Intervento del Santo Padre
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua spagnola
Alle ore 7.50 di questa mattina, il Santo Padre Francesco è partito dall’eliporto del Vaticano per recarsi a Napoli in occasione dell’Incontro promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi sul tema: “La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo” (20-21 giugno 2019).
Dopo l’atterraggio nell’impianto sportivo del Parco Virgiliano di Napoli, alle ore 8.40 il Santo Padre ha raggiunto in auto la Pontificia Facoltà San Luigi. Al Suo arrivo è stato accolto dall’Arcivescovo di Napoli e Gran Cancelliere della Pontificia Facoltà, Em.mo Card. Crescenzio Sepe; dal Vescovo di Nola, S.E. Mons. Francesco Marino; dal Preposito Generale della Compagnia di Gesù, Padre Arturo Sosa Abascal, S.I.; dal Vice Gran Cancelliere della Facoltà e Superiore Provinciale dei Gesuiti, Padre Gianfranco Matarazzo, S.I.; dal Preside della Facoltà, Don Gaetano Castello; dal Vice Preside, Padre Giuseppe Di Luccio, S.I.; dal Superiore della Comunità, Padre Domenico Marafioti, S.I., e dal Rettore del Pontificio Seminario Campano, Padre Francesco Beneduce, S.I.
La seduta pubblica dell’Incontro ha avuto luogo sul piazzale antistante la Facoltà. Dopo i vari interventi della seconda giornata dei lavori, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine dell’incontro, il Papa ha salutato i Docenti della Facoltà e la Comunità dei Gesuiti. Lasciata la Facoltà Teologica, alle ore 13.12 è partito in elicottero dal Parco Virgiliano di Napoli per fare rientro in Vaticano.
Pubblichiamo di seguito l’intervento che il Santo Padre Francesco ha pronunciato nel corso dell’Incontro:
Intervento del Santo Padre
Cari studenti e professori,
Cari fratelli Vescovi e Sacerdoti,
Signori Cardinali!
Sono lieto di incontrarmi oggi con voi e di prendere parte a questoConvegno. Ricambio di cuore il saluto del caro fratello il Patriarca Bartolomeo, un grande precursore della Laudato si’ – da anni precursore –, che ha voluto contribuire alla riflessione con un suo personale messaggio. Grazie a Bartolomeo, fratello amato.
Il Mediterraneo è da sempre luogo di transiti, di scambi, e talvolta anche di conflitti. Ne conosciamo tanti. Questo luogo oggi ci pone una serie di questioni, spesso drammatiche. Esse si possono tradurre in alcune domande che ci siamo posti nell’incontro interreligioso di Abu Dhabi: come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché muri di separazione? Queste e altre questioni chiedono di essere interpretate a più livelli, e domandano un impegno generoso di ascolto, di studio e di confronto per promuovere processi di liberazione, di pace, di fratellanza e di giustizia. Dobbiamo convincerci: si tratta di avviare processi, non di fare definizioni di spazi, occupare spazi... Avviare processi.
Una teologia dell’accoglienza e del dialogo
Nel corso di questo Convegno avete prima analizzato contraddizioni e difficoltà nello spazio del Mediterraneo, e poi vi siete interrogati sulle soluzioni migliori. A questo proposito, vi chiedete quale teologia sia adeguata al contesto in cui vivete e operate. Direi che la teologia, particolarmente in tale contesto, è chiamata ad essere una teologia dell’accoglienza e a sviluppare un dialogo sincero con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per la costruzione nella pace di una società inclusiva e fraterna e anche per la custodia del creato.
Quando nel Proemio della Veritatis gaudium si menziona l’approfondimento del kerygma e il dialogo come criteri per rinnovare gli studi, si intende dire che essi sono al servizio del cammino di una Chiesa che sempre più mette al centro l’evangelizzazione. Non l’apologetica, non i manuali – come abbiamo sentito –: evangelizzare. Al centro c’è l’evangelizzazione, che non vuol dire proselitismo. Nel dialogo con le culture e le religioni, la Chiesa annuncia la Buona Notizia di Gesù e la pratica dell’amore evangelico che Lui predicava come una sintesi di tutto l’insegnamento della Legge, delle visioni dei Profeti e della volontà del Padre. Il dialogo è anzitutto un metodo di discernimento e di annuncio della Parola d’amore che è rivolta ad ogni persona e che nel cuore di ognuno vuole prendere dimora. Solo nell’ascolto di questa Parola e nell’esperienza dell’amore che essa comunica si può discernere l’attualità del kerygma. Il dialogo, così inteso, è una forma di accoglienza.
Vorrei ribadire che «il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche e morali. Però le trascende. E neppure gli bastano le sagge norme della Chiesa. Ricordiamo sempre che il discernimento è una grazia - un dono -. Il discernimento, insomma, conduce alla fonte stessa della vita che non muore, cioè “che conoscano, l’unico vero Dio, e colui che ha mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 170).
Le scuole di teologia si rinnovano con la pratica del discernimento e con un modo di procedere dialogico capace di creare un corrispondente clima spirituale e di pratica intellettuale. Si tratta di un dialogo tanto nella posizione dei problemi, quanto nella ricerca insieme delle vie di soluzione. Un dialogo capace di integrare il criterio vivo della Pasqua di Gesù con il movimento dell’analogia, che legge nella realtà, nel creato e nella storia nessi, segni e rimandi teologali. Questo comporta l’assunzione ermeneutica del mistero del cammino di Gesù che lo porta alla croce e alla risurrezione e al dono dello Spirito. Assumere questa logica gesuana e pasquale è indispensabile per comprendere come la realtà storica e creata viene interrogata dalla rivelazione del mistero dell’amore di Dio. Di quel Dio che nella storia di Gesù si manifesta ― ogni volta e dentro ogni contraddizione ― più grande nell’amore e nella capacità di recuperare il male.
Entrambi i movimenti sono necessari, complementari: un movimento dal basso verso l’alto che può dialogare, con senso di ascolto e discernimento, con ogni istanza umana e storica, tenendo conto di tutto lo spessore dell’umano; e un movimento dall’alto verso il basso – dove “l’alto” è quello di Gesù innalzato sulla croce – che permette, nello stesso tempo, di discernere i segni del Regno di Dio nella storia e di comprendere in maniera profetica i segni dell’anti-Regno che sfigurano l’anima e la storia umana. È un metodo che permette ― in una dinamica costante ― di confrontarsi con ogni istanza umana e di cogliere quale luce cristiana illumini le pieghe della realtà e quali energie lo Spirito del Crocifisso Risorto sta suscitando, di volta in volta, qui ed ora.
Il modo di procedere dialogico è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Giungere là ― come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli, diciamo ― per poter dialogare in profondità e, se possibile, contribuire al loro sviluppo con l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio, il cui frutto è la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva. Dialogo e annuncio del Vangelo che possono avvenire nei modi tratteggiati da Francesco d’Assisi nella Regola non bollata, proprio all’indomani del suo viaggio nell’oriente mediterraneo. Per Francesco c’è un primo modo in cui, semplicemente, si vive come cristiani: «Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (XVI: FF 43). Vi è poi un secondo modo in cui, sempre docili ai segni e all’azione del Signore Risorto e al suo Spirito di pace, si annuncia la fede cristiana come manifestazione in Gesù dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Mi colpisce tanto quel consiglio di Francesco ai frati: “Predicate il Vangelo; se fosse necessario anche con le parole”. È la testimonianza!
Questa docilità allo Spirito implica uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo – questa è la peste! – e senza un intento aggressivo di confutazione. Una modalità che entra in dialogo “dal di dentro” con gli uomini e con le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose; una modalità che, coerentemente con il Vangelo, comprende anche la testimonianza fino al sacrificio della vita, come dimostrano i luminosi esempi di Charles de Foucauld, dei monaci di Tibhirine, del vescovo di Oran Pierre Claverie e di tanti fratelli e sorelle che, con la grazia di Cristo, sono stati fedeli con mitezza e umiltà e sono morti con il nome di Gesù sulle labbra e la misericordia nel cuore. E qui penso alla nonviolenza come orizzonte e sapere sul mondo, alla quale la teologia deve guardare come proprio elemento costitutivo. Ci aiutano qui gli scritti e le prassi di Martin Luther King e Lanza del Vasto e di altri “artigiani” di pace. Ci aiuta e incoraggia la memoria del Beato Giustino Russolillo, che fu studente di questa Facoltà, e di Don Peppino Diana, il giovane parroco ucciso dalla camorra, che pure studiò qui. E qui vorrei menzionare una sindrome pericolosa, che è la “sindrome di Babele”. Noi pensiamo che la “sindrome di Babele” sia la confusione che si origina nel non capire quello che l’altro dice. Questo è il primo passo. Ma la vera “sindrome di Babele” è quella di non ascoltare quello che l’altro dice e di credere che io so quello che l’altro pensa e che l’altro dirà. Questa è la peste!
Esempi di dialogo per una teologia dell’accoglienza
“Dialogo” non è una formula magica, ma certamente la teologia viene aiutata nel suo rinnovarsi quando lo assume seriamente, quando esso è incoraggiato e favorito tra docenti e studenti, come pure con le altre forme del sapere e con le altre religioni, soprattutto l’Ebraismo e l’Islam. Gli studenti di teologia dovrebbero essere educati al dialogo con l’Ebraismo e con l’Islam per comprendere le radici comuni e le differenze delle nostre identità religiose, e contribuire così più efficacemente all’edificazione di una società che apprezza la diversità e favorisce il rispetto, la fratellanza e la convivenza pacifica.
Educare gli studenti in questo. Io ho studiato nel tempo della teologia decadente, della scolastica decadente, al tempo dei manuali. Fra noi si faceva uno scherzo, tutte le tesi teologiche si provavano con questo schema, un sillogismo: 1° Le cose sembrano essere così. 2° Il cattolicesimo ha sempre ragione. 3° Ergo… Cioè una teologia di tipo difensivo, apologetica, chiusa in un manuale. Noi scherzavamo così, ma erano le cose che a noi presentavano in quel tempo della scolastica decadente.
Cercare una convivenza pacifica dialogica. Con i musulmani siamo chiamati a dialogare per costruire il futuro delle nostre società e delle nostre città; siamo chiamati a considerarli partner per costruire una convivenza pacifica, anche quando si verificano episodi sconvolgenti ad opera di gruppi fanatici nemici del dialogo, come la tragedia della scorsa Pasqua nello Sri Lanka. Ieri il Cardinale di Colombo mi ha detto questo: “Dopo che ho fatto quello che dovevo fare, mi sono accorto che un gruppo di gente, cristiani, voleva andare al quartiere dei musulmani per ammazzarli. Ho invitato l’Imam con me, in macchina, e insieme siamo andati là per convincere i cristiani che noi siamo amici, che quelli sono estremisti, che non sono dei nostri”. Questo è un atteggiamento di vicinanza e di dialogo. Formare gli studenti al dialogo con gli ebrei implica educarli alla conoscenza della loro cultura, del loro modo di pensare, della loro lingua, per comprendere e vivere meglio la nostra relazione sul piano religioso. Nelle facoltà teologiche e nelle università ecclesiastiche sono da incoraggiare i corsi di lingua e cultura araba ed ebraica, e la conoscenza reciproca tra studenti cristiani, ebrei e musulmani.
Vorrei fare due esempi concreti di come il dialogo che caratterizza una teologia dell’accoglienza può essere applicato agli studi ecclesiastici. Anzitutto il dialogo può essere un metodo di studio, oltre che di insegnamento. Quando leggiamo un testo, dialoghiamo con esso e con il “mondo” di cui è espressione; e questo vale anche per i testi sacri, come la Bibbia, il Talmud e il Corano. Spesso, poi, interpretiamo un determinato testo in dialogo con altri della stessa epoca o di epoche diverse. I testi delle grandi tradizioni monoteiste in qualche caso sono il risultato di un dialogo. Si possono dare casi di testi che sono scritti per rispondere a domande su questioni importanti della vita poste da testi che li hanno preceduti. Anche questa è una forma di dialogo.
Il secondo esempio è che il dialogo si può compiere come ermeneutica teologica in un tempo e un luogo specifico. Nel nostro caso: il Mediterraneo all’inizio del terzo millennio. Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte ― storico, geografico, umano ― tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo. Non dimenticare il padre comune.
Una teologia dell’accoglienza è una teologia dell’ascolto
Il dialogo come ermeneutica teologica presuppone e comporta l’ascolto consapevole. Ciò significa anche ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio mediterraneo per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità. Si tratta in particolare di cogliere il modo in cui le comunità cristiane e singole esistenze profetiche hanno saputo ― anche recentemente ― incarnare la fede cristiana in contesti talora di conflitto, di minoranza e di convivenza plurale con altre tradizioni religiose.
Tale ascolto dev’essere profondamente interno alle culture e ai popoli anche per un altro motivo. Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato – se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo – un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza.
La realtà multiculturale e pluri-religiosa del nuovo Mediterraneo si forma con tali narrazioni, nel dialogo che nasce dall’ascolto delle persone e dei testi delle grandi religioni monoteiste, e soprattutto nell’ascolto dei giovani. Penso agli studenti delle nostre facoltà di teologia, a quelli delle università “laiche” o di altre ispirazioni religiose. «Quando la Chiesa ― e, possiamo aggiungere, la teologia ― abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce, perché “consente ai giovani di donare alla comunità il proprio apporto, aiutandola a cogliere sensibilità nuove e a porsi domande inedite”» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 65). A cogliere sensibilità nuove: questa è la sfida.
L’approfondimento del kerygma si fa con l’esperienza del dialogo che nasce dall’ascolto e che genera comunione. Gesù stesso ha annunciato il regno di Dio dialogando con ogni tipo e categoria di persone del Giudaismo del suo tempo: con gli scribi, i farisei, i dottori della legge, i pubblicani, i dotti, i semplici, i peccatori. A una donna samaritana Egli rivelò, nell’ascolto e nel dialogo, il dono di Dio e la sua stessa identità: le aprì il mistero della sua comunione con il Padre e della sovrabbondante pienezza che da questa comunione scaturisce. Il suo divino ascolto del cuore umano apre questo cuore ad accogliere a sua volta la pienezza dell’Amore e la gioia della vita. Non si perde niente con il dialogare. Sempre si guadagna. Nel monologo tutti perdiamo, tutti.
Una teologia interdisciplinare
Una teologia dell’accoglienza che, come metodo interpretativo della realtà, adotta il discernimento e il dialogo sincero necessita di teologi che sappiano lavorare insieme e in forma interdisciplinare, superando l’individualismo nel lavoro intellettuale. Abbiamo bisogno di teologi – uomini e donne, presbiteri, laici e religiosi – che, in un radicamento storico ed ecclesiale e, al tempo stesso, aperti alle inesauribili novità dello Spirito, sappiano sfuggire alle logiche autoreferenziali, competitive e, di fatto, accecanti che spesso esistono anche nelle nostre istituzioni accademiche e nascoste, tante volte, tra le scuole teologiche.
In questo cammino continuo di uscita da sé e di incontro con l’altro, è importante che i teologi siano uomini e donne di compassione – sottolineo questo: che siano uomini e donne di compassione –, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo “mare comune”. Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera – questo è importante: si può fare teologia soltanto “in ginocchio” –, la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà. Senza compassione, attinta dal Cuore di Cristo, i teologi rischiano di essere inghiottiti nella condizione del privilegio di chi si colloca prudentemente fuori dal mondo e non condivide nulla di rischioso con la maggioranza dell’umanità. La teologia di laboratorio, la teologia pura e “distillata”, distillata come l’acqua, l’acqua distillata, che non sa di niente.
Vorrei fare un esempio di come l’interdisciplinarità che interpreta la storia può essere un approfondimento del kerygma e, se animata dalla misericordia, può essere aperta alla trans-disciplinarità. Mi riferisco in particolare a tutti gli atteggiamenti aggressivi e guerreschi che hanno segnato il modo di abitare lo spazio mediterraneo di popoli che si dicevano cristiani. Qui vanno annoverati sia gli atteggiamenti e le prassi coloniali che tanto hanno plasmato l’immaginario e le politiche di tali popoli, sia le giustificazioni di ogni genere di guerre, sia tutte le persecuzioni compiute in nome di una religione o di una pretesa purezza razziale o dottrinale. Queste persecuzioni anche noi le abbiamo fatte. Ricordo, nella Chanson de Roland, dopo aver vinto la battaglia, i musulmani erano messi in fila, tutti, davanti alla vasca del battesimo, alla pila battesimale. C’era uno con la spada, lì. E li facevano scegliere: o ti battezzi o ciao! Te ne vai dall’altra parte. O il battesimo o la morte. Noi abbiamo fatto questo. Rispetto a questa complessa e dolorosa storia, il metodo del dialogo e dell’ascolto, guidato dal criterio evangelico della misericordia, può arricchire molto la conoscenza e la rilettura interdisciplinare, facendo emergere anche, per contrasto, le profezie di pace che lo Spirito non ha mai mancato di suscitare.
L’interdisciplinarità come criterio per il rinnovamento della teologia e degli studi ecclesiastici comporta l’impegno di rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione. Rivisitare la tradizione! E reinterrogare. Infatti, l’ascolto come teologi cristiani non avviene a partire dal nulla, ma da un patrimonio teologico che ― proprio dentro lo spazio mediterraneo ― affonda le radici nelle comunità del Nuovo Testamento, nella ricca riflessione dei Padri e in molteplici generazioni di pensatori e testimoni. È quella tradizione vivente giunta fino a noi che può contribuire a illuminare e decifrare molte questioni contemporanee. A patto però che sia riletta con una sincera volontà di purificazione della memoria, ossia sapendo discernere quanto è stato veicolo dell’intenzione originaria di Dio, rivelata nello Spirito di Gesù Cristo, e quanto invece è stato infedele a tale intenzione misericordiosa e salvifica. Non dimentichiamo che la tradizione è una radice che ci dà vita: ci trasmette la vita perché noi possiamo crescere e fiorire, fruttificare. Tante volte pensiamo alla tradizione come ad un museo. No! La settimana scorsa, o l’altra, ho letto una citazione di Gustav Mahler che diceva: “La tradizione è la garanzia del futuro, non la custode delle ceneri”. È bello! Viviamo la tradizione come un albero che vive, cresce. Già nel secolo quinto Vincenzo di Lérins lo aveva capito bene: la crescita della fede, della tradizione, con questi tre criteri: annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. È la tradizione! Ma senza tradizione tu non puoi crescere! La tradizione per crescere, come la radice per l’albero.
Una teologia in rete
La teologia dopo Veritatis gaudium è una teologia in rete e, nel contesto del Mediterraneo, in solidarietà con tutti i “naufraghi” della storia. Nel compito teologico che ci attende ricordiamo San Paolo e il cammino del cristianesimo delle origini che collega l’oriente con l’occidente. Qui, molto vicino a dove Paolo sbarcò, non si può non ricordare che i viaggi dell’Apostolo furono segnati da evidenti criticità, come nel naufragio al centro del Mediterraneo (At 27,9ss). Naufragio che fa pensare a quello di Giona. Ma Paolo non fugge, e può anzi pensare che Roma sia la sua Ninive. Può pensare di correggere l’atteggiamento disfattista di Giona riscattando la sua fuga. Ora che il cristianesimo occidentale ha imparato da molti errori e criticità del passato, può ritornare alle sue fonti sperando di poter testimoniare la Buona Notizia ai popoli dell’oriente e dell’occidente, del nord e del sud. La teologia ― tenendo la mente e il cuore fissi sul «Dio misericordioso e pietoso» (cfr Gn 4,2) ― può aiutare la Chiesa e la società civile a riprendere la strada in compagnia di tanti naufraghi, incoraggiando le popolazioni del Mediterraneo a rifiutare ogni tentazione di riconquista e di chiusura identitaria. Ambedue nascono, si alimentano e crescono dalla paura. La teologia non si può fare in un ambiente di paura.
Il lavoro delle facoltà teologiche e delle università ecclesiastiche contribuisce all’edificazione di una società giusta e fraterna, in cui la cura del creato e la costruzione della pace sono il risultato della collaborazione tra istituzioni civili, ecclesiali e interreligiose. Si tratta prima di tutto di un lavoro nella “rete evangelica”, cioè in comunione con lo Spirito di Gesù che è Spirito di pace, Spirito di amore all’opera nella creazione e nel cuore degli uomini e delle donne di buona volontà di ogni razza, cultura e religione. Come il linguaggio usato da Gesù per parlare del Regno di Dio, così, analogamente, l’interdisciplinarità e il fare rete vogliono favorire il discernimento della presenza dello Spirito del Risorto nella realtà. A partire dalla comprensione della Parola di Dio nel suo contesto mediterraneo originario è possibile discernere i segni dei tempi in contesti nuovi.
La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo
Ho sottolineato tanto Veritatis gaudium. Vorrei ringraziare pubblicamente qui, perché è presente, mons. Zani, che è stato uno degli artefici di questo documento. Grazie! Qual è dunque il compito della teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo? Al dunque, qual è il compito? Essa deve sintonizzarsi con lo Spirito di Gesù Risorto, con la sua libertà di andare per il mondo e di raggiungere le periferie, anche quelle del pensiero. Ai teologi spetta il compito di favorire sempre nuovamente l’incontro delle culture con le fonti della Rivelazione e della Tradizione. Le antiche architetture del pensiero, le grandi sintesi teologiche del passato sono miniere di sapienza teologica, ma esse non si possono applicare meccanicamente alle questioni attuali. Si tratta di farne tesoro per cercare nuove vie. Grazie a Dio, le fonti prime della teologia, cioè la Parola di Dio e lo Spirito Santo, sono inesauribili e sempre feconde; perciò si può e si deve lavorare nella direzione di una “Pentecoste teologica”, che permetta alle donne e agli uomini del nostro tempo di ascoltare “nella propria lingua” una riflessione cristiana che risponda alla loro ricerca di senso e di vita piena. Perché ciò avvenga sono indispensabili alcuni presupposti.
Innanzitutto, occorre partire dal Vangelo della misericordia, cioè dall’annuncio fatto da Gesù stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione. La teologia nasce in mezzo agli esseri umani concreti, incontrati con lo sguardo e il cuore di Dio, che va in cerca di loro con amore misericordioso. Anche fare teologia è un atto di misericordia. Vorrei ripetere qui, da questa città dove non ci sono solo episodi di violenza, ma che conserva tante tradizioni e tanti esempi di santità ― oltre a un capolavoro di Caravaggio sulle opere di misericordia e la testimonianza del santo medico Giuseppe Moscati ― vorrei ripetere quanto ho scritto alla Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica Argentina: «Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini. La teologia sia espressione di una Chiesa che è “ospedale da campo”, che vive la sua missione di salvezza e di guarigione nel mondo! La misericordia non è solo un atteggiamento pastorale, ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù. Vi incoraggio a studiare come, nelle varie discipline ― la dogmatica, la morale, la spiritualità, il diritto e così via ― possa riflettersi la centralità della misericordia. Senza misericordia, la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale, corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nella ideologia, che di sua natura vuole addomesticare il mistero».1 La teologia, per la via della misericordia, si difende dall’addomesticare il mistero.
In secondo luogo, è necessaria una seria assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto all’incontro con il Signore. «La capacità di intravvedere la presenza di Cristo e il cammino della Chiesa nella storia ci rendono umili, e ci tolgono dalla tentazione di rifugiarci nel passato per evitare il presente. E questa è stata l’esperienza di tanti studiosi, che hanno incominciato, non dico atei, ma un po’ agnostici, e hanno trovato Cristo. Perché la storia non si poteva capire senza questa forza».2
È necessaria la libertà teologica. Senza la possibilità di sperimentare strade nuove non si crea nulla di nuovo, e non si lascia spazio alla novità dello Spirito del Risorto: «A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 40). Questo significa anche una adeguata revisione della ratio studiorum. Sulla libertà di riflessione teologica io farei una distinzione. Fra gli studiosi, bisogna andare avanti con libertà; poi, in ultima istanza, sarà il magistero a dire qualcosa, ma non si può fare una teologia senza questa libertà. Ma nella predicazione al Popolo di Dio, per favore, non ferire la fede del Popolo di Dio con questioni disputate! Le questioni disputate restino soltanto fra i teologi. È il vostro compito. Ma al Popolo di Dio bisogna dare la sostanza che alimenti la fede e che non la relativizzi.
Infine, è indispensabile dotarsi di strutture leggere e flessibili, che manifestino la priorità data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans-disciplinare e in rete. Gli statuti, l’organizzazione interna, il metodo di insegnamento, l’ordinamento degli studi dovrebbero riflettere la fisionomia della Chiesa “in uscita”. Tutto deve essere orientato negli orari e nei modi a favorire il più possibile la partecipazione di coloro che desiderano studiare teologia: oltre ai seminaristi e ai religiosi, anche i laici e le donne sia laiche che religiose. In particolare, il contributo che le donne stanno dando e possono dare alla teologia è indispensabile e la loro partecipazione va quindi sostenuta, come fate in questa Facoltà, dove c’è buona partecipazione di donne come docenti e come studenti.
Questo posto bellissimo, sede della Facoltà teologica dedicata a San Luigi, di cui oggi ricorre la festa, sia simbolo di una bellezza da condividere, aperta a tutti. Sogno Facoltà teologiche dove si viva la convivialità delle differenze, dove si pratichi una teologia del dialogo e dell’accoglienza; dove si sperimenti il modello del poliedro del sapere teologico in luogo di una sfera statica e disincarnata. Dove la ricerca teologica sia in grado di promuovere un impegnativo ma avvincente processo di inculturazione.
Conclusione
I criteri del Proemio della Costituzione Apostolica Veritatis gaudium sono criteri evangelici. Il kerigma, il dialogo, il discernere, la collaborazione, la rete – io aggiungerei anche la parresia, che è stata citata come criterio, che è la capacità di essere al limite, insieme all’ hypomoné, al tollerare, essere nel limite per andare avanti – sono elementi e criteri che traducono il modo con cui il Vangelo è stato vissuto e annunciato da Gesù e con cui può essere anche oggi trasmesso dai suoi discepoli.
La teologia dopo Veritatis gaudium è una teologia kerygmatica, una teologia del discernimento, della misericordia e dell’accoglienza, che si pone in dialogo con la società, le culture e le religioni per la costruzione della convivenza pacifica di persone e popoli. Il Mediterraneo è matrice storica, geografica e culturale dell’accoglienza kerygmatica praticata con il dialogo e con la misericordia. Di questa ricerca teologica Napoli è esempio e laboratorio speciale. Buon lavoro!
_____________________
[1] Lettera al Gran Cancelliere della “Pontificia Universidad Católica Argentina” nel centenario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015.
[2] Discorso ai partecipanti al convegno dell’Associazione dei professori di Storia della Chiesa, 12 gennaio 2019.
[01104-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
Dear Students and Professors
Dear Brother Bishops and Priests,
Your Eminences,
I am pleased to meet with you today and to take part in this Congress. I reciprocate most heartily the greeting of my dear Brother Patriarch Bartholomew, by many years a great precursor of Laudato Si’, who wished to contribute to the reflection with a personal message. I thank you Bartholomew, my beloved brother.
The Mediterranean has always been a place of transit, of exchanges, and sometimes even of conflicts. We are all too familiar with many of them. This place today raises a number of questions, often dramatic ones. They can be expressed in some of the questions that we asked ourselves at the inter-religious meeting in Abu Dhabi: how can we take care of each other within the one human family? How can we foster a tolerant and peaceful coexistence that translates into authentic fraternity? How can we make it so that the welcoming of the other person and of those who are different from us because they belong to a different religious and cultural tradition prevails in our communities? How can religions be paths of brotherhood instead of walls of separation? These and other issues need to be discussed at various levels, and require a generous commitment to listening, studying and dialogue in order to promote processes of liberation, peace, brotherhood and justice. We must be convinced: it is about starting processes, not of defining or occupying spaces. Starting processes.
A theology of welcoming and dialogue
In this Congress, you have first analyzed contradictions and difficulties found in the Mediterranean, and then you have asked yourselves about what the best solutions might be. In this regard, you are wondering which theology is appropriate to the context in which you live and work. I would say that theology, particularly in this context, is called to be a welcoming theology and to develop a sincere dialogue with social and civil institutions, with university and research centers, with religious leaders and with all women and men of good will, for the construction in peace of an inclusive and fraternal society, and also for the care of creation.
When in the Foreword of Veritatis Gaudium the contemplation and presentation of the heart of the kerygma is mentioned together with dialogue as criteria for renewing studies, it means that they are at the service of the path of a Church that increasingly puts evangelization at the center. Not apologetics, not manuals, as we heard, but evangelizing. At the center is evangelizing, which is not the same thing as proselytizing. In dialogue with cultures and religions, the Church announces the Good News of Jesus and the practice of evangelical love which He preached as a synthesis of the whole teaching of the Law, the message of the Prophets and the will of the Father. Dialogue is above all a method of discernment and proclamation of the Word of love which is addressed to each person and which wants to take up residence in the heart of each person. Only in listening to this Word and in the experience of love that it communicates can one discern the relevance of kerygma. Dialogue, understood in this way, is a form of welcoming.
I would like to reiterate that “spiritual discernment does not exclude existential, psychological, sociological or moral insights drawn from the human sciences. At the same time, it transcends them. Nor are the Church’s sound norms sufficient. We should always remember that discernment is a grace, a gift. Ultimately, discernment leads to the wellspring of undying life: “to know the Father, the only true God, and the one whom he has sent, Jesus Christ (cf. Jn 17:3)” (Ap. Exhort. Gaudete et Exsultate, 170).
The renewal of schools of theology comes about through the practice of discernment and through a dialogical way of proceeding capable of creating a corresponding spiritual environment and intellectual practice. It is a dialogue both in the understanding of the problems and in the search for ways to resolve them. A dialogue capable of integrating the living criterion of Jesus’ Paschal Mystery with that of analogy, which discovers connections, signs, and theological references in reality, in creation and in history. This involves the hermeneutical integration of the mystery of the path of Jesus which led him to the cross and to the resurrection and gift of the Spirit. Integrating this Jesuit and Paschal logic is indispensable for understanding how historical and created reality is challenged by the revelation of the mystery of God’s love. Of that God who manifests himself in the history of Jesus – in every circumstance and difficulty – as greater in love and in his capacity to rectify evil.
Both movements are necessary and complementary: a bottom-up movement that can dialogue, with an attitude of listening and discernment, with every human and historical instance, taking into account the breadth of what it means to be human; and a top-down movement―where “the top” is that of Jesus lifted up on the cross―that allows, at the same time, to discern the signs of the Kingdom of God in history and to understand prophetically the signs of the anti-Kingdom that disfigure the soul and human history. It is a method that allows us―in a dynamic that is ongoing―to confront ourselves with every human condition and to grasp what Christian light can illuminate the folds of reality and what efforts the Spirit of the Risen Crucified One is arousing, from time to time, here and now.
The dialogical way of proceeding is the path to arrive where paradigms, ways of feeling, symbols, and representations of individuals and of peoples are formed. To arrive there―as “spiritual ethnographers”, so to speak, of the souls of peoples―to be able to dialogue in depth and, if possible, to contribute to their development with the proclamation of the Gospel of the Kingdom of God, the fruit of which is the maturation of a fraternity that is ever more expanded and inclusive. Dialogue and proclamation of the Gospel that can take place in the ways outlined by Francis of Assisi in the Regula non bullata, just the day after his trip to the Mediterranean East. For Francis there is a first way in which, simply, one lives as a Christian: “One way is that they do not make quarrels or disputes, but are subject to every human creature for the love of God and confess to being Christians” (XVI: FF 43). Then there is a second way in which, always docile to the signs and actions of the Risen Lord and his Spirit of peace, the Christian faith is proclaimed as a manifestation in Jesus of God’s love for all men. I am very struck by the advice given by Francis to his friars: “Preach the Gospel: if necessary, also with words”. That is witness!
This docility to the Spirit implies a style of life and proclamation that is without a spirit of conquest, without a desire to proselytize – which is baneful! – and without an aggressive intent to disprove the other. An approach that enters into dialogue with others “from within”, with their cultures, their histories, their different religious traditions; an approach that, in keeping with the Gospel, also includes witnessing to the point of sacrificing one’s own life, as shown by the luminous examples of Charles de Foucauld, the monks of Tibhirine, the bishop of Oran Pierre Claverie and so many brothers and sisters who, with the grace of Christ, have been faithful with meekness and humility and have died with the name of Jesus on their lips and mercy in their hearts. And here I think of nonviolence as a perspective and way of understanding the world, to which theology must look as one of its constitutive elements. The writings and practices of Martin Luther King and Lanza del Vasto and other peacemakers help us here. The memory of Blessed Justin Russolillo, who was a student of this Faculty, and of Fr Peppino Diana, who also studied here and was a young parish priest killed by the Camorra, help and encourage us. Here I would mention a dangerous syndrome: the “Babel syndrome”. We think that the “Babel syndrome” is the confusion that arises when we don’t know what the other person is saying. That is the first stage. But the real “Babel syndrome” is when I do not listen to what the other person is saying and think that I know what the other is thinking and is about to say. That is the bane!
Examples of dialogue for a theology of welcoming
While “dialogue” is not a magic formula, theology is certainly helped in its renewal when it takes it seriously, when it is encouraged and favored among teachers and students, as well as with other forms of knowledge and with other religions, especially Judaism and Islam. Students of theology should be educated in dialogue with Judaism and Islam to understand the common roots and differences of our religious identities, and thus contribute more effectively to the building of a society that values diversity and fosters respect, brotherhood and peaceful coexistence.
To educate students in this. I studied in the period of decadent theology, decadent scholasticism, the age of the manuals. We used to joke that all the theses in theology could be proved by the following syllogism. First, things appear this way. Second, Catholicism is always right. Third, Ergo… In other words, a defensive, apologetic theology shut in a manual. We used to joke about it, but that was what we were presented with in that period of decadent scholasticism.
To seek a peaceful and dialogical coexistence. We are called to dialogue with Muslims to build the future of our societies and cities; we are called upon to see them as partners in the building of a peaceful coexistence, even when there are disturbing episodes by fanatical groups who are enemies of dialogue, such as the tragedy of last Easter in Sri Lanka. Yesterday, the Cardinal Archbishop of Colombo told me: “After doing everything I could do, I realized that a group of people, Christians, wanted to go to the Muslim quarter and kill them. I asked the Imam to come with me in the car, and together we went there to convince Christians that we are friends, that those people were extremists, that they are not ‘ours’”. This is an attitude of closeness and dialogue. Forming students to dialogue with Jews means educating them to understand their culture, their way of thinking, their language, in order to better understand and live our relationship on the religious level. In the theological faculties and ecclesiastical universities, courses in the Arabic and Hebrew languages and culture, as well as mutual knowledge between Christian, Jewish and Muslim students are to be encouraged.
I would like to give two concrete examples of how the dialogue that characterizes a theology of welcoming can be applied to ecclesiastical studies. First of all, dialogue can be a method of study, as well as of teaching. When we read a text, we dialogue with it and with the “world” of which it is an expression; and this also applies to sacred texts, such as the Bible, the Talmud and the Koran. Often, then, we interpret a particular text in dialogue with others from the same period or from different eras. The texts of the great monotheistic traditions are in some cases the result of a dialogue. There are cases of texts that are written to offer answers to some of life’s deeper questions posed by texts that preceded them. This is also a form of dialogue.
The second example is that dialogue can be lived as a theological hermeneutic in a specific time and place. In our case: the Mediterranean at the beginning of the third millennium. It is not possible to realistically read this space except in dialogue and as a bridge―historical, geographical, human―between Europe, Africa and Asia. This is a place where the absence of peace has led to multiple regional and global imbalances, and whose pacification, through the practice of dialogue, could instead greatly contribute to initiating processes of reconciliation and peace. Giorgio La Pira would tell us that, for theology, it is a matter of contributing to the construction of a “large tent of peace” throughout the Mediterranean basin, where the different sons of the common father Abraham can live together in mutual respect. Do not forget our common father.
A theology of welcoming is a theology of listening
Dialogue as a theological hermeneutic presupposes and involves conscious listening. This also means listening to the history and experience of the peoples who inhabit the Mediterranean region to be able to decipher the events that connect the past to the present and to be able to understand the wounds along with the potential that exists. In particular, it is a question of understanding the way in which Christian communities and individual prophetic lives have been able―even recently―to incarnate the Christian faith in contexts sometimes of conflict, minority and coexistence with a plurality of other religious traditions.
This listening must be deeply connected with cultures and peoples for another reason as well. The Mediterranean is precisely a sea that is also a crossroads. If we fail to understand that crossroads, we will never understand the Mediterranean. It is a sea geographically closed to the oceans, but culturally always open to encounter, dialogue and mutual inculturation. Nonetheless, there is a need for renewed and shared narratives which―based on listening to the past and to the present―speak to the hearts of people, narratives in which it is possible to see oneself in a constructive, peaceful and hope-generating way.
The multicultural and multi-religious reality of the new Mediterranean is formed by these narratives, in the dialogue that arises from listening to people and texts of the great monotheistic religions, and especially from listening to young people. I am thinking of the students of our faculties of theology, of those from “secular” universities or from other religious inspirations. “When the Church―and, we can add, theology―abandons the rigid schemes and opens itself to an open and attentive listening of young people, this empathy enriches it, because it allows young people to make their own contribution to the community, helping it to appreciate new sensitivities and to consider new questions” (Ap. Exhort. Christus Vivit, 65). To appreciate new sensitivities: this is the challenge.
Entering more deeply into the kerygma comes from the experience of dialogue that arises from listening and that generates communion. Jesus himself announced the kingdom of God in dialogue with all kinds and categories of people of the Judaism of his time: with the scribes, the Pharisees, the doctors of the law, the publicans, the learned, the simple, sinners. To a Samaritan woman he revealed, in listening and dialogue, the gift of God and her own identity: he opened to her the mystery of his communion with the Father and of the superabundant fullness that flows from this communion. His divine listening to her human heart opened that heart to accept in turn the fullness of Love and the joy of life. We lose nothing by engaging in dialogue. We always gain something. In a monologue, we all lose, all of us.
An interdisciplinary theology
A theology of welcoming which, as a method of interpreting reality, adopts discernment and sincere dialogue requires theologians who know how to work together and in an interdisciplinary way, overcoming individualism in intellectual work. We need theologians―men and women, priests, lay people and religious―who, in a historical and ecclesial rootedness and, at the same time, open to the inexhaustible novelties of the Spirit, know how to escape the self-referential, competitive and, in fact, blinding logics that often exist even in our own academic institutions and concealed, many times, among our theological schools.
In this continuous journey of going out of oneself and meeting others, it is important that theologians be men and women of compassion – I emphasize this: that they be men and women of compassion – inwardly touched by the oppressed life many live, by the forms of slavery present today, by the social wounds, the violence, the wars and the enormous injustices suffered by so many poor people who live on the shores of this “common sea”. Without communion and without compassion constantly nourished by prayer – this is important: theology can only be done “on one’s knees” – theology not only loses its soul, but also its intelligence and ability to interpret reality in a Christian way. Without compassion, drawn from the Heart of Christ, theologians risk being swallowed up in the condition of privilege of those who prudently place themselves outside the world and share nothing risky with the majority of humanity. A laboratory theology, a pure theology, “distilled” like water, which understands nothing.
I would like to give an example of how the interdisciplinarity that interprets history can involve an entering more deeply into the kerygma and, if animated by mercy, can be open to trans-disciplinarity. I am referring in particular to all the aggressive and warlike attitudes that have marked the way in which Mediterranean peoples who called themselves Christians have lived. This includes both the colonial attitudes and practices that have shaped the imagination and policies of these peoples so much, and the justifications for all sorts of wars, as well as all the persecutions carried out in the name of a religion or alleged racial or doctrinal purity. We too carried out these persecutions. I remember, in the Chanson de Roland, that after the battle was won, all the Muslims were lined up in front of the baptismal font. There was someone with a sword. And they were given a choice: either be baptized or be killed, sent to the next world. Baptism or death. We did this. With respect to this complex and painful history, the method of dialogue and listening, guided by the evangelical criterion of mercy, can greatly enrich interdisciplinary knowledge and rereading, also bringing out, by contrast, the prophecies of peace that the Spirit has never failed to arouse.
Interdisciplinarity as a criterion for the renewal of theology and ecclesiastical studies involves the commitment to continually revisit and reconsider tradition. Reconsider tradition! And keep asking questions. In fact, for Christian theologians, listening does not happen in a vacuum, but is done from a theological heritage that―precisely within the Mediterranean space―has its roots in the communities of the New Testament, in the rich reflection of the Fathers and in many generations of thinkers and witnesses. It is that living tradition that has come down to us that can help to enlighten and decipher many contemporary issues. Provided, however, that it is reread with a sincere will to purify memory, that is, discerning that which was in accord with God’s original intention, revealed in the Spirit of Jesus Christ, and that which was unfaithful to this merciful and saving intention. Let us not forget that tradition is a root that gives life: it transmits life so that we can grow, flourish and bear fruit. So often we think of tradition as a kind of museum. No! Last week or the week before, I read a quote of Gustav Mahler, who said: “Tradition is the guarantee of the future, not the guardian of ashes!” Nice! We live tradition like a tree that lives and grows. In the fifth century Vincent of Lérins understood this well. He described the growth of faith, the tradition, using these three criteria: annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. That is tradition! Without tradition you cannot grow! Tradition serves growth, as the root serves the tree.
Networked theology
Theology after Veritatis Gaudium is a networked theology and, in the context of the Mediterranean, in solidarity with all the “shipwrecked” of history. In the theological task ahead, we recall St. Paul and the journey of early Christianity that connects the East with the West. Here, very close to where Paul landed, one cannot help but remember that the Apostle’s journeys were marked by evident problems, such as the shipwreck in the middle of the Mediterranean (Acts 27:9ff). A shipwreck that makes one think of Jonah’s. But Paul does not flee and may even think that Rome is his Nineveh. He could be seeking to correct Jonah’s defeatist attitude and to redeem his attempted escape. Now that Western Christianity has learned from many mistakes and critical moments of the past, it can return to its sources hoping to be able to bear witness to the Good News to the peoples of the East and West, North and South. Theology―keeping its mind and heart fixed on the “gracious and merciful God” (cf. Jon 4:2)―can help the Church and civil society to set out again in the company of so many shipwrecked people, encouraging the people of the Mediterranean to reject any temptation toward reconquest or toward an identity that is closed in on itself. Both arise, are nurtured and grow from fear. Theology cannot be done in a setting of fear.
The work of theological faculties and ecclesiastical universities contributes to the building of a just and fraternal society, in which the care of creation and the building of peace are the result of collaboration between civil, ecclesial and interreligious institutions. It is first of all a work within the “evangelical network”, that is, in communion with the Spirit of Jesus who is the Spirit of peace, the Spirit of love at work in creation and in the hearts of men and women of good will of every race, culture and religion. In an analogous way to the language used by Jesus to speak of the Kingdom of God, interdisciplinarity and networking are intended to encourage the discernment of the presence of the Spirit of the Risen One in reality. By understanding the Word of God in its original Mediterranean context, it is possible to discern the signs of the times in new contexts.
Theology after “Veritatis Gaudium” in the context of the Mediterranean
I have spoken a great deal about Veritatis Gaudium. I would like to thank publically, since he is here, Archbishop Zani, who helped craft this document. Thank you! What, then, is the task of theology after Veritatis Gaudium in the context of the Mediterranean? To go straight to the point, what is its task? It must be in tune with the Spirit of the Risen Jesus, with his freedom to travel the world and reach the peripheries, even those of thought. Theologians have the task of encouraging ever anew the encounter of cultures with the sources of Revelation and Tradition. The ancient edifices of thought, the great theological syntheses of the past are mines of theological wisdom, but they cannot be applied mechanically to current questions. One should treasure them to look for new paths. Thanks be to God, the first sources of theology, that is, the Word of God and the Holy Spirit, are inexhaustible and always fruitful; therefore one can and must work towards a “theological Pentecost”, which allows the women and men of our time to hear “in their own native language” a Christian message that responds to their search for meaning and for a full life. For this to happen, a number of preconditions are necessary.
First of all, it is necessary to start from the Gospel of mercy, from the proclamation made by Jesus himself and from the original contexts of evangelization. Theology is born amidst specific human beings, who have encountered the gaze and heart of God who seeks them with merciful love. Doing theology is also an act of mercy. I would like to repeat here, from this city where there are not only episodes of violence, but which preserves many traditions and many examples of holiness―in addition to a masterpiece by Caravaggio on the works of mercy and the testimony of the holy doctor Giuseppe Moscati―I would like to repeat what I wrote to the Faculty of Theology of the Catholic University of Argentina: “Even good theologians, like good shepherds, have the odor of the people and of the street and, by their reflection, pour oil and wine onto the wounds of mankind. Theology is an expression of a Church which is a “field hospital”, which lives her mission of salvation and healing in the world. Mercy is not just a pastoral attitude but it is the very substance of the Gospel of Jesus. I encourage you to study how the various disciplines — dogma, morality, spirituality, law, and so on — may reflect the centrality of mercy. Without mercy our theology, our law, our pastoral care run the risk of collapsing into bureaucratic narrow-mindedness or ideology, which by their nature seeks to domesticate the mystery”.[1] Theology, by following the path of mercy, prevents the mystery from being domesticated.
Secondly, a serious integration of history within theology is necessary, as a space open to the encounter with the Lord. “The ability to discover the presence of Christ and the Church’s journey through history makes us humble, and removes us from the temptation to seek refuge in the past in order to avoid the present. And this has been the experience of many scholars, who have begun, I wouldn’t say as atheists, but rather as agnostics, and have found Christ. Because history could not be understood without this force”.[2]
Theological freedom is necessary. Without the possibility of experimenting with new paths, nothing new is created, and there is no room for the newness of the Spirit of the Risen One: “For those who long for a monolithic body of doctrine guarded by all and leaving no room for nuance, this might appear as undesirable and leading to confusion. But in fact such variety serves to bring out and develop different facets of the inexhaustible riches of the Gospel” (Ap. Exhort. Evangelii Gaudium, 40). This also implies an adequate updating of the ratio studiorum. On the freedom of theological thought, I would make a distinction. Among scholars, it is necessary to move ahead with freedom; then, in the final instance, it will be the magisterium to decide, but theology cannot be done without this freedom. But in preaching to the People of God, please, do not harm the faith of God’s people with disputed questions! Let disputed questions remain among theologians. That is your task. But God’s people need to be given substantial food that can nourish their faith and not relativize it.
Finally, it is essential to have light and flexible structures that express the priority given to welcoming and dialogue, to inter- and trans-disciplinary work and networking. The statutes, the internal organization, the method of teaching, the program of studies should reflect the physiognomy of the Church “which goes forth”. The class schedules and other aspects of university life should be designed to encourage as much as possible the participation of those who wish to study theology: in addition to seminarians and religious, even lay people and women both lay and religious. In particular, the contribution that women are making and can make to theology is indispensable and their participation should therefore be supported, as you do in this Faculty, where there is ample participation of women as teachers and as students.
May this beautiful place, home of the Theological Faculty dedicated to St. Aloysius, whose memorial is celebrated today, be a symbol of beauty to be shared, open to all. I dream of Theological Faculties where one lives differences in friendship, where one practices a theology of dialogue and welcoming; where one experiences the model of the polyhedron of theological knowledge instead of that of a static and disembodied sphere. Where theological research can promote a challenging but compelling process of inculturation.
Conclusion
The criteria of the Foreword of the Apostolic Constitution Veritatis Gaudium are evangelical criteria. The kerygma, dialogue, discernment, collaboration and network – and here I would add parrhesia, which was cited as a criterion, which is the ability to press forward to the limits, side by side with hypomoné, patient endurance, the ability to stay within the limits in order to move forward – these are elements and criteria that translate the way in which the Gospel was lived and proclaimed by Jesus and with which it can still be transmitted today by his disciples.
Theology after Veritatis Gaudium is a kerygmatic theology, a theology of discernment, of mercy and of welcoming, in dialogue with society, cultures and religions for the construction of the peaceful coexistence of individuals and peoples. The Mediterranean is a historical, geographical and cultural matrix for kerygmatic welcoming practiced through dialogue and mercy. Naples is an example and special laboratory of this theological research. I wish you all the best in your work!
_____________________
[1] Letter to the Grand Chancellor of the “Pontificia Universidad Católica Argentina” for the 100th anniversary of the Founding of the Faculty of Theology, 3 March 2015.
[2] Speech to Participants in the Conference of the Association of Professors of Church History, 12 January 2019.
[01104-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos estudiantes y profesores,
Queridos hermanos obispos y sacerdotes,
Señores cardenales:
Estoy contento al encontrarme hoy con vosotros participando en este Congreso. Devuelvo con afecto el saludo al querido hermano el Patriarca Bartolomé, un gran precursor de la Laudato si’ —por años precursor—, que ha deseado contribuir a la reflexión con su mensaje personal. Gracias al querido hermano Bartolomé.
El Mediterráneo es desde siempre lugar de tránsito, de intercambio y, en ocasiones, también de conflicto. Conocemos tantos. Este lugar nos coloca hoy ante una serie de cuestiones, a menudo dramáticas. Estas se pueden traducir en algunas preguntas que nos hemos hecho en el encuentro interreligioso de Abu Dhabi: ¿Cómo cuidarnos recíprocamente en la única familia humana? ¿Cómo alimentar una convivencia tolerante y pacífica que se traduzca en auténtica fraternidad? ¿Cómo hacer para que en nuestras comunidades prevalezca la acogida del otro, de quien es distinto a nosotros porque pertenece a una tradición religiosa y cultural diversa a la nuestra? ¿Cómo pueden ser las religiones caminos de hermandad y no muros de separación? Estas y otras cuestiones han de ser interpretadas a varios niveles, y piden un esfuerzo generoso de escucha, de estudio y de confrontación a fin de promover procesos de liberación, de paz, de fraternidad y de justicia. Debemos convencernos: Se trata de iniciar procesos, no de hacer definiciones de espacios, ocupar espacios… Iniciar procesos.
Una teología de la acogida y del diálogo
A lo largo de este Congreso habéis analizado en primer lugar contradicciones y dificultades en el espacio del Mediterráneo, y os habéis preguntado después acerca de las soluciones más adecuadas. Para ello, os preguntáis qué teología es apropiada en el contexto en donde vivís y trabajáis. Diría que la teología, de manera especial en un contexto de este tipo, está llamada a ser una teología de la acogida que sirva para desarrollar un diálogo sincero con las instituciones sociales y civiles, con centros universitarios y de investigación, con las autoridades religiosas y con todas las mujeres y los hombres de buena voluntad, para construir pacíficamente una sociedad inclusiva y fraterna y también para custodiar la creación.
Cuando en el Proemio de Veritatis gaudium se menciona la profundización del kerigma y el diálogo como criterios para renovar los estudios, se quiere decir que estos se encuentran al servicio del camino de una Iglesia que pone cada vez más en su centro la evangelización. No la apologética, no los manuales —como hemos escuchado—: evangelizar. En el centro está la evangelización, que no quiere decir proselitismo. En el diálogo con las culturas y las religiones, la Iglesia anuncia la Buena Noticia de Jesús y la práctica del amor evangélico que Él predicaba como una síntesis de toda la enseñanza de la Ley, de las visiones de los Profetas y de la voluntad del Padre. El diálogo es más que nada un método de discernimiento y de anuncio de la Palabra de amor que se dirige a toda persona y que desea habitar en el corazón de cada uno. Solamente en la escucha de esta Palabra y en la experiencia del amor que ella comunica se puede discernir la actualidad del kerigma. El diálogo, de este modo intenso, es una forma de acogida.
Quisiera recalcar que «el discernimiento espiritual no excluye las aportaciones de los saberes humanos, existenciales, psicológicos, sociológicos y morales. Pero los trasciende. Y ni siquiera tiene suficiente con las sabias normas de la Iglesia. Recordamos siempre que el discernimiento es una gracia […] —un don—. El discernimiento, en fin, conduce a la fuente misma de la vida que no muere, es decir, “que te conozcan a ti, el único Dios verdadero, y a aquel que has enviado, Jesucristo (Jn 17,3)» (Exhort. ap. Gaudete et exsultate, 170).
Las escuelas de teología se renuevan con la práctica del discernimiento y con un modo dialógico de proceder, capaz de crear un correspondiente clima espiritual y de práctica intelectual. Se trata de un diálogo tanto en el planteamiento de los problemas como en la búsqueda conjunta de las vías de solución. Un diálogo capaz de integrar el criterio vivo de la Pascua de Jesús con el movimiento de la analogía, que lee ––en la realidad, en la creación y en la historia–– nexos, signos y referencias teologales. Esto conlleva la asunción hermenéutica del misterio del camino de Jesús, que lo conduce a la cruz y a la resurrección y al don del Espíritu. Asumir esta lógica jesuana y pascual es indispensable para comprender cómo la realidad histórica es interrogada por la revelación del misterio del amor de Dios. De aquel Dios que en la historia de Jesús —en cada ocasión y dentro de todas las contradicciones–– se manifiesta más grande en el amor y en la capacidad de reparar el mal.
Ambos movimientos son necesarios y complementarios: un movimiento desde lo bajo hacia lo alto que puede dialogar, con sentido de escucha y discernimiento, con cada instancia humana e histórica, teniendo en cuenta todo el espesor de lo humano; y un movimiento desde lo alto hacia lo bajo ––donde “lo alto” es la posición elevada de Jesús sobre la cruz–– que permite, al mismo tiempo, discernir los signos del Reino de Dios en la historia y comprender de manera profética los signos del anti-Reino que desfiguran el alma y la historia humana. Es un método que permite ––en una dinámica constante–– confrontarse con toda instancia humana y comprender qué luz cristiana ilumina las llagas de la realidad y qué energías suscita el Espíritu del Crucificado Resucitado, en cada ocasión, aquí y ahora.
El modo de proceder dialógico es la vía para llegar allí donde se forman los paradigmas, los modos de sentir, los símbolos, las representaciones de las personas y de los pueblos. Llegar allí ––como “etnógrafos espirituales” del alma de los pueblos, decimos–– para dialogar en profundidad y, si es posible, para contribuir a su desarrollo con el anuncio del Evangelio del Reino de Dios, cuyo fruto es la maduración de una fraternidad siempre más extensa e inclusiva. Diálogo y anuncio del Evangelio que pueden tomar cuerpo en los modos trazados por Francisco de Asís en la Regla no bulada, justo el día después de su viaje por el oriente mediterráneo. Para Francisco hay una primera modalidad en donde, simplemente, se vive como cristianos: «Un modo es que no litiguen ni disputen, sino que se mantengan sujetos a toda criatura humana por amor de Dios y confiesen ser cristianos» (XVI: FF 43). Existe después un segundo estadio en donde, dóciles siempre a los signos, a la acción del Señor Resucitado y a su Espíritu de paz, se anuncia la fe cristiana como manifestación en Jesús del amor de Dios por todos los hombres. Me llama mucho la atención aquel consejo de san Francisco a sus frailes: «Predicad el Evangelio; si fuera necesario también con palabras». Esto es el testimonio.
Esta docilidad al Espíritu implica un estilo de vida y de anuncio sin afán de conquista, sin voluntad de proselitismo —esta es la peste— y sin un intento agresivo de confutación. Una modalidad que entra en diálogo “desde dentro” con los hombres y con sus culturas, con sus historias, con sus diferentes tradiciones religiosas; una modalidad que, en coherencia con el Evangelio, comprende también el testimonio hasta el sacrificio de la vida, como demuestran los luminosos ejemplos de Carlos de Foucauld, de los monjes de Tibhirine, del obispo de Orán, Pierre Claverie, y de tantos hermanos y hermanas que, con la gracia de Cristo, han sido fieles, con mansedumbre y humildad, y han muerto con el nombre de Jesús en los labios y la misericordia en el corazón. En este punto pienso, como horizonte y sabiduría, en la no violencia, a la que la teología debe mirar como elemento propio constitutivo. Nos son de ayuda los escritos y la praxis de Martín Luther King y de Lanza del Vasto, así como las de otros “artesanos” de la paz. Nos ayuda y da ánimos la memoria del beato Giustino Russolillo, que fue estudiante de esta Facultad, y de Don Peppino Diana, el joven párroco asesinado por la camorra, que también estudió aquí. Y aquí me gustaría mencionar un síndrome peligroso, que es el “síndrome de Babel”. Pensamos que el “síndrome de Babel” es la confusión que se origina al no entender lo que dice el otro. Este es el primer paso. Pero el verdadero “síndrome de Babel” es no escuchar lo que dice el otro y creer que sé lo que piensa la otra persona y qué es lo que dirá el otro. ¡Esta es la peste!
Ejemplo de diálogo para una teología de la acogida
“Diálogo” no es una fórmula mágica, pero ciertamente la teología siente la ayuda, en su proceso de renovación, cuando lo asume con seriedad, cuando es impulsado y favorecido entre docentes y estudiantes, también con las otras formas del saber y con las otras religiones, en especial con el judaísmo y el islam. Los estudiantes de teología deberían ser educados en el diálogo con el judaísmo y con el islam para comprender las raíces comunes y las diferencias de nuestras identidades religiosas, y contribuir así más eficazmente a la edificación de una sociedad que aprecia la diversidad y favorece el respeto, la fraternidad y la convivencia pacífica.
Educar a los alumnos en esto. He estudiado en el tiempo de la teología decadente, de la escolástica decadente, en el tiempo de los manuales. Entre nosotros se bromeaba, todas las tesis teológicas se probaban con este esquema, un silogismo: 1°. Las cosas parecen ser así. 2°. El catolicismo siempre tiene razón. 3°. Ergo... Esa es una teología de tipo defensivo, apologético, encerrada en un manual. Así bromeábamos, pero era lo que nos presentaban en aquel momento de la escolástica decadente.
Buscar una pacífica convivencia dialógica. Estamos llamados a dialogar con los musulmanes para construir el futuro de nuestras sociedades y de nuestras ciudades; estamos llamados a considerarlos compañeros en la construcción de una convivencia pacífica, también cuando suceden episodios desconcertantes, obra de grupos fanáticos enemigos del diálogo, como la tragedia de la pasada Pascua en Sri Lanka. Ayer, el cardenal de Colombo me dijo esto: “Después de hacer lo que tenía que hacer, me di cuenta de que un grupo de personas, cristianos, querían ir al barrio musulmán para matarlos”. “Invité al imán a ir conmigo en coche, y juntos fuimos allí para convencer a los cristianos de que somos amigos, que esos son extremistas, que no son de los nuestros”. Esta es una actitud de cercanía y de diálogo. Formar a los estudiantes en el diálogo con los judíos implica educarlos en el conocimiento de su cultura, de su modo de pensar, de su lengua, a fin de comprender y vivir mejor nuestras relaciones en el plano religioso. En las facultades teológicas y en las universidades eclesiásticas son muy recomendables los cursos de lengua y cultura árabe y hebrea, del mismo modo que el conocimiento recíproco entre estudiantes cristianos, judíos y musulmanes.
Quisiera poner dos ejemplos concretos sobre cómo el diálogo que caracteriza una teología de la acogida puede aplicarse a los estudios eclesiásticos. El diálogo puede ser, sobre todo, un método de estudio, además de un método de enseñanza. Cuando leemos un texto, dialogamos con él y con el “mundo” del que es expresión; y esto vale también para los textos sagrados, como la Biblia, el Talmud y el Corán. A menudo, después, interpretamos un texto determinado en diálogo con otros textos de su misma época o de otras diversas. Los textos de las grandes tradiciones monoteístas son, en cualquier caso, el resultado de un diálogo. Se pueden encontrar casos de textos que fueron escritos para responder a preguntas sobre cuestiones importantes de la vida, formuladas por textos precedentes. Esta es también una forma de diálogo.
El segundo ejemplo atañe al modo en que el diálogo se puede realizar como hermenéutica teológica en un tiempo y un lugar específico. En nuestro caso: el Mediterráneo al inicio del tercer milenio. No es posible una lectura real de este espacio al margen de un diálogo y sin lanzar un puente ––histórico, geográfico, humano–– entre Europa, África y Asia. Se trata de un espacio en donde la ausencia de paz ha producido múltiples desequilibrios regionales, mundiales, y cuya pacificación, a través de la práctica del diálogo, podría sin embargo contribuir mucho al surgimiento de procesos de reconciliación y de paz. Giorgio La Pira nos diría que, para la teología, el empeño consiste en contribuir a la construcción, en toda la cuenca del Mediterráneo, de una “gran tienda de paz”, donde puedan convivir, en respeto recíproco, los diversos hijos del padre común Abraham. No olvidéis al padre común.
Una teología de la acogida es una teología de la escucha
El diálogo como hermenéutica presupone y comporta la escucha consciente. Esto significa también escuchar la historia y las vivencias de los pueblos que se asoman al espacio del mediterráneo, para poder descifrar los hechos que unen el pasado al presente, y para acoger las heridas, al mismo tiempo que las posibilidades de futuro. Se trata, de manera particular, de acoger el modo en que las comunidades cristianas y las vidas proféticas de las personas individuales han sabido ––también recientemente–– encarnar la fe cristiana en contextos en ocasiones de conflicto, de minoría y de convivencia plural con otras tradiciones religiosas.
Tal escucha debe enraizarse profundamente dentro de las culturas y los pueblos por otro motivo. El Mediterráneo es en verdad el mar del mestizaje —si no comprendemos el mestizaje, nunca comprenderemos el Mediterráneo—; un mar, respecto a los océanos, geográficamente encerrado, pero siempre abierto culturalmente al encuentro, al diálogo y a la inculturación recíproca. Sin embargo, son necesarias narraciones renovadas y compartidas que ––a partir de la escucha de las raíces y del presente–– hablen al corazón de las personas, narraciones en donde sea posible reconocerse de manera constructiva, pacífica y esperanzadora.
La realidad multicultural y plurireligiosa del nuevo Mediterráneo se forma a partir de esas narraciones, en el diálogo que nace de la escucha de las personas y de los textos de las grandes religiones monoteístas, y sobre todo en la escucha de los jóvenes. Pienso en los estudiantes de nuestras facultades de teología, y en los de las universidades “laicas” o de otras inspiraciones religiosas. «Cuando la Iglesia ––y podemos añadir, la teología–– abandona los esquemas rígidos y se abre a una escucha disponible y atenta de los jóvenes, esta empatía la enriquece, porque “permite a los jóvenes donar a la comunidad su propia contribución, ayudándola a acoger sensibilidades nuevas y a formularse preguntas inéditas”» (Exhort. ap. postsin. Christus vivit, 65). Acoger sensibilidades nuevas: este es el desafío.
La profundización del kerigma se realiza con la experiencia del diálogo que nace de la escucha y que genera comunión. Jesús mismo ha anunciado el reino de Dios dialogando con toda clase y categoría de personas del judaísmo de su tiempo: con los escribas, los fariseos, los doctores de la ley, los publicanos, los doctos, los simples, los pecadores. Reveló a una mujer samaritana, en la escucha y en el diálogo, el don de Dios y su misma identidad: abrió para ella el misterio de su comunión con el Padre y de la sobreabundante plenitud que surge de aquí. Su divina escucha del corazón humano abre este corazón para acoger, a su vez, la plenitud del Amor y la alegría de la vida. No se pierde nada con el diálogo. Siempre se gana. Con el monólogo, todos perdemos, todos.
Una teología interdisciplinar
Una teología de la acogida que, como método interpretativo de la realidad, adopta el discernimiento y el diálogo sincero, necesita la presencia de teólogos que sepan trabajar juntos y de forma interdisciplinar, superando el individualismo en el trabajo intelectual. Necesitamos teólogos ––hombres y mujeres, presbíteros, laicos y religiosos–– que, enraizados en la historia y en la Iglesia, y, al mismo tiempo, abiertos a las inagotables novedades del Espíritu, sepan huir de las lógicas autorreferenciales, competitivas y, de hecho, cegadoras que a menudo existen también en nuestras instituciones académicas y escondidas, muchas veces, en las escuelas teológicas.
En este camino continuo de salida de sí y de encuentro con el otro, es importante que los teólogos sean hombres y mujeres de compasión —subrayo esto: que sean hombres y mujeres de compasión—, tocados por la existencia oprimida de muchos, por las esclavitudes de hoy, por las llagas sociales, por las violencias, por las guerras y por las enormes injusticias sufridas por tantos pobres que viven en las orillas de este “mar común”. Sin comunión y sin compasión, sin el alimento constante de la oración —esto es importante: se puede hacer sólo teología “de rodillas”—, la teología no sólo pierde el alma, sino que pierde también la inteligencia y la capacidad de interpretar cristianamente la realidad. Sin compasión, extraída del Corazón de Cristo, los teólogos corren el riesgo de ser fagocitados por la condición de privilegio de quien se coloca prudentemente fuera del mundo y no comparte nada de arriesgado con la mayoría de la humanidad. La teología de laboratorio, la teología pura y “destilada”; destilada como el agua, el agua destilada que no sabe a nada.
Quisiera ofrecer un ejemplo sobre cómo la interdisciplinariedad que interpreta la historia puede ser una profundización del kerigma y, si es animada por la misericordia, puede abrirse a la trans-disciplinaridad. Me refiero en particular a todos los comportamientos agresivos y guerreros que han marcado el modo de habitar el espacio mediterráneo de pueblos que se decían cristianos. Aquí se enumeran tanto los comportamiento y praxis coloniales que han plasmado el imaginario y las políticas de tales pueblos, como las justificaciones de toda clase de guerras, y también todas las persecuciones realizadas en nombre de una religión o de una pretendida pureza racial o de doctrina. También nosotros hemos hecho estas persecuciones. Recuerdo que en Chanson de Roland, después de ganar la batalla, los musulmanes estaban alineados, todos, frente a la piscina del bautismo, a la pila bautismal. Había allí uno con una espada. Y les hicieron elegir: o el bautismo o adiós. Te vas para el otro mundo. O el bautismo o la muerte. Nosotros hemos hecho esto. Respecto a esta compleja y dolorosa historia, el método de diálogo y de escucha, guiado por el criterio evangélico de la misericordia, puede enriquecer mucho el conocimiento y la relectura interdisciplinar, haciendo emerger también, por contraste, las profecías de paz que el Espíritu no ha dejado nunca de suscitar.
La interdisciplinariedad, como criterio para la renovación de la teología y de los estudios eclesiásticos, comporta el esfuerzo de revisitar y reintegrar continuamente la tradición. Revisitar la tradición y reintegrar. De hecho, la escucha como teólogos cristianos no viene a partir de la nada, sino de un patrimonio teológico que ––precisamente dentro del espacio mediterráneo–– hunde las raíces en las comunidades del Nuevo Testamento, en la rica reflexión de los Padres y en múltiples generaciones de pensadores y testigos. Se trata de la tradición viva que llega hasta nosotros y que puede contribuir a iluminar y descifrar muchas cuestiones contemporáneas. Con la condición, no obstante, de que la relectura se haga con una voluntad sincera de purificación de la memoria, es decir, sabiendo discernir en qué grado se trata de un vehículo de la intención originaria de Dios, revelada en el Espíritu de Jesucristo y, por otro lado, en qué grado es infiel a esta intención misericordiosa y salvífica. No olvidemos que la tradición es una raíz que nos da vida: nos transmite la vida para que nosotros podamos crecer y florecer, fructificar. Tantas veces pensamos en la tradición como en un museo. ¡No! La semana pasada, o la otra, leí una cita de Gustav Mahler que decía: “La tradición es la garantía del futuro, no la guardiana de las cenizas”. ¡Es hermoso! Vivamos la tradición como un árbol que vive, que crece. Ya en el siglo quinto, Vicente de Lérins lo había comprendido bien: el crecimiento de la fe, de la tradición, con estos tres criterios: annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. Es la tradición; pero sin tradición tú no puedes crecer. La tradición para crecer, como la raíz para el árbol.
Una teología en red
La teología, tras Veritatis gaudium, es una teología en red y, en el contexto del Mediterráneo, en solidaridad con todos los “náufragos” de la historia. En el trabajo teológico que nos corresponde recordamos a san Pablo y el camino del cristianismo en los orígenes, que conecta el oriente con el occidente. Aquí, muy cerca de donde Pablo desembarcó, es imposible no recordar que los viajes del Apóstol estuvieron marcados por fuertes críticas, como sucedió en el naufragio en el centro del Mediterráneo (Hch 27,9ss). Naufragio que hace pensar al sufrido por Jonás. Pero Pablo no huye, y puede incluso pensar que Roma era su Nínive. Puede pensar que está ante la oportunidad de enmendar la actitud derrotista de Jonás, redimiendo su huida. Ahora que el cristianismo occidental ha aprendido de muchos errores y críticas del pasado, puede retornar a sus fuentes, esperando ser capaz de testimoniar la Buena Noticia a los pueblos del oriente y del occidente, del norte y del sur. La teología ––teniendo la mente y el corazón fijos en “Dios clemente y piadoso” (cf. Jon 4,2)–– puede ayudar a la Iglesia y a la sociedad civil a retomar el camino en compañía de tantos náufragos, animando a los pueblos del Mediterráneo a rechazar toda tentación de reconquista y de clausura de la identidad. Ambas nacen, se alimentan y crecen por el miedo. La teología no se puede hacer en un ambiente de miedo.
El trabajo de las facultades teológicas y de las universidades eclesiásticas contribuye a la edificación de una sociedad justa y fraterna, donde el cuidado de la creación y la construcción de la paz son resultado de la colaboración entre instituciones civiles, eclesiales e interreligiosas. Se trata, antes de nada, de un trabajo en “red evangélica”, es decir, en comunión con el Espíritu de Jesús que es Espíritu de paz, Espíritu de amor en la obra de la creación y en el corazón de los hombres y las mujeres de buena voluntad de toda raza, cultura y religión. En analogía al lenguaje que Jesús emplea para hablar del Reino, la interdisciplinariedad y el tejido de redes quieren favorecer el discernimiento de la presencia del Espíritu del Resucitado en la realidad. A partir de la comprensión de la Palabra de Dios en su contexto mediterráneo original, es posible discernir los signos de los tiempos en nuevos contextos.
La teología después de “Veritatis gaudium” en el contexto del Mediterráneo
He subrayado mucho Veritatis gaudium. Quisiera agradecer aquí públicamente, porque está presente, a Mons. Zani, que fue uno de los artífices de este documento. ¡Gracias! ¿Cuál es entonces la tarea de la teología después de Veritatis gaudium en el contexto del Mediterráneo? El punto es, ¿cuál es la tarea? La teología debe sintonizar con el Espíritu de Jesús Resucitado, con su libertad de ir por el mundo y de llegar a las periferias, también a las del pensamiento. Corresponde a los teólogos la tarea de favorecer siempre de manera renovada el encuentro de las culturas con las fuentes de la Revelación y de la Tradición. Las antiguas arquitecturas del pensamiento, las grandes síntesis teológicas del pasado son canteras de sabiduría teológica, pero no pueden aplicarse mecánicamente a las cuestiones actuales. Se trata de conocerlas y amarlas para buscar otras vías. Gracias a Dios, las fuentes primeras de la Teología, es decir, la Palabra de Dios y el Espíritu Santo, son inagotables y siempre fecundas; por eso se puede y se debe trabajar en la dirección de un “Pentecostés teológico” que permita a las mujeres y los hombres de nuestro tiempo escuchar “en la propia lengua” una reflexión cristiana que responda a su búsqueda de sentido y de vida plena. Para que esto suceda son indispensables algunos presupuestos.
En primer lugar, es necesario partir del Evangelio de la misericordia, del anuncio hecho por Jesús mismo y de los contextos originarios de la evangelización. La teología nace en medio de seres humanos concretos, a los que encuentra con la mirada y el corazón de Dios, que va en su búsqueda con amor misericordioso. Hacer teología es también un acto de misericordia. Me gustaría repetir aquí, en esta ciudad donde no sólo hay episodios de violencia sino que conserva muchas tradiciones y muchos ejemplos de santidad —además de una obra maestra de Caravaggio sobre las obras de misericordia y el testimonio del santo médico José Moscati— me gustaría repetir lo que he escrito a la Facultad de Teología de la Universidad Católica Argentina: «También los buenos teólogos, como los buenos pastores, huelen a pueblo y a calle y, con su reflexión, derraman ungüento y vino en las heridas de los hombres. Que la teología sea expresión de una Iglesia que es “hospital de campo”, que vive su misión de salvación y curación en el mundo. La misericordia no es sólo una actitud pastoral, sino la sustancia misma del Evangelio de Jesús. Os animo a que estudiéis cómo, en las diferentes disciplinas ––dogmática, moral, espiritualidad, derecho, etc.–– se puede reflejar la centralidad de la misericordia. Sin misericordia, nuestra teología, nuestro derecho, nuestra pastoral, corren el riesgo de caer en la mezquindad burocrática o en la ideología, que por su propia naturaleza quiere domesticar el misterio»[1]. La teología, por el camino de la misericordia, se defiende de domesticar el misterio.
En segundo lugar, es necesaria una rigurosa asunción de la historia dentro de la teología, como espacio abierto al encuentro con el Señor. «La capacidad de entrever la presencia de Cristo y el camino de la Iglesia en la historia nos hacen humildes, y nos apartan de la tentación de refugiarse en el pasado para evitar el presente. Ésta ha sido la experiencia de tantos estudiosos que empezaron siendo, no digo ateos, pero sí un poco agnósticos, y han encontrado a Cristo. Porque la historia no puede entenderse sin esta fuerza»[2].
Es necesaria la libertad teológica.
Sin la posibilidad de experimentar caminos nuevos no se crea nada de nuevo, y no se deja espacio a la novedad del Espíritu del Resucitado: «A cuantos sueñan con una doctrina monolítica defendida por todos sin matices, esto puede parecer una imperfecta dispersión. Pero la realidad es que tal variedad ayuda a manifestar y a desarrollar mejor los diversos aspectos de la inagotable riqueza del Evangelio» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 40). Esto comporta también una revisión adecuada de la ratio studiorum. Sobre la libertad de reflexión teológica haría una distinción. Entre los estudiosos, es necesario seguir adelante con libertad; después, en última instancia, será el magisterio el que diga algo, pero no se puede hacer una teología sin libertad. Sin embargo, en la predicación al Pueblo de Dios, por favor, no hiráis la fe del Pueblo de Dios con cuestiones controvertidas. Que las cuestiones controvertidas queden solamente entre los teólogos. Es vuestra tarea. Pero al Pueblo de Dios es necesario darle la sustancia que alimente la fe, y no que la relativice.
Finalmente, es indispensable dotarse de estructuras ligeras y flexibles, que manifiesten la prioridad dada a la acogida y al diálogo, al trabajo inter- y trans- disciplinar y en red. Los estatutos, la organización interna, el método de enseñanza, el plan de estudios, deberían reflejar la fisonomía de la Iglesia “en salida”. Todo debe orientarse en los horarios y en los modos que se favorezca lo más posible la participación de aquellos que desean estudiar teología: además de los seminaristas y los religiosos, también los laicos y las mujeres, tanto laicas como religiosas. En particular, la contribución que las mujeres están dado y pueden dar a la teología es indispensable y ha de apoyarse, como hacéis en esta Facultad, donde existe una buena participación de mujeres docentes y estudiantes.
Que este bellísimo lugar, sede de la Facultad teológica dedicada a san Luis, cuya fiesta celebramos hoy, sea símbolo de una belleza para compartir, abierta a todos. Sueño con facultades teológicas donde se viva la convivialidad de las diferencias, donde se practique una teología del diálogo y de la acogida, donde se experimente el modelo poliédrico del saber teológico, en lugar de una esfera estática y desencarnada. Donde la investigación teológica sea capaz de promover un esforzado y fascinante proceso de inculturación.
Conclusión
Los criterios del Proemio de la Constitución Apostólica Veritatis gaudium son criterios evangélicos. El kerigma, el diálogo, el discernimiento, la colaboración, la red —agregaría también la parresia, que fue citada como criterio, que es la capacidad de estar al límite, junto a la hypomoné, el tolerar, estar en el límite para seguir adelante— son todos elementos y criterios que traducen el modo en que el Evangelio ha sido vivido y anunciado por Jesús y mediante el cual puede ser transmitido hoy por sus discípulos.
La teología después de Veritatis gaudium es una teología kerigmática, una teología del discernimiento, de la misericordia y de la acogida, que se lanza al diálogo con la sociedad, las culturas y las religiones para la construcción de la convivencia pacífica de personas y pueblos. El Mediterráneo es la matriz histórica, geográfica y cultural de la acogida kerigmática practicada con el diálogo y con la misericordia. De esta investigación teológica, Nápoles es ejemplo y laboratorio destacado. ¡Buen trabajo!
_____________________
[1] Carta al Gran Canciller de la “Pontificia Universidad Católica Argentina” en el centenario de la Facultad de Teología, 3 marzo 2015.
[2] Discurso a los participantes en el congreso de la Asociación de profesores de Historia de la Iglesia, 12 de enero de 2019.
[01104-ES.00] [Texto original: Italiano]
[B0532-XX.02]