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Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 13 nuovi Cardinali, 05.10.2019


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Alle ore 16 di questo pomeriggio, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha tenuto un Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 13 nuovi Cardinali, per l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo o Diaconia.

La celebrazione è iniziata con il saluto, l’orazione e la lettura di un passo del Vangelo secondo Marco (6,30-37a). Quindi il Papa ha pronunciato l’omelia.

Il Santo Padre ha letto poi la formula di creazione e ha proclamato solennemente i nomi dei nuovi Cardinali, annunciandone l’Ordine presbiterale o diaconale. Il Rito è proseguito con la professione di fede dei nuovi Cardinali davanti al popolo di Dio e il giuramento di fedeltà e obbedienza a Papa Francesco e ai Suoi successori.

I nuovi Cardinali, secondo l’ordine di creazione, si sono inginocchiati dinanzi al Santo Padre che ha imposto loro lo zucchetto e la berretta cardinalizia, ha consegnato l’anello e assegnato a ciascuno una chiesa di Roma quale segno di partecipazione alla sollecitudine pastorale del Papa nell’Urbe.

Dopo la consegna della Bolla di creazione cardinalizia e di assegnazione del Titolo o della Diaconia, il Santo Padre Francesco ha scambiato con ciascun neo Cardinale l’abbraccio di pace.

Riportiamo di seguito il testo dell’Omelia che il Santo Padre Francesco ha pronunciato nel corso del Concistoro:

Omelia del Santo Padre

Al centro del racconto evangelico che abbiamo ascoltato (Mc 6,30-37a) c’è la «compassione» di Gesù (cfr v. 34). Compassione, parola-chiave del Vangelo; è scritta nel cuore di Cristo, è scritta da sempre nel cuore di Dio.

Nei Vangeli vediamo molte volte Gesù che sente compassione per le persone sofferenti. E più leggiamo, più contempliamo, e più comprendiamo che la compassione del Signore non è un atteggiamento occasionale, sporadico, ma è costante, anzi, sembra essere l’atteggiamento del suo cuore, nel quale si è incarnata la misericordia di Dio.

Marco, ad esempio, riferisce che quando Gesù incominciò ad andare per la Galilea predicando e scacciando i demoni, «venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (1,40-42). In questo gesto e in queste parole c’è la missione di Gesù Redentore dell’uomo: Redentore nella compassione. Lui incarna la volontà di Dio di purificare l’essere umano malato dalla lebbra del peccato; Lui è “la mano tesa di Dio” che tocca la nostra carne malata e compie quest’opera colmando l’abisso della separazione.

Gesù va a cercare le persone scartate, quelli che ormai sono senza speranza. Come quell’uomo paralitico da trentotto anni, che giace presso la piscina di Betzatà, aspettando invano che qualcuno lo aiuti a scendere nell’acqua (cfr Gv 5,1-9).

Questa compassione non è spuntata a un certo punto della storia della salvezza, no, è sempre stata in Dio, impressa nel suo cuore di Padre. Pensiamo al racconto della vocazione di Mosè, per esempio, quando Dio gli parla dal roveto ardente e gli dice: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido […]: conosco le sue sofferenze» (Es 3,7). Ecco la compassione del Padre!

L’amore di Dio per il suo popolo è tutto impregnato di compassione, al punto che, in questa relazione di alleanza, ciò che è divino è compassionevole, mentre purtroppo sembra che ciò che è umano ne sia tanto privo, tanto lontano. Lo dice Dio stesso: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? […] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. […] Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11,8-9).

I discepoli di Gesù dimostrano spesso di essere senza compassione, come in questo caso, di fronte al problema delle folle da sfamare. Loro in sostanza dicono: “Che si arrangino…”. È un atteggiamento comune a noi umani, anche quando siamo persone religiose o addirittura addette al culto. Ce ne laviamo le mani. Il ruolo che occupiamo non basta a farci essere compassionevoli, come dimostra il comportamento del sacerdote e del levita che, vedendo un uomo moribondo sul ciglio della strada, passarono oltre dall’altra parte (cfr Lc 10,31-32). Dentro di sé avranno detto: “Non tocca a me”. Sempre c’è qualche pretesto, qualche giustificazione per guardare da un’altra parte. E quando un uomo di Chiesa diventa un funzionario, questo l’esito più amaro. Ci sono sempre delle giustificazioni, a volte sono anche codificate e danno luogo a degli “scarti istituzionali”, come nel caso dei lebbrosi: “Certo, devono stare fuori, è giusto così”. Così si pensava, e così si pensa. Da questo atteggiamento molto, troppo umano derivano anche strutture di non-compassione.

A questo punto possiamo domandarci: siamo coscienti, noi per primi, di essere stati oggetto della compassione di Dio? Mi rivolgo in particolare a voi, fratelli Cardinali e in procinto di diventarlo: è viva in voi questa consapevolezza? Di essere stati e di essere sempre preceduti e accompagnati dalla sua misericordia? Questa coscienza era lo stato permanente del cuore immacolato della Vergine Maria, che loda Dio come il “suo salvatore” che «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48).

A me fa tanto bene rispecchiarmi nella pagina di Ezechiele 16: la storia d’amore di Dio con Gerusalemme; in quella conclusione: «Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto» (Ez 16,62-63). Oppure in quell’altro oracolo di Osea: «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. […] Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto» (2,16-17). Possiamo domandarci: sento su di me la compassione di Dio? Sento su di me la sicurezza di essere figlio di compassione?

È viva in noi la coscienza di questa compassione di Dio per noi? Non si tratta di una cosa facoltativa, e nemmeno, direi, di un “consiglio evangelico”. No. Si tratta di un requisito essenziale. Se io non mi sento oggetto della compassione di Do, non comprendo il suo amore. Non è una realtà che si possa spiegare. O la sento o non la sento. E se non la sento, come posso comunicarla, testimoniarla, donarla? Anzi, non potrò fare questo. Concretamente: ho compassione per quel fratello, per quel vescovo, quel prete?… Oppure sempre distruggo con il mio atteggiamento di condanna, di indifferenza, di guardare da un’alta parte, in realtà per lavarmene le mani?

Da questa consapevolezza viva dipende per tutti noi anche la capacità di essere leale nel proprio ministero. Anche per voi, fratelli Cardinali. La parola “compassione” mi è venuta nel cuore proprio nel momento di incominciare a scrivere a voi la lettera del 1° settembre. La disponibilità di un Porporato a dare il proprio sangue – significata dal colore rosso dell’abito – è sicura quando è radicata in questa coscienza di aver ricevuto compassione e nella capacità di avere compassione. Diversamente, non si può essere leali. Tanti comportamenti sleali di uomini di Chiesa dipendono dalla mancanza di questo senso della compassione ricevuta, e dall’abitudine di guardare da un’altra parte, dall’abitudine dell’indifferenza.

Chiediamo oggi, per intercessione dell’Apostolo Pietro, la grazia di un cuore compassionevole, per essere testimoni di Colui che ci ha amato e ci ama, che ci ha guardato con misericordia, che ci ha eletti, ci ha consacrati e ci ha inviati a portare a tutti il suo Vangelo di salvezza.

[01586-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Au centre du récit évangélique que nous avons écouté (Mc 6, 30-37a), il y a la «compassion» de Jésus (cf. v. 34). Compassion, mot-clé de l’Évangile; il est écrit dans le cœur du Christ, il est écrit depuis toujours dans le cœur de Dieu.

Dans les Évangiles, nous voyons plusieurs fois Jésus éprouver de la compassion pour les personnes souffrantes. Et plus nous lisons, plus nous contemplons, et plus nous comprenons que la compassion du Seigneur n’est pas une attitude occasionnelle, sporadique, mais elle est constante, mieux, elle semble être la disposition de son cœur, dans lequel s’est incarnée la miséricorde de Dieu.

Marc, par exemple, rapporte que, quand Jésus a commencé à aller à travers la Galilée en prêchant et en chassant les démons, «un lépreux vient auprès de lui; il le supplie et, tombant à ses genoux, lui dit: “Si tu le veux, tu peux me purifier”. Saisi de compassion, Jésus étendit la main, le toucha et lui dit: “Je le veux, sois purifié”. À l’instant même, la lèpre le quitta et il fut purifié» (1, 40-42). Dans ce geste et dans ces paroles, il y a la mission de Jésus Rédempteur de l’homme: Rédempteur dans la compassion. Il incarne la volonté de Dieu de purifier l’être humain malade de la lèpre du péché; il est “la main tendue de Dieu” qui touche notre chair malade et accomplit cette œuvre en comblant l’abîme de la séparation.

Jésus va à la recherche des personnes rejetées, celles qui n’ont plus d’espérance. Comme cet homme paralytique de trente-huit ans qui gît à côté de la piscine de Bethzatha, attendant en vain que quelqu’un l’aide à descendre dans l’eau (cf. Jn 5, 1-9).

Cette compassion n’a pas émergé seulement à un certain moment de l’histoire du salut, non, elle a toujours été en Dieu, gravée dans son cœur de Père. Pensons, par exemple, au récit de la vocation de Moïse, quand Dieu lui parle du buisson ardent et lui dit: «J’ai vu, oui, j’ai vu la misère de mon peuple qui est en Égypte, et j’ai entendu ses cris […]. Oui, je connais ses souffrances» (Ex 3, 7). Voilà la compassion du Père!

L’amour de Dieu pour son peuple est tout imprégné de compassion, au point que, dans cette relation d’alliance, ce qui est divin est compatissant, tandis que malheureusement il semble que ce qui est humain en soit si dénué, si loin. C’est Dieu même qui le dit: «Vais-je t’abandonner, Éphraïm, et te livrer, Israël? […] Mon cœur se retourne contre moi; en même temps, mes entrailles frémissent. […]. Car moi, je suis Dieu, et non pas homme: au milieu de vous je suis le Dieu saint, et je ne viens pas pour exterminer» (Os 11, 8-9).

Les disciples de Jésus montrent souvent qu’ils sont sans compassion, comme dans ce cas, devant le problème des foules à nourrir. En substance ils disent: “Qu’ils se débrouillent…”. C’est une attitude commune à nous les humains, même quand nous sommes des personnes religieuses ou voire responsables de culte. Nous nous en lavons les mains. Le poste que nous occupons ne suffit pas à nous faire devenir compatissants comme le démontre l’attitude du prêtre et du lévite qui, en voyant un homme moribond au bord de la route, passèrent de l’autre côté (cf. Lc 10, 31-32). En eux-mêmes ils se seraient dit: “Ce n’est pas mon affaire”. Il y a toujours un prétexte, une justification pour regarder d’un autre côté. Et quand un homme d’Église devient un fonctionnaire, c’est plus déplorable. Il y a toujours des justifications; parfois elles sont codifiées et donnent lieu à des “rejets institutionnels”, comme dans le cas des lépreux: “Bien sûr, ils doivent rester dehors, c’est juste comme cela”. C’est ainsi qu’on pensait et c’est ainsi qu’on pense. De cette attitude très, trop humaine dérivent aussi des structures de non-compassion.

A ce stade, nous pouvons nous demander: sommes-nous conscients, d’avoir été, nous en premier, objet de la compassion de Dieu? Je m’adresse en particulier à vous, frères Cardinaux ou sur le point de le devenir: cette conscience est-elle vivante en vous? D’avoir été et d’être toujours précédés et accompagnés par sa miséricorde? Cette conscience était la disposition permanente du cœur immaculé de la Vierge Marie qui loue Dieu comme “son sauveur” qui «s’est penché sur son humble servante» (Lc 1, 48).

Ça me fait me beaucoup de bien de me refléter dans la page d’Ézéchiel 16: l’histoire d’amour de Dieu avec Jérusalem; dans cette conclusion: «Moi, je rétablirai mon alliance avec toi. Alors tu sauras que Je suis le Seigneur. Ainsi tu te souviendras, tu seras couverte de honte. Dans ton déshonneur, tu n’oseras pas ouvrir la bouche quand je te pardonnerai tout ce que tu as fait» (Ez 16, 62-63). Ou bien dans cet autre oracle d’Osée: «Je vais l’entraîner jusqu’au désert, et je lui parlerai cœur à cœur […] Là, elle me répondra comme au temps de sa jeunesse, au jour où elle est sortie du pays d’Égypte» (2, 16-17). Nous pouvons nous demander: est-ce que je sens en moi la compassion de Dieu? Est-ce que je sens en moi la certitude d’être un enfant de la compassion?

La conscience de cette compassion de Dieu pour nous est-elle vivante en nous? Il ne s’agit pas d’une chose facultative, et non plus, je dirais, d’un “conseil évangélique”. Non! Il s’agit d’une exigence essentielle. Si je ne me sens pas objet de la compassion de Dieu, je ne comprends pas son amour. Ce n’est pas une réalité qui peut s’expliquer. Soit je la sens, soit je ne la sens pas. Et si je ne la sens pas, comment puis-je la communiquer, en témoigner, la donner? Au contraire, je ne pourrai pas le faire. Concrètement: ai-je de la compassion pour ce frère, cet évêque, ce prêtre?... Ou bien je détruis toujours par mon attitude de condamnation, d’indifférence, en regardant d’un autre côté, en réalité pour m’en laver les mains?

Pour nous tous aussi, de cette conscience vivante dépend la capacité d’être loyal dans son ministère, y compris pour vous frères Cardinaux. Le mot ‘‘compassion’’ m’est venu à l’esprit juste quand j’allais commencer à rédiger la lettre du 1er septembre que je vous ai adressée. La disponibilité d’un Cardinal à verser son sang – signifiée par la couleur rouge de son habit – est sûre quand elle est enracinée dans cette conscience d’avoir reçu de la compassion et dans la capacité d’avoir de la compassion. Autrement, on ne peut pas être loyal. De nombreuses attitudes déloyales des hommes d’Église dépendent du manque de ce sens de la compassion reçue, et de l’habitude de regarder de l’autre côté, de l’habitude de l’indifférence.

Demandons aujourd’hui, par l’intercession de l’Apôtre Pierre, la grâce d’un cœur compatissant, pour être témoins de Celui qui nous a aimés et nous aime, qui nous a regardés avec miséricorde, et qui nous a choisis, nous a consacrés et nous a envoyés porter à tous son Évangile de salut.

[01586-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

At the heart of the Gospel we have just heard (Mk 6:30-37) is the “compassion” of Jesus (cf. v. 34). Compassion is a key word in the Gospel. It is written in Christ’s heart; it is forever written in the heart of God.

In the Gospels, we often see Jesus’ compassion for those who are suffering. The more we read, the more we contemplate, the more we come to realize that the Lord’s compassion is not an occasional, sporadic emotion, but is steadfast and indeed seems to be the attitude of his heart, in which God’s mercy is made incarnate.

Mark, for example, tells us that when Jesus first passed through Galilee preaching and casting out demons, “a leper came to him begging him, and kneeling said to him, ‘If you choose, you can make me clean’. Moved with pity, Jesus stretched out his hand and touched him, and said to him, ‘I do choose. Be made clean!’” (1:40-42). In this gesture and with these words, we see the mission of Jesus, the Redeemer of mankind. He is a compassionate Redeemer. He incarnates God’s will to purify men and women afflicted by the scourge of sin; he is “the outstretched hand of God”, who touches our sickly flesh and accomplishes this work by bridging the chasm of separation.

Jesus goes out in search of the outcast, those without hope. People like the man paralyzed for thirty-eight years who lay beside the pool of Bethzatha, waiting in vain for someone to bring him to the waters (cf. Jn 5:1-9).

This compassion did not appear suddenly at one moment in the history of salvation. No, it was always there in God, impressed on his paternal heart. Let us think about the account of the calling of Moses, for example, when God spoke from the burning bush and said: “I have observed the misery of my people who are in Egypt; I have heard their cry… indeed, I know their sufferings” (Ex 3:7). This is the compassion of the Father!

God’s love for his people is drenched with compassion, to the extent that, in this covenant relationship, what is divine is compassionate, while, sad to say, it appears that what is human is so often lacking in compassion. God himself says so: “How can I give you up, Ephraim? How can I hand you over, Israel? ... My heart recoils within me; my compassion grows warm and tender… For I am God and no mortal, the holy one in your midst, and I will not come in wrath” (Hos 11:8-9).

Jesus’ disciples often show themselves lacking compassion, as in this case, when they are faced with the problem of having to feed the crowds. In effect, they say: “Let them worry about it themselves…” This is a common attitude among us human beings, even those of us who are religious persons or even religious “professionals”. We wash our hands of it. The position we occupy is not enough to make us compassionate, as we see in the conduct of the priest and Levite who, seeing a dying man on the side of the road, pass to the other side (cf. Lk 10:31-32). They would have thought: “It’s not up to me”. There are always excuses and justifications for looking the other way. And when a man of the Church becomes a mere functionary, the result is even more sour. There are always justifications; at times they are even codified and give rise to “institutional disregard”, as was the case with lepers: “Of course, they have to keep their distance; that is the right thing to do”. That was the way of thinking and it still is. This all too human attitude also generates structures lacking compassion.

At this point we can ask ourselves: are we conscious – we, in the first place – of having been the object of God’s compassion? In a particular way, I ask this of you, brother cardinals and those about to become cardinals: do you have a lively awareness of always having been preceded and accompanied by his mercy? This awareness was always present in the immaculate heart of the Virgin Mary, who praises God as her “Saviour”, for he “looked with favour on the lowliness of his servant” (Lk 1:48).

I find it helpful to see myself reflected in the passage of Ezekiel 16 that speaks of God’s love for Jerusalem. It concludes with the words: “I will establish my covenant with you, and you shall know that I am the Lord, in order that you may remember and be confounded, and never open your mouth again because of your shame, when I forgive you all that you have done” (Ezek 16:62-63). Or again, in that other prophecy of Hosea: “I will bring her into the wilderness and speak tenderly to her… There shall she respond as in the days of her youth, as at the time when she came out of the land of Egypt (2:14-15). We can ask ourselves: Do I feel God’s compassion towards me? Do I sense in me the conviction of being a son of compassion?

Do we have a lively awareness of this compassion that God feels for us? It is not something optional, or a kind of “evangelical counsel”. No, it is essential. Unless I feel that I am the object of God’s compassion, I cannot understand his love. This is not a reality that can be explained. Either I feel it or I don’t. If I don’t feel it, how can I share it, bear witness to it, bestow it on others? Perhaps, I am not able to do this. Concretely: am I compassionate towards this or that brother or sister, that bishop, that priest? … Or do I constantly tear them down by my attitude of condemnation, of indifference, of looking the other way and actually washing my hands of it?

On this lively awareness also depends, for all of us, the ability to be loyal in our own ministry. This also holds true for you, brother cardinals. The word “compassion” came to my mind right from the moment I started writing my letter to you of 1 September. The readiness of a cardinal to shed his own blood – as signified by the scarlet colour of your robes – is secure if it is rooted in this awareness of having been shown compassion and in the ability to show compassion in turn. Otherwise, one cannot be loyal. So many disloyal actions on the part of ecclesiastics are born of the lack of a sense of having been shown compassion, and by the habit of averting one’s gaze, the habit of indifference.

Today, let us implore, through the intercession of the apostle Peter, the grace to have a compassionate heart, in order to be witnesses of the One who loved and still loves us and who has looked with favour upon us, who chose us, consecrated us and sent us to bring to everyone his Gospel of salvation.

[01586-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

 

In der Mitte des Evangeliums, das wir gehört haben (Mk 6,30-37a), steht das »Mitleid« Jesu (vgl. V. 34). Mitleid ist ein Schlüsselwort des Evangeliums; es ist in Christi Herz eingeschrieben, es ist seit jeher in Gottes Herz eingeschrieben.

Viele Male sehen wir in den Evangelien, wie Jesus mit den Leidenden Mitleid empfindet. Und je mehr wir das lesen, je mehr wir das betrachten, desto mehr verstehen wir, dass das Mitleid des Herrn keine gelegentliche, vorübergehende Verhaltensweise, sondern eine Konstante ist, ja, es scheint die Haltung seines Herzens zu sein, in dem die Barmherzigkeit Gottes Fleisch wurde.

Markus zum Beispiel berichtet, dass, als Jesus anfing, in Galiläa umherzuziehen und zu predigen und Dämonen auszutreiben, ein Aussätziger zu ihm kam, vor ihm auf die Knie fiel und sagte: »Wenn du willst, kannst du mich rein machen. Jesus hatte Mitleid mit ihm; er streckte die Hand aus, berührte ihn und sagte: Ich will – werde rein!« (1,40-42). In dieser Geste und in diesen Worten kommt die Sendung Jesu, des Erlösers aller Menschen, zum Ausdruck: er ist ein Erlöser, der mitleidet. Er verkörpert Gottes Willen, den kranken Menschen von dem Aussatz der Sünde rein zu machen; er ist „Gottes ausgestreckte Hand“, die unser krankes Fleisch berührt und dieses Werk vollbringt und so den trennenden Abgrund zuschüttet.

Jesus ist auf der Suche nach den Verworfenen, nach denen, die ohne Hoffnung sind. Wie jener gelähmte Mann, der seit achtunddreißig Jahren am Teich von Betesda liegt und vergeblich darauf wartet, dass ihm jemand hilft, ins Wasser zu steigen (vgl. Joh 5,1-9).

Dieses Mitleid erschien nicht erst zu einem bestimmten Punkt der Heilsgeschichte, nein, es war immer in Gott, eingeprägt in seinem Vaterherzen. Denken wir, zum Beispiel, an den Bericht über die Berufung des Mose, als Gott aus dem brennenden Dornbusch zu ihm spricht und sagt: »Ich habe das Elend meines Volkes in Ägypten gesehen und ihre laute Klage [...] gehört: Ich kenne sein Leid« (Ex 3,7). Da sehen wir das Mitleid des Vaters!

Gottes Liebe zu seinem Volk ist so voller Mitleid, dass in dieser Bundesbeziehung die göttliche Seite mitleidend ist, während es auf der menschlichen Seite diesbezüglich weit fehlt. Gott selbst sagt: »Wie könnte ich dich preisgeben, Efraim, wie dich ausliefern, Israel? […] Gegen mich selbst wendet sich mein Herz, heftig entbrannt ist mein Mitleid. […] Denn ich bin Gott, nicht ein Mensch, der Heilige in deiner Mitte. Darum komme ich nicht in der Hitze des Zorns« (Hos 11,8-9).

Die Jünger Jesu zeigen oft, dass sie ohne Mitleid sind, wie damals, als sie vor dem Problem standen, die vielen Menschen zu sättigen. Letztlich sagen sie: „Die sollen zusehen, wie sie zurechtkommen ...“ Das ist eine unter uns Menschen weit verbreitete Haltung, auch wenn wir religiöse Menschen oder sogar zum Gottesdienst bestimmt sind. Wir waschen unsere Hände in Unschuld. Das Amt, das wir bekleiden, reicht nicht aus, um uns mitfühlend zu machen, wie das Verhalten des Priesters und des Leviten zeigt, die vorübergingen, als sie einen Mann halbtot am Straßenrand liegen sahen (vgl. Lk 10,31-32). Sie werden sich wohl gedacht haben: „Das ist nicht mein Job.“ Es gibt immer irgendeinen Verwand, irgendeine Ausrede, um wegzuschauen. Und wenn ein Mann der Kirche zum Funktionär wird, ist das ganz bitter. Es gibt immer Ausreden; manchmal werden diese sogar zum Gesetz und führen zu „institutionellen Aussonderungen“, wie im Falle der Aussätzigen: „Natürlich müssen die draußen bleiben, das ist richtig so.“ So dachte man, und so denkt man. Aus dieser sehr menschlichen, ja allzu menschlichen Haltung leiten sich auch Strukturen der Mitleidslosigkeit ab.

An dieser Stelle können wir uns fragen: Sind wir uns bewusst, wir als Erste, dass wir alle Gottes Mitleid empfangen haben? Ich wende mich insbesondere an euch, meine Brüder Kardinäle, und euch, die ihr gleich zu Kardinälen werdet: Ist dieses Bewusstsein in euch lebendig? Dass nämlich seine Barmherzigkeit euch immer schon vorausgegangen ist und begleitet hat? Dieses Bewusstsein prägte ständig das unbefleckte Herz der Jungfrau Maria, die Gott als „ihren Retter“ preist, der »auf die Niedrigkeit seiner Magd« geschaut hat« (Lk 1,48).

Mir tut es sehr gut, mich im Spiegel von Ezechiel 16, der Liebesgeschichte Gottes mit Jerusalem, zu betrachten, wo es zusammenfassend heißt: »Ich selbst richte meinen Bund mit dir auf, damit du erkennst, dass ich der Herr bin. So sollst du gedenken, sollst dich schämen und wirst vor Scham den Mund nicht mehr öffnen können, weil ich dir Versöhnung gewähre für alles, was du getan hast« (Ez 16,62-63). Oder im anderen Prophetenwort von Hosea: »Ich werde sie in die Wüste gehen lassen und ihr zu Herzen reden. […] Dort wird sie mir antworten wie in den Tagen ihrer Jugend, wie am Tag, als sie aus dem Land Ägypten heraufzog« (2,16-17). Wir können uns fragen: Fühle ich an mir Gottes Mitleid? Fühle ich an mir die Gewissheit, Kind Gottes zu sein, das sein Mitleid empfängt?

Ist in uns das Bewusstsein für dieses Mitleid Gottes für uns lebendig? Hier geht es nicht um etwas Optionales und auch nicht, würde ich sagen, um einen „evangelischen Rat“. Nein. Es handelt sich dabei um eine wesentliche Voraussetzung. Wenn ich nicht fühle, dass ich Gottes Mitleid empfangen habe, verstehe ich seine Liebe nicht. Das ist nicht etwas, das man erklären könnte. Entweder ich fühle es oder ich fühle es nicht. Und wenn ich es nicht fühle, wie kann ich es dann kommunizieren, bezeugen, weitergeben? Ja, vielmehr werde ich das nicht tun können. Konkret: Habe ich Mitleid mit diesem Bruder, diesem Bischof, diesem Priester? ... Oder bin ich immer destruktiv mit meinem Urteilen, mit meiner Gleichgültigkeit, mit meiner Haltung wegzuschauen, um in Wahrheit meine Hände in Unschuld zu waschen?

Von diesem lebendigen Bewusstsein hängt es für uns alle auch ab, ob man fähig ist, in seinem Dienst aufrichtig zu sein. Das gilt auch für euch, liebe Brüder Kardinäle. Das Wort „Mitleid“ kam mir genau in dem Moment in den Sinn, als ich den Brief vom 1. September an euch schrieb. Die Bereitschaft eines Kardinals, das eigene Blut hinzugeben – dafür steht die rote Farbe des Gewandes – ist dann gewiss, wenn sie in dem Bewusstsein, Mitleid empfangen zu haben, und in der Fähigkeit, Mitleid zu haben, begründet ist. Andernfalls kann man nicht aufrichtig sein. Viele unaufrichtige Verhaltensweisen von Kirchenleuten haben ihre Ursache im Mangel an diesem Gespür für das empfangene Mitleid und in der Gewohnheit wegzuschauen, in der Gewohnheit der Gleichgültigkeit.

Bitten wir heute, im Vertrauen auf die Fürsprache des Apostels Petrus, um die Gnade eines mitleidenden Herzens, damit wir Zeugen dessen sind, der uns geliebt hat und liebt, der uns mit Barmherzigkeit angesehen hat, der uns erwählt, geweiht und gesandt hat, um allen sein Evangelium der Erlösung zu bringen.

[01586-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

En el centro del episodio evangélico que hemos escuchado (Mc 6,30-37a) está la «compasión» de Jesús (cf. v. 34). Compasión, una palabra clave del Evangelio; está escrita en el corazón de Cristo, está escrita desde siempre en el corazón de Dios.

En los Evangelios, a menudo vemos a Jesús que siente compasión por las personas que sufren. Y cuanto más leemos y contemplamos, mejor entendemos que la compasión del Señor no es una actitud ocasional y esporádica, sino constante, es más, parece ser la actitud de su corazón, en el que se encarnó la misericordia de Dios.

Marcos, por ejemplo, cuenta que cuando Jesús empezó a recorrer Galilea predicando y expulsando a los demonios, se le acercó un leproso, «suplicándole de rodillas: “Si quieres, puedes limpiarme”. Compadecido, extendió la mano y lo tocó diciendo: “Quiero: queda limpio”» (1,40-42). En este gesto y en estas palabras está la misión de Jesús Redentor del hombre: Redentor en la compasión. Él encarna la voluntad de Dios de purificar al ser humano enfermo de la lepra del pecado; Él es la “mano extendida de Dios” que toca nuestra carne enferma y realiza esta obra llenando el abismo de la separación.

Jesús va a buscar a las personas descartadas, las que ya no tienen esperanza. Como ese hombre paralítico durante treinta y ocho años, postrado cerca de la piscina de Betesda, esperando en vano que alguien lo ayude a bajar al agua (cf. Jn 5,1-9).

Esta compasión no ha surgido en un momento concreto de la historia de la salvación, no, siempre ha estado en Dios, impresa en su corazón de Padre. Pensemos a la historia de la vocación de Moisés, por ejemplo, cuando Dios le habla desde la zarza ardiente y le dice: «He visto la opresión de mi pueblo en Egipto y he oído sus quejas [...]; conozco sus sufrimientos» (Ex 3,7). Ahí está la compasión del Padre.

El amor de Dios por su pueblo está imbuido de compasión, hasta el punto que, en esta relación de alianza, lo divino es compasivo, mientras parece que por desgracia lo humano está muy desprovisto de ella, y le resulta lejana. Dios mismo lo dice: «¿Cómo podría abandonarte, Efraín, entregarte, Israel? […] Mi corazón está perturbado, se conmueven mis entrañas. […] Porque yo soy Dios, y no hombre; santo en medio de vosotros, y no me dejo llevar por la ira» (Os 11,8-9).

Los discípulos de Jesús demuestran con frecuencia que no tienen compasión, como en este caso, ante el problema de dar de comer a las multitudes. Básicamente dicen: “Que se las arreglen...”. Es una actitud común entre nosotros los humanos, también para las personas religiosas e incluso dedicadas al culto. Nos lavamos las manos. El papel que ocupamos no es suficiente para hacernos compasivos, como lo demuestra el comportamiento del sacerdote y el levita que, al ver a un hombre moribundo al costado del camino, pasaron de largo dando un rodeo (cf. Lc 10,31-32). Habrán pensado para sí: “No me concierne”. Siempre hay un pretexto, alguna justificación para mirar hacia otro lado. Y cuando una persona de Iglesia se convierte en funcionario, este es el resultado más amargo. Siempre hay justificaciones; a veces están codificadas y dan lugar a los “descartes institucionales”, como en el caso de los leprosos: “Por supuesto, han de estar fuera, es lo correcto”. Así se pensaba, y así se piensa. De esta actitud muy, demasiado humana, se derivan también estructuras de no-compasión.

Llegados a este punto podemos preguntarnos: ¿Somos conscientes de que hemos sido los primeros en ser objeto de la compasión de Dios? Me dirijo en particular a vosotros, hermanos Cardenales y a los que estáis a punto de serlo: ¿Está viva en vosotros esta conciencia, de haber sido y de estar siempre precedidos y acompañados por su misericordia? Esta conciencia era el estado permanente del corazón inmaculado de la Virgen María, quien alaba a Dios como a “su salvador” que «ha mirado la humildad de su esclava» (Lc 1,48).

A mí me ayudó mucho verme reflejado en la página de Ezequiel 16: la historia del amor de Dios con Jerusalén; en esa conclusión: «Yo estableceré mi alianza contigo y reconocerás que yo soy el Señor, para que te acuerdes y te avergüences y no te atrevas nunca más a abrir la boca por tu oprobio, cuando yo te perdone todo lo que hiciste» (62-63). O en ese otro oráculo de Oseas: «La llevo al desierto, le hablo al corazón. […] Allí responderá como en los días de su juventud, como el día de su salida de Egipto» (2,16-17). Podemos preguntarnos: ¿percibo en mí la compasión de Dios?, ¿siento en mí la seguridad de ser hijo de la compasión?

¿Tenemos viva en nosotros la conciencia de esta compasión de Dios hacia nosotros? No es una opción, ni siquiera diría de un “consejo evangélico”. No. Se trata de un requisito esencial. Si no me siento objeto de la compasión de Dios, no comprendo su amor. No es una realidad que se pueda explicar. O la siento o no la siento. Y si no la siento, ¿cómo puedo comunicarla, testimoniarla, darla? Más bien, no podré hacerlo. Concretamente: ¿Tengo compasión de ese hermano, de ese obispo, de ese sacerdote? ¿O destruyo siempre con mi actitud de condena, de indiferencia, de mirar para otro lado, en realidad para lavarme las manos?

La capacidad de ser leal en el propio ministerio depende para todos nosotros también de esta conciencia viva. También para vosotros, hermanos Cardenales. La palabra “compasión” me vino al corazón precisamente en el momento de comenzar a escribiros la carta del 1 de septiembre. La disponibilidad de un Purpurado a dar su propia sangre —que está simbolizada por el color rojo de la vestidura—, es segura cuando se basa en esta conciencia de haber recibido compasión y en la capacidad de tener compasión. De lo contrario, no se puede ser leal. Muchos comportamientos desleales de hombres de Iglesia dependen de la falta de este sentido de la compasión recibida, y de la costumbre de mirar a otra parte, la costumbre de la indiferencia.

Pidamos hoy, por intercesión del apóstol Pedro, la gracia de un corazón compasivo, para que seamos testigos de Aquel que nos amó y nos ama, que nos miró con misericordia, que nos eligió, nos consagró y nos envió a llevar a todos su Evangelio de salvación.

[01586-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

No centro da narração evangélica que ouvimos (Mc 6, 30-37a) está a «compaixão» de Jesus (cf. 6, 34). Compaixão, palavra-chave do Evangelho; está escrita no coração de Cristo, desde sempre está escrita no coração de Deus.

Nos Evangelhos, vemos frequentemente Jesus sentindo compaixão pelas pessoas que sofrem. E quanto mais lemos, mais contemplamos e mais entendemos que a compaixão do Senhor não é uma atitude ocasional e esporádica, mas é constante; mais, parece ser a atitude do seu coração, no qual encarnou a misericórdia de Deus.

Marcos, por exemplo, refere que Jesus, quando começou a andar pela Galileia pregando e expulsando os demónios, «um leproso veio ter com Ele, caiu de joelhos e suplicou: “Se quiseres, podes purificar-me”. Compadecido, Jesus estendeu a mão, tocou-o e disse-lhe: “Quero, fica purificado”» (1, 40-42). Neste gesto e nestas palavras, temos a missão de Jesus, Redentor do homem: Redentor na compaixão. Ele encarna a vontade de Deus de purificar o ser humano doente da lepra do pecado; Ele é a «mão estendida de Deus», que toca a nossa carne enferma e, fazendo-o, preenche o abismo da separação.

Jesus vai procurar as pessoas descartadas, aquelas que já estão sem esperança. Como aquele homem, paralítico há trinta e oito anos que jaz perto da piscina de Betzatà esperando, em vão, por alguém que o ajude a mergulhar na água (cf. Jo 5, 1-9).

Esta compaixão não despontou a certo ponto da história da salvação. Não! Sempre existiu em Deus, gravada no seu coração de Pai. Pensemos, por exemplo, na narração da vocação de Moisés, quando Deus lhe fala da sarça ardente dizendo: «Eu bem vi a opressão do meu povo que está no Egito, e ouvi o seu clamor, (...) conheço, na verdade, os seus sofrimentos» (Ex 3, 7). Eis a compaixão do Pai.

O amor de Deus pelo seu povo está todo impregnado de compaixão, a ponto de, nesta relação de aliança, o que é divino é compassivo, enquanto aquilo que é humano aparece, infelizmente, tão desprovido, tão longe da compaixão. Di-lo o próprio Deus: «Como poderia abandonar-te, ó Efraim? Entregar-te, ó Israel? (...) O meu coração dá voltas dentro de mim, comovem-se as minhas entranhas (…), porque sou Deus e não um homem, sou o Santo no meio de ti e não Me deixo levar pela ira» (Os 11, 8-9).

Muitas vezes, os discípulos de Jesus dão provas de não sentir compaixão, como neste caso da multidão faminta. Basicamente dizem: «Que se arranjem!» É uma atitude comum entre nós, seres humanos, mesmo em pessoas religiosas ou até ligadas ao culto. Lavamos daí as nossas mãos. A função que desempenhamos não basta para nos fazer compassivos, como demonstra o comportamento do sacerdote e do levita que, vendo um homem moribundo na beira da estrada, passaram ao largo (cf. Lc 10, 31-32). Terão dito para consigo: «Não é da minha competência». Há sempre qualquer pretexto, qualquer justificação para se passar ao largo. E, quando um homem de Igreja se torna um funcionário, esta é a saída mais amarga. Há sempre justificações; às vezes até se tornam lei, dando origem a «descartados institucionais», como no caso dos leprosos: «É certo que devem estar fora; é justo assim». Assim se pensava, e assim se continua a pensar. Deste comportamento muito humano, demasiado humano, derivam também estruturas de não-compaixão.

Neste ponto, podemos perguntar-nos: estamos conscientes – a começar por nós – de que fomos objeto da compaixão de Deus? Dirijo-me em particular a vós, irmãos já Cardeais ou próximo a sê-lo: está viva em vós esta consciência? A consciência de ter sido e continuar a ser incessantemente precedidos e acompanhados pela sua misericórdia? Esta consciência era o estado permanente do coração imaculado da Virgem Maria, que louva a Deus como seu «Salvador, porque pôs os olhos na humildade da sua serva» (Lc 1, 48).

A mim, ajuda-me muito rever-me no capítulo 16 de Ezequiel – a história do amor de Deus por Jerusalém –, mais concretamente na conclusão: «Estabelecerei contigo a minha aliança e, então, saberás que Eu sou o Senhor, a fim de que te lembres de Mim e sintas vergonha e não abras mais a boca no meio da tua confusão, quando Eu te perdoar tudo o que fizeste» (16, 62-63). Ou então neste oráculo de Oseias: «Ao deserto a conduzirei, para lhe falar ao coração. (...) Aí, ela responderá como no tempo da sua juventude, como nos dias em que subiu da terra do Egito» (2, 16-17). Podemos perguntar-nos: Sinto a compaixão de Deus por mim? Sinto em mim a segurança de ser filho da compaixão?

Em nós, está viva a consciência desta compaixão de Deus por nós? Não se trata duma coisa facultativa, nem – diria – dum «conselho evangélico». Não! É um requisito essencial. Se não me sinto objeto da compaixão de Deus, não compreendo o seu amor. Não é uma realidade que se possa explicar. Ou a sinto, ou não. E, se não a sinto, como posso comunicá-la, testemunhá-la, dá-la? Na verdade, não conseguirei fazê-lo. Concretamente: Tenho compaixão pelo irmão tal, pelo bispo tal, pelo padre tal? Ou sempre destruo com a minha atitude de condenação, de indiferença, de passar ao largo para, na prática, me lavar as mãos disso?

Desta consciência viva depende para todos nós também a capacidade de ser leal no próprio ministério. Vale também para vós, irmãos Cardeais. A palavra «compaixão» subiu-me do coração precisamente no momento em que comecei a escrever-vos a carta do passado dia 1 de setembro. A disponibilidade de um Purpurado para dar o seu próprio sangue – significado na cor vermelha das suas vestes – é certa, quando está enraizada nesta consciência de ter recebido compaixão e na capacidade de ter compaixão. Caso contrário, não se pode ser leal. Muitos comportamentos desleais de homens de Igreja dependem da falta deste sentimento da compaixão recebida e do hábito de passar ao largo, do hábito da indiferença.

Peçamos hoje, por intercessão do apóstolo Pedro, a graça dum coração compassivo, para ser testemunhas d’Aquele que nos amou e continua a amar, que nos olhou com misericórdia, escolheu, consagrou e enviou para levar a todos o seu Evangelho de salvação.

[01586-PO.02] [Texto original: Italiano]

[B0777-XX.02]