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#SinodoAmazonico - Santa Messa a conclusione dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione Panamazzonica, 27.10.2019


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Alle ore 10 di questa mattina, XXX domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa in occasione della chiusura dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione Panamazzonica (6-27 ottobre 2019) sul tema: “Amazzonia: Nuovi Cammini per la Chiesa e per una Ecologia Integrale”.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

La Parola di Dio oggi ci aiuta a pregare attraverso tre personaggi: nella parabola di Gesù pregano il fariseo e il pubblicano, nella prima Lettura si parla della preghiera del povero.

1. La preghiera del fariseo comincia così: «O Dio, ti ringrazio». È un ottimo inizio, perché la preghiera migliore è quella di gratitudine, è quella di lode. Ma subito vediamo il motivo per cui ringrazia: «perché non sono come gli altri uomini» (Lc 18,11). E spiega pure il motivo: digiuna due volte la settimana, mentre allora era d’obbligo una volta all’anno; paga la decima su tutto quello che ha, mentre era prescritta solo sui prodotti più importanti (cfr Dt 14,22 ss). Insomma, si vanta perché adempie al meglio precetti particolari. Però dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40). Traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore. Ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla, come dice San Paolo (cfr 1 Cor 13). E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma si sente in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io. E tanti gruppi “illustri”, “cristiani cattolici”, vanno su questa strada.

E oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza: per lui, cioè, non ha prezzo, non ha valore. Si ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, “i rimanenti, i restanti” (“loipoi”, Lc 18,11). Sono, cioè, “rimanenze”, sono scarti da cui prendere le distanze. Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia! Quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti. Oppure, ritenendoli arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni. Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi – lo abbiamo visto nel Sinodo quando parlavamo dello sfruttamento del creato, della gente, degli abitanti dell’Amazzonia, della tratta delle persone, del commercio delle persone! Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia. La religione dell’io continua, ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere” – tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani –, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesù di guarirci dal parlare male e dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno: sono cose sgradite a Dio. E provvidenzialmente, oggi ci accompagnano in questa Messa non solo gli indigeni dell’Amazzonia: anche i più poveri delle società sviluppate, i fratelli e sorelle ammalati della Comunità dell’Arche. Sono con noi, in prima fila.

2. Passiamo all’altra preghiera. La preghiera del pubblicano ci aiuta invece a capire che cosa è gradito a Dio. Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica – i pubblicani erano ricchi e guadagnavano pure iniquamente, a spese dei loro connazionali – ma sente una povertà di vita, perché nel peccato non si vive mai bene. Quell’uomo che sfrutta gli altri si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in piedi (cfr v. 11), il pubblicano sta a distanza e “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, perché crede che il Cielo c’è ed è grande, mentre lui si sente piccolo. E “si batte il petto” (cfr v. 13), perché nel petto c’è il cuore. La sua preghiera nasce proprio dal cuore, è trasparente: mette davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio – è Dio che mi guarda quando prego –, senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Tante volte ci fanno ridere i pentimenti pieni di giustificazioni. Più che un pentimento sembra una auto-canonizzazione. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità – queste sono le giustificazioni –, da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze.

Oggi, guardando al pubblicano, riscopriamo da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero. Invece, la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa. È tanto importante questo atteggiamento di partenza che Gesù ce lo mostra con un confronto paradossale, mettendo insieme nella parabola la persona più pia e devota del tempo, il fariseo, e il peccatore pubblico per eccellenza, il pubblicano. E il giudizio si capovolge: chi è bravo ma presuntuoso fallisce; chi è disastroso ma umile viene esaltato da Dio. Se ci guardiamo dentro con sincerità, vediamo in noi tutti e due, il pubblicano e il fariseo. Siamo un po’ pubblicani, perché peccatori, e un po’ farisei, perché presuntuosi, capaci di giustificare noi stessi, campioni nel giustificarci ad arte! Con gli altri spesso funziona, ma con Dio no. Con Dio il trucco non funziona. Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio.

3. Arriviamo così alla preghiera del povero, della prima Lettura. Essa, dice il Siracide, «attraversa le nubi» (35,21). Mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio. Il senso della fede del Popolo di Dio ha visto nei poveri “i portinai del Cielo”: quel sensus fidei che mancava nella dichiarazione [del fariseo]. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana.

In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio. Egli è Padre e, dice ancora il Siracide, «ascolta la preghiera dell’oppresso» (v. 16). E quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi.

[01705-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

La Parole de Dieu nous aide aujourd’hui à prier à travers trois personnages: dans la parabole de Jésus, le pharisien et le publicain prient; dans la première Lecture, on parle de la prière du pauvre.

1. La prière du pharisien commence ainsi: «Mon Dieu, je te rends grâce». C’est un très bon début parce que la meilleure prière est la prière de gratitude, celle de louange. Mais nous voyons immédiatement le motif pour lequel il rend grâce: «parce que je ne suis pas comme les autres hommes» (Lc 18, 11). Et il explique aussi le motif: il jeûne deux fois par semaine, alors que c’était obligatoire une fois par an; il verse le dixième de tout ce qu’il a, or la dîme était prescrite seulement pour les produits les plus importants (cf. Dt 14, 22 ss). En somme, il se vante parce qu’il accomplit au mieux des préceptes particuliers. Mais il oublie le plus grand: aimer Dieu et le prochain (cf. Mt 22, 36-40). Trop sûr de lui-même, de sa capacité d’observer les commandements, de ses mérites et de ses vertus, il est centré sur lui-même. Le drame de cet homme, c’est qu’il est dépourvu d’amour. Mais même les meilleures choses, sans amour, ne servent à rien, comme dit saint Paul (cf. 1 Co 13). Et sans amour, quel est le résultat? C’est qu’à la fin, au lieu de prier, il se loue lui-même. En fait, il ne demande rien au Seigneur parce qu’il ne se sent pas dans le besoin ou redevable, mais il se sent créditeur. Il est dans le temple de Dieu, mais il pratique la religion du moi. Et tant de groupes ‘‘illustres’’, de ‘‘chrétiens catholiques’’, sont sur ce chemin!

Et en plus de Dieu, il oublie le prochain, mieux il le méprise: pour lui, le prochain est vil, il n’a pas de valeur. Lui se considère meilleur que les autres qu’il appelle, littéralement, “les restants, les restes” (“loipoi”, Lc 18, 11). C’est-à-dire qu’ils sont “des restes”, des déchets dont il faut s’éloigner. Que de fois ne voyons-nous pas cette dynamique en acte dans la vie et dans l’histoire! Que de fois celui qui est devant, comme le pharisien par rapport au publicain, n’élève-t-il pas des murs pour accroitre les distances, en rendant les autres encore plus des déchets. Ou bien en les considérant rétrogrades et vils, il méprise leurs traditions, il efface leurs histoires, il occupe leurs territoires, usurpe leurs biens. Que de prétendues supériorités qui se transforment en oppressions et en exploitations, même aujourd’hui- nous l’avons vu durant le Synode lorsque nous avons parlé de l’exploitation de la création, des gens, des populations de l’Amazonie, de la traite des personnes, du commerce des personnes! Les erreurs du passé n’ont pas suffi pour qu’on arrête de détruire les autres et d’infliger des blessures à nos frères et à notre sœur terre: nous l’avons vu dans le visage défiguré de l’Amazonie. La religion du moi continue, hypocrite avec ses rites et ses “prières”– bien des gens sont catholiques, se déclarent catholiques mais ont oublié d’être chrétiens et humains -, elle oublie le vrai culte à Dieu qui passe toujours par l’amour du prochain. Même des chrétiens qui prient et vont à la messe le dimanche sont adeptes de cette religion du moi. Nous pouvons nous examiner intérieurement pour voir si, même pour nous, quelqu’un est inférieur, jetable, même seulement en paroles. Prions pour demander la grâce de ne pas nous considérer supérieurs, de ne pas nous croire en règle, de ne pas devenir cyniques et moqueurs. Demandons à Jésus de nous guérir de la propension à dire du mal et à nous plaindre des autres, de la propension à mépriser quelqu’un: ce sont des choses qui déplaisent à Dieu. Et providentiellement, aujourd’hui, prennent part avec nous à cette Messe non seulement les indigènes de l’Amazonie, mais aussi les plus pauvres des sociétés développées, nos frères et sœurs malades de la Communauté de l’Arche. Ils sont avec nous, au premier rang.

2. Passons à l’autre prière. La prière du publicain nous aide au contraire à comprendre ce qui plaît à Dieu. Il ne commence pas par ses mérites, mais par ses lacunes; non pas par sa richesse, mais par sa pauvreté: ce n’est pas une pauvreté économique – les publicains étaient riches et gagnaient même injustement, au dépens de leurs compatriotes – mais il sent une pauvreté de vie, parce qu’on ne vit jamais bien dans le péché. Cet homme qui exploite les autres se reconnaît pauvre devant Dieu et le Seigneur écoute sa prière, faite simplement de sept paroles mais traduisant des attitudes vraies. En fait, pendant que le pharisien était devant et debout (cf. v. 11), le publicain se tient à distance et “n’ose même pas lever les yeux vers le ciel”, parce qu’il croit que le Ciel existe et est grand, tandis que lui se sent petit. Et “il se frappe la poitrine” (cf. v. 13), parce que dans la poitrine il y a le cœur. Sa prière naît précisément du cœur, est transparente: il met devant Dieu son cœur, pas les apparences. Prier, c’est se laisser regarder de l’intérieur par Dieu – c’est Dieu qui me regarde quand je prie –, sans feintes, sans excuses, sans justifications. Souvent nous font rire les repentirs remplis de justifications. Plus qu’un repentir, cela ressemble à une auto-canonisation. En effet, c’est du diable que viennent opacité et fausseté – ce sont les justifications -, de Dieu lumière et vérité, la transparence de mon cœur. C’était beau et je vous suis très reconnaissant, chers Pères et Frères synodaux, d’avoir dialogué, durant ces semaines, de tout cœur, avec sincérité et franchise, en mettant devant Dieu et nos frères les fatigues et les espérances.

Aujourd’hui, en regardant le publicain, nous redécouvrons d’où repartir: de la conviction d’avoir tous besoin du salut. C’est le premier pas de la religion de Dieu qui est miséricorde envers celui qui se reconnaît misérable. Au contraire, la racine de toute faute spirituelle, comme enseignaient les anciens moines, c’est de se croire juste. Se considérer juste, c’est laisser Dieu, l’unique juste, hors de la maison. Cette attitude de départ est si importante que Jésus nous l’illustre par une comparaison paradoxale, en mettant ensemble dans la parabole la personne la plus pieuse et la plus dévote de l’époque, le pharisien, et le pécheur public par excellence, le publicain. Et le jugement est inversé: celui qui est bon mais présomptueux échoue; celui qui est mauvais mais humble est exalté par Dieu. Si nous nous examinons intérieurement avec sincérité, nous voyons en nous tous les deux, le publicain et le pharisien. Nous sommes un peu publicains, parce que nous sommes pécheurs, et un peu pharisiens, parce que nous sommes présomptueux, capables de nous justifier nous-mêmes, champions dans des justifications artificielles! Avec les autres, ça fonctionne souvent, mais pas avec Dieu. Avec Dieu, ce procédé ne fonctionne pas. Prions pour demander la grâce de sentir que nous avons besoin de miséricorde, que nous sommes intérieurement pauvres. C’est aussi pourquoi, ça nous fait du bien de fréquenter les pauvres, pour nous rappeler d’être pauvres, pour nous rappeler que c’est seulement dans un climat de pauvreté intérieure que le salut de Dieu agit.

3. Nous arrivons ainsi à la prière du pauvre, de la première Lecture. Cette prière, dit Ben Sira le Sage, «traverse les nuées» (35, 21). Tandis que la prière de celui qui se considère juste reste à terre, écrasée par les forces de gravité de l’égoïsme, celle du pauvre monte directement vers Dieu. Le sens de la foi du peuple de Dieu a vu dans les pauvres “les portiers du Ciel”: ce sensus fidei qui manque dans la déclaration [du pharisien]. Ce sont eux qui nous ouvriront toutes grandes ou non les portes de la vie éternelle, eux qui se ne sont pas vus comme des patrons en cette vie, qui ne se sont pas mis eux-mêmes avant les autres, qui ont eu seulement en Dieu leur richesse. Ils sont des icônes vivantes de la prophétie chrétienne.

Durant ce Synode, nous avons eu la grâce d’écouter les voix des pauvres et de réfléchir sur la précarité de leurs vies, menacées par des modèles de développement prédateurs. Et pourtant, précisément dans cette situation, beaucoup nous ont témoigné qu’il est possible de regarder la réalité différemment, en l’accueillant à mains ouvertes comme un don, en considérant la création non pas comme un moyen à exploiter, mais comme une maison à protéger, en ayant confiance en Dieu. Il est Père et, Ben Sira le Sage le dit encore, «il écoute la prière de l’opprimé» (v. 16). Et bien des fois, même dans l’Eglise, les voix des pauvres ne sont pas écoutées, voire sont bafouées ou sont réduites au silence parce qu’elles sont gênantes. Prions pour demander la grâce de savoir écouter le cri des pauvres: c’est le cri d’espérance de l’Eglise. Le cri des pauvres, c’est le cri de l’espérance de l’Église. En faisant nôtre leur cri, notre prière aussi, nous en sommes certains, traversera les nuages.

[01705-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

The word of God today helps us to pray through three figures: in Jesus’ parable both the Pharisee and the tax collector pray, while the first reading speaks of the prayer of a poor person.

1. The prayer of the Pharisee begins in this way: “God, I thank you”.

This is a great beginning, because the best prayer is that of gratitude, that of praise. Immediately, though, we see the reason why he gives thanks: “that I am not like other men” (Lk 18:11). He also explains the reason: he fasts twice a week, although at the time there was only a yearly obligation; he pays tithes on all that he has, though tithing was prescribed only on the most important products (cf. Dt 14:22ff). In short, he boasts because he fulfils particular commandments to the best degree possible. But he forgets the greatest commandment: to love God and our neighbour (cf. Mt 22:36-40). Brimming with self-assurance about his own ability to keep the commandments, his own merits and virtues, he is focused only on himself. The tragedy of this man is that he is without love. Even the best things, without love, count for nothing, as Saint Paul says (cf. 1 Cor 13). Without love, what is the result? He ends up praising himself instead of praying. In fact, he asks nothing from the Lord because he does not feel needy or in debt, but he feels that God owes something to him. He stands in the temple of God, but he worships a different god: himself. And many “prestigious” groups, “Catholic Christians”, go along this path.

Together with God, he forgets his neighbour; indeed, he despises him. For the Pharisee, his neighbour has no worth, no value. He considers himself better than others, whom he calls literally “the rest, the remainders” (loipoi, Lk 18:11). That is, they are “leftovers”, they are scraps from which to keep one’s distance. How many times do we see this happening over and over again in life and history! How many times do those who are prominent, like the Pharisee with respect to the tax collector, raise up walls to increase distances, making other people feel even more rejected. Or by considering them backward and of little worth, they despise their traditions, erase their history, occupy their lands, and usurp their goods. How much alleged superiority, transformed into oppression and exploitation, exists even today! We saw this during the Synod when speaking about the exploitation of creation, of people, of the inhabitants of the Amazon, of the trafficking of persons, the trade in human beings! The mistakes of the past were not enough to stop the plundering of other persons and the inflicting of wounds on our brothers and sisters and on our sister earth: we have seen it in the scarred face of the Amazon region. Worship of self carries on hypocritically with its rites and “prayers” – many are Catholics, they profess themselves Catholic, but have forgotten they are Christians and human beings – forgetting the true worship of God which is always expressed in love of one’s neighbour. Even Christians who pray and go to Mass on Sunday are subject to this religion of the self. Let us examine ourselves and see whether we too may think that someone is inferior and can be tossed aside, even if only in our words. Let us pray for the grace not to consider ourselves superior, not to believe that we are alright, not to become cynical and scornful. Let us ask Jesus to heal us of speaking ill and complaining about others, of despising this or that person: these things are displeasing to God. And at Mass today we are accompanied providentially not only by indigenous people of the Amazon, but also by the poorest from our developed societies: our disabled brothers and sisters from the Community of L’Arche. They are with us, in the front row.

2. Let us turn to the other prayer. The prayer of the tax collector helps us understand what is pleasing to God. He does not begin from his own merits but from his shortcomings; not from his riches but from his poverty. His was not economic poverty – tax collectors were wealthy and tended to make money unjustly at the expense of their fellow citizens – but he felt a poverty of life, because we never live well in sin. The tax collector who exploited others admitted being poor before God, and the Lord heard his prayer, a mere seven words but an expression of heartfelt sincerity. In fact, while the Pharisee stood in front on his feet (cf. v. 11), the tax collector stood far off and “would not even lift up his eyes to heaven”, because he believed that God is indeed great, while he knew himself to be small. He “beat his breast” (cf. v. 13), because the breast is where the heart is. His prayer is born straight from the heart; it is transparent. He places his heart before God, not outward appearances. To pray is to stand before God’s eyes – it is God looking at me when I pray – without illusions, excuses or justifications. Often our regrets filled with self-justification can make us laugh. More than regrets, they seem as if we are canonizing ourselves. Because from the devil come darkness and lies – these are our self-justifications; from God come light and truth, transparency of my heart. It was a wonderful experience, and I am so grateful, dear members of the Synod, that we have been able to speak to one another in these weeks from the heart, with sincerity and candour, and to place our efforts and hopes before God and our brothers and sisters.

Today, looking at the tax collector, we rediscover where to start: from the conviction that we, all of us, are in need of salvation. This is the first step of the true worship of God, who is merciful towards those who admit their need. On the other hand, the root of every spiritual error, as the ancient monks taught, is believing ourselves to be righteous. To consider ourselves righteous is to leave God, the only righteous one, out in the cold. This initial stance is so important that Jesus shows it to us with an unusual comparison, juxtaposing in the parable the Pharisee, the most pious and devout figure of the time, and the tax collector, the public sinner par excellence. The judgment is reversed: the one who is good but presumptuous fails; the one who is a disaster but humble is exalted by God. If we look at ourselves honestly, we see in us all both the tax collector and the Pharisee. We are a bit tax collectors because we are sinners, and a bit Pharisees because we are presumptuous, able to justify ourselves, masters of the art of self-justification. This may often work with ourselves, but not with God. This trick does not work with God. Let us pray for the grace to experience ourselves in need of mercy, interiorly poor. For this reason too, we do well to associate with the poor, to remind ourselves that we are poor, to remind ourselves that the salvation of God operates only in an atmosphere of interior poverty.

3. We come now to the prayer of the poor person, from the first reading. This prayer, says Sirach, “will reach to the clouds” (35:21). While the prayer of those who presume that they are righteous remains earthly, crushed by the gravitational force of egoism, that of the poor person rises directly to God. The sense of faith of the People of God has seen in the poor “the gatekeepers of heaven”: the sense of faith that was missing in [the Pharisee’s] utterance. They are the ones who will open wide or not the gates of eternal life. They were not considered bosses in this life, they did not put themselves ahead of others; they had their wealth in God alone. These persons are living icons of Christian prophecy.

In this Synod we have had the grace of listening to the voices of the poor and reflecting on the precariousness of their lives, threatened by predatory models of development. Yet precisely in this situation, many have testified to us that it is possible to look at reality in a different way, accepting it with open arms as a gift, treating the created world not as a resource to be exploited but as a home to be preserved, with trust in God. He is our Father and, Sirach says again, “he hears the prayer of one who is wronged” (v. 16). How many times, even in the Church, have the voices of the poor not been heard and perhaps scoffed at or silenced because they are inconvenient. Let us pray for the grace to be able to listen to the cry of the poor: this is the cry of hope of the Church. The cry of the poor is the Church’s cry of hope. When we make their cry our own, we can be certain, our prayer too will reach to the clouds.

[01705-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Heute gibt uns das Wort Gottes anhand dreier Personen eine Hilfe, wie wir beten sollen: Im Gleichnis Jesu beten ein Pharisäer und ein Zöllner, in der ersten Lesung ist die Rede vom Gebet eines Armen.

1. Das Gebet des Pharisäers beginnt folgendermaßen: »Gott, ich danke dir«. Das ist ein ausgezeichneter Anfang, denn das beste Gebet ist das Dankgebet, ist der Lobpreis. Aber sofort sehen wir den Grund für seinen Dank: weil »ich nicht wie die anderen Menschen bin« (Lk 18,11). Er erklärt auch warum: Er fastet zweimal in der Woche, obwohl man damals nur einmal im Jahr dazu verpflichtet war; er spendet den zehnten Teil seines ganzen Einkommens, obwohl das nur für die wichtigsten Güter vorgeschrieben war (vgl. Dtn 14,22 ff.). Kurz gesagt, er ist stolz darauf, bestimmte Gebote bestmöglich zu erfüllen. Aber er vergisst das wichtigste: Gott und den Nächsten zu lieben (vgl. Mt 22,36-40). Strotzend vor Selbstbewusstsein und der Gewissheit, die Gebote zu erfüllen sowie seine eigenen Verdienste und Tugenden zu besitzen, ist er ganz auf sich selbst fixiert. Das Drama dieses Menschen besteht darin, dass er ohne Liebe ist. Aber auch die besten Dinge nützen ohne die Liebe nichts, wie der heilige Paulus sagt (vgl. 1 Kor 13). Und was kommt schließlich heraus – ohne die Liebe? Dass man am Ende, anstatt zu beten, sich selber lobt. Tatsächlich bittet er den Herrn um nichts, denn er fühlt sich weder bedürftig noch schuldig, er meint vielmehr, Gott würde ihm etwas schulden. Er befindet sich im Tempel Gottes, aber er praktiziert eine andere Religion, die Religion des Ich. Und viele „illustre“ Gruppen, „katholische Christen“, folgen dieser Richtung.

Und er vergisst nicht nur Gott, sondern auch seinen Nächsten, ja er verachtet ihn; er hat für ihn keinen Wert und keine Würde. Er hält sich für besser als die anderen, die er wörtlich übersetzt als „Restliche, Übrige“ bezeichnet („loipoi“, Lk 18,11). Sie sind also „Rest“; sie sind Ausschuss, von dem man sich fernhält. Wie oft begegnen wir dieser Tendenz im Leben und in der Geschichte! Wie oft errichten diejenigen, die vorne dran stehen, Mauern, um die Distanz zu vergrößern, so wie es der Pharisäer gegenüber dem Zöllner tut, und drängen die anderen so noch mehr an den Rand. Oder jemand verachtet ihre Traditionen, ignoriert ihre Geschichten, besetzt ihre Territorien und bemächtigt sich ihrer Güter, weil er die Eigentümer für rückständig und unbedeutend hält. Wie viel vermeintliche Überlegenheit, die sich in Unterdrückung und Ausbeutung verwandelt – auch heute – das haben wir während der Synode gesehen, als wir über die Ausbeutung der Schöpfung, der Menschen, der Einwohner Amazoniens sprachen, über den Menschenhandel und über den Kommerz mit Menschen! Die Fehler in der Vergangenheit waren nicht genug, um damit aufzuhören, die anderen auszuplündern und unseren Geschwistern wie auch unserer Schwester Erde Wunden zuzufügen: das haben wir am vernarbten Antlitz Amazoniens gesehen. Die Religion des Ich geht weiter, sie ist heuchlerisch in ihren Riten und „Gebeten“ – vielfach sind es Katholiken, sie bekennen sich als Katholiken; aber sie haben vergessen, christlich und human zu sein! – sie verliert das Bewusstsein für die wahre Gottesverehrung, die niemals die Nächstenliebe außerachtlässt. Auch manche Christen, die am Sonntag beten und zur Messe gehen, frönen dieser Religion des Ich. Wir können in uns gehen und schauen, ob auch wir jemanden als minderwertig oder als wertlos ansehen, selbst, wenn das nur in unserer Wortwahl geschieht. Lasst uns um die Gnade bitten, dass wir uns nicht für besser halten, dass wir nicht meinen, bei uns sei alles in Ordnung, dass wir nicht zynisch und spöttisch werden. Bitten wir Jesus um Heilung, sodass wir über andere nicht schlecht reden und nicht über sie klagen, dass wir niemanden verachten: das sind Dinge, die Gott nicht gefallen. Es ist eine Fügung, dass uns in dieser Messe nicht nur die Indigenen aus Amazonien begleiten, sondern auch die Ärmsten der Industriegesellschaften, die kranken Brüder und Schwestern der Gemeinschaft der Arche. Sie sind hier bei uns in der ersten Reihe.

2. Kommen wir nun zu dem anderen Gebet. Das Gebet des Zöllners hilft uns hingegen zu verstehen, was Gott wohlgefällt. Er beginnt nicht mit seinen Verdiensten, sondern mit seinen Unzulänglichkeiten; nicht mit seinem Reichtum, sondern mit seiner Armut: das war keine materielle Armut – die Zöllner waren reich und bereicherten sich sogar auf ungerechte Weise, auf Kosten ihrer Landsleute –, sondern er empfindet eine Armut an Leben, denn in der Sünde lebt man nie gut. Dieser Mann, der die anderen ausnutzt, bekennt sich zu seiner Armut vor Gott, und der Herr hört auf sein Gebet, das aus nur fünf Worten besteht, aber in rechter Gesinnung vorgetragen wird. Während der Pharisäer vorne stand (vgl. V. 11), steht der Zöllner ganz hinten und »wollte nicht einmal seine Augen zum Himmel erheben«, weil er glaubte, dass es den Himmel gibt und dass er groß ist, während er sich klein fühlt. Und er »schlug sich an die Brust« (V. 13), denn in der Brust befindet sich das Herz. Sein Gebet kommt direkt vom Herzen, es ist transparent: Er bringt sein Herz vor Gott, nicht den äußeren Schein. Beten bedeutet, sich von Gott anschauen zu lassen – Gott sieht mich an, wenn ich bete –, ein Gebet ohne Masken, ohne Ausreden, ohne Rechtfertigungen. Wie oft bringen uns die Reueerklärungen voller Selbstrechtfertigungen zum Lachen! Keine Spur von Reue, es ist Selbst-Heiligsprechung! Denn vom Teufel kommen Undurchsichtigkeit und Lüge – das sind die Rechtfertigungen –, von Gott kommt Licht und Wahrheit, die Transparenz meines Herzens. Es war schön, und ich bin euch, liebe Synodenväter, liebe Brüder und Schwestern Synodenteilnehmer, so dankbar, dass ihr in diesen Wochen mit dem Herzen, mit Aufrichtigkeit und Offenheit gesprochen habt und Gott und den Geschwistern eure Mühen und Hoffnungen vorgetragen habt.

Wenn wir heute auf den Zöllner schauen, entdecken wir neu, von wo alles immer wieder seinen Ausgang nehmen muss: davon, dass wir daran glauben, dass wir der Erlösung bedürfen, wir alle. Das ist der erste Schritt der Religion Gottes, die Barmherzigkeit ist und sich dem zuwendet, der sich als armselig erkennt. Umgekehrt besteht die Wurzel aller Sünde, wie die alten Mönche lehrten, darin, sich selbst für gerecht zu halten. Wer sich selbst für gerecht hält, lässt Gott, den einzig Gerechten, außen vor. Es ist sehr wichtig, dass Jesus uns diese grundlegende Haltung anhand eines paradoxen Vergleichs vor Augen führt, wenn er im Gleichnis die nach damaligem Verständnis frömmste und gottesfürchtigste Person, den Pharisäer, und den öffentlichen Sünder par excellence, den Zöllner, in Zusammenhang bringt. Und das Urteil stellt alles auf den Kopf: wer gut aber anmaßend ist, scheitert; wer schlecht aber demütig ist, wird von Gott erhöht. Wenn wir ehrlich sind, sehen wir in unserem Inneren alle beide, den Zöllner und den Pharisäer. Wir sind ein bisschen Zöllner, weil wir Sünder sind, und ein bisschen Pharisäer, weil wir anmaßend sind, selbstgerecht, Meister darin, uns nach allen Regeln der Kunst als gerecht und schuldlos darzustellen! Bei anderen mag das funktionieren, nicht aber bei Gott. Bei Gott funktioniert der Trick nicht. Bitten wir um die Gnade, uns als der Barmherzigkeit bedürftig und innerlich arm zu fühlen. Auch deshalb tut es uns gut, mit den Armen zu verkehren, damit wir uns daran erinnern, dass wir arm sind, damit wir uns daran erinnern, dass Gottes Heil nur in einem Klima innerer Armut wirkt.

3. So kommen wir nun zum Gebet des Armen in der ersten Lesung. Wie es im Buch Jesus Sirach heißt, »durchdringt es die Wolken« (vgl. 35,21). Während das Gebet derer, die sich für gerecht halten, auf der Erde bleibt, weil es von der Schwerkraft des Egoismus unten gehalten wird, steigt das Gebet der Armen direkt zu Gott auf. Der Glaubenssinn des Volkes Gottes hat in den Armen „die Pförtner des Himmels“ gesehen: dieser sensus fidei fehlte in der Rede [des Pharisäers]. Sie sind es, die uns die Türen des ewigen Lebens öffnen werden oder nicht, sie, die sich in diesem Leben nicht als die Herren sahen, die sich nicht vor andere hingestellt haben, die nur in Gott ihren Reichtum hatten. Sie sind lebendige Ikonen der christlichen Prophetie.

In dieser Synode hatten wir die Gnade, die Stimmen der Armen zu hören und über die Unsicherheit ihres Lebens nachzudenken, das von räuberischen Entwicklungsmodellen bedroht ist. Doch gerade in dieser Situation haben viele uns bezeugt, dass es möglich ist, die Realität auf andere Art zu betrachten und sie mit offenen Händen als Geschenk anzunehmen, die Schöpfung nicht auszubeuten, sondern als ein zu hütendes Haus zu bewohnen und auf Gott zu vertrauen. Er ist Vater und wird, so wieder das Buch Jesus Sirach, »die Bitte eines ungerecht Behandelten« erhören (V. 16). Und wie oft werden auch in der Kirche die Stimmen der Armen nicht gehört, vielleicht sogar verspottet oder zum Schweigen gebracht, weil sie unbequem sind. Bitten wir um die Gnade, den Schrei der Armen zu hören: dies ist der Schrei der Hoffnung der Kirche. Der Schrei der Armen ist der Schrei der Hoffnung der Kirche. Wenn wir ihren Schrei zu dem unsrigen machen, wird auch unser Gebet – dessen dürfen wir gewiss sein – die Wolken durchdringen.

[01705-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

La Palabra de Dios nos ayuda hoy a rezar mediante tres personajes: en la parábola de Jesús rezan el fariseo y el publicano, en la primera lectura se habla de la oración del pobre.

1. La oración del fariseo comienza así: «Oh Dios, te agradezco». Es un buen inicio, porque la mejor oración es la de acción de gracias, es la de alabanza. Pero enseguida vemos el motivo de ese agradecimiento: «porque no soy como los demás hombres» (Lc 18,11). Y, además, explica el motivo: porque ayuna dos veces a la semana, cuando entonces la obligación era una vez al año; paga el diezmo de todo lo que tiene, cuando lo establecido era sólo en base a los productos más importantes (cf. Dt 14,22 ss.). En definitiva, presume porque cumple unos preceptos particulares de manera óptima. Pero olvida el más grande: amar a Dios y al prójimo (cf. Mt 22,36-40). Satisfecho de su propia seguridad, de su propia capacidad de observar los mandamientos, de los propios méritos y virtudes, sólo está centrado en sí mismo. El drama de este hombre es que no tiene amor. Pero, como dice san Pablo, incluso lo mejor, sin amor, no sirve de nada (cf. 1 Co 13). Y sin amor, ¿cuál es el resultado? Que al final, más que rezar, se elogia a sí mismo. De hecho, no le pide nada al Señor, porque no siente que tiene necesidad o que debe algo, sino que cree que se le debe a él. Está en el templo de Dios, pero practica otra religión, la religión del yo. Y tantos grupos “ilustrados”, “cristianos católicos”, van por este camino.

Y además de olvidar a Dios, olvida al prójimo, es más, lo desprecia. Es decir, para él no tiene un precio, no tiene un valor. Se considera mejor que los demás, a quienes llama, literalmente, “los demás, el resto” (“loipoi”, Lc 18,11). Son “el resto”, son los descartados de quienes hay que mantenerse a distancia. ¡Cuántas veces vemos que se cumple esta dinámica en la vida y en la historia! Cuántas veces quien está delante, como el fariseo respecto al publicano, levanta muros para aumentar las distancias, haciendo que los demás estén más descartados aún. O también considerándolos inferiores y de poco valor, desprecia sus tradiciones, borra su historia, ocupa sus territorios, usurpa sus bienes. ¡Cuánta presunta superioridad que, también hoy se convierte en opresión y explotación –lo hemos visto en el Sínodo cuando hablábamos de la explotación de la creación, de la gente, de los habitantes de la Amazonía, de la trata de personas, del comercio de las personas! Los errores del pasado no han bastado para dejar de expoliar y causar heridas a nuestros hermanos y a nuestra hermana tierra: lo hemos visto en el rostro desfigurado de la Amazonia. La religión del yo sigue, hipócrita con sus ritos y “oraciones” –tantos son católicos, se confiesan católicos, pero se han olvidado de ser cristianos y humanos–, olvidando que el verdadero culto a Dios pasa a través del amor al prójimo. También los cristianos que rezan y van a Misa el domingo están sujetos a esta religión del yo. Podemos mirarnos dentro y ver si también nosotros consideramos a alguien inferior, descartable, aunque sólo sea con palabras. Recemos para pedir la gracia de no considerarnos superiores, de creer que tenemos todo en orden, de no convertirnos en cínicos y burlones. Pidamos a Jesús que nos cure de hablar mal y lamentarnos de los demás, de despreciar a nadie: son cosas que no agradan a Dios. Y hoy providencialmente nos acompañan en esta Misa no solo los indígenas de la Amazonía: también los más pobres de las sociedades desarrolladas, los hermanos y hermanas enfermos de la Comunidad del Arca. Están con nosotros, en primera fila.

2. Pasamos a la otra oración. La oración del publicano, en cambio, nos ayuda a comprender qué es lo que agrada a Dios. Él no comienza por sus méritos, sino por sus faltas; ni por sus riquezas, sino por su pobreza. No se trata de una pobreza económica —los publicanos eran ricos e incluso ganaban injustamente, a costa de sus connacionales— sino que siente una pobreza de vida, porque en el pecado nunca se vive bien. Ese hombre que se aprovecha de los demás se reconoce pobre ante Dios y el Señor escucha su oración, hecha sólo de siete palabras, pero también de actitudes verdaderas. En efecto, mientras el fariseo está delante en pie (cf. v. 11), el publicano permanece a distancia y “no se atreve ni a levantar los ojos al cielo”, porque cree que el cielo existe y es grande, mientras que él se siente pequeño. Y “se golpea el pecho” (cf. v. 13), porque en el pecho está el corazón. Su oración nace precisamente del corazón, es transparente; pone delante de Dios el corazón, no las apariencias. Rezar es dejar que Dios nos mire por dentro –es Dios el que me mira cuando rezo–, sin fingimientos, sin excusas, sin justificaciones. Muchas veces nos hacen reír los arrepentimientos llenos de justificaciones. Más que un arrepentimiento parece una autocanonización. Porque del diablo vienen la opacidad y la falsedad –estas son las justificaciones–, de Dios la luz y la verdad, la trasparencia de mi corazón. Queridos Padres y Hermanos sinodales: Ha sido hermoso y les estoy muy agradecido, por haber dialogado durante estas semanas con el corazón, con sinceridad y franqueza, exponiendo ante Dios y los hermanos las dificultades y las esperanzas.

Hoy, mirando al publicano, descubrimos de nuevo de dónde tenemos que volver a partir: del sentirnos necesitados de salvación, todos. Es el primer paso de la religión de Dios, que es misericordia hacia quien se reconoce miserable. En cambio, la raíz de todo error espiritual, como enseñaban los monjes antiguos, es creerse justos. Considerarse justos es dejar a Dios, el único justo, fuera de casa. Es tan importante esta actitud de partida que Jesús nos lo muestra con una comparación paradójica, poniendo juntos en la parábola a la persona más piadosa y devota de aquel tiempo, el fariseo, y al pecador público por excelencia, el publicano. Y el juicio se invierte: el que es bueno pero presuntuoso fracasa; a quien es desastroso pero humilde Dios lo exalta. Si nos miramos por dentro con sinceridad, vemos en nosotros a los dos, al publicano y al fariseo. Somos un poco publicanos, por pecadores, y un poco fariseos, por presuntuosos, capaces de justificarnos a nosotros mismos, campeones en justificarnos deliberadamente. Con los demás, a menudo funciona, pero con Dios no. Con Dios el maquillaje no funciona. Recemos para pedir la gracia de sentirnos necesitados de misericordia, interiormente pobres. También para eso nos hace bien estar a menudo con los pobres, para recordarnos que somos pobres, para recordarnos que sólo en un clima de pobreza interior actúa la salvación de Dios.

3. Llegamos así a la oración del pobre, de la primera lectura. Esta, dice el Eclesiástico, «atraviesa las nubes» (35,17). Mientras la oración de quien presume ser justo se queda en la tierra, aplastada por la fuerza de gravedad del egoísmo, la del pobre sube directamente hacia Dios. El sentido de la fe del Pueblo de Dios ha visto en los pobres “los porteros del cielo”: ese sensus fidei que faltaba en la declaración [del fariseo]. Ellos son los que nos abrirán, o no, las puertas de la vida eterna; precisamente ellos que no se han considerado como dueños en esta vida, que no se han puesto a sí mismos antes que a los demás, que han puesto sólo en Dios su propia riqueza. Ellos son iconos vivos de la profecía cristiana.

En este Sínodo hemos tenido la gracia de escuchar las voces de los pobres y de reflexionar sobre la precariedad de sus vidas, amenazadas por modelos de desarrollo depredadores. Y, sin embargo, aun en esta situación, muchos nos han testimoniado que es posible mirar la realidad de otro modo, acogiéndola con las manos abiertas como un don, habitando la creación no como un medio para explotar sino como una casa que se debe proteger, confiando en Dios. Él es Padre y, dice también el Eclesiástico, «escucha la oración del oprimido» (v. 16). Y cuántas veces, también en la Iglesia, las voces de los pobres no se escuchan, e incluso son objeto de burlas o son silenciadas por incómodas. Recemos para pedir la gracia de saber escuchar el grito de los pobres: es el grito de esperanza de la Iglesia. El grito de los pobres es el grito de esperanza de la Iglesia. Haciendo nuestro su grito, también nuestra oración, estamos seguros, atravesará las nubes.

[01705-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Hoje, a Palavra de Deus ajuda-nos a rezar por meio de três personagens: na parábola de Jesus, rezam o fariseu e o publicano; na primeira Leitura, fala-se da oração do pobre.

1. A oração do fariseu principia assim: «Ó Deus, dou-Te graças». É um ótimo começo, porque a melhor oração é a de gratidão, é a de louvor. Mas olhemos o motivo – referido logo a seguir –, pelo qual dá graças: «por não ser como o resto dos homens» (Lc 18, 11). E dá também a explicação do motivo: jejua duas vezes por semana, enquanto na época era obrigado a fazê-lo uma vez por ano; paga o dízimo de tudo o que possui, enquanto o mesmo era prescrito apenas para os produtos mais importantes (cf. Dt 14, 22-23). Em suma, vangloria-se porque cumpre do melhor modo possível preceitos particulares. Mas esquece o maior: amar a Deus e ao próximo (cf. Mt 22, 36-40). Transbordando de confiança própria, da sua capacidade de observar os mandamentos, dos seus méritos e virtudes, o fariseu aparece centrado apenas em si mesmo. O drama deste homem é que vive sem amor. Mas, sem amor, até as melhores coisas de nada aproveitam, como diz São Paulo (cf. 1 Cor 13). E sem amor, qual é o resultado? No fim de contas, em vez de rezar, elogia-se a si mesmo. De facto, não pede nada ao Senhor, porque não se sente necessitado nem em dívida, mas sente-se em crédito. Está no templo de Deus, mas pratica outra religião, a religião do eu. E muitos grupos «ilustres», de «cristãos católicos», seguem por esta estrada.

E além de Deus, esquece o próximo; antes, despreza-o, isto é, não lhe atribui preço, não tem valor. Considera-se melhor do que os outros, que designa, literalmente, por «o resto, os restantes (loipoi)» (Lc 18, 11). Por outras palavras, são «restos», são descartados dos quais manter-se à larga. Quantas vezes vemos acontecer esta dinâmica na vida e na história! Quantas vezes quem está à frente, como o fariseu relativamente ao publicano, levanta muros para aumentar as distâncias, tornando os outros ainda mais descartados. Ou então, considerando-os atrasados e de pouco valor, despreza as suas tradições, apaga as suas gestas, ocupa os seus territórios e usurpa os seus bens. Quanta superioridade presumida, que se transforma em opressão e exploração, mesmo hoje! Vimo-lo no Sínodo, quando falávamos da exploração da criação, da população, dos habitantes da Amazónia, do exploração das pessoas, do tráfico das pessoas! Os erros do passado não foram suficientes para deixarmos de saquear os outros e causar ferimentos aos nossos irmãos e à nossa irmã terra: vimo-lo no rosto dilaniado da Amazónia. A «religião do eu» continua, hipócrita com os seus ritos e as suas «orações»: muitos dos seus praticantes são católicos, confessam-se católicos, ma esqueceram-se de ser cristãos e humanos, esqueceram-se do verdadeiro culto a Deus, que passa sempre pelo amor ao próximo. Até mesmo cristãos que rezam e vão à Missa ao domingo são seguidores desta «religião do eu». Podemos olhar para dentro de nós e ver se alguém, para nós, é inferior, descartável… mesmo só em palavras. Rezemos pedindo a graça de não nos considerarmos superiores, não nos julgarmos íntegros, nem nos tornarmos cínicos e vilipendiadores. Peçamos a Jesus que nos cure de criticar e queixar dos outros, de desprezar seja quem for: são coisas que desagradam a Deus. E providencialmente, nesta Missa de hoje, acompanham-nos não só os indígenas da Amazónia, mas também os mais pobres das sociedades desenvolvidas, os irmãos e irmãs doentes da Comunidade da Arca. Estão connosco, na primeira fila.

2. Passemos à outra oração. A oração do publicano ajuda-nos a compreender o que é agradável a Deus. Aquele começa, não pelos méritos, mas pelas suas faltas; não pela riqueza, mas pela sua pobreza: não uma pobreza económica – os publicanos eram ricos e cobravam também injustamente, à custa dos seus compatriotas –, mas sente uma pobreza de vida, porque no pecado nunca se vive bem. Aquele homem que explora os outros reconhece-se pobre diante de Deus, e o Senhor ouve a sua oração, feita apenas de sete palavras mas de atitudes verdadeiras. De facto, enquanto o fariseu estava à frente, de pé (cf. Lc 18, 11), o publicano mantém-se à distância e «nem sequer ousava levantar os olhos ao céu», porque crê que o Céu está ali e é grande, enquanto ele se sente pequeno. E «batia no peito» (cf. 18, 13), porque no peito está o coração. A sua oração nasce mesmo do coração, é transparente: coloca diante de Deus o coração, não as aparências. Rezar é deixar-se olhar dentro por Deus – é Deus quem me olha, quando rezo –, sem simulações, sem desculpas, nem justificações. Frequentemente fazem-nos rir os arrependimentos cheios de justificações. Mais do que um arrependimento parece uma auto-canonização. Porque, do diabo, vêm escuridão e falsidade – e tais são as justificações –; de Deus, luz e verdade, a transparência do meu coração. Foi bom – e muito vos agradeço, queridos padres e irmãos sinodais – termos dialogado, nestas semanas, com o coração, com sinceridade e franqueza, colocando fadigas e esperanças diante de Deus e dos irmãos.

Hoje, contemplando o publicano, descobrimos o ponto donde recomeçar: do facto de nos considerarmos, todos, necessitados de salvação. É o primeiro passo da religião de Deus, que é misericórdia com quem se reconhece miserável. Ao passo que a raiz de todo o erro espiritual, como ensinavam os monges antigos, é crer-se justo. Considerar-se justo é deixar Deus, o único justo, fora de casa. Esta atitude inicial é tão importante que Jesus no-la mostra com uma confrontação paradoxal, colocando lado a lado na parábola a pessoa mais piedosa e devota de então, o fariseu, e o pecador público por excelência, o publicano. E a sentença final inverte as coisas: quem é bom, mas presunçoso, falha; quem é deplorável, mas humilde, acaba exaltado por Deus. Se olharmos para dentro de nós com sinceridade, vemo-los ambos em nós: o publicano e o fariseu. Somos um pouco publicanos, porque pecadores, e um pouco fariseus, porque presunçosos, capazes de nos sentirmos justos, campeões na arte de nos justificarmos! Isto, com os outros, muitas vezes dá certo; mas, com Deus, não. Com Deus, o engano não resulta. Rezemos pedindo a graça de nos sentirmos carecidos de misericórdia, pobres intimamente. Por isso mesmo faz-nos bem frequentar os pobres, para nos lembrarmos que somos pobres, para nos recordarmos de que a salvação de Deus só age num clima de pobreza interior.

3. Assim chegamos à oração do pobre, da primeira Leitura. Esta – diz Ben Sirá – «chegará às nuvens» (35, 17). Enquanto a oração de quem se considera justo fica em terra, esmagada pela força de gravidade do egoísmo, a do pobre sobe, direita, até Deus. O sentido da fé do Povo de Deus viu nos pobres «os porteiros do Céu»: aquele sensus fidei que faltava na declamação [do fariseu]. São eles que nos abrirão, ou não, as portas da vida eterna; eles que não se consideraram senhores nesta vida, que não se antepuseram aos outros, que tiveram só em Deus a sua própria riqueza. São ícones vivos da profecia cristã.

Neste Sínodo, tivemos a graça de escutar as vozes dos pobres e refletir sobre a precariedade das suas vidas, ameaçadas por modelos de progresso predatórios. E, no entanto, precisamente nesta situação, muitos nos testemunharam que é possível olhar a realidade de modo diferente, acolhendo-a de mãos abertas como uma dádiva, habitando na criação, não como meio a ser explorado, mas como casa a ser guardada, confiando em Deus. Ele é Pai e – diz ainda Ben Sirá – «ouvirá a oração do oprimido» (35, 13). E quantas vezes, mesmo na Igreja, as vozes dos pobres não são escutadas, acabando talvez vilipendiadas ou silenciadas porque incómodas. Rezemos pedindo a graça de saber escutar o clamor dos pobres: é o clamor de esperança da Igreja. O clamor dos pobres é o clamor de esperança da Igreja. Assumindo nós o seu clamor, também a nossa oração – temos a certeza – atravessará as nuvens.

[01705-PO.02] [Texto original: Italiano]

[B0822-XX.02]