlo hospedaron a ángeles» (Hb 13,2).

Es necesario desarrollar una teología de la acogida y del diálogo que reinterprete y vuelva a proponer la enseñanza bíblica. Puede elaborarse sólo si se hace todo lo posible por dar el primer paso y no se excluyen las semillas de la verdad que los otros también tienen. De esta manera, la comparación entre los contenidos de las diferentes religiones puede referirse no sólo a las verdades creídas, sino a temas específicos, que se convierten en puntos relevantes de toda la doctrina.

Con demasiada frecuencia, la historia ha conocido contrastes y luchas, basados en la persuasión distorsionada de que estamos defendiendo a Dios ante quien no comparte nuestra creencia. En realidad, los extremismos y los fundamentalismos niegan la dignidad del hombre y su libertad religiosa, causando una decadencia moral y alentando una concepción antagónica de las relaciones humanas. Además, es por esta razón que se necesita con urgencia un encuentro más vivo entre las diferentes religiones, impulsado por un respeto sincero y por una apuesta por la paz.

Dicho encuentro surge de la conciencia, establecida en el Documento sobre la fraternidad,firmado en Abu Dabi, de que «las enseñanzas verdaderas de las religiones invitan a permanecer anclados en los valores de la paz; a sostener los valores del conocimiento recíproco, de la fraternidad humana y de la convivencia común». Incluso, con referencia a la ayuda a los pobres y a la acogida a los migrantes, se puede lograr una colaboración más activa entre los grupos religiosos y las diferentes comunidades, de modo que el diálogo esté animado por propósitos comunes y acompañado por un compromiso activo. Los que juntos se ensucian las manos para construir la paz y la acogida, ya no podrán combatir por razones de fe, sino que recorrerán los caminos del diálogo respetuoso, de la solidaridad mutua y de la búsqueda de la unidad. Y lo contrario es lo que sentí cuando fui a Lampedusa; esa actitud de indiferencia: en la isla había hospitalidad, pero luego en el mundo la cultura de la indiferencia.

Estos son los deseos que quiero comunicarles, queridos hermanos, al concluir el encuentro fructuoso y vivificante de estos días. Os encomiendo a la intercesión del apóstol Pablo, que cruzó por primera vez el Mediterráneo, afrontando peligros y adversidades de todo tipo para llevar a todos el Evangelio de Cristo. Que su ejemplo os muestre los caminos para continuar el compromiso alegre y liberador de transmitir la fe en nuestro tiempo.

Como envío, os entrego las palabras del profeta Isaías, para que os den esperanza y valentía, como también a vuestras respectivas comunidades. Ante la desolación de Jerusalén después del exilio, el profeta no dejó de vislumbrar un futuro de paz y prosperidad: «Reconstruirán sobre ruinas antiguas, pondrán en pie los sitios desolados de antaño, renovarán ciudades devastadas, lugares desolados por generaciones» (Is 61,4). Esta es la tarea que el Señor os confía para esta amada zona del Mediterráneo: reconstruir los lazos que se han roto, levantar las ciudades destruidas por la violencia, hacer florecer un jardín donde hoy hay terrenos áridos, infundir esperanza a quienes la han perdido y exhortar a los que están encerrados en sí mismos a no temer a su hermano. Y contemplar esto, que ya se ha convertido en un cementerio, como lugar de futura resurrección para toda la región. Que el Señor acompañe vuestros pasos y bendiga vuestra obra de reconciliación y de paz. Gracias.

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[1] Discurso como conclusión del diálogo con los responsables de las Iglesias y de las comunidades cristianas de Oriente Medio, Bari, 7 julio 2018.
[2]
G. La Pira, «Le attese della povera gente», en Cronache sociali 1/1950.
[3]
Ibíd.

[00263-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos,

Sinto-me feliz por vos encontrar e estou grato a cada um de vós por ter aceite o convite da Conferência Episcopal Italiana para participar neste encontro que vê reunidas as Igrejas do Mediterrâneo. E hoje, olhando para esta igreja [a Basílica de São Nicolau], vem-me ao pensamento outro encontro: o que tivemos com os responsáveis das Igrejas cristãs – ortodoxas, católicas, etc. – aqui em Bari. É a segunda vez, em poucos meses, que se realiza um sinal de unidade deste género: a outra foi a primeira vez que estivemos todos juntos, depois do grande cisma; e hoje estão juntos, pela primeira vez, todos os bispos cujas dioceses abrem para a costa do Mediterrâneo. Creio que poderíamos chamar Bari a capital da unidade, da unidade da Igreja – se no-lo permitir D. Cacucci! Obrigado pelo acolhimento, Excelência, obrigado!

No momento em que o cardeal Bassetti me apresentou a iniciativa, logo a recebi com alegria, vislumbrando nela a possibilidade de iniciar um processo de escuta e confronto que contribuísse para a construção da paz nesta área crucial do mundo. Por esse motivo, quis estar presente e dar testemunho do valor contido no novo paradigma de fraternidade e colegialidade, de que sois expressão. Gostei da palavra que acrescentastes ao diálogo: convivialidade.

Considero significativa a decisão de realizar este encontro na cidade de Bari, tão importante pelos laços que tem quer com o Médio Oriente quer com o continente africano, sinal eloquente de quão enraizadas estejam as relações entre povos e tradições diferentes. Além disso, a diocese de Bari sempre manteve vivo o diálogo ecuménico e inter-religioso, trabalhando incansavelmente por estabelecer laços de estima mútua e fraternidade. Não foi por acaso que há um ano e meio – como já acenei – escolhi encontrar, precisamente neste local, os responsáveis das comunidades cristãs do Médio Oriente para um momento importante de confronto e comunhão, que ajudasse as Igrejas irmãs a caminharem juntas e a sentirem-se mais solidárias.

E, neste ambiente especial, vos reunistes agora vós para refletir sobre a vocação e o destino do Mediterrâneo, sobre a transmissão da fé e a promoção da paz. O Mare nostrum é o lugar físico e espiritual onde se modelou a nossa civilização, resultante do encontro de diferentes povos. Precisamente em virtude da sua configuração, este mar obriga os povos e as culturas que o rodeiam a uma constante proximidade, convidando-os a recordar o que têm em comum e a lembrar-se de que só vivendo na concórdia poderão valer-se das oportunidades oferecidas pela região quanto aos recursos, à beleza do território, às variadas tradições humanas.

Nos nossos dias, a importância desta área não tem diminuído em consequência das dinâmicas determinadas pela globalização; pelo contrário, esta acentuou o papel do Mediterrâneo como encruzilhada de interesses e vicissitudes significativas sob os pontos de vista social, político, religioso e económico. O Mediterrâneo continua uma área estratégica, cujo equilíbrio reflete os seus efeitos também nas outras partes do mundo.

Pode-se dizer que as suas dimensões são inversamente proporcionais ao próprio tamanho, o que leva a compará-lo mais a um lago do que a um oceano, como fez Jorge La Pira. Ao defini-lo como «o grande lago de Tiberíades», sugeriu uma analogia entre o tempo de Jesus e o nosso, entre o ambiente em que Ele Se movera e aquele onde vivem os povos que hoje o habitam. E como Jesus atuou num contexto heterogéneo de culturas e crenças, também nós nos colocamos num quadro poliédrico e pluriforme, dilacerado por divisões e desigualdades, que agravam a sua instabilidade. É neste epicentro de profundas linhas de rutura e de conflitos económicos, religiosos, confessionais e políticos, que somos chamados a oferecer o nosso testemunho de unidade e paz; fazemo-lo a partir da nossa fé e pertença à Igreja, interrogando-nos que contribuição podemos nós, como discípulos do Senhor, oferecer a todos os homens e mulheres da área mediterrânica.

A transmissão da fé só pode lucrar com o património de que é depositário o Mediterrâneo: um património guardado pelas comunidades cristãs, vivificado por meio da catequese e da celebração dos sacramentos, da formação das consciências e da escuta pessoal e comunitária da Palavra do Senhor. A experiência cristã encontra uma expressão, tão significativa como imprescindível, particularmente na piedade popular: de facto a devoção do povo é, na sua maior parte, expressão de fé simples e genuína. E, a propósito, apraz-me citar – faço-o com frequência – aquela joia que é o número 48 da Evangelii nuntiandi sobre a piedade popular: lá São Paulo VI altera o nome de «religiosidade» para «piedade», apresentando as suas riquezas e também as suas deficiências. Aquele número deve servir de guia no nosso anúncio do Evangelho aos povos.

Nesta área, outro depósito de potencialidades enormes é o artístico, que une os conteúdos da fé com a riqueza das culturas, com a beleza das obras de arte. É um património que atrai continuamente milhões de visitantes de todo o mundo e que deve ser cuidadosamente guardado como uma preciosa herança recebida «em empréstimo» para entregar às gerações futuras.

Nesta perspetiva, o anúncio do Evangelho não pode dissociar-se do empenho pelo bem comum e impele-nos a agir como incansáveis pacificadores. Hoje, a área do Mediterrâneo está ameaçada por muitos focos de instabilidade e guerra, quer no Médio Oriente quer em vários Estados do norte da África, bem como entre diferentes etnias ou grupos religiosos e confessionais; e não podemos esquecer também o conflito ainda não resolvido entre israelitas e palestinenses, correndo o perigo de soluções não equitativas e, consequentemente, pressagiadoras de novas crises.

A guerra, que encaminha os recursos para a aquisição de armas e a força militar, desviando-os de funções vitais da sociedade como o apoio às famílias, à saúde e à instrução, vai contra a razão (cf. São João XXIII, Carta enc. Pacem in terris, 114; 126). Por outras palavras, a guerra é uma loucura, pois é louco destruir casas, pontes, fábricas, hospitais, matar pessoas e destruir recursos, em vez de construir relações humanas e económicas. É uma loucura a que não podemos resignar-nos: a guerra nunca poderá passar por normalidade, nem ser aceite como via inevitável para regular divergências e interesses contrapostos. Nunca…

O objetivo último de toda a sociedade humana continua a ser a paz, pelo que reafirmo que «não há alternativa possível à paz»[1] para ninguém. Não há qualquer alternativa sensata à paz, porque todo o projeto de exploração e supremacia brutaliza seja quem fere seja a quem é ferido, e revela uma conceção míope da realidade, uma vez que priva do futuro não apenas o outro mas também o próprio. Assim a guerra aparece como o falimento de todo o projeto humano e divino: basta visitar uma paisagem ou uma cidade, palcos dum conflito, para se dar conta de como, por causa do ódio, o jardim se transforma numa terra desolada e inóspita, e o paraíso terrestre num inferno. E, a isto, gostaria de acrescentar o grave pecado da hipocrisia que se verifica quando, nas conferências internacionais, nas reuniões, tantos países falam de paz e, depois, vendem as armas aos países que estão em guerra. Isto chama-se a grande hipocrisia.

A construção da paz, que a Igreja e toda a instituição civil sempre devem sentir como uma prioridade, tem como pressuposto indispensável a justiça. Esta acaba espezinhada quando são ignoradas as exigências das pessoas e onde os interesses económicos duma parte prevalecem sobre os direitos dos indivíduos e da comunidade. Além disso, a justiça é obstaculizada também pela cultura do descarte, que trata as pessoas como coisas gerando e aumentando as desigualdades, a ponto de clamorosamente, nas praias do mesmo mar, viverem sociedades da abundância e outras onde muitos lutam pela sobrevivência.

Para contrastar tal cultura, contribuem decisivamente as inúmeras obras de caridade, educação e formação implementadas pelas comunidades cristãs. E sempre que as dioceses, as paróquias, as associações, o voluntariado – o voluntariado é um dos grandes tesouros da pastoral italiana – ou os indivíduos trabalham para apoiar quem está abandonado ou necessitado, o Evangelho ganha nova força de atração.

Na busca do bem comum – que é outro nome da paz –, deve-se assumir o critério indicado pelo próprio Jorge La Pira: deixar-se guiar pelas «expetativas da pobre gente».[2] Se for tomado a sério, este princípio (que nunca poderá ser posto de lado por cálculos ou razões de conveniência) permite uma viragem antropológica radical, que a todos nos torna mais humanos.

Aliás, para que serve uma sociedade que alcança sempre novos resultados tecnológicos, enquanto se torna cada vez menos solidária para com os necessitados? Ao invés, com o anúncio do Evangelho, transmitimos a lógica segundo a qual não existem últimos e esforçamo-nos para que a Igreja, as Igrejas, através dum empenho cada vez mais ativo, sejam sinal de atenção privilegiada pelos humildes e os pobres, porque «quanto mais fracos parecem ser os membros do corpo, tanto mais são necessários» (1 Cor 12, 22) e, «se um membro sofre, com ele sofrem todos os membros» (1 Cor 12, 26).

Entre as pessoas mais atribuladas na área do Mediterrâneo, contam-se as que fogem da guerra ou deixam a sua terra em busca duma vida digna do homem. O número destes irmãos – forçados a abandonar afetos e a pátria e a sujeitar-se a condições extremamente precárias – tem vindo a aumentar por causa do incremento dos conflitos e das trágicas condições climatéricas e ambientais de áreas sempre mais amplas. É fácil prever que este fenómeno, com suas dinâmicas assombrosas, marcará a região mediterrânica, pelo que os Estados e as próprias comunidades religiosas não podem deixar-se encontrar impreparadas. Interessados no caso são não só os países atravessados pelos fluxos migratórios e os de destinação final, mas também os governos e as Igrejas dos Estados de origem dos migrantes, que veem depauperado o seu futuro com a partida de tantos jovens.

Estamos cientes de que, em vários contextos sociais, se difundiu um sentido de indiferença e até de rejeição, que faz pensar na atitude – condenada em muitas parábolas evangélicas – de quantos se fecham na própria riqueza e autonomia, ignorando quem, por palavras ou simplesmente com o seu estado de indigência, está a pedir ajuda. Cresce um sentimento de medo, que leva a erguer as próprias defesas perante aquilo que, instrumentalmente, é descrito como uma invasão. A retórica do choque de civilizações serve apenas para justificar a violência e alimentar o ódio. O falhanço ou, em todo o caso, fragilidade da política e o sectarismo são causas de radicalismos e terrorismo. A comunidade internacional limitou-se às intervenções militares, quando deveria construir instituições que garantissem oportunidades iguais e situações onde os cidadãos tivessem possibilidades de se encarregar do bem comum.

Por nossa vez, irmãos, levantamos a voz para pedir aos governos a tutela das minorias e da liberdade religiosa. A perseguição de que são vítimas sobretudo, mas não só, as comunidades cristãs é uma ferida que dilacera o nosso coração e não nos pode deixar indiferentes.

Ao mesmo tempo não aceitaremos jamais que pessoas que procuram por mar a esperança morram sem receber socorro, nem que alguém que chega de longe acabe vítima de exploração sexual, seja mal pago ou contratado pelas máfias.

Obviamente, a hospitalidade e uma integração digna são etapas dum processo não fácil; mas é impensável poder enfrentá-lo levantando muros. Sinto medo ao ouvir certos discursos de alguns líderes das novas formas de populismo que me lembram aqueles discursos que semeavam medo e, depois, ódio nos anos ’30 do século passado. Como dizia, este processo de hospitalidade e integração digna, é impensável poder enfrentá-lo levantando muros. Antes, desta maneira, é-nos impedido o acesso à riqueza de que o outro é portador e que sempre constitui uma oportunidade de crescimento. Quando se renega o desejo de comunhão, inscrito no coração do homem e na história dos povos, contraria-se o processo de unificação da família humana, que já vai avançando por entre mil obstáculos. Na semana passada, um artista de Turim enviou-me um pequeno quadro, feito com a técnica do queimado na madeira, sobre a fuga para o Egito: o São José que lá aparecia não era tão tranquilo como estamos habituados a vê-lo nos santinhos, mas um São José na postura dum refugiado sírio com o filho aos ombros: faz ver o sofrimento, sem dulcificar o drama do Menino Jesus, quando teve de fugir para o Egito. O mesmo está a acontecer hoje.

Neste sentido, o Mediterrâneo tem uma vocação peculiar: é o mar da mestiçagem, «culturalmente sempre aberto ao encontro, ao diálogo e à inculturação mútua».[3] As raças puras não têm futuro. A mensagem da mestiçagem é muito eloquente. Então, o facto de se estar voltado para o Mediterrâneo constitui um potencial extraordinário: não deixemos que, por causa dum espírito nacionalista, se difunda a persuasão contrária, ou seja, que são privilegiados os Estados menos acessíveis e, geograficamente, mais isolados. Só o diálogo permite encontrar-se, superar preconceitos e estereótipos, contar e conhecer-se melhor a si mesmo. O diálogo e aquela palavra que ouvi hoje: convivialidade.

Neste sentido, uma oportunidade particular é constituída pelas novas gerações, quando lhes é garantido o acesso aos recursos e são colocadas em condição de se tornar protagonistas do seu caminho: então revelam-se seiva capaz de gerar futuro e esperança. Este resultado só é possível onde houver uma receção, não superficial, mas sincera e benévola, praticada por todos e a todos os níveis, tanto no plano diário das relações interpessoais como nos planos político e institucional, e promovida por quem faz cultura e dispõe de maior responsabilidade sobre a opinião pública.

Para quem acredita no Evangelho, o diálogo tem um valor não apenas antropológico, mas também teológico. Ouvir o irmão não é só um ato de caridade, mas também uma forma de se colocar à escuta do Espírito de Deus, que atua com toda a certeza também no outro e fala para além das fronteiras onde muitas vezes somos tentados a conter a verdade. Conhecemos o valor da hospitalidade: «alguns, sem o saber, hospedaram anjos» (Heb 13, 2).

É necessário elaborar uma teologia do acolhimento e do diálogo, que reinterprete e reproponha a doutrina bíblica. Mas só poderá ser elaborada se nos esforçarmos de todos os modos por dar o primeiro passo e não excluirmos as sementes de verdade de que também os outros são depositários. Assim, a comparação entre os conteúdos das diferentes crenças poderá dizer respeito não só às verdades acreditadas, mas também a temas específicos, que se tornam pontos qualificantes de toda a doutrina.

Muitas vezes a história conheceu contraposições e lutas, fundadas na errada persuasão de que, quando nos opomos a quem não segue o nosso credo, estamos a defender Deus. Na realidade, extremismos e fundamentalismos negam a dignidade do homem e a sua liberdade religiosa, causando um declínio moral e incentivando uma conceção antagónica das relações humanas. Por isso mesmo torna-se urgente um encontro mais vivo entre os diferentes credos religiosos, movido por respeito sincero e um objetivo de paz.

Um tal encontro decorre da consciência, registada no Documento sobre a Fraternidade Humana assinado em Abu Dhabi, de que «os verdadeiros ensinamentos das religiões convidam a permanecer ancorados nos valores da paz; apoiar os valores do conhecimento mútuo, da fraternidade humana e da convivência comum». Por conseguinte é possível, inclusive a propósito do apoio aos pobres e da receção dos migrantes, realizar uma colaboração mais ativa entre os grupos religiosos e as diferentes comunidades, de modo que o diálogo seja animado por objetivos comuns e redunde num compromisso ativo. Quantos se derem as mãos para construir a paz e praticar a hospitalidade, não poderão mais lutar entre si por motivos de fé, mas trilharão os caminhos do confronto respeitoso, da solidariedade mútua, da busca da unidade. O oposto disto é o que senti quando fui a Lampedusa, aquele ar de indiferença: na ilha, havia acolhimento, mas fora, pelo mundo, reinava a cultura da indiferença.

Estes são os votos que vos desejo comunicar, queridos Irmãos, na conclusão do encontro frutuoso e revigorador destes dias. Confio-vos à intercessão do apóstolo Paulo, o primeiro que sulcou o Mediterrâneo, enfrentando perigos e adversidades de todos os tipos para levar a todos o Evangelho de Cristo: que o seu exemplo vos aponte os caminhos ao longo dos quais devemos continuar o empenho jubiloso e libertador de transmitir a fé no nosso tempo.

Como mandato, entrego-vos as palavras do profeta Isaías, para que deem esperança e comuniquem força a vós e às vossas respetivas comunidades. Perante a desolação de Jerusalém depois do exílio, o profeta não cessa de vislumbrar um futuro de paz e prosperidade: «As velhas ruínas serão restauradas, levantarão os antigos escombros, restaurarão as cidades destruídas e os escombros de muitas gerações» (61, 4). Aqui está a obra que o Senhor vos confia para esta querida área do Mediterrâneo: reconstruir os laços que foram interrompidos, levantar as cidades destruídas pela violência, fazer florir um jardim onde hoje existem terrenos áridos, incutir esperança em quem a perdeu e exortar quem está fechado em si mesmo a não temer o irmão. E isto, que já se tornou cemitério, vê-lo como um lugar de futura ressurreição de toda a área. Que o Senhor acompanhe os vossos passos e abençoe a vossa obra de reconciliação e paz. Obrigado.

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[1] Francisco, Conclusão do Diálogo com os responsáveis das Igrejas e comunidades cristãs do Médio Oriente (Bari, 7/VII/2018): L’Osservatore Romano (ed. portuguesa de 12/VII/2018), 7.

[2] «Le attese della povera gente», in Cronache sociali 1/1950.

[3] Ibidem.

[00263-PO.02] [Texto original: Italiano]

Saluto ai fedeli davanti alla Basilica di San Nicola

Buongiorno, buongiorno a tutti voi!

Vorrei ringraziarvi, perché so che voi avete aiutato, state aiutando, con le vostre preghiere, il lavoro dei Pastori qui. Grazie, perché le preghiere sono proprio la forza, la forza di una comunità cristiana. I Pastori pregano, però devono lavorare in questi giorni di riflessione. Ma si sono sentiti accompagnati e sicuri con le vostre preghiere. Io ringrazio tanto di questo lavoro, di questo apostolato di pregare, pregare per la Chiesa. Non dimenticatevi: pregare per la Chiesa, per i Pastori… E nei momenti brutti si prega ancora di più, perché deve venire il Signore sempre a risolvere i problemi.

Adesso vorrei darvi la benedizione, ma prima di tutto preghiamo la Madonna. Lei pregò tanto durante la sua vita. Ha pregato tanto, sempre, accompagnando la Chiesa.

Ave Maria…

Benedizione

E grazie, grazie tante!

[00270-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0119-XX.02]