Omelia del Santo Padre
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Alle ore 10 di questa mattina, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa nella Basilica Vaticana in occasione dell’apertura dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica, che si svolge in Vaticano, nell’Aula Nuova del Sinodo, dal 6 al 27 ottobre 2019, sul tema: Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale. Alla Celebrazione Eucaristica erano presenti anche i Cardinali di nuova creazione.
Dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
L’Apostolo Paolo, il più grande missionario della storia della Chiesa, ci aiuta a “fare Sinodo”, a “camminare insieme”: quello che scrive a Timoteo sembra rivolto a noi, Pastori al servizio del Popolo di Dio.
Anzitutto dice: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2 Tm 1,6). Siamo vescovi perché abbiamo ricevuto un dono di Dio. Non abbiamo firmato un accordo, non abbiamo ricevuto un contratto di lavoro in mano, ma mani sul capo, per essere a nostra volta mani alzate che intercedono presso il Signore e mani protese verso i fratelli. Abbiamo ricevuto un dono per essere doni. Un dono non si compra, non si scambia, e non si vende: si riceve e si regala. Se ce ne appropriamo, se mettiamo noi al centro e non lasciamo al centro il dono, da Pastori diventiamo funzionari: facciamo del dono una funzione e sparisce la gratuità, e così finiamo per servire noi stessi e servirci della Chiesa. La nostra vita, invece, per il dono ricevuto, è per servire. Lo ricorda il Vangelo, che parla di «servi inutili» (Lc 17,10): un’espressione che può voler dire anche “servi senza utile”. Significa che non ci diamo da fare per raggiungere un utile, un guadagno nostro, ma perché gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente diamo (cfr Mt 10,8). La nostra gioia sarà tutta nel servire perché siamo stati serviti da Dio, che si è fatto nostro servo. Cari fratelli, sentiamoci chiamati qui per servire mettendo al centro il dono di Dio.
Per essere fedeli a questa nostra chiamata, alla nostra missione, San Paolo ci ricorda che il dono va ravvivato. Il verbo che utilizza è affascinante: ravvivare letteralmente, nell’originale, è “dare vita a un fuoco” [anazopurein]. Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo. Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a una pastorale di “mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 95). Perché la Chiesa sempre è in cammino, sempre in uscita, mai chiusa in sé stessa. Gesù non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra.
Il fuoco che ravviva il dono è lo Spirito Santo, datore dei doni. Perciò San Paolo continua: «Custodisci mediante lo Spirito Santo il bene prezioso che ti è stato affidato» (2 Tm 1,14). E ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (v. 7). Non uno spirito di timidezza, ma di prudenza. Qualcuno pensa che la prudenza è la virtù “dogana”, che ferma tutto per non sbagliare. No, la prudenza è virtù cristiana, è virtù di vita, anzi, la virtù del governo. E Dio ci ha dato questo spirito di prudenza. Paolo mette la prudenza all’opposto della timidezza. Che cos’è allora questa prudenza dello Spirito? Come insegna il Catechismo, la prudenza «non si confonde con la timidezza o la paura», ma «è la virtù che dispone a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati» (n. 1806). La prudenza non è indecisione, non è un atteggiamento difensivo. È la virtù del Pastore, che, per servire con saggezza, sa discernere, sensibile alla novità dello Spirito. Allora ravvivare il dono nel fuoco dello Spirito è il contrario di lasciar andare avanti le cose senza far nulla. Ed essere fedeli alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo chiedere nella preghiera. Egli, che fa nuove tutte le cose, ci doni la sua prudenza audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i cammini per la Chiesa in Amazzonia, perché non si spenga il fuoco della missione.
Il fuoco di Dio, come nell’episodio del roveto ardente, brucia ma non consuma (cfr Es 3,2). È fuoco d’amore che illumina, riscalda e dà vita, non fuoco che divampa e divora. Quando senza amore e senza rispetto si divorano popoli e culture, non è il fuoco di Dio, ma del mondo. Eppure quante volte il dono di Dio non è stato offerto ma imposto, quante volte c’è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che recentemente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio è calore che attira e raccoglie in unità. Si alimenta con la condivisione, non coi guadagni. Il fuoco divoratore, invece, divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, fare il proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto.
Ravvivare il dono; accogliere la prudenza audace dello Spirito, fedeli alla sua novità; San Paolo rivolge un’ultima esortazione: «Non vergognarti di dare testimonianza ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» (2Tm 1,8). Chiede di testimoniare il Vangelo, di soffrire per il Vangelo, in una parola di vivere per il Vangelo. L’annuncio del Vangelo è il criterio principe per la vita della Chiesa: è la sua missione, la sua identità. Poco dopo Paolo scrive: «Sto per essere versato in offerta» (4,6). Annunciare il Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino in fondo, è farsi tutto per tutti (cfr 1Cor 9,22), è amare fino al martirio. Ringrazio Dio perché nel Collegio Cardinalizio ci sono alcuni fratelli Cardinali martiri, che hanno saggiato, nella vita, la croce del martirio. Infatti, sottolinea l’Apostolo, si serve il Vangelo non con la potenza del mondo, ma con la sola forza di Dio: restando sempre nell’amore umile, credendo che l’unico modo per possedere davvero la vita è perderla per amore.
Cari fratelli, guardiamo insieme a Gesù Crocifisso, al suo cuore squarciato per noi. Iniziamo da lì, perché da lì è scaturito il dono che ci ha generato; da lì è stato effuso lo Spirito che rinnova (cfr Gv 19,30). Da lì sentiamoci chiamati, tutti e ciascuno, a dare la vita. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d’amore della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia hanno speso la loro vita. Permettetemi di ripetere le parole del nostro amato Cardinale Hummes: quando arriva in quelle piccole città dell’Amazzonia, va nei cimiteri a cercare la tomba dei missionari. Un gesto della Chiesa per coloro che hanno speso la vita in Amazzonia. E poi, con un po’ di furbizia, dice al Papa: “Non si dimentichi di loro. Meritano di essere canonizzati”. Per loro, per questi che stanno dando la vita adesso, per quelli che hanno speso la propria vita, con loro, camminiamo insieme.
[01589-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
L’Apôtre Paul, le plus grand missionnaire de l’histoire de l’Église, nous aide à ‘‘faire Synode’’, à ‘‘marcher ensemble’’: ce qu’il écrit à Timothée semble adressé à nous, Pasteurs au service du peuple de Dieu.
D’abord, il dit: «Voilà pourquoi, je te le rappelle, ravive le don gratuit de Dieu, ce don qui est en toi depuis que je t’ai imposé les mains» (2 Tm 1, 6). Nous sommes évêques, parce que nous avons reçu un don de Dieu. Nous n’avons pas signé un accord, nous n’avons pas reçu en main un contrat de travail, mais l’imposition des mains, pour être à notre tour des mains levées qui intercèdent auprès du Seigneur et des mains tendues à nos frères. Nous avons reçu un don pour être des dons. Un don ne s’achète pas, ne s’échange pas, ne se vend pas: on le reçoit et on l’offre. Si nous nous l’approprions, si nous nous mettons au centre et ne mettons pas au centre le don, en tant que Pasteurs nous devenons des fonctionnaires: nous faisons du don une fonction et la gratuité disparaît, et ainsi nous finissons par servir nous-mêmes et par nous servir de l’Église. Notre vie, au contraire, en raison du don reçu, est pour servir. L’Évangile, qui parle de ‘‘serviteurs inutiles’’ (Lc 17, 10), le rappelle : une expression qui peut signifier aussi ‘‘serviteurs sans profit’’. Cela signifie que nous n’agissons pas pour obtenir un profit, un gain personnel, mais parce que nous avons reçu gratuitement et donnons gratuitement (cf. Mt 10, 8). Notre joie sera toute dans le service, car nous avons été servis par Dieu, qui s’est fait notre serviteur. Chers frères, ayons conscience d’être appelés ici pour servir en mettant au centre le don de Dieu !
Pour que nous soyons fidèles à cet appel que nous avons reçu, à notre mission, saint Paul nous rappelle que le don doit être ravivé. Le verbe qu’il utilise est intéressant: dans le texte original, raviver, littéralement, c’est ‘‘donner vie à un feu’’ [anazopurein]. Le don que nous avons reçu est un feu, c’est un amour brûlant envers Dieu et envers nos frères. Le feu ne s’entretient pas tout seul, il meurt s’il n’est pas maintenu en vie, il s’éteint s’il est recouvert de cendre. Si tout reste immobile, si ce qui rythme nos jours, c’est le ‘‘on a toujours fait comme ça’’, le don disparaît, suffoqué par les cendres des craintes et par la préoccupation de défendre le status quo. Mais«en aucune façon, l'Église ne peut se limiter à une pastorale de l’‘‘entretien’’ en faveur de ceux qui connaissent déjà l’Évangile du Christ. L’élan missionnaire est un signe clair de la maturité d’une communauté ecclésiale» (BENOIT XVI, Exhort. ap. Post-syn. Verbum Domini, n. 95). En effet, l’Église est toujours en route, toujours en sortie, jamais enfermée sur elle-même. Jésus n’est pas venu apporter la brise du soir, mais un feu sur la terre.
Le feu qui ravive le don, c’est l’Esprit Saint, qui donne la vie. C’est pourquoi saint Paul poursuit: «Garde le dépôt de la foi dans toute sa beauté, avec l’aide de l’Esprit Saint qui habite en nous» (2 Tm 1, 14). Et encore: «ce n’est pas un esprit de peur que Dieu nous a donné, mais un esprit de force, d’amour et de pondération» (v. 7). Ce n’est pas un esprit de timidité, mais de prudence. Certains pensent que la prudence, c’est la vertu ‘‘douane’’ qui arrête tout pour ne pas se tromper. Non, la prudence, c’est une vertu chrétienne, c’est une vertu de la vie, mieux, la vertu du gouvernement. Et Dieu nous a donné cet esprit de prudence. Paul oppose la prudence à la timidité. En quoi consiste alors cette prudence de l’Esprit ? Comme l’enseigne le Catéchisme, la prudence «ne se confond ni avec la timidité ou la peur» mais elle «est la vertu qui dispose la raison pratique à discerner en toute circonstance notre véritable bien et à choisir les justes moyens de l’accomplir» (n. 1806). La prudence, ce n’est pas l’indécision, ce n’est pas une attitude défensive. C’est la vertu du Pasteur qui, pour servir avec sagesse, sait discerner, est sensible à la nouveauté de l’Esprit. Alors, raviver le don dans le feu de l’Esprit, c’est le contraire du fait de laisser les choses aller sans agir. Et être fidèle à la nouveauté de l’Esprit, c’est une grâce que nous devons demander dans la prière. Lui, qui fait toutes choses nouvelles, qu’il nous donne sa prudence audacieuse; qu’il inspire notre Synode pour qu’il renouvelle les chemins pour l’Église en Amazonie, afin que ne s’éteigne pas le feu de la mission.
Le feu de Dieu, comme dans l’épisode du buisson ardent, brûle mais ne se consume pas (cf. Ex 3, 2). C’est un feu d’amour qui éclaire, réchauffe et donne vie, ce n’est pas un feu qui embrase et dévore. Quand les peuples et les cultures s’anéantissent sans amour et sans respect, ce n’est pas le feu de Dieu, mais le feu du monde. Et pourtant, que de fois le don de Dieu au lieu d’être offert est-il imposé, que de fois y a-t-il eu colonisation au lieu d’évangélisation! Que Dieu nous préserve de l’avidité des nouveaux colonialismes! Le feu allumé par des intérêts qui détruisent, comme celui qui a récemment dévasté l’Amazonie, n’est pas celui de l’Évangile. Le feu de Dieu est une chaleur qui attire et rassemble dans l’unité. Il se nourrit de partage, non de profits. Le feu dévastateur, au contraire, embrase quand on ne veut défendre que des idées personnelles, constituer son propre groupe, brûler les diversités pour uniformiser tous et tout.
Il faut raviver le don; accueillir la prudence audacieuse de l’Esprit, fidèle à sa nouveauté; saint Paul exprime une dernière exhortation: «N’aie donc pas honte de rendre témoignage à notre Seigneur, […] mais, avec la force de Dieu, prends ta part des souffrances liées à l’annonce de l’Évangile» (2 Tm 1, 8). Il demande de témoigner de l’Évangile, de souffrir pour l’Évangile, en un mot de vivre pour l’Évangile. L’annonce de l’Évangile est le critère principal pour la vie de l’Église: c’est sa mission, son identité. Peu après, Paul écrit: «Je suis déjà offert en sacrifice» (4, 6). Annoncer l’Évangile, c’est vivre l’offrande, c’est témoigner jusqu’au bout, c’est se faire tout à tous (cf. 1 Co 9, 22), c’est aimer jusqu’au martyre. Je remercie Dieu parce que dans le Collège des Cardinaux, il y a quelques frères cardinaux martyrs, qui ont fait l’expérience, dans la vie, de la croix du martyre. En effet, l’Apôtre le souligne, on sert l’Évangile non pas avec la puissance du monde, mais avec la seule force de Dieu: en restant toujours dans l’amour humble, en croyant que l’unique manière de posséder vraiment la vie, c’est de la perdre par amour.
Chers frères et sœurs, regardons ensemble Jésus Crucifié, son cœur transpercé pour nous. Commençons par-là, car c’est de là qu’a surgi le don qui nous a générés; c’est de là qu’a jailli l’Esprit qui renouvelle (cf. Jn 19, 30). Sentons-nous appelés à partir de là, tous et chacun, à donner la vie. Tant de frères et sœurs en Amazonie portent de lourdes croix et attendent la consolation libératrice de l’Évangile, la caresse amoureuse de l’Église. Tant de frères et sœurs en Amazonie y ont consumé leur vie. Permettez-moi de répéter les paroles de notre bien-aimé Cardinal Hummes: quand il arrive dans ces petites villes d’Amazonie, il va dans les cimetières à la recherche des tombes des missionnaires. Un geste de l’Église à l’égard de ceux qui ont consumé leur vie en Amazonie. Et puis, avec un peu de malice, il dit au Pape: ‘‘Ne les oublie pas! Ils méritent d’être canonisés’’. Pour eux, pour ceux qui y offrent actuellement leur vie, pour ceux qui y ont consumé leur vie, avec eux, marchons ensemble!
[01589-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
The Apostle Paul, the greatest missionary in the Church’s history, helps us to make this “synod”, this “journey together”. His words to Timothy seem addressed to us, as pastors in the service of God’s People.
Paul first tells Timothy: “I remind you to rekindle the gift of God that is within you through the laying on of my hands” (2 Tim 1:6). We are bishops because we have received a gift of God. We did not sign an agreement; we were not handed an employment contract. Rather, hands were laid on our heads so that we in turn might be hands raised to intercede before the Father, helping hands extended to our brothers and sisters. We received a gift so that we might become a gift. Gifts are not bought, traded or sold; they are received and given away. If we hold on to them, if we make ourselves the centre and not the gift we have received, we become bureaucrats, not shepherds. We turn the gift into a job and its gratuitousness vanishes. We end up serving ourselves and using the Church.
Thanks to the gift we have received, our lives are directed to service. When the Gospel speaks of “useless servants” (Lk 17:10), it reminds us of this. The expression can also mean “unprofitable servants”. In other words, we do not serve for the sake of personal profit or gain, but because we received freely and want to give freely in return (cf. Mt 10:8). Our joy will be entirely in serving, since we were first served by God, who became the servant of us all. Dear brothers, let us feel called here for service; let us put God’s gift at the centre.
To be faithful to our calling, our mission, Saint Paul reminds us that our gift has to be rekindled. The verb he uses in the original text is fascinating: to rekindle, literally, which means stoking a fire (anazopyrein). The gift we have received is a fire, a burning love for God and for our brothers and sisters. A fire does not burn by itself; it has to be fed or else it dies; it turns into ashes. If everything continues as it was, if we spend our days content that “this is the way things have always been done”, then the gift vanishes, smothered by the ashes of fear and concern for defending the status quo. Yet “in no way can the Church restrict her pastoral work to the ‘ordinary maintenance’ of those who already know the Gospel of Christ. Missionary outreach is a clear sign of the maturity of an ecclesial community” (BENEDICT XVI, Apostolic Exhortation Verbum Domini, 95). For the Church is always on the move, always going out and never withdrawn into itself. Jesus did not come to bring a gentle evening breeze, but to light a fire on the earth.
The fire that rekindles the gift is the Holy Spirit, the giver of gifts. So Saint Paul goes on to say: “Guard the truth that has been entrusted to you by the Holy Spirit” (2 Tim 1:14). And again: “God did not give us a spirit of timidity, but a spirit of power and love and prudence” (v. 7). Not a spirit of timidity, but of prudence. Someone may think that prudence is a virtue of the “customs house”, that checks everything to ensure that there is no mistake. No, prudence is a Christian virtue; it is a virtue of life, and indeed the virtue of governance. And God has given us this spirit of prudence. Paul places prudence in opposition to timidity. What is this prudence of the Spirit? As the Catechism teaches, prudence “is not to be confused with timidity or fear”; rather, it is “the virtue that disposes practical reason to discern our true good in every circumstance and to choose the right means of achieving it” (No. 1806).
Prudence is not indecision; it is not a defensive attitude. It is the virtue of the pastor who, in order to serve with wisdom, is able to discern, to be receptive to the newness of the Spirit. Rekindling our gift in the fire of the Spirit is the opposite of letting things take their course without doing anything. Fidelity to the newness of the Spirit is a grace that we must ask for in prayer. May the Spirit, who makes all things new, give us his own daring prudence; may he inspire our Synod to renew the paths of the Church in Amazonia, so that the fire of mission will continue to burn.
As we see from the story of the burning bush, God’s fire burns, yet does not consume (cf. Ex 3:2). It is the fire of love that illumines, warms and gives life, not a fire that blazes up and devours. When peoples and cultures are devoured without love and without respect, it is not God’s fire but that of the world. Yet how many times has God’s gift been imposed, not offered; how many times has there been colonization rather than evangelization! May God preserve us from the greed of new forms of colonialism. The fire set by interests that destroy, like the fire that recently devastated Amazonia, is not the fire of the Gospel. The fire of God is warmth that attracts and gathers into unity. It is fed by sharing, not by profits. The fire that destroys, on the other hand, blazes up when people want to promote only their own ideas, form their own group, wipe out differences in the attempt to make everyone and everything uniform.
To rekindle the gift; to welcome the bold prudence of the Spirit; to be faithful to his newness. Saint Paul now moves on to a final exhortation: “Do not be ashamed then of testifying to our Lord, but take your share of suffering for the Gospel in the power of God” (2 Tim 1:8). Paul asks Timothy to bear witness to the Gospel, to suffer for the Gospel, in a word, to live for the Gospel. The proclamation of the Gospel is the chief criterion of the Church’s life, it is her mission, her identity. A little later, Paul will write: “I am already on the point of being sacrificed” (4:6). To preach the Gospel is to live as an offering, to bear witness to the end, to become all things to all people (cf. 1 Cor 9:22), to love even to the point of martyrdom. I am grateful to God that in the College of Cardinals there are some brother Cardinals who are martyrs, because they have experienced in this life the cross of martyrdom. The Apostle makes it quite clear that the Gospel is not served by worldly power, but by the power of God alone: by persevering in humble love, by believing that the only real way to possess life is to lose it through love.
Dear brothers and sisters, together let us look to the crucified Jesus, to his heart pierced for our salvation. Let us begin there, the source of the gift that has given us birth. From that heart, the Spirit who renews has been poured forth (cf. Jn 19:30). Let each and every one of us, then, feel called to give life. So many of our brothers and sisters in Amazonia are bearing heavy crosses and awaiting the liberating consolation of the Gospel, the Church’s caress of love. So many of our brothers and sisters in Amazonia have given their lives. I would like to repeat here the words of our beloved Cardinal Hummes: when he arrives in those little towns of Amazonia, he goes to the cemetery to visit the tombs of missionaries. It is a gesture on the Church’s behalf for those who gave their lives in Amazonia. And then, with a little shrewdness, he says to the Pope: “May they not be forgotten. They deserved to be canonized”. For them and for all those who have given their lives and those who are still giving their lives, and with them, let us journey together.
[01589-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Der Apostel Paulus, der größte Missionar der Kirchengeschichte, hilft uns, „Synode zu halten“, „gemeinsam voranzugehen“: Was er an Timotheus schreibt, scheint an uns gerichtet zu sein, die wir Hirten im Dienst des Volkes Gottes sind.
Vor allem sagt er: »Darum rufe ich dir ins Gedächtnis: Entfache wieder die Gnadengabe Gottes, die dir durch die Auflegung meiner Hände zuteilgeworden ist!« (2 Tim 1,6). Wir sind Bischöfe, weil wir eine Gabe Gottes empfangen haben. Wir haben nicht eine Vereinbarung unterschreiben, uns wurde nicht ein Arbeitsvertrag in die Hand gegeben, sondern die Hände auf das Haupt gelegt, um unserseits erhobene Hände, die beim Herrn eintreten, und zu den Brüdern ausgestreckte Hände zu sein. Wir haben eine Gabe empfangen, um Gabe zu sein. Eine Gabe kauft man nicht, man tauscht sie nicht ein, man verkauft sie nicht: Man empfängt sie, und man schenkt sie. Wenn wir uns ihrer bemächtigen, wenn wir uns in den Mittelpunkt stellen und nicht der Gabe die Mitte überlassen, werden wir von Hirten zu Funktionären: Wir machen aus der Gabe eine Funktion und es verschwindet die Unentgeltlichkeit und so dienen wir uns am Ende nur selbst und bedienen uns der Kirche. Unser Leben ist jedoch aufgrund der empfangenen Gabe zum Dienen bestimmt. Daran erinnert uns das Evangelium, das von „unnützen Knechten“ (Lk 17,10) spricht: Ein Ausdruck, der auch „Knecht ohne Ertrag“ bedeuten kann. Es bedeutet, dass wir uns nicht ans Werk machen, um einen Ertrag, einen Verdienst für uns zu erreichen, sondern weil wir umsonst empfangen haben und wir umsonst geben sollen (vgl. Mt 10,8). Unsere Freude wird ganz im Dienen bestehen, weil Gott uns gedient hat, der sich zu unserem Diener gemacht hat. Liebe Brüder, betrachten wir uns als hierher gerufen, um zu dienen, indem wir die Gabe Gottes in den Mittelpunkt stellen.
Um dieser unserer Berufung, unserer Sendung treu zu sein, erinnert uns der heilige Paulus daran, dass die Gnadengabe wiederentfacht werden muss. Das Wort, das er verwendet, ist faszinierend: wiederentfachen bedeutet wörtlich, im Original „ein Feuer entzünden“ [anazopurein]. Die Gabe, die wir empfangen haben, ist ein Feuer, ist brennende Liebe zu Gott und zu den Brüdern. Das Feuer speist sich nicht aus sich selbst, es erlischt, wenn es nicht lebendig erhalten wird, es geht aus, wenn die Asche es bedeckt. Wenn alles so bleibt, wie es ist, wenn unsere Tage von der Devise „Man hat es immer so gemacht“ bestimmt werden, entschwindet die Gabe, sie wird unter der Asche der Ängste und der Sorge erstickt, den Status quo zu verteidigen. Aber »die Kirche darf sich keinesfalls auf eine Pastoral der „Aufrechterhaltung“ beschränken, die nur auf jene ausgerichtet ist, die das Evangelium Christi bereits kennen. Der missionarische Schwung ist ein klares Zeichen für die Reife einer kirchlichen Gemeinschaft« (Benedikt XVI., Apostolisches Schreiben Verbum Domini, 95). Denn die Kirche ist immer unterwegs, sie ist immer im Aufbruch, sie ist nie in sich selbst verschlossen. Jesus ist nicht gekommen, die Abendbrise, sondern das Feuer auf die Erde zu bringen.
Das Feuer, das die Gnadengabe wiederentfacht, ist der Heilige Geist, der Geber der Gaben. Daher fährt der heilige Paulus fort: »Bewahre das dir anvertraute kostbare Gut durch die Kraft des Heiligen Geistes, der in uns wohnt!« (2 Tim 1,14). Und weiter: »Denn Gott hat uns nicht einen Geist der Verzagtheit gegeben, sondern den Geist der Kraft, der Liebe und der Besonnenheit« (V. 7). Nicht einen Geist der Verzagtheit, sondern der Klugheit. Manch einer denkt, dass die Klugheit die Tugend des „Zolls“ ist, die alles aufhält, um keine Fehler zu begehen. Nein, die Klugheit ist eine christliche Tugend, sie ist Lebenstugend, ja sie ist die Tugend des Regierens. Und Gott hat uns diesen Geist der Klugheit gegeben. Paulus setzt die Klugheit der Verzagtheit entgegen. Was ist also diese Klugheit des Geistes? Wie der Katechismus lehrt, ist die Klugheit nicht mit Schüchternheit oder Ängstlichkeit zu verwechseln, sondern sie macht bereit, »in jeder Lage unser wahres Gut zu erfassen und die richtigen Mittel zu wählen, um es zu erlangen« (N. 1806). Die Klugheit ist nicht Unentschlossenheit, sie ist nicht eine abwehrende Haltung. Sie ist die Tugend des Hirten, der, um mit Weisheit zu dienen, im Stande ist, sich in Feinfühligkeit für die Neuheit des Geistes zu entscheiden. Die Gnade im Feuer des Geistes wiederzuentfachen ist also das Gegenteil davon, die Dinge laufen zu lassen, ohne irgendetwas zu tun. Und der Neuheit des Geistes treu zu sein ist eine Gnade, um die wir im Gebet bitten müssen. Er, der alles neu macht, möge uns seine wagemutige Klugheit schenken; er möge unserer Synode eingeben, die Wege für die Kirche im Amazonasgebiet zu erneuern, damit das Feuer der Mission nicht erlischt.
Das Feuer Gottes brennt, aber verzehrt nicht wie in der Begebenheit vom brennenden Dornbusch (vgl. Ex 3,2). Es ist Feuer der Liebe, das erleuchtet, erwärmt und Leben spendet, nicht Feuer, das auflodert und verschlingt. Wenn man die Völker und Kulturen ohne Liebe und Respekt verschlingt, ist dies nicht das Feuer Gottes, sondern der Welt. Und wie oft ist doch die Gabe Gottes nicht angeboten, sondern aufgezwängt worden, wie oft hat es Kolonisierung statt Evangelisierung gegeben! Gott bewahre uns vor der Gier neuer Kolonialismen. Das von zerstörerischen Interessen gelegte Feuer wie jenes, das kürzlich das Amazonasgebiet verwüstet hat, ist nicht das aus dem Evangelium. Das Feuer Gottes ist die Wärme, die anzieht und in Einheit versammelt. Es nährt sich durch Teilen, nicht durch Gewinne. Das verschlingende Feuer hingegen lodert auf, wenn man nur die eigenen Ideen voranbringen, die eigene Gruppe bilden, die Verschiedenheiten verbrennen will, um alles und alle zu vereinheitlichen.
Die Gabe wiederentfachen; die wagemutige Klugheit des Geistes in Treue zu seiner Neuheit aufnehmen; der heilige Paulus spricht eine letzte Mahnung aus: »Schäme dich also nicht des Zeugnisses für unseren Herrn […], sondern leide mit mir für das Evangelium!« (2 Tim 1,8). Er verlangt, dass wir das Evangelium bezeugen, für das Evangelium leiden, mit einem Wort, für das Evangelium leben. Die Verkündigung des Evangeliums ist das Hauptkriterium für das Leben der Kirche: Es ist ihre Sendung, ihre Identität. Kurz darauf schreibt Paulus: »Denn ich werde schon geopfert« (4,6). Das Evangelium zu verkünden, bedeutet, die Hingabe zu leben, bis zum Äußersten Zeugnis abzulegen, allen alles zu werden (vgl. 1 Kor 9,22), bis zum Martyrium zu lieben. Ich danke Gott, dass sich im Kardinalskollegium einige Brüder befinden, die Märtyrerkardinäle sind, die im Leben das Kreuz des Martyriums gekostet haben. In der Tat dient man dem Evangelium, so unterstreicht der Apostel, nicht mit der Macht der Welt, sondern mit der alleinigen Kraft Gottes, indem man immer in der demütigen Liebe und im Glauben verbleibt, dass die einzige Weise, um das Leben wahrhaft zu besitzen, ist, es aus Liebe zu verlieren.
Liebe Brüder, schauen wir gemeinsam auf den gekreuzigten Jesus, auf sein für uns durchbohrtes Herz. Beginnen wir von dort, weil von da die Gabe herkommt, die uns zu dem gemacht hat, was wir sind. Von da aus ist der Geist, der erneuert, ausgegossen worden (vgl. Joh 19,30). Fühlen wir uns alle und als Einzelne von dort gerufen, das Leben zu geben. Viele Brüder und Schwestern im Amazonasgebiet tragen schwere Kreuze und warten auf den befreienden Trost des Evangeliums, das liebevolle Streicheln der Kirche. Viele Brüder und Schwestern im Amazonasgebiet haben ihr Leben hingegeben. Erlaubt mir, die Worte unseres geschätzten Kardinals Hummes zu wiederholen: Wenn er in jenen kleinen Städten des Amazonasgebiets ankommt, geht er zu den Friedhöfen, um die Gräber der Missionare aufzusuchen. Und dann sagt er mit etwas Schlauheit zum Papst: „Vergessen Sie sie nicht. Sie verdienen es, heiliggesprochen zu werden“. Für sie, für diejenigen, die jetzt ihr Leben geben, für die, die ihr Leben hingegeben haben, und mit ihnen gehen wir gemeinsam voran.
[01589-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
El apóstol Pablo, el mayor misionero de la historia de la Iglesia, nos ayuda a “hacer Sínodo”, a “caminar juntos”. Lo que escribe Timoteo parece referido a nosotros, pastores al servicio del Pueblo de Dios.
Ante todo dice: «Te recuerdo que reavives el don de Dios que hay en ti por la imposición de mis manos» (2 Tm 1,6). Somos obispos porque hemos recibido un don de Dios. No hemos firmado un acuerdo, no nos han entregado un contrato de trabajo “en propia mano”, sino la imposición de manos sobre la cabeza, para ser también nosotros manos que se alzan para interceder y se extienden hacia los hermanos. Hemos recibido un don para ser dones. Un don no se compra, no se cambia y no se vende: se recibe y se regala. Si nos aprovechamos de él, si nos ponemos nosotros en el centro y no el don, dejamos de ser pastores y nos convertimos en funcionarios: hacemos del don una función y desaparece la gratuidad, así terminamos sirviéndonos de la Iglesia para servirnos a nosotros mismos. Nuestra vida, sin embargo, por el don recibido, es para servir. Lo recuerda el Evangelio, que habla de «siervos inútiles» (Lc 17,10). Es una expresión que también puede significar «siervos sin beneficio». Significa que no nos esforzamos para conseguir algo útil para nosotros, un beneficio, sino que gratuitamente damos porque lo hemos recibido gratis (cf. Mt 10,8). Toda nuestra alegría será servir porque hemos sido servidos por Dios, que se ha hecho nuestro siervo. Queridos hermanos, sintámonos convocados aquí para servir, poniendo en el centro el don de Dios.
Para ser fieles a nuestra llamada, a nuestra misión, san Pablo nos recuerda que el don se reaviva. El verbo que usa es fascinante: reavivar literalmente, en el original, es “dar vida al fuego” [anazopurein]. El don que hemos recibido es un fuego, es un amor ardiente a Dios y a los hermanos. El fuego no se alimenta por sí solo, muere si no se mantiene vivo, se apaga si las cenizas lo cubren. Si todo permanece como está, si nuestros días están marcados por el “siempre se ha hecho así”, el don desaparece, sofocado por las cenizas de los temores y por la preocupación de defender el status quo. Pero «la Iglesia no puede limitarse en modo alguno a una pastoral de “mantenimiento” para los que ya conocen el Evangelio de Cristo. El impulso misionero es una señal clara de la madurez de una comunidad eclesial» (Benedicto XVI, Exhort. apost. postsin. Verbum Domini, 95). Porque la Iglesia siempre está en camino, siempre en salida, jamás cerrada en sí misma. Jesús no ha venido a traer la brisa de la tarde, sino el fuego sobre la tierra.
El fuego que reaviva el don es el Espíritu Santo, dador de los dones. Por eso san Pablo continúa: «Vela por el precioso depósito con la ayuda del Espíritu Santo que habita en nosotros» (2 Tm 1,14). Y también: «Dios no nos ha dado un espíritu de cobardía, sino de fortaleza, de amor y de prudencia» (v. 7). No es un espíritu cobarde, sino de prudencia. Alguno piensa que la prudencia es una virtud “aduana”, que detiene todo para no equivocarse. No, la prudencia es una virtud cristiana, es virtud de vida, más aún, la virtud del gobierno. Y Dios nos ha dado este espíritu de prudencia. Pablo contrapone la prudencia a la cobardía. ¿Qué es entonces esta prudencia del Espíritu? Como enseña el Catecismo, la prudencia «no se confunde ni con la timidez o el temor», si no que «es la virtud que dispone la razón práctica a discernir en toda circunstancia nuestro verdadero bien y a elegir los medios rectos para realizarlo» (n. 1806). La prudencia no es indecisión, no es una actitud defensiva. Es la virtud del pastor, que, para servir con sabiduría, sabe discernir, sensible a la novedad del Espíritu. Entonces, reavivar el don en el fuego del Espíritu es lo contrario a dejar que las cosas sigan su curso sin hacer nada. Y ser fieles a la novedad del Espíritu es una gracia que debemos pedir en la oración. Que Él, que hace nuevas todas las cosas, nos dé su prudencia audaz, inspire nuestro Sínodo para renovar los caminos de la Iglesia en Amazonia, de modo que no se apague el fuego de la misión.
El fuego de Dios, como en el episodio de la zarza ardiente, arde pero no se consume (cf. Ex 3,2). Es fuego de amor que ilumina, calienta y da vida, no fuego que se extiende y devora. Cuando los pueblos y las culturas se devoran sin amor y sin respeto, no es el fuego de Dios, sino del mundo. Y, sin embargo, cuántas veces el don de Dios no ha sido ofrecido sino impuesto, cuántas veces ha habido colonización en vez de evangelización. Dios nos guarde de la avidez de los nuevos colonialismos. El fuego aplicado por los intereses que destruyen, como el que recientemente ha devastado la Amazonia, no es el del Evangelio. El fuego de Dios es calor que atrae y reúne en unidad. Se alimenta con el compartir, no con los beneficios. El fuego devorador, en cambio, se extiende cuando se quieren sacar adelante solo las propias ideas, hacer el propio grupo, quemar lo diferente para uniformar todos y todo.
Reavivar el don; acoger la prudencia audaz del Espíritu, fieles a su novedad; san Pablo dirige una última exhortación: «No te avergüences del testimonio […]; antes bien, toma parte en los padecimientos por el Evangelio, según la fuerza de Dios» (2 Tm 1,8). Pide testimoniar el Evangelio, sufrir por el Evangelio, en una palabra, vivir por el Evangelio. El anuncio del Evangelio es el primer criterio para la vida de la Iglesia: es su misión, su identidad. Poco después Pablo escribe: «Pues yo estoy a punto de ser derramado en libación» (4,6). Anunciar el Evangelio es vivir el ofrecimiento, es testimoniar hasta el final, es hacerse todo para todos (cf. 1 Cor 9,22), es amar hasta el martirio. Agradezco a Dios porque en el Colegio Cardenalicio hay algunos hermanos cardenales mártires, que han probado, en la vida, la cruz del martirio. De hecho, subraya el Apóstol, se sirve el Evangelio no con la potencia del mundo, sino con la sola fuerza de Dios: permaneciendo siempre en el amor humilde, creyendo que el único modo para poseer de verdad la vida es perderla por amor.
Queridos hermanos: Miremos juntos a Jesús crucificado, su corazón traspasado por nosotros. Comencemos desde allí, porque desde allí ha brotado el don que nos ha generado; desde allí ha sido infundido el Espíritu Santo que renueva (cf. Jn 19,30). Desde allí sintámonos llamados, todos y cada uno, a dar la vida. Muchos hermanos y hermanas en Amazonia llevan cruces pesadas y esperan la consolación liberadora del Evangelio y la caricia de amor de la Iglesia. Tantos hermanos y hermanas en Amazonia han gastado su vida. Permitidme de repetir las palabras de nuestro amado Cardenal Hummes. Cuando él llega a aquellas pequeñas ciudades de Amazonia, va a los cementerios a buscar la tumba de los misioneros. Un gesto de la Iglesia para aquellos que han gastado la vida en Amazonia. Y después, con un poco de astucia, dice al Papa: “No se olvide de ellos. Merecen ser canonizados”. Por ellos, por estos que están dando la vida ahora, por aquellos que han gastado la propia vida, con ellos, caminemos juntos.
[01589-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
O apóstolo Paulo, o maior missionário da história da Igreja, ajuda-nos a «fazer Sínodo», a «caminhar juntos»; parece dirigido a nós, Pastores ao serviço do povo de Deus, aquilo que escreve a Timóteo.
Começa dizendo: «Recomendo-te que reacendas o dom de Deus que se encontra em ti, pela imposição das minhas mãos» (2 Tm 1, 6). Somos bispos, porque recebemos um dom de Deus. Não assinamos um acordo; colocaram-nos, não um contrato de trabalho nas mãos, mas mãos sobre a cabeça, para sermos, por nossa vez, mãos levantadas que intercedem junto do Senhor e mãos estendidas para os irmãos. Recebemos um dom, para sermos dons. Um dom não se compra, não se troca nem se vende: recebe-se e dá-se de prenda. Se nos apropriarmos dele, se nos colocarmos a nós no centro e não deixarmos no centro o dom, passamos de Pastores a funcionários: fazemos do dom uma função, e desaparece a gratuidade; assim acabamos por nos servir a nós mesmos, servindo-nos da Igreja. Ao passo que a nossa vida, dom recebido, é para servir. No-lo recorda o Evangelho, que fala de «servos inúteis» (Lc 17, 10); expressão esta, que pode querer dizer também «servos sem fins lucrativos». Por outras palavras, não trabalhamos para obter lucro, um ganho nosso, mas, sabendo que gratuitamente recebemos, gratuitamente damos (cf. Mt 10, 8). Colocamos toda a nossa alegria em servir, porque fomos servidos por Deus: fez-Se nosso servo. Queridos irmãos, sintamo-nos chamados aqui para servir, colocando no centro o dom de Deus.
Para sermos fiéis a esta chamada, à nossa missão, São Paulo lembra-nos que o dom deve ser reaceso. O verbo usado é fascinante: reacender, no original, significa literalmente «dar vida a uma fogueira» [anazopurein]. O dom que recebemos é um fogo, é amor ardente a Deus e aos irmãos. O fogo não se alimenta sozinho; morre se não for mantido vivo, apaga-se se a cinza o cobrir. Se tudo continua igual, se os nossos dias são pautados pelo «sempre se fez assim», então o dom desaparece, sufocado pelas cinzas dos medos e pela preocupação de defender o status quo. Mas «a Igreja não pode de modo algum limitar-se a uma pastoral de “manutenção” para aqueles que já conhecem o Evangelho de Cristo. O ardor missionário é um sinal claro da maturidade de uma comunidade eclesial» (Bento XVI, Exort. ap. pós-sinodal Verbum Domini, 95). Porque a Igreja está sempre em caminho, sempre em saída; nunca fechada em si mesma. Jesus veio trazer à terra, não a brisa da tarde, mas o fogo.
O fogo que reacende o dom é o Espírito Santo, dador dos dons. Por isso, São Paulo continua: «Guarda, pelo Espírito Santo que habita em nós, o precioso bem que te foi confiado» (2 Tm 1, 14). E antes escrevera: «Deus não nos concedeu um espírito de timidez, mas de fortaleza, de amor e de prudência» (1, 7). Não um espírito de timidez, mas de prudência. Alguém pode pensar que a prudência seja a virtude «alfândega», que, para não errar, faz parar tudo. Mas não! A prudência é virtude cristã, é virtude de vida; mais, é a virtude do governo. E Deus deu-nos este espírito de prudência. Em oposição à timidez, Paulo coloca a prudência. Que é, então, esta prudência do Espírito? Como ensina o Catecismo, a prudência «não se confunde com a timidez ou o medo», mas «é a virtude que dispõe a razão prática para discernir, em qualquer circunstância, o nosso verdadeiro bem e para escolher os justos meios de o atingir» (n. 1806). A prudência não é indecisão, não é um comportamento defensivo. É a virtude do Pastor que, para servir com sabedoria, sabe discernir, sensível à novidade do Espírito. Então, reacender o dom no fogo do Espírito é o oposto de deixar as coisas correr sem se fazer nada. E ser fiéis à novidade do Espírito é uma graça que devemos pedir na oração. Ele, que faz novas todas as coisas, nos dê a sua prudência audaciosa; inspire o nosso Sínodo a renovar os caminhos para a Igreja na Amazónia, para que não se apague o fogo da missão.
O fogo de Deus, como no episódio da sarça ardente, arde mas não consome (cf. Ex 3, 2). É fogo de amor que ilumina, aquece e dá vida; não fogo que alastra e devora. Quando sem amor nem respeito se devoram povos e culturas, não é o fogo de Deus, mas do mundo. Contudo quantas vezes o dom de Deus foi, não oferecido, mas imposto! Quantas vezes houve colonização em vez de evangelização! Deus nos preserve da ganância dos novos colonialismos. O fogo ateado por interesses que destroem, como o que devastou recentemente a Amazónia, não é o do Evangelho. O fogo de Deus é calor que atrai e congrega em unidade. Alimenta-se com a partilha, não com os lucros. Pelo contrário, o fogo devorador alastra quando se quer fazer triunfar apenas as próprias ideias, formar o próprio grupo, queimar as diferenças para homogeneizar tudo e todos.
Reacender o dom; receber a prudência audaciosa do Espírito, fiéis à sua novidade; São Paulo faz uma última exortação: «Não te envergonhes de dar testemunho (…), mas compartilha o meu sofrimento pelo Evangelho, apoiado na força de Deus» (2 Tm 1, 8). Pede para testemunhar o Evangelho, sofrer pelo Evangelho; numa palavra: viver para o Evangelho. O anúncio do Evangelho é o critério primeiro para a vida da Igreja: é a sua missão, a sua identidade. Mais adiante, Paulo escreve: «Estou pronto para oferecer-me como sacrifício» (4, 6). Anunciar o Evangelho é viver a oferta, é testemunhar radicalmente, é fazer-se tudo por todos (cf. 1 Cor 9, 22), é amar até ao martírio. Agradeço a Deus por haver no Colégio Cardinalício alguns irmãos Cardeais mártires, que provaram, na vida, a cruz do martírio. De facto, como assinala o Apóstolo, serve-se o Evangelho, não com a força do mundo, mas simplesmente com a força de Deus: permanecendo sempre no amor humilde, acreditando que a única maneira de possuir verdadeiramente a vida é perdê-la por amor.
Queridos irmãos, olhemos juntos para Jesus Crucificado, para o seu coração aberto por nós. Comecemos dali, porque dali brotou o dom que nos gerou; dali foi derramado o Espírito que renova (cf. Jo 19, 30). Dali, sentimo-nos chamados, todos e cada um, a dar a vida. Muitos irmãos e irmãs na Amazónia carregam cruzes pesadas e aguardam pela consolação libertadora do Evangelho, pela carícia de amor da Igreja. Muitos irmãos e irmãs gastaram a sua vida na Amazónia. Permiti que repita as palavras do nosso amado Cardeal Hummes: quando fores àquelas pequenas cidades da Amazónia, vai aos cemitérios procurar o túmulo dos missionários. Um gesto da Igreja por aqueles que gastaram a vida na Amazónia. E depois, com um pouco de astúcia, disse ao Papa: «Não se esqueça deles. Merecem ser canonizados». Por eles, pelos que agora estão a dar a vida, pelos outros que lá gastaram a própria vida, com eles, caminhemos juntos.
[01589-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Apostoł Paweł, największy misjonarz w dziejach Kościoła pomaga nam „tworzyć Synod”, „iść razem”: to, co pisze do Tymoteusza, zdaje się być skierowane do nas, pasterzy służących ludowi Bożemu.
Przede wszystkim mówi: „Przypominam ci, abyś rozpalił na nowo charyzmat Boży, który jest w tobie przez włożenie moich rąk” (2 Tm 1, 6). Jesteśmy biskupami, ponieważ otrzymaliśmy dar Boży. Nie podpisaliśmy umowy, nie otrzymaliśmy do ręki umowy o pracę, ale nałożenie rąk na nasze głowy, abyśmy z kolei byli wzniesionymi rękoma, które orędują u Pana i rękoma wyciągniętymi ku braciom. Otrzymaliśmy dar, aby być darami. Daru się nie kupuje, nie wymienia się ani nie sprzedaje: otrzymuje się i ofiarowuje. Jeśli go sobie zawłaszczamy, jeśli postawimy siebie w centrum i nie pozostawimy w centrum tego daru, zamiast pasterzy stajemy się funkcjonariuszami: czynimy z daru funkcję, a znika bezinteresowność, a więc w ostateczności służymy sobie samym i posługujemy się Kościołem. Natomiast nasze życie, ze względu na otrzymany dar, jest po to, aby służyć. Przypomina to Ewangelia, która mówi o „nieużytecznych sługach” (Łk 17,10): wyrażenie to może również oznaczać „sługi bez zysku”. Oznacza to, że nie działamy dla osiągnięcia zysku, naszego zarobku, ale ponieważ darmo otrzymaliśmy, zatem darmo dajemy (por. Mt 10,8). Cała nasza radość będzie polegała na służeniu, ponieważ usłużył nam Bóg, który stał się naszym sługą. Drodzy bracia, poczujmy się tutaj powołani, aby służyć, stawiając w centrum Boży dar.
Św. Paweł przypomina nam, że aby być wiernymi naszemu powołaniu, naszej misji trzeba ożywić dar. Czasownik, który stosuje jest fascynujący: dosłownie, w oryginale, ożywianie to „dawanie ogniowi życia” [anazopurein]. Otrzymany przez nas dar to ogień, to żarliwa miłość do Boga i naszych braci. Ogień sam się nie karmi, umiera, jeśli nie jest podtrzymywany przy życiu, gaśnie, jeśli pokrywa go popiół. Jeśli wszystko pozostanie takie, jakie jest, jeśli nasze dni wymierza hasło „zawsze tak było”, to dar zanika, przytłumiony popiołami strachu i troską o obronę status quo. Ale „w żadnym wypadku Kościół nie może się ograniczyć do duszpasterstwa «zachowawczego», przeznaczonego dla tych, którzy już znają Ewangelię Chrystusa. Misyjny zapał jest wyraźną oznaką dojrzałości wspólnoty kościelnej” (BENEDYKT XVI, Adhort. apost. Verbum Domini, 95). Kościół bowiem jest zawsze w drodze, zawsze wychodzący, nigdy zamknięty w sobie samym. Jezus nie przyszedł, aby przynieść wieczorną bryzę, lecz ogień na ziemię.
Ogniem, który ożywia dar, jest Duch Święty, dawca darów. Dlatego Święty Paweł kontynuuje: „Dobrego depozytu strzeż z pomocą Ducha Świętego, który w nas mieszka” (2 Tm 1,14). I znowu: „nie dał nam Bóg ducha bojaźni, ale mocy i miłości, i trzeźwego myślenia” (w. 7). Nie jest to duch bojaźni, ale roztropności. Pomyśli ktoś, że roztropność jest cnotą „granicy”, która zatrzymuje wszystko, żeby nie popełnić błędu. Nie, roztropność jest cnotą chrześcijańską, jest cnotą życia, co więcej, cnotą rządzenia. Bóg dał nam tego ducha roztropności. Paweł stawia roztropność w przeciwieństwie do bojaźni. Czym zatem jest ta roztropność Ducha? Jak naucza Katechizm: „Nie należy mylić roztropności z nieśmiałością czy strachem”, ale „jest ona cnotą, która uzdalnia rozum praktyczny do rozeznawania w każdej okoliczności naszego prawdziwego dobra i do wyboru właściwych środków do jego pełnienia” (n. 1806). Roztropność nie jest niezdecydowaniem, nie jest postawą obronną. Jest cnotą Pasterza, który, aby mądrze służyć, potrafi rozeznawać, wyczulony na nowość Ducha. Zatem ożywianie daru w ogniu Ducha jest przeciwieństwem godzenia się, aby sprawy szły naprzód, bez czynienia czegokolwiek. A wierność nowości Ducha jest łaską, o którą musimy prosić w modlitwie. Niech Ten, który wszystko czyni nowym, obdarzy nas swoją śmiałą roztropnością; natchnie nasz Synod do odnowienia dróg Kościoła w Amazonii, aby nie zagasł ogień misji.
Ogień Boga, podobnie jak w wydarzeniu krzewu płonącego, pali się, ale się nie spala (por. Wj 3,2). Jest to ogień miłości, który rozświetla, ogrzewa i daje życie, a nie ogień, który wybucha i pożera. Kiedy bez miłości i szacunku pożerane są ludy i kultury, nie jest to ogień Boży, lecz ogień świata. A jednak ileż razy dar Boży nie był ofiarowany, ale narzucany, ile razy miała miejsce kolonizacja zamiast ewangelizacji! Niech Bóg nas strzeże przed chciwością nowych kolonializmów. Niszczący ogień wzniecony przez interesy, jak ten, który niedawno zdewastował Amazonię, nie jest ogniem Ewangelii. Ogień Boga jest ciepłem, które przyciąga i gromadzi w jedności. Żywi się poprzez dzielenie, a nie zyski. Natomiast ogień pożerający wybucha wówczas, kiedy pragnie się realizować tylko własne idee, stworzyć własną grupę, spalić różnorodności, aby wszystko i wszystkich ujednolicić.
Ożywić dar; przyjąć śmiałą roztropność Ducha, będąc wiernymi jej nowości. Święty Paweł kieruje ostatnią zachętę: „Nie wstydź się świadectwa Pana naszego ani mnie, Jego więźnia, lecz weź udział w trudach i przeciwnościach znoszonych dla Ewangelii” (2Tm 1, 8). Prosi, abyśmy dawali świadectwo Ewangelii, cierpieli dla Ewangelii, jednym słowem, by żyć dla Ewangelii. Głoszenie Ewangelii jest głównym kryterium życia Kościoła: to jest jego misja, jego tożsamość. Wkrótce potem Paweł pisze: „krew moja już ma być wylana na ofiarę” (4,6). Głoszenie Ewangelii to życie ofiarą, świadczenie aż do końca, to uczynienie siebie wszystkim dla wszystkich (por. 1 Kor 9, 22), to miłowanie, aż po męczeństwo. Dziękuję Bogu, bo w Kolegium Kardynałów są niektórzy bracia Kardynałowie męczennicy, którzy doświadczyli w życiu krzyża męczeństwa. Istotnie, jak podkreśla Apostoł, służymy Ewangelii nie mocą świata, lecz jedynie mocą Boga: zawsze trwając w pokornej miłości, wierząc, że jedynym sposobem, by naprawdę posiadać życie, jest utracenie go ze względu na miłość.
Drodzy bracia, spójrzmy razem na Jezusa Ukrzyżowanego, na Jego serce przebite dla nas. Rozpocznijmy od tego miejsca, ponieważ stamtąd przyszedł dar, który nas zrodził; stamtąd wylany został Duch, który odnawia (por. J 19, 30). Stamtąd poczujmy się powołani, wszyscy i każdy z osobna, do ofiarowania życia. Wielu braci i wiele sióstr w Amazonii nosi ciężkie krzyże i oczekuje wyzwalającego pocieszenia Ewangelii, czułej miłości Kościoła. Wielu braci i wiele sióstr w Amazonii oddało swoje życie. Pozwólcie, że powtórzę słowa naszego umiłowanego kardynała Hummesa: kiedy przybywa do tych małych miast Amazonii, idzie na cmentarze, aby szukać grobów misjonarzy. Taki gest Kościoła wobec tych, którzy oddali życie w Amazonii. A potem, z pewną dozą przebiegłości, mówi Papieżowi: „Nie zapominaj o nich. Zasługują na to, żeby byli kanonizowani”. Dla nich, dla tych, którzy dają życie teraz, dla tych, którzy oddali własne życie, wraz z nimi podążajmy razem.
[01589-PL.02] [Testo originale: Italiano]
[B0779-XX.02]