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Messaggio del Santo Padre Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019, 27.05.2019


Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

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Traduzione in lingua spagnola

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Traduzione i n lingua polacca

Traduzione in lingua araba

 

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, sul tema: Non si tratta solo di migranti:

 

Messaggio del Santo Padre

 

Non si tratta solo di migranti

Cari fratelli e sorelle,

la fede ci assicura che il Regno di Dio è già presente sulla terra in modo misterioso (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 39); tuttavia, anche ai nostri giorni, dobbiamo con dolore constatare che esso incontra ostacoli e forze contrarie. Conflitti violenti e vere e proprie guerre non cessano di lacerare l’umanità; ingiustizie e discriminazioni si susseguono; si stenta a superare gli squilibri economici e sociali, su scala locale o globale. E a fare le spese di tutto questo sono soprattutto i più poveri e svantaggiati.

Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione.

Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista.

«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). Non si tratta solo di migranti: si tratta anche delle nostre paure. Le cattiverie e le brutture del nostro tempo accrescono «il nostro timore verso gli “altri”, gli sconosciuti, gli emarginati, i forestieri […]. E questo si nota particolarmente oggi, di fronte all’arrivo di migranti e rifugiati che bussano alla nostra porta in cerca di protezione, di sicurezza e di un futuro migliore. È vero, il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro» (Omelia, Sacrofano, 15 febbraio 2019). Il problema non è il fatto di avere dubbi e timori. Il problema è quando questi condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore (cfr Omelia nella Messa per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 14 gennaio 2018).

«Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46). Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. Attraverso le opere di carità dimostriamo la nostra fede (cfr Gc 2,18). E la carità più alta è quella che si esercita verso chi non è in grado di ricambiare e forse nemmeno di ringraziare. «Ciò che è in gioco è il volto che vogliamo darci come società e il valore di ogni vita. […] Il progresso dei nostri popoli […] dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuovere da chi bussa alla porta e col suo sguardo scredita ed esautora tutti i falsi idoli che ipotecano e schiavizzano la vita; idoli che promettono una felicità illusoria ed effimera, costruita al margine della realtà e della sofferenza degli altri» (Discorso presso la Caritas Diocesana di Rabat, 30 marzo 2019).

«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Ciò che spinge quel Samaritano – uno straniero rispetto ai giudei – a fermarsi è la compassione, un sentimento che non si spiega solo a livello razionale. La compassione tocca le corde più sensibili della nostra umanità, provocando un’impellente spinta a “farsi prossimo” di chi vediamo in difficoltà. Come Gesù stesso ci insegna (cfr Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), avere compassione significa riconoscere la sofferenza dell’altro e passare subito all’azione per lenire, curare e salvare. Avere compassione significa dare spazio alla tenerezza, che invece la società odierna tante volte ci chiede di reprimere. «Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità» (Discorso nella Moschea “Heydar Aliyev”di Baku, Azerbaijan, 2 ottobre 2016).

«Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno. Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili, ai quali si impedisce di sedersi a tavola e si lasciano le “briciole” del banchetto (cfr Lc 16,19-21). «La Chiesa “in uscita” [...] sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). Lo sviluppo esclusivista rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Lo sviluppo vero è quello che si propone di includere tutti gli uomini e le donne del mondo, promuovendo la loro crescita integrale, e si preoccupa anche delle generazioni future.

«Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto. Gesù Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il mio tornaconto personale o quello del mio gruppo: prima io e poi gli altri! Invece il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”. «Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità» (Discorso al Corpo Diplomatico, 11 gennaio 2016). Nella logica del Vangelo gli ultimi vengono prima, e noi dobbiamo metterci a loro servizio.

«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. In questa affermazione di Gesù troviamo il cuore della sua missione: far sì che tutti ricevano il dono della vita in pienezza, secondo la volontà del Padre. In ogni attività politica, in ogni programma, in ogni azione pastorale dobbiamo sempre mettere al centro la persona, nelle sue molteplici dimensioni, compresa quella spirituale. E questo vale per tutte le persone, alle quali va riconosciuta la fondamentale uguaglianza. Pertanto, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (S. Paolo VI, Enc. Populorum progressio, 14).

«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo. In questa nostra epoca, chiamata anche l’era delle migrazioni, sono molte le persone innocenti che cadono vittime del “grande inganno” dello sviluppo tecnologico e consumistico senza limiti (cfr Enc. Laudato si’, 34). E così si mettono in viaggio verso un “paradiso” che inesorabilmente tradisce le loro aspettative. La loro presenza, a volte scomoda, contribuisce a sfatare i miti di un progresso riservato a pochi, ma costruito sullo sfruttamento di molti. «Si tratta, allora, di vedere noi per primi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo» (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2014).

Cari fratelli e sorelle, la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati. Se mettiamo in pratica questi verbi, contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo, promuoviamo lo sviluppo umano integrale di tutte le persone e aiutiamo anche la comunità mondiale ad avvicinarsi agli obiettivi di sviluppo sostenibile che si è data e che, altrimenti, saranno difficilmente raggiunti.

Dunque, non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione, a liberarci dagli esclusivismi, dall’indifferenza e dalla cultura dello scarto. Attraverso di loro il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio.

È questo l’auspicio che accompagno con la preghiera invocando, per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio.

Dal Vaticano, 27 maggio 2019

FRANCESCO

[00923-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

 

Il ne s’agit pas seulement de migrants

Chers frères et sœurs,

la foi nous assure que le Royaume de Dieu est déjà présent sur la terre de façon mystérieuse (cf. Conc. Œcum. Vat. II, Const. Gaudium et spes, n. 39) ; cependant, de nos jours encore, nous devons constater avec douleur qu’il rencontre des obstacles et se heurte à des forces contraires. De violents conflits et de véritables guerres ne cessent de déchirer l’humanité ; les injustices et les discriminations se succèdent ; on peine à surmonter les déséquilibres économiques et sociaux, à l’échelle locale ou mondiale. Et ce sont surtout les plus pauvres et les plus défavorisés qui font les frais de tout ceci.

Les sociétés économiquement les plus avancées ont tendance à développer en leur sein un individualisme accentué qui, uni à une mentalité utilitariste et multiplié par le réseau médiatique, produit la “ mondialisation de l’indifférence ”. Dans ce contexte, les migrants, les réfugiés, les personnes déplacées et les victimes de la traite des personnes sont devenus l’emblème de l’exclusion car, au-delà des malaises que comporte en soi leur condition, on fait peser sur eux un jugement négatif qui les considère comme cause des maux de la société. L’attitude à leur égard constitue une sonnette d’alarme qui nous avertit du déclin moral qui nous guette si l’on continue à concéder du terrain à la culture du rejet. De fait, sur cette voie, tout sujet qui ne rentre pas dans les canons du bien-être physique, psychique et social court le risque de la marginalisation et de l’exclusion.

C’est pourquoi la présence des migrants et des réfugiés – comme, en général, des personnes vulnérables – représente aujourd’hui une invitation à retrouver certaines dimensions essentielles de notre existence chrétienne et de notre humanité, qui risquent de s’assoupir dans un style de vie rempli de confort. C’est en cela que l’expression «il ne s’agit pas seulement de migrants» signifie qu’en nous intéressant à eux, nous nous intéressons aussi à nous et à tous ; en prenant soin d’eux, nous grandissons tous ; en les écoutant, nous laissons aussi parler cette part de nous que nous gardons peut-être cachée parce qu’aujourd’hui elle n’est pas bien vue.

« Courage, c’est moi, n’ayez pas peur ! » (Mt 14, 27). Il ne s’agit pas seulement de migrants: il s’agit aussi de nos peurs. Les méchancetés et les laideurs de notre temps accroissent « notre crainte des “ autres ”, les inconnus, les marginalisés, les étrangers […]. Cela se constate particulièrement aujourd’hui, face à l’arrivée de migrants et de réfugiés qui frappent à notre porte à la recherche de protection, de sécurité et d’un avenir meilleur. La crainte est légitime, notamment parce qu’il manque une préparation à cette rencontre » (Homélie, Sacrofano, 15 février 2019). Le problème n’est pas tant d’avoir des doutes et des craintes. Le problème, c’est quand ceux-ci conditionnent notre façon de penser et d’agir au point de nous rendre intolérants, fermés, et peut-être même – sans nous en rendre compte – racistes. Ainsi la peur nous prive du désir et de la capacité de rencontrer l’autre, la personne qui est différente de moi; elle me prive d’une occasion de rencontre avec le Seigneur (cf. Homélie de la Messe pour la Journée mondiale du Migrant et du Réfugié, 14 janvier 2018).

« Si vous aimez ceux qui vous aiment, quelle récompense aurez-vous? Les publicains eux-mêmesn’en font-ils pas autant ? » (Mt 5, 46). Il ne s’agit pas seulement de migrants: il s’agit de charité. Grâce aux œuvres de charité, nous démontrons notre foi (cf. Jc 2, 18). Or, la charité la plus élevée est celle qui s’exerce envers ceux qui ne sont pas en mesure de rendre la pareille, ni même peut-être de remercier. « Ce qui est en jeu, c’est le visage que nous voulons nous donner comme société et la valeur de toute vie. […] Le progrès de nos peuples […] dépend surtout de la capacité de se laisser remuer et toucher par celui qui frappe à la porte et qui, avec son regard, discrédite et prive d’autorité toutes les fausses idoles qui hypothèquent la vie et la réduisent en esclavage ; idoles qui promettent un bonheur illusoire et éphémère, construit aux marges de la réalité et de la souffrance des autres » (Discours à la Caritas Diocésaine de Rabat, 30 mars 2019).

« Mais un Samaritain, qui était en voyage, arriva près de lui, le vit et fut pris de pitié » (Lc 10, 33). Il ne s’agit pas seulement de migrants : il s’agit de notre humanité. Ce qui pousse ce Samaritain – un étranger par rapport aux juifs – à s’arrêter, c’est la compassion: un sentiment qui ne s’explique pas seulement au niveau rationnel. La compassion fait vibrer les cordes les plus sensibles de notre humanité, provoquant un élan irrépressible à nous “ faire le prochain” de ceux que nous voyons en difficulté. Comme Jésus lui-même nous l’enseigne (cf. Mt 9, 35-36 ; 14, 13-14 ; 15, 32-37), avoir de la compassion signifie reconnaître la souffrance de l’autre et passer tout de suite à l’action pour soulager, soigner et sauver. Avoir de la compassion signifie faire de la place à la tendresse, que la société contemporaine nous demande si souvent, au contraire, de réprimer. «S’ouvrir aux autres n’appauvrit pas mais enrichit, car cela aide à être plus humain; à se reconnaître partie active d’un ensemble plus grand et à interpréter la vie comme un don pour les autres ; à voir comme but, non pas ses propres intérêts mais le bien de l’humanité » (Discours à la mosquée “ Heydar Aliyev ” de Bakou, Azerbaïdjan, 2 octobre 2016).

« Gardez-vous de mépriser aucun de ces petits: car, je vous le dis, leurs anges aux cieux voient constamment la face de mon père qui est aux cieux » (Mt 18, 10). Il ne s’agit pas seulement de migrants: il s’agit de n’exclure personne. Le monde actuel est chaque jour plus élitiste et cruel envers les exclus. Les pays en voie de développement continuent d’être appauvris de leurs meilleures ressources naturelles et humaines au profit de quelques marchés privilégiés. Les guerres ne concernent que quelques régions du monde, mais les armes pour les faire sont produites et vendues dans d’autres régions qui, ensuite, ne veulent pas se charger des réfugiés produits par ces conflits. Ceux qui en font les frais, ce sont toujours les petits, les pauvres, les plus vulnérables, qu’on empêche de s’asseoir à table et à qui on laisse les “ miettes ” du banquet (cf. Lc 16, 19-21). «L’Église “ en sortie ” [...] sait prendre l’initiative sans crainte, aller à la rencontre, chercher ceux qui sont loin et arriver aux croisées des chemins pour inviter les exclus » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 24). Le développement qui exclut rend les riches plus riches et les pauvres plus pauvres. Le développement véritable est celui qui se propose d’inclure tous les hommes et toutes les femmes du monde, en favorisant leur croissance intégrale, et qui se préoccupe aussi des générations futures.

« Celui qui voudra devenir grand parmi vous, sera votre serviteur, et celui qui voudra être le premier parmi vous, sera l’esclave de tous » (Mc 10, 43-44). Il ne s’agit pas seulement de migrants: il s’agit de mettre les derniers à la première place. Jésus-Christ nous demande de ne pas céder à la logique du monde, qui justifie la prévarication sur les autres pour mon avantage personnel ou celui de mon groupe : moi d’abord et les autres après ! Or la vraie devise du chrétien, c’est “ d’abord les derniers ! ”. « Un esprit individualiste est un terrain fertile pour la maturation de cette attitude d’indifférence envers le prochain, qui porte à le traiter comme simple objet d’achat et de vente, qui pousse à se désintéresser de l’humanité des autres et finit par rendre les personnes craintives et cyniques. Ces sentiments ne sont-ils pas ceux que nous éprouvons souvent devant les pauvres, les marginaux, les derniers de la société ? Et combien de derniers avons-nous dans nos sociétés ! Parmi ceux-ci, je pense surtout aux migrants, avec leur poids de difficultés et de souffrances qu’ils affrontent chaque jour dans la recherche, parfois désespérée, d’un lieu où vivre en paix et avec dignité» (Discours au Corps diplomatique, 11 janvier 2016). Dans la logique de l’Évangile, les derniers viennent en premier et nous devons nous mettre à leur service.

« Je suis venu pour qu’ils aient la vie et qu’ils l’aient en abondance» (Jn 10, 10). Il ne s’agit pas seulement de migrants : il s’agit de toute la personne, de toutes les personnes. Dans cette affirmation de Jésus, nous trouvons le cœur de sa mission: faire en sorte que tous reçoivent le don de la vie en plénitude, selon la volonté du Père. Dans toute activité politique, dans tout programme, dans toute action pastorale, nous devons toujours mettre au centre la personne, sous ses multiples dimensions, y compris sa dimension spirituelle. Cela vaut pour toutes les personnes, auxquelles doit être reconnue l’égalité fondamentale. Par conséquent, « le développement ne se réduit pas à la simple croissance économique. Pour être authentique, il doit être intégral, c’est-à-dire promouvoir tout homme et tout l’homme » (Saint Paul VI, Enc. Populorum progressio, n.14).

« Ainsi donc vous n’êtes plus des étrangers ni des hôtes; vous êtes concitoyens des saints, vous êtes de la maison de Dieu » (Ep 2, 19). Il ne s’agit pas seulement de migrants: il s’agit de construire la cité de Dieu et de l’homme. À notre époque, appelée aussi l’ère des migrations, nombreuses sont les personnes innocentes qui tombent en victimes dans le “ grand piège ” du développement technologique et de la consommation sans limites (cf. Enc. Laudato si’, n. 34). Aussi se mettent-elles en voyage vers un “ paradis ” qui trahit inexorablement leurs attentes. Leur présence, parfois dérangeante, contribue à dissiper les mythes d’un progrès réservé à quelques-uns, mais bâti sur l’exploitation de la multitude. « Il s’agit alors de voir, nous d’abord et d’aider ensuite les autres à voir dans le migrant et dans le réfugié non pas seulement un problème à affronter, mais un frère et une sœur à accueillir, à respecter et à aimer, une occasion que la Providence nous offre pour contribuer à la construction d’une société plus juste, une démocratie plus accomplie, un pays plus solidaire, un monde plus fraternel et une communauté chrétienne plus ouverte, selon l’Évangile » (Message pour la Journée mondiale du Migrant et du Réfugié 2014).

Chers frères et sœurs, la réponse au défi posé par les migrations contemporaines peut se résumer en quatre verbes : accueillir, protéger, promouvoir et intégrer. Mais ces verbes ne valent pas seulement pour les migrants et pour les réfugiés. Ils expriment la mission de l’Église envers tous les habitants des périphéries existentielles, qui doivent être accueillis, protégés, promus et intégrés. Si nous mettons ces verbes en pratique, nous contribuons à construire la cité de Dieu et de l’homme, nous encourageons le développement humain intégral de toutes les personnes et nous aidons aussi la communauté mondiale à s’approcher des objectifs du développement durable qu’elle s’est donnés et qu’il sera difficile d’atteindre autrement.

Donc, ce n’est pas seulement la cause des migrants qui est en jeu, ce n’est pas seulement d’eux qu’il s’agit, mais de nous tous, du présent et de l’avenir de la famille humaine. Les migrants, et spécialement ceux qui sont plus vulnérables, nous aident à lire les “ signes des temps ”. À travers eux, le Seigneur nous appelle à une conversion, à nous libérer des exclusions, de l’indifférence et de la culture du déchet. À travers eux, le Seigneur nous invite à nous réapproprier notre vie chrétienne dans son entier et à contribuer, chacun selon sa vocation, à l’édification d’un monde qui corresponde toujours davantage au projet de Dieu.

C’est le vœu que j’accompagne de ma prière en invoquant, par l’intercession de la Vierge Marie, Notre-Dame de la Route, d’abondantes bénédictions sur tous les migrants et les réfugiés du monde entier et sur ceux qui se font leurs compagnons de voyage.

Du Vatican, le 27 mai 2019

FRANÇOIS

[00923-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

 

It is not just about migrants

Dear Brothers and Sisters,

Faith assures us that in a mysterious way the Kingdom of God is already present here on earth (cf. Gaudium et Spes, 39). Yet in our own time, we are saddened to see the obstacles and opposition it encounters. Violent conflicts and all-out wars continue to tear humanity apart; injustices and discrimination follow one upon the other; economic and social imbalances on a local or global scale prove difficult to overcome. And above all it is the poorest of the poor and the most disadvantaged who pay the price.

The most economically advanced societies are witnessing a growing trend towards extreme individualism which, combined with a utilitarian mentality and reinforced by the media, is producing a “globalization of indifference”. In this scenario, migrants, refugees, displaced persons and victims of trafficking have become emblems of exclusion. In addition to the hardships that their condition entails, they are often looked down upon and considered the source of all society’s ills. That attitude is an alarm bell warning of the moral decline we will face if we continue to give ground to the throw-away culture. In fact, if it continues, anyone who does not fall within the accepted norms of physical, mental and social well-being is at risk of marginalization and exclusion.

For this reason, the presence of migrants and refugees – and of vulnerable people in general – is an invitation to recover some of those essential dimensions of our Christian existence and our humanity that risk being overlooked in a prosperous society. That is why it is not just about migrants. When we show concern for them, we also show concern for ourselves, for everyone; in taking care of them, we all grow; in listening to them, we also give voice to a part of ourselves that we may keep hidden because it is not well regarded nowadays.

“Take courage, it is I, do not be afraid!” (Mt 14:27). It is not just about migrants: it is also about our fears. The signs of meanness we see around us heighten “our fear of ‘the other’, the unknown, the marginalized, the foreigner... We see this today in particular, faced with the arrival of migrants and refugees knocking on our door in search of protection, security and a better future. To some extent, the fear is legitimate, also because the preparation for this encounter is lacking” (Homily in Sacrofano, 15 February 2019). But the problem is not that we have doubts and fears. The problem is when they condition our way of thinking and acting to the point of making us intolerant, closed and perhaps even – without realizing it – racist. In this way, fear deprives us of the desire and the ability to encounter the other, the person different from myself; it deprives me of an opportunity to encounter the Lord (cf. Homily at Mass for the World Day of Migrants and Refugees, 14 January 2018).

“For if you love those who love you, what recompense will you have? Do not the tax collectors do the same?” (Mt 5:46). It is not just about migrants: it is about charity. Through works of charity, we demonstrate our faith (cf. Jas 2:18). And the highest form of charity is that shown to those unable to reciprocate and perhaps even to thank us in return. “It is also about the face we want to give to our society and about the value of each human life... The progress of our peoples... depends above all on our openness to being touched and moved by those who knock at our door. Their faces shatter and debunk all those false idols that can take over and enslave our lives; idols that promise an illusory and momentary happiness blind to the lives and sufferings of others” (Address at the Diocesan Caritas of Rabat, 30 March 2019).

“But a Samaritan traveller who came upon him was moved with compassion at the sight” (Lk 10:33). It is not just about migrants: it is about our humanity. Compassion motivated that Samaritan – for the Jews, a foreigner – not to pass by. Compassion is a feeling that cannot be explained on a purely rational level. Compassion strikes the most sensitive chords of our humanity, releasing a vibrant urge to “be a neighbour” to all those whom we see in difficulty. As Jesus himself teaches us (cf. Mt 9:35-36; 14:13-14; 15:32-37), being compassionate means recognizing the suffering of the other and taking immediate action to soothe, heal and save. To be compassionate means to make room for that tenderness which today’s society so often asks us to repress. “Opening ourselves to others does not lead to impoverishment, but rather enrichment, because it enables us to be more human: to recognize ourselves as participants in a greater collectivity and to understand our life as a gift for others; to see as the goal, not our own interests, but rather the good of humanity” (Address at the Heydar Aliyev Mosque in Baku, 2 October 2016).

“See that you do not despise one of these little ones, for I say to you that their angels in heaven always look upon the face of my heavenly Father” (Mt 18:10). It is not just about migrants: it is a question of seeing that no one is excluded. Today’s world is increasingly becoming more elitist and cruel towards the excluded. Developing countries continue to be drained of their best natural and human resources for the benefit of a few privileged markets. Wars only affect some regions of the world, yet weapons of war are produced and sold in other regions which are then unwilling to take in the refugees produced by these conflicts. Those who pay the price are always the little ones, the poor, the most vulnerable, who are prevented from sitting at the table and are left with the “crumbs” of the banquet (cf. Lk 16:19-21). “The Church which ‘goes forth’... can move forward, boldly take the initiative, go out to others, seek those who have fallen away, stand at the crossroads and welcome the outcast” (Evangelii Gaudium, 24). A development that excludes makes the rich richer and the poor poorer. A real development, on the other hand, seeks to include all the world’s men and women, to promote their integral growth, and to show concern for coming generations.

“Whoever wishes to be great among you will be your servant; whoever wishes to be first among you will be the slave of all” (Mk 10:43-44). It is not just about migrants: it is about putting the last in first place. Jesus Christ asks us not to yield to the logic of the world, which justifies injustice to others for my own gain or that of my group. “Me first, and then the others!” Instead, the true motto of the Christian is, “The last shall be first!” “An individualistic spirit is fertile soil for the growth of that kind of indifference towards our neighbours which leads to viewing them in purely economic terms, to a lack of concern for their humanity, and ultimately to feelings of fear and cynicism. Are these not the attitudes we often adopt towards the poor, the marginalized and the ‘least’ of society? And how many of these ‘least’ do we have in our societies! Among them I think primarily of migrants, with their burden of hardship and suffering, as they seek daily, often in desperation, a place to live in peace and dignity” (Address to the Diplomatic Corps, 11 January 2016). In the logic of the Gospel, the last come first, and we must put ourselves at their service.

“I came so that they might have life and have it more abundantly” (Jn 10:10). It is not just about migrants: it is about the whole person, about all people. In Jesus’ words, we encounter the very heart of his mission: to see that all receive the gift of life in its fullness, according to the will of the Father. In every political activity, in every programme, in every pastoral action we must always put the person at the centre, in his or her many aspects, including the spiritual dimension. And this applies to all people, whose fundamental equality must be recognized. Consequently, “development cannot be restricted to economic growth alone. To be authentic, it must be well-rounded; it must foster the development of each man and of the whole man” (SAINT PAUL VI, Populorum Progressio, 14).

“So then you are no longer strangers and sojourners, but you are fellow citizens with the holy ones and members of the household of God” (Eph 2:19). It is not just about migrants: it is about building the city of God and man. In our time, which can also be called the era of migration, many innocent people fall victim to the “great deception” of limitless technological and consumerist development (cf. Laudato Si’, 34). As a result, they undertake a journey towards a “paradise” that inevitably betrays their expectations. Their presence, at times uncomfortable, helps to debunk the myth of a progress that benefits a few while built on the exploitation of many. “We ourselves need to see, and then to enable others to see, that migrants and refugees do not only represent a problem to be solved, but are brothers and sisters to be welcomed, respected and loved. They are an occasion that Providence gives us to help build a more just society, a more perfect democracy, a more united country, a more fraternal world and a more open and evangelical Christian community” (Message for the 2014 World Day of Migrants and Refugees).

Dear brothers and sisters, our response to the challenges posed by contemporary migration can be summed up in four verbs: welcome, protect, promote and integrate. Yet these verbs do not apply only to migrants and refugees. They describe the Church’s mission to all those living in the existential peripheries, who need to be welcomed, protected, promoted and integrated. If we put those four verbs into practice, we will help build the city of God and man. We will promote the integral human development of all people. We will also help the world community to come closer to the goals of sustainable development that it has set for itself and that, lacking such an approach, will prove difficult to achieve.

In a word, it is not only the cause of migrants that is at stake; it is not just about them, but about all of us, and about the present and future of the human family. Migrants, especially those who are most vulnerable, help us to read the “signs of the times”. Through them, the Lord is calling us to conversion, to be set free from exclusivity, indifference and the throw-away culture. Through them, the Lord invites us to embrace fully our Christian life and to contribute, each according to his or her proper vocation, to the building up of a world that is more and more in accord with God’s plan.

In expressing this prayerful hope, and through the intercession of the Virgin Mary, Our Lady of the Way, I invoke God’s abundant blessings upon all the world’s migrants and refugees and upon all those who accompany them on their journey.

From the Vatican, 27 May 2019

FRANCIS

[00923-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Es geht nicht nur um Migranten

Liebe Brüder und Schwestern,

der Glaube versichert uns, dass das Reich Gottes bereits auf Erden geheimnisvoll präsent ist (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Konstitution Gaudium et spes, 39); dennoch müssen wir auch in unserer heutigen Zeit schmerzhaft feststellen, dass es auf Hindernisse und Gegenkräfte stößt. Gewalttätige Konflikte und echte Kriege hören nicht auf, die Menschheit auseinanderzureißen; ununterbrochen geschehen Ungerechtigkeiten und Diskriminierungen; man tut sich schwer, wirtschaftliche und soziale Ungleichgewichte auf lokaler oder globaler Ebene zu überwinden. Und es sind vor allem die Ärmsten und Benachteiligten, die dafür bezahlen.

Die wirtschaftlich am weitesten fortgeschrittenen Gesellschaften entwickeln in ihrem Inneren die Tendenz eines ausgeprägten Individualismus, der, in Verbindung mit einer utilitaristischen Mentalität und in Ausweitung durch das Netzwerk der Medien, eine „Globalisierung der Gleichgültigkeit“ hervorbringt. In diesem Szenario sind Migranten, Flüchtlinge, Vertriebene und Opfer von Menschenhandel zu Sinnbildern der Ausgrenzung geworden, weil ihnen, neben den Schwierigkeiten, die ihre Lage an sich schon beinhaltet, oft ein negatives Urteil anhaftet, das sie als Ursache gesellschaftlicher Missstände ansieht. Die Einstellung ihnen gegenüber ist ein Alarmzeichen, das vor dem moralischen Niedergang warnt, der einen erwartet, wenn man der Wegwerfmentalität weiterhin Raum gibt. In der Tat steht so jedes Subjekt, das nicht den Maßstäben des physischen, psychischen und sozialen Wohlbefindens entspricht, in der Gefahr, an den Rand gedrängt und ausgegrenzt zu werden.

Aus diesem Grund stellt die Anwesenheit von Migranten und Flüchtlingen – wie überhaupt von schutzbedürftigen Menschen – für uns heute eine Einladung dar, einige wesentliche Dimensionen unserer christlichen Existenz und unserer Menschlichkeit wiederzugewinnen, die Gefahr laufen, in einem komfortablen Lebensstandard einzuschlafen. Deshalb also „geht es nicht nur um Migranten“, das heißt: wenn wir uns für sie interessieren, geschieht dies auch in unserem eigenen und im Interesse aller; wenn wir uns um sie kümmern, wachsen wir alle; indem wir ihnen zuhören, geben wir auch dem Teil von uns eine Stimme, den wir vielleicht verborgen halten, weil er heutzutage nicht gut angesehen ist.

»Habt Vertrauen, ich bin es; fürchtet euch nicht!« (Mt 14,27). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht auch um unsere Ängste. Die Bosheiten und Widerwärtigkeiten unserer Zeit lassen »unsere Angst vor den „anderen“ wachsen, den Unbekannten, den Ausgegrenzten, den Fremden […] Und das zeigt sich in der heutigen Zeit besonders deutlich angesichts der Ankunft von Migranten und Flüchtlingen, die auf der Suche nach Schutz, Sicherheit und einer besseren Zukunft an unsere Tür klopfen. Es ist wahr, dass Furcht berechtigt ist, auch weil die Vorbereitung auf diese Begegnung fehlt« (Predigt in Sacrofano, 15. Februar 2019). Das Problem ist nicht, dass wir Zweifel und Ängste haben. Das Problem ist, dass diese unsere Denk- und Handlungsweise so weit konditionieren, dass sie uns intolerant, verschlossen und vielleicht sogar – ohne dass wir es merken – rassistisch machen. Und so beraubt uns die Angst des Wunsches und der Fähigkeit, dem anderen, dem Menschen, der sich von mir unterscheidet, zu begegnen; sie beraubt mich einer Möglichkeit, dem Herrn zu begegnen (vgl. Predigt in der Messe zum Welttag des Migranten und Flüchtlings, 14. Januar 2018).

»Wenn ihr nämlich nur die liebt, die euch lieben, welchen Lohn könnt ihr dafür erwarten? Tun das nicht auch die Zöllner?« (Mt 5,46). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht um Nächstenliebe. Durch Werke der Liebe zeigen wir unseren Glauben (vgl. Jak 2,18). Und die höchste Form der Nächstenliebe ist diejenige, die denen gegenüber praktiziert wird, die nichts zurückgeben und vielleicht nicht einmal danken können. »Hier geht es um das Bild, das wir als Gesellschaft abgeben wollen, und um den Wert eines jeden Lebens. […] Der Fortschritt unserer Völker […] bemisst sich vor allem an der Fähigkeit, sich von den Schicksalen derer berühren und bewegen zu lassen, die an die Tür klopfen und mit ihren Blicken alle falschen Götzen, die das Leben mit Hypotheken belasten und versklaven, diskreditieren und entmachten; Götzen, die ein illusorisches und flüchtiges Glück versprechen, welches das wirkliche Leben und das Leiden der anderen außer Acht lässt« (Ansprache beim Besuch der Caritas der Diözese Rabat, 30. März 2019).

»Ein Samariter aber, der auf der Reise war, kam zu ihm; er sah ihn und hatte Mitleid« (Lk 10,33). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht um unsere Menschlichkeit. Was diesen Samariter – aus jüdischer Sicht, einen Fremden – dazu bringt stehenzubleiben, ist das Mitleid, ein Gefühl, das sich nicht rein rational erklären lässt. Das Mitleid berührt den sensibelsten Bereich unserer Menschlichkeit und weckt den Drang, denjenigen „zu Nächsten zu werden“, die wir in Schwierigkeiten sehen. Wie Jesus selbst uns lehrt (vgl. Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), bedeutet Mitleid, das Leiden anderer wahrzunehmen und unverzüglich Maßnahmen zur Linderung, Heilung und Rettung zu ergreifen. Mitleid zu haben bedeutet, der Zärtlichkeit Raum zu geben, die zu unterdrücken die heutige Gesellschaft so oft von uns verlangt. »Sich den anderen zu öffnen, macht nicht ärmer, sondern es bereichert, denn es hilft, menschlicher zu sein: sich als aktiven Teil eines größeren Ganzen zu erkennen und das Leben als ein Geschenk für die anderen zu verstehen; als Ziel nicht die eigenen Interessen zu betrachten, sondern das Wohl der Menschheit« (Ansprache in der Heydar-Aliyev-Moschee in Baku, Aserbaidschan, 2. Oktober 2016).

»Hütet euch davor, einen von diesen Kleinen zu verachten! Denn ich sage euch: Ihre Engel im Himmel sehen stets das Angesicht meines himmlischen Vaters« (Mt 18,10). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht darum, niemanden auszuschließen. Die heutige Welt ist von Tag zu Tag elitärer und grausamer gegenüber den Ausgeschlossenen. Die Entwicklungsländer werden zugunsten einiger weniger privilegierter Märkte weiterhin ihrer besten natürlichen und menschlichen Ressourcen beraubt. Kriege betreffen nur bestimmte Regionen der Welt, aber die Waffen zu ihrer Herstellung werden in anderen Regionen produziert und verkauft, die sich dann jedoch um die aus diesen Konflikten hervorgehenden Flüchtlinge nicht kümmern wollen. Immer sind es die Kleinen, die den Preis dafür zahlen, die Armen und die am meisten Schutzbedürftigen, die man hindert, am Tisch zu sitzen und denen man die Reste des Banketts übriglässt (vgl. Lk 16,19-21). »Die Kirche „im Aufbruch“ versteht es, furchtlos die Initiative zu ergreifen, auf die anderen zuzugehen, die Fernen zu suchen und zu den Wegkreuzungen zu gelangen, um die Ausgeschlossenen einzuladen« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 24). Eine exklusivistische Entwicklung macht die Reichen reicher und die Armen ärmer. Eine echte Entwicklung zielt darauf ab, alle Männer und Frauen der Welt einzubeziehen und ihr ganzheitliches Wachstum zu fördern, zudem trägt sie Sorge für die zukünftigen Generationen.

»Wer bei euch groß sein will, der soll euer Diener sein, und wer bei euch der Erste sein will, soll der Sklave aller sein« (Mk 10,43-44). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht darum, die Letzten an die erste Stelle zu setzen. Jesus Christus verlangt von uns, nicht der Logik der Welt nachzugeben, die eine Übervorteilung anderer zu meinem persönlichen Vorteil oder zu dem der Meinen rechtfertigt: Zuerst ich und dann die anderen! Stattdessen ist das wahre Motto des Christen: „Die Letzten zuerst“. »Eine individualistische Mentalität ist der Nährboden, auf dem jenes Gefühl der Gleichgültigkeit gegenüber dem Nächsten reift, das dazu führt, mit ihm umzugehen wie mit einer bloßen Handelsware; das dazu treibt, sich nicht um das Menschsein der anderen zu kümmern, und das die Personen schließlich feige und zynisch werden lässt. Sind das denn nicht die Gefühle, die wir oft gegenüber den Armen, den Ausgegrenzten, den Letzten der Gesellschaft hegen? Und wie viele Letzte haben wir in unseren Gesellschaften! Unter ihnen denke ich vor allem an die Migranten mit ihrer Last an Schwierigkeiten und Leiden, denen sie täglich begegnen auf ihrer manchmal verzweifelten Suche nach einem Ort, wo sie in Frieden und Würde leben können « (Ansprache an das Diplomatische Korps, 11. Januar 2016). Nach der Logik des Evangeliums kommen die Letzten zuerst, und wir müssen uns in ihren Dienst stellen.

»Ich bin gekommen, damit sie das Leben haben und es in Fülle haben« (Joh 10,10). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht um den ganzen Menschen und um alle Menschen. In dieser Aussage Jesu finden wir das Herzstück seiner Sendung, nämlich die Sorge darum, dass alle das Geschenk des Lebens in Fülle empfangen, wie es dem Willen des Vaters entspricht. In allem politischen Handeln, in jedem Programm, in allem pastoralen Wirken müssen wir immer den Menschen in den Mittelpunkt stellen, in seinen vielfältigen Dimensionen, einschließlich der spirituellen. Dies gilt für alle Menschen, denen eine grundlegende Gleichheit zuerkannt werden muss. Deshalb ist Entwicklung »nicht einfach gleichbedeutend mit „wirtschaftlichem Wachstum“. Wahre Entwicklung muss umfassend sein, sie muss jeden Menschen und den ganzen Menschen im Auge haben« (Paul VI, Enzyklika Populorum progressio, 14).

»Ihr seid also jetzt nicht mehr Fremde und ohne Bürgerrecht, sondern Mitbürger der Heiligen und Hausgenossen Gottes« (Eph 2,19). Es geht nicht nur um Migranten: Es geht darum, die Stadt Gottes und des Menschen aufzubauen. In dieser unserer Epoche, die auch Zeitalter der Migration genannt wird, werden viele unschuldige Menschen Opfer der „großen Täuschung“ grenzenloser technologischer und konsumorientierter Entwicklung (vgl. Enzyklika Laudato si', 34). Und so begeben sie sich auf die Reise zu einem „Paradies“, das ihre Erwartungen unerbittlich verrät. Ihre manchmal unangenehme Präsenz trägt dazu bei, den Mythos eines Fortschritts zu entzaubern, der nur wenigen vorbehalten ist, aber auf der Ausbeutung vieler Menschen basiert. »Es geht also darum, dass wir als Erste und dann mit unserer Hilfe auch die anderen im Migranten und im Flüchtling nicht nur ein Problem sehen, das bewältigt werden muss, sondern einen Bruder und eine Schwester, die aufgenommen, geachtet und geliebt werden müssen – eine Gelegenheit, welche die Vorsehung uns bietet, um zum Aufbau einer gerechteren Gesellschaft, einer vollkommeneren Demokratie, eines solidarischeren Landes, einer brüderlicheren Welt und einer offeneren christlichen Gemeinschaft entsprechend dem Evangelium beizutragen« (Botschaft zum Welttag des Migranten und des Flüchtlings 2014).

Liebe Brüder und Schwestern, die Antwort auf die Herausforderung der gegenwärtigen Migration lässt sich in vier Verben zusammenfassen: aufnehmen, schützen, fördern und integrieren. Aber diese Verben gelten nicht nur bezüglich der Migranten und Flüchtlinge. Sie drücken die Sendung der Kirche zu den Menschen an den Rändern der Existenz aus, die aufgenommen, geschützt, gefördert und integriert werden müssen. Wenn wir diese Verben in die Praxis umsetzen, tragen wir zum Aufbau der Stadt Gottes und des Menschen bei, fördern wir die ganzheitliche menschliche Entwicklung jedes Einzelnen und helfen auch der Weltgemeinschaft, den Zielen nachhaltiger Entwicklung näher zu kommen, die sie sich gesetzt hat und die sonst schwer zu erreichen sein werden.

Deshalb geht es nicht nur um die Sache der Migranten, es geht nicht nur um sie, sondern um uns alle, um die Gegenwart und die Zukunft der Menschheitsfamilie. Die Migranten, insbesondere die am meisten Schutzbedürftigen, helfen uns, die „Zeichen der Zeit“ zu erkennen. Durch sie ruft uns der Herr zur Bekehrung auf. Er ruft uns auf, uns vom Exklusivismus, der Gleichgültigkeit und der Wegwerfmentalität zu befreien. Durch diese Menschen lädt der Herr uns ein, unser christliches Leben in seiner Gesamtheit wiederaufzunehmen und – jeder entsprechend seiner eigenen Berufung – zum Aufbau einer Welt beizutragen, die immer mehr dem Plan Gottes entspricht.

Dies ist das Anliegen, das ich mit meinem Gebet begleite. Im Vertrauen auf die Fürsprache der Jungfrau Maria, der Mutter derer, die auf dem Weg sind, erbitte ich allen Migranten und Flüchtlingen der Welt und denjenigen, die sich zu ihren Wegbegleitern machen, Gottes reichen Segen.

            Aus dem Vatikan, am 30. April 2019

FRANZISKUS

[00923-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

No se trata sólo de migrantes

Queridos hermanos y hermanas:

La fe nos asegura que el Reino de Dios está ya misteriosamente presente en nuestra tierra (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. Gaudium et spes, 39); sin embargo, debemos constatar con dolor que también hoy encuentra obstáculos y fuerzas contrarias. Conflictos violentos y auténticas guerras no cesan de lacerar la humanidad; injusticias y discriminaciones se suceden; es difícil superar los desequilibrios económicos y sociales, tanto a nivel local como global. Y son los pobres y los desfavorecidos quienes más sufren las consecuencias de esta situación.

Las sociedades económicamente más avanzadas desarrollan en su seno la tendencia a un marcado individualismo que, combinado con la mentalidad utilitarista y multiplicado por la red mediática, produce la “globalización de la indiferencia”. En este escenario, las personas migrantes, refugiadas, desplazadas y las víctimas de la trata, se han convertido en emblema de la exclusión porque, además de soportar dificultades por su misma condición, con frecuencia son objeto de juicios negativos, puesto que se las considera responsables de los males sociales. La actitud hacia ellas constituye una señal de alarma, que nos advierte de la decadencia moral a la que nos enfrentamos si seguimos dando espacio a la cultura del descarte. De hecho, por esta senda, cada sujeto que no responde a los cánones del bienestar físico, mental y social, corre el riesgo de ser marginado y excluido.

Por esta razón, la presencia de los migrantes y de los refugiados, como en general de las personas vulnerables, representa hoy en día una invitación a recuperar algunas dimensiones esenciales de nuestra existencia cristiana y de nuestra humanidad, que corren el riesgo de adormecerse con un estilo de vida lleno de comodidades. Razón por la cual, “no se trata sólo de migrantes” significa que al mostrar interés por ellos, nos interesamos también por nosotros, por todos; que cuidando de ellos, todos crecemos; que escuchándolos, también damos voz a esa parte de nosotros que quizás mantenemos escondida porque hoy no está bien vista.

«¡Ánimo, soy yo, no tengáis miedo!» (Mt 14,27). No se trata sólo de migrantes, también se trata de nuestros miedos. La maldad y la fealdad de nuestro tiempo acrecienta «nuestro miedo a los “otros”, a los desconocidos, a los marginados, a los forasteros [...]. Y esto se nota particularmente hoy en día, frente a la llegada de migrantes y refugiados que llaman a nuestra puerta en busca de protección, seguridad y un futuro mejor. Es verdad, el temor es legítimo, también porque falta preparación para este encuentro» (Homilía, Sacrofano, 15 febrero 2019). El problema no es el hecho de tener dudas y sentir miedo. El problema es cuando esas dudas y esos miedos condicionan nuestra forma de pensar y de actuar hasta el punto de convertirnos en seres intolerantes, cerrados y quizás, sin darnos cuenta, incluso racistas. El miedo nos priva así del deseo y de la capacidad de encuentro con el otro, con aquel que es diferente; nos priva de una oportunidad de encuentro con el Señor (cf. Homilía en la Concelebración Eucarística de la Jornada Mundial del Migrante y del Refugiado, 14 enero 2018).

«Porque, si amáis a los que os aman, ¿qué premio tendréis? ¿No hacen lo mismo también los publicanos?» (Mt 5,46). No se trata sólo de migrantes: se trata de la caridad. A través de las obras de caridad mostramos nuestra fe (cf. St 2,18). Y la mayor caridad es la que se ejerce con quienes no pueden corresponder y tal vez ni siquiera dar gracias. «Lo que está en juego es el rostro que queremos darnos como sociedad y el valor de cada vida [...]. El progreso de nuestros pueblos [...] depende sobre todo de la capacidad de dejarse conmover por quien llama a la puerta y con su mirada estigmatiza y depone a todos los falsos ídolos que hipotecan y esclavizan la vida; ídolos que prometen una aparente y fugaz felicidad, construida al margen de la realidad y del sufrimiento de los demás» (Discurso en la Cáritas Diocesana de Rabat, 30 marzo 2019).

«Pero un samaritano que iba de viaje llegó adonde estaba él y, al verlo, se compadeció» (Lc 10,33). No se trata sólo de migrantes: se trata de nuestra humanidad. Lo que mueve a ese samaritano, un extranjero para los judíos, a detenerse, es la compasión, un sentimiento que no se puede explicar únicamente a nivel racional. La compasión toca la fibra más sensible de nuestra humanidad, provocando un apremiante impulso a “estar cerca” de quienes vemos en situación de dificultad. Como Jesús mismo nos enseña (cf. Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), sentir compasión significa reconocer el sufrimiento del otro y pasar inmediatamente a la acción para aliviar, curar y salvar. Sentir compasión significa dar espacio a la ternura que a menudo la sociedad actual nos pide reprimir. «Abrirse a los demás no empobrece, sino que más bien enriquece, porque ayuda a ser más humano: a reconocerse parte activa de un todo más grande y a interpretar la vida como un regalo para los otros, a ver como objetivo, no los propios intereses, sino el bien de la humanidad» (Discurso en la Mezquita “Heydar Aliyev” de Bakú, Azerbaiyán, 2 octubre 2016).

«Cuidado con despreciar a uno de estos pequeños, porque os digo que sus ángeles están viendo siempre en los cielos el rostro de mi Padre celestial» (Mt 18,10). No se trata sólo de migrantes: se trata de no excluir a nadie. El mundo actual es cada día más elitista y cruel con los excluidos. Los países en vías de desarrollo siguen agotando sus mejores recursos naturales y humanos en beneficio de unos pocos mercados privilegiados. Las guerras afectan sólo a algunas regiones del mundo; sin embargo, la fabricación de armas y su venta se lleva a cabo en otras regiones, que luego no quieren hacerse cargo de los refugiados que dichos conflictos generan. Quienes padecen las consecuencias son siempre los pequeños, los pobres, los más vulnerables, a quienes se les impide sentarse a la mesa y se les deja sólo las “migajas” del banquete (cf. Lc 16,19-21). La Iglesia «en salida [...] sabe tomar la iniciativa sin miedo, salir al encuentro, buscar a los lejanos y llegar a los cruces de los caminos para invitar a los excluidos» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 24). El desarrollo exclusivista hace que los ricos sean más ricos y los pobres más pobres. El auténtico desarrollo es aquel que pretende incluir a todos los hombres y mujeres del mundo, promoviendo su crecimiento integral, y preocupándose también por las generaciones futuras.

«El que quiera ser grande entre vosotros, que sea vuestro servidor; y el que quiera ser primero, sea esclavo de todos» (Mc 10,43-44). No se trata sólo de migrantes: se trata de poner a los últimos en primer lugar. Jesucristo nos pide que no cedamos a la lógica del mundo, que justifica el abusar de los demás para lograr nuestro beneficio personal o el de nuestro grupo: ¡primero yo y luego los demás! En cambio, el verdadero lema del cristiano es “¡primero los últimos!”. «Un espíritu individualista es terreno fértil para que madure el sentido de indiferencia hacia el prójimo, que lleva a tratarlo como puro objeto de compraventa, que induce a desinteresarse de la humanidad de los demás y termina por hacer que las personas sean pusilánimes y cínicas. ¿Acaso no son estas las actitudes que frecuentemente asumimos frente a los pobres, los marginados o los últimos de la sociedad? ¡Y cuántos últimos hay en nuestras sociedades! Entre estos, pienso sobre todo en los emigrantes, con la carga de dificultades y sufrimientos que deben soportar cada día en la búsqueda, a veces desesperada, de un lugar donde poder vivir en paz y con dignidad» (Discurso ante el Cuerpo Diplomático, 11 enero 2016). En la lógica del Evangelio, los últimos son los primeros, y nosotros tenemos que ponernos a su servicio.

«Yo he venido para que tengan vida y la tengan abundante» (Jn 10,10). No se trata sólo de migrantes: se trata de la persona en su totalidad, de todas las personas. En esta afirmación de Jesús encontramos el corazón de su misión: hacer que todos reciban el don de la vida en plenitud, según la voluntad del Padre. En cada actividad política, en cada programa, en cada acción pastoral, debemos poner siempre en el centro a la persona, en sus múltiples dimensiones, incluida la espiritual. Y esto se aplica a todas las personas, a quienes debemos reconocer la igualdad fundamental. Por lo tanto, «el desarrollo no se reduce al simple crecimiento económico. Para ser auténtico, debe ser integral, es decir, promover a todos los hombres y a todo el hombre» (S. Pablo VI, Carta enc. Populorum progressio, 14).

«Así pues, ya no sois extranjeros ni forasteros, sino conciudadanos de los santos, y miembros de la familia de Dios» (Ef 2,19). No se trata sólo de migrantes: se trata de construir la ciudad de Dios y del hombre. En nuestra época, también llamada la era de las migraciones, son muchas las personas inocentes víctimas del “gran engaño” del desarrollo tecnológico y consumista sin límites (cf. Carta enc. Laudato si’, 34). Y así, emprenden un viaje hacia un “paraíso” que inexorablemente traiciona sus expectativas. Su presencia, a veces incómoda, contribuye a disipar los mitos de un progreso reservado a unos pocos, pero construido sobre la explotación de muchos. «Se trata, entonces, de que nosotros seamos los primeros en verlo y así podamos ayudar a los otros a ver en el emigrante y en el refugiado no sólo un problema que debe ser afrontado, sino un hermano y una hermana que deben ser acogidos, respetados y amados, una ocasión que la Providencia nos ofrece para contribuir a la construcción de una sociedad más justa, una democracia más plena, un país más solidario, un mundo más fraterno y una comunidad cristiana más abierta, de acuerdo con el Evangelio» (Mensaje para la Jornada Mundial del Migrante y del Refugiado 2014).

Queridos hermanos y hermanas: La respuesta al desafío planteado por las migraciones contemporáneas se puede resumir en cuatro verbos: acoger, proteger, promover e integrar. Pero estos verbos no se aplican sólo a los migrantes y a los refugiados. Expresan la misión de la Iglesia en relación a todos los habitantes de las periferias existenciales, que deben ser acogidos, protegidos, promovidos e integrados. Si ponemos en práctica estos verbos, contribuimos a edificar la ciudad de Dios y del hombre, promovemos el desarrollo humano integral de todas las personas y también ayudamos a la comunidad mundial a acercarse a los objetivos de desarrollo sostenible que ha establecido y que, de lo contrario, serán difíciles de alcanzar.

Por lo tanto, no solamente está en juego la causa de los migrantes, no se trata sólo de ellos, sino de todos nosotros, del presente y del futuro de la familia humana. Los migrantes, y especialmente aquellos más vulnerables, nos ayudan a leer los “signos de los tiempos”. A través de ellos, el Señor nos llama a una conversión, a liberarnos de los exclusivismos, de la indiferencia y de la cultura del descarte. A través de ellos, el Señor nos invita a reapropiarnos de nuestra vida cristiana en su totalidad y a contribuir, cada uno según su propia vocación, a la construcción de un mundo que responda cada vez más al plan de Dios.

Este es el deseo que acompaño con mi oración, invocando, por intercesión de la Virgen María, Nuestra Señora del Camino, abundantes bendiciones sobre todos los migrantes y los refugiados del mundo, y sobre quienes se hacen sus compañeros de viaje.

Vaticano, 27 de mayo de 2019

FRANCISCO

[00923-ES.01] [Texto original: Italiano]

 

Traduzione in lingua portoghese

Não se trata apenas de migrantes

Queridos irmãos e irmãs!

A fé assegura-nos que o Reino de Deus já está, misteriosamente, presente sobre a terra (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 39); contudo, mesmo em nossos dias, com pesar temos de constatar que se lhe deparam obstáculos e forças contrárias. Conflitos violentos, verdadeiras e próprias guerras não cessam de dilacerar a humanidade; sucedem-se injustiças e discriminações; tribula-se para superar os desequilíbrios económicos e sociais, de ordem local ou global. E quem sofre as consequências de tudo isto são sobretudo os mais pobres e desfavorecidos.

As sociedades economicamente mais avançadas tendem, no seu seio, para um acentuado individualismo que, associado à mentalidade utilitarista e multiplicado pela rede mediática, gera a «globalização da indiferença». Neste cenário, os migrantes, os refugiados, os desalojados e as vítimas do tráfico de seres humanos aparecem como os sujeitos emblemáticos da exclusão, porque, além dos incómodos inerentes à sua condição, acabam muitas vezes alvo de juízos negativos que os consideram como causa dos males sociais. A atitude para com eles constitui a campainha de alarme que avisa do declínio moral em que se incorre, se se continua a dar espaço à cultura do descarte. Com efeito, por este caminho, cada indivíduo que não quadre com os cânones do bem-estar físico, psíquico e social fica em risco de marginalização e exclusão.

Por isso, a presença dos migrantes e refugiados – como a das pessoas vulneráveis em geral – constitui, hoje, um convite a recuperar algumas dimensões essenciais da nossa existência cristã e da nossa humanidade, que correm o risco de entorpecimento num teor de vida rico de comodidades. Aqui está a razão por que «não se trata apenas de migrantes», ou seja, quando nos interessamos por eles, interessamo-nos também por nós, por todos; cuidando deles, todos crescemos; escutando-os, damos voz também àquela parte de nós mesmos que talvez mantenhamos escondida por não ser bem vista hoje.

«Tranquilizai-vos! Sou Eu! Não temais!» (Mt 14, 27). Não se trata apenas de migrantes: trata-se também dos nossos medos. As maldades e torpezas do nosso tempo fazem aumentar «o nosso receio em relação aos “outros”, aos desconhecidos, aos marginalizados, aos forasteiros (…). E isto nota-se particularmente hoje, perante a chegada de migrantes e refugiados que batem à nossa porta em busca de proteção, segurança e um futuro melhor. É verdade que o receio é legítimo, inclusive porque falta a preparação para este encontro» (Homilia, Sacrofano, 15 de fevereiro de 2019). O problema não está no facto de ter dúvidas e receios. O problema surge quando estes condicionam de tal forma o nosso modo de pensar e agir, que nos tornam intolerantes, fechados, talvez até – sem disso nos apercebermos – racistas. E assim o medo priva-nos do desejo e da capacidade de encontrar o outro, a pessoa diferente de mim; priva-me duma ocasião de encontro com o Senhor (cf. Homilia na Missa do Dia Mundial do Migrante e do Refugiado, 14 de janeiro de 2018).

«Se amais os que vos amam, que recompensa haveis de ter? Não fazem já isso os publicanos?» (Mt 5, 46). Não se trata apenas de migrantes: trata-se da caridade. Através das obras de caridade, demonstramos a nossa fé (cf. Tg 2, 18). E a caridade mais excelsa é a que se realiza em benefício de quem não é capaz de retribuir, nem talvez de agradecer. «Em jogo está a fisionomia que queremos assumir como sociedade e o valor de cada vida. (…) O progresso dos nossos povos (…) depende sobretudo da capacidade de se deixar mover e comover por quem bate à porta e, com o seu olhar, desabona e exautora todos os falsos ídolos que hipotecam e escravizam a vida; ídolos que prometem uma felicidade ilusória e efémera, construída à margem da realidade e do sofrimento dos outros» (Discurso na Cáritas diocesana de Rabat, Marrocos, 30 de março de 2019).

«Mas um samaritano, que ia de viagem, chegou ao pé dele e, vendo-o, encheu-se de compaixão» (Lc 10, 33). Não se trata apenas de migrantes: trata-se da nossa humanidade. O que impele aquele samaritano – um estrangeiro, segundo os judeus – a deter-se é a compaixão, um sentimento que não se pode explicar só a nível racional. A compaixão toca as cordas mais sensíveis da nossa humanidade, provocando um impulso imperioso a «fazer-nos próximo» de quem vemos em dificuldade. Como nos ensina o próprio Jesus (cf. Mt 9, 35-36; 14, 13-14; 15, 32-37), ter compaixão significa reconhecer o sofrimento do outro e passar, imediatamente, à ação para aliviar, cuidar e salvar. Ter compaixão significa dar espaço à ternura, ao contrário do que tantas vezes nos pede a sociedade atual, ou seja, que a reprimamos. «Abrir-se aos outros não empobrece, mas enriquece, porque nos ajuda a ser mais humanos: a reconhecer-se parte ativa dum todo maior e a interpretar a vida como um dom para os outros; a ter como alvo não os próprios interesses, mas o bem da humanidade» (Discurso na Mesquita «Heydar Aliyev» de Baku, Azerbeijão, 2 de outubro de 2016).

«Livrai-vos de desprezar um só destes pequeninos, pois digo-vos que os seus anjos, no Céu, veem constantemente a face de meu Pai que está no Céu» (Mt 18, 10). Não se trata apenas de migrantes: trata-se de não excluir ninguém. O mundo atual vai-se tornando, dia após dia, mais elitista e cruel para com os excluídos. Os países em vias de desenvolvimento continuam a ser depauperados dos seus melhores recursos naturais e humanos em benefício de poucos mercados privilegiados. As guerras abatem-se apenas sobre algumas regiões do mundo, enquanto as armas para as fazer são produzidas e vendidas noutras regiões, que depois não querem ocupar-se dos refugiados causados por tais conflitos. Quem sofre as consequências são sempre os pequenos, os pobres, os mais vulneráveis, a quem se impede de sentar-se à mesa deixando-lhe as «migalhas» do banquete (cf. Lc 16, 19-21). «A Igreja “em saída” (...) sabe tomar a iniciativa sem medo, ir ao encontro, procurar os afastados e chegar às encruzilhadas dos caminhos para convidar os excluídos» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 24). O desenvolvimento exclusivista torna os ricos mais ricos e os pobres mais pobres. Verdadeiro desenvolvimento é aquele que procura incluir todos os homens e mulheres do mundo, promovendo o seu crescimento integral, e se preocupa também com as gerações futuras.

«Quem quiser ser grande entre vós, faça-se vosso servo; e quem quiser ser o primeiro entre vós, faça-se o servo de todos» (Mc 10, 43-44). Não se trata apenas de migrantes: trata-se de colocar os últimos em primeiro lugar. Jesus Cristo pede-nos para não cedermos à lógica do mundo, que justifica a prevaricação sobre os outros para meu proveito pessoal ou do meu grupo: primeiro eu, e depois os outros! Ao contrário, o verdadeiro lema do cristão é «primeiro os últimos». «Um espírito individualista é terreno fértil para medrar aquele sentido de indiferença para com o próximo, que leva a tratá-lo como mero objeto de comércio, que impele a ignorar a humanidade dos outros e acaba por tornar as pessoas medrosas e cínicas. Porventura não são estes os sentimentos que muitas vezes nos assaltam à vista dos pobres, dos marginalizados, dos últimos da sociedade? E são tantos os últimos na nossa sociedade! Dentre eles, penso sobretudo nos migrantes, com o peso de dificuldades e tribulações que enfrentam diariamente à procura – por vezes, desesperada – dum lugar onde viver em paz e com dignidade» (Discurso ao Corpo Diplomático, 11 de janeiro de 2016). Na lógica do Evangelho, os últimos vêm em primeiro lugar, e nós devemos colocar-nos ao seu serviço.

«Eu vim para que tenham vida e a tenham em abundância» (Jo 10, 10). Não se trata apenas de migrantes: trata-se da pessoa toda e de todas as pessoas. Nesta afirmação de Jesus, encontramos o cerne da sua missão: procurar que todos recebam o dom da vida em plenitude, segundo a vontade do Pai. Em cada atividade política, em cada programa, em cada ação pastoral, no centro devemos colocar sempre a pessoa com as suas múltiplas dimensões, incluindo a espiritual. E isto vale para todas as pessoas, entre as quais se deve reconhecer a igualdade fundamental. Por conseguinte, «o desenvolvimento não se reduz a um simples crescimento económico. Para ser autêntico, deve ser integral, quer dizer, promover todos os homens e o homem todo» (São Paulo VI, Enc. Populorum progressio, 14).

«Portanto, já não sois estrangeiros nem imigrantes, mas sois concidadãos dos santos e membros da casa de Deus» (Ef 2, 19). Não se trata apenas de migrantes: trata-se de construir a cidade de Deus e do homem. Na nossa época, designada também a era das migrações, muitas são as pessoas inocentes que caem vítimas da «grande ilusão» dum desenvolvimento tecnológico e consumista sem limites (cf. Enc. Laudato si’, 34). E, assim, partem em viagem para um «paraíso» que, inexoravelmente, atraiçoa as suas expetativas. A sua presença, por vezes incómoda, contribui para desmentir os mitos dum progresso reservado a poucos, mas construído sobre a exploração de muitos. «Trata-se então de vermos, nós em primeiro lugar, e de ajudarmos os outros a verem no migrante e no refugiado não só um problema a enfrentar, mas um irmão e uma irmã a serem acolhidos, respeitados e amados; trata-se duma oportunidade que a Providência nos oferece de contribuir para a construção duma sociedade mais justa, duma democracia mais completa, dum país mais inclusivo, dum mundo mais fraterno e duma comunidade cristã mais aberta, de acordo com o Evangelho» (Mensagem para o Dia Mundial do Migrante e do Refugiado de 2014).

Queridos irmãos e irmãs, a resposta ao desafio colocado pelas migrações contemporâneas pode-se resumir em quatro verbos: acolher, proteger, promover e integrar. Mas estes verbos não valem apenas para os migrantes e os refugiados; exprimem a missão da Igreja a favor de todos os habitantes das periferias existenciais, que devem ser acolhidos, protegidos, promovidos e integrados. Se pusermos em prática estes verbos, contribuímos para construir a cidade de Deus e do homem, promovemos o desenvolvimento humano integral de todas as pessoas e ajudamos também a comunidade mundial a ficar mais próxima de alcançar os objetivos de desenvolvimento sustentável que se propôs e que, caso contrário, dificilmente serão atingíveis.

Por conseguinte, não está em jogo apenas a causa dos migrantes; não é só deles que se trata, mas de todos nós, do presente e do futuro da família humana. Os migrantes, especialmente os mais vulneráveis, ajudam-nos a ler os «sinais dos tempos». Através deles, o Senhor chama-nos a uma conversão, a libertar-nos dos exclusivismos, da indiferença e da cultura do descarte. Através deles, o Senhor convida-nos a reapropriarmo-nos da nossa vida cristã na sua totalidade e contribuir, cada qual segundo a própria vocação, para a construção dum mundo cada vez mais condizente com o projeto de Deus.

Estes são os meus votos que acompanho com a oração, invocando, por intercessão da Virgem Maria, Nossa Senhora da Estrada, abundantes bênçãos sobre todos os migrantes e refugiados do mundo e sobre aqueles que se fazem seus companheiros de viagem.

Vaticano, 27 de maio de 2019.

FRANCISCO

[00923-PO.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Chodzi nie tylko o migrantów

Drodzy bracia i siostry,

Wiara zapewnia nas, że królestwo Boże w sposób tajemniczy jest już obecne na ziemi (por. SOBÓR WATYKAŃSKI II, Konst. Gaudium et spes, 39); jednak także w naszych czasach musimy z bólem stwierdzić, że napotyka ono przeszkody i siły przeciwne. Nieustanie rozdzierają ludzkość gwałtowne konflikty i prawdziwe wojny; kolejno następują po sobie niesprawiedliwości i dyskryminacje; trudno przezwyciężyć nierówności gospodarcze i społeczne w skali lokalnej czy też ogólnoświatowej. A cenę za to płacą przede wszystkim ludzie ubodzy i znajdujący się w gorszej sytuacji.

Społeczeństwa najbardziej zaawansowane gospodarczo rozwijają w swoim łonie skłonność do pogłębionego indywidualizmu, która w połączeniu z mentalnością utylitarną i pomnożona przez sieć medialną wytwarza „globalizację obojętności”. W tym scenariuszu migranci, uchodźcy, przesiedleńcy i ofiary handlu ludźmi stali się symbolami wykluczenia, ponieważ oprócz trudności, jakie pociąga za sobą sam ich stan, często są obciążani osądem negatywnym, traktującym ich jako przyczynę bolączek społecznych. Postawa wobec nich stanowi dzwonek alarmowy, ostrzegający przed upadkiem moralnym, który grozi wówczas, gdy przyznaje się miejsce kulturze odrzucenia. Istotnie na tej drodze każdej osobie, która nie mieści się w kanonach sprawności fizycznej, psychicznej i społecznej, grozi marginalizacja i wykluczenie.

Z tego względu obecność migrantów i uchodźców - podobnie jak ogólnie osób bezradnych - stanowi dzisiaj zachętę do przywrócenia pewnych istotnych wymiarów naszej egzystencji chrześcijańskiej i naszego humanitaryzmu, którym grozi uciszenie w pełnym wygody stylu życia. Dlatego właśnie „chodzi nie tylko o migrantów”, to znaczy: interesując się nimi, interesujemy się także sobą, wszystkimi; otaczając ich troską, rozwijamy się wszyscy; słuchając ich, udzielamy głosu również tej części nas, którą być może trzymamy w ukryciu, ponieważ nie jest ona dzisiaj dobrze widziana.

„Odwagi! Ja jestem, nie bójcie się!” (Mt 14,27). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi również o nasze lęki. Nikczemności i obrzydliwości naszych czasów powiększają „nasz lęk przed «innymi», nieznanymi, zepchniętymi na margines, cudzoziemcami […]. Zauważamy to szczególnie dzisiaj, w obliczu przybycia migrantów i uchodźców, którzy pukają do naszych drzwi w poszukiwaniu opieki, bezpieczeństwa i lepszej przyszłości. To prawda, lęk jest uzasadniony, również dlatego, że brakuje przygotowania do tego spotkania” (Omelia, Sacrofano, 15 febbraio 2019). Problemem nie jest fakt, że mamy wątpliwości i obawy. Problem pojawia się wówczas, gdy te lęki determinują nasz sposób myślenia i działania do tego stopnia, że sprawiają, iż stajemy się nietolerancyjni, zamknięci, a może nawet - nie zdając sobie z tego sprawy – stajemy się rasistami. W ten sposób lęk pozbawia nas pragnienia i zdolności do spotkania się z bliźnim, osobą inną niż ja; pozbawia mnie szansy spotkania się z Panem (por. Homilia podczas Mszy św. w Światowym Dniu Migranta i Uchodźcy, 14 stycznia 2018 r., w: L’Osservatore Romano, wyd. pl. n. 2/(400)2018, s. 44).

„Jeśli bowiem miłujecie tych, którzy was miłują, cóż za nagrodę mieć będziecie? Czyż i celnicy tego nie czynią?” (Mt 5, 46). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi również o miłosierdzie. Poprzez uczynki miłosierdzia okazujemy naszą wiarę (por. Jk 2, 18). A najwznioślejszym miłosierdziem jest to, które dokonuje się wobec osób, które nie są w stanie się odwzajemnić, a być może nawet nie są w stanie podziękować. „Gra toczy się o to, jakie oblicze pragniemy sobie nadać jako społeczeństwo, a także o wartość każdego życia. [...] Postęp naszych narodów [...] zależy przede wszystkim od zdolności do tego, by dać się poruszyć i wzruszyć tym ludziom, którzy pukają do drzwi i swoim spojrzeniem dyskredytują i pozbawiają władzy wszystkie fałszywe bożki obciążające i zniewalające życie. Są to bożki, które obiecują złudne i ulotne szczęście, budowane na obrzeżach rzeczywistości i na cierpieniu innych” (Przemówienie w diecezjalnym Caritas w Rabacie, 30 marca 2019 r.).

„Pewien zaś Samarytanin, będąc w podróży, przechodził również obok niego. Gdy go zobaczył, wzruszył się głęboko” (Łk 10,33). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi o nasze człowieczeństwo. Tym, co pobudziło Samarytanina, który dla Żydów był kimś obcym, aby się zatrzymać – było współczucie będące uczuciem, którego nie można wyjaśnić tylko na poziomie racjonalnym. Współczucie dotyka najbardziej wrażliwych strun naszego człowieczeństwa, powodując nieodparty impuls, aby „stać się bliźnim” dla tych, których widzimy w trudnej sytuacji. Tak jak nas naucza sam Jezus (por. Mt 9, 35-36; 14, 13-14; 15,32-37), okazanie współczucia oznacza rozpoznanie cierpienia drugiego i natychmiastowe przejście do działania, aby ukoić, uzdrowić i ocalić. Okazanie współczucia oznacza zapewnienie przestrzeni dla czułości, którą dzisiejsze społeczeństwo często każe nam tłumić. „Otwarcie się na innych nie zubaża, ale wzbogaca, pomaga bowiem być bardziej ludzkim: uznawać siebie za aktywną część większej całości i przyjmować życie jako dar dla innych; postrzegać jako cel nie swoje interesy, ale dobro ludzkości” (Przemówienie w meczecie w Baku, w Azerbejdżanie, 2 października 2016 r., w: L’Osservatore Romano wyd. pl. n. 10 (386)/2016, s. 28).

„Strzeżcie się, żebyście nie gardzili żadnym z tych małych; albowiem powiadam wam: Aniołowie ich w niebie wpatrują się zawsze w oblicze Ojca mojego, który jest w niebie” (Mt 18,10). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi o to, by nikogo nie wykluczać. Współczesny świat jest każdego dnia coraz bardziej elitarny i okrutny wobec wykluczonych. Kraje rozwijające się nadal są ogołacane ze swoich najlepszych zasobów naturalnych i ludzkich na korzyść kilku rynków uprzywilejowanych. Wojny ogarniają tylko pewne regiony świata, ale broń do ich prowadzenia jest wytwarzana i sprzedawana w innych regionach, które następnie nie chcą przyjmować uchodźców, będących efektem tych konfliktów. Płacą za nie zawsze maluczcy, ubodzy, najbardziej bezbronni, którym zabrania się siadania przy stole, i zostawia się jedynie „odpadki” z uczty (por. Łk 16,19-21). „Kościół «wyruszający w drogę» [...] wie, jak kroczyć naprzód i dotrzeć na rozstaje dróg, by zaprosić wykluczonych” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 24). Rozwój ekskluzywny sprawia, że bogaci są coraz bogatsi, a biedni coraz biedniejsi. Prawdziwy rozwój polega na włączeniu wszystkich mężczyzn i kobiet świata, promując ich rozwój integralny, i troszczy się także o przyszłe pokolenia.

„Kto chce stać się wielkim wśród was, będzie waszym sługą, a kto chce być pierwszym wśród was, będzie niewolnikiem wszystkich” (Mk 10, 43-44). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi o postawienie ostatnich na pierwszym miejscu. Jezus Chrystus wymaga od nas, abyśmy nie ulegali logice świata, która usprawiedliwia wykorzystywanie innych dla moich korzyści osobistych lub korzyści mojej grupy: najpierw ja, a potem inni! Natomiast prawdziwe motto chrześcijanina brzmi: „najpierw ostatni!”. „Duch indywidualistyczny jest podatnym gruntem, na którym dojrzewa poczucie obojętności wobec drugiego, prowadzące do traktowania go jedynie jako przedmiotu transakcji handlowej, do nieinteresowania się człowieczeństwem innych i sprawiające, że ludzie stają się bojaźliwi i cyniczni. Czyż nie są to może uczucia, które często budzą w nas ubodzy, zepchnięci na margines, ostatni członkowie społeczeństwa? A iluż ostatnich mamy w naszych społeczeństwach! Wśród nich mam na myśli zwłaszcza imigrantów, z ich brzemieniem trudności i cierpień, z którymi obcują codziennie, poszukując - niekiedy rozpaczliwie - miejsca, gdzie mogliby żyć w pokoju i godnie” (Przemówienie do korpusu dyplomatycznego, 11 stycznia 2016 r., w: L’Osservatore Romano, n. 2 (380)/2016, s. 14). W logice Ewangelii ostatni są pierwszymi, a my musimy być gotowi, by im służyć.

„Ja przyszedłem po to, aby [owce] miały życie i miały je w obfitości” (J 10, 10). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi o całą osobę, o wszystkie osoby. W tym stwierdzeniu Jezusa znajdujemy sedno Jego misji: sprawienie, aby wszyscy otrzymali dar życia w pełni, zgodnie z wolą Ojca. We wszelkiej działalności politycznej, w każdym programie, w każdym działaniu duszpasterskim musimy zawsze stawiać w centrum osobę, w jej wielorakich wymiarach, w tym duchowym. Dotyczy to wszystkich osób, których fundamentalną równość należy uznać. Dlatego też „rozwój nie ogranicza się jedynie do postępu gospodarczego. Aby był prawdziwy, powinien on być zupełny, to znaczy winien przyczyniać się do rozwoju każdego człowieka i całego człowieka” (ŚW. PAWEŁ VI, Enc. Populorum progressio, 14).

„A więc nie jesteście już obcymi i przychodniami, ale jesteście współobywatelami świętych i domownikami Boga” (Ef 2, 19). Chodzi nie tylko o migrantów: chodzi o budowanie miasta Boga i miasta człowieka. W naszym wieku, nazywanym również erą migracji, jest wiele niewinnych osób, które padają ofiarą „wielkiej iluzji” nieograniczonego rozwoju technologicznego i konsumpcyjnego (por. Enc. Laudato si', 34). Wyruszają więc w podróż do „raju”, który nieuchronnie zawodzi ich oczekiwania. Ich obecność, czasami niewygodna, pomaga rozwiać mity postępu zarezerwowanego dla nielicznych, ale opierającego się na wyzysku wielu. „Chodzi zatem o to, byśmy dostrzegli jako pierwsi i pomagali innym widzieć w migrancie i uchodźcy nie tylko problem, z którym trzeba się zmierzyć, ale brata i siostrę, których należy przyjąć, szanować i kochać, okazję, którą daje nam Opatrzność, byśmy wnosili wkład w budowanie sprawiedliwszego społeczeństwa, doskonalszej demokracji, solidarniejszego kraju, bardziej braterskiego świata i bardziej otwartej wspólnoty chrześcijańskiej, w zgodzie z Ewangelią” (Orędzie na Światowy Dzień Migranta i Uchodźcy 2014).

Drodzy bracia i siostry, reakcję na wyzwanie współczesnej migracji można podsumować w czterech czasownikach: przyjmować, chronić, promować i integrować. Ale czasowniki te dotyczą nie tylko migrantów i uchodźców. Wyrażają one misję Kościoła wobec wszystkich mieszkańców peryferii egzystencjalnych, którzy muszą być przyjmowani, chronieni, promowani i integrowani. Jeśli zastosujemy te czasowniki w praktyce, przyczyniamy się do budowania miasta Boga i miasta człowieka, będziemy promowali integralny rozwój ludzki wszystkich osób, a także dopomożemy społeczności światowej w przybliżeniu się do celów zrównoważonego rozwoju, jaki sobie postawiła, a które w przeciwnym razie byłyby trudne do osiągnięcia.

Stawką jest więc nie tylko sprawa migrantów, chodzi nie tylko o nich, ale o nas wszystkich, o chwilę obecną i o przyszłość rodziny ludzkiej. Migranci, a zwłaszcza najbardziej bezbronni, pomagają nam odczytywać „znaki czasu”. Przez nich Pan wzywa nas do nawrócenia, do uwolnienia się od ekskluzywizmu, obojętności i kultury odrzucenia. Przez nich Pan zaprasza nas, abyśmy odzyskali całe nasze chrześcijańskie życie i wnieśli wkład, każdy zgodnie ze swoim powołaniem, w budowę świata coraz bardziej odpowiadającego planowi Boga.

Jest to życzenie, do którego dołączam modlitwę, prosząc za wstawiennictwem Maryi Panny, Matki Dobrej Drogi, o obfite błogosławieństwo dla wszystkich migrantów i uchodźców świata oraz dla tych, którzy stają się ich towarzyszami podróży.

Watykan, 27 maja 2019 r.

FRANCISZEK

[00923-PL.01] [Original Text: Italian]

Traduzione in lingua araba

رسالة قداسة البابا فرنسيس

بمناسبة اليوم العالمي للمهاجرين واللاجئين

27 مايو/ أيار 2019

الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب

 

 

أيها الإخوة والأخوات الأعزاء،

يؤكّد لنا الإيمان أن ملكوت الله هو حاضر على الأرض بطريقة سرّية (را. المجمع الفاتيكاني الثاني، الدستور فرح ورجاء، 39)؛ ولكننا، حتى في عصرنا هذا، نستنتج بألم وجود عقبات وقوى معارضة. فما زالت النزاعات العنيفة والحروب الحقّة تمزّق البشرية؛ ويتتالى الظلم والتمييز؛ ويصعب تخطّي الاختلالات الاقتصادية والاجتماعية على المستوى المحلّي أو العالمي. والذين يدفعون ثمن ذلك كلّه إنما هم الفقراء والمحرومين بشكل خاصّ.

المجتمعاتُ الأكثر تقدّمًا اقتصاديًا تنمّي في داخلها ميلًا إلى نزعة فرديّة ظاهرة، تُنتِجُ، إذ ترافقها العقليّة النفعيّة وتضاعفها شبكات الإعلام، "عولمةَ اللامبالاة". وأصبح، في هذا السيناريو، المهاجرون واللاجئون والمشرّدون وضحايا الاتّجار بالأشخاص، شعارًا للاستبعاد لأنهم، بالإضافة إلى المصاعب التي تتضمّنها حالتهم، غالبًا ما نحمّلهم أحكامًا سلبية تعتبرهم سببًا للعِلل الاجتماعية. وموقفنا تجاههم يمثّل جرس إنذار يحذّر من التدهور الأخلاقي الذي يواجهه الفرد إذا استمرّينا في إفساح المجال لثقافة الاستبعاد. وكلّ شخص في الواقع لا يتبنّى، من هذا المنطلق، شريعة الرفاه البدني والعقلي والاجتماعي، يصبح عرضة لخطر التهميش والاستبعاد.

ولذا، فإن وجود المهاجرين واللاجئين –كما ووجود الأشخاص الضعيفة عمومًا- يمثّل اليوم دعوة لاستعادة بعض الأبعاد الأساسيّة لوجودنا المسيحي ولإنسانيّتنا، والتي تكاد أن "تغيب" في نمط حياة غاص بالراحة. ولذا فإن "الأمر لا يتعلّق بالمهاجرين وحسب"، أي: إننا، إذ نهتمّ بهم، نهتمّ أيضًا بأنفسنا، بالجميع؛ وإذ نعتني بهم، فإننا جميعنا ننمو. وإذ نصغي إليهم، نعطي صوتًا أيضًا لهذا الجزء من ذواتنا الذي ربما نبقيه خفيًا لأنه ليس مقبولًا في أيامنا.

"ثِقوا. أَنا هو، لا تَخافوا!" (متى 14، 27). الأمر لا يتعلّق بالمهاجرين وحسب: إنها مخاوفنا أيضًا. فخبث عصرنا وقباحته ينمّيان فينا "الخوف من "الآخرين"، من الغرباء، والمهمشين، والأجانب [...]. وهذا ملحوظ بشكل خاص اليوم، إزاء وصول المهاجرين واللاجئين الذين يطرقون بابنا بحثًا عن الحماية والأمن ومستقبل أفضل. وصحيح أن الخوف مشروع، لأن الاستعداد لهذا اللقاء يتلاشى" (عظة قداسة البابا، ساكروفانو، 15 فبراير/شباط 2019). ليست المشكلة بأنه لدينا شكوك ومخاوف. المشكلة هي عندما تُسِيّر هذه الشكوك والمخاوف طريقتَنا في التفكير والتصرّف لدرجة تجعلنا غير متسامحين، ومنغلقين، وربما حتى -دون أن ندرك ذلك- عنصريين. ويحرمنا الخوفُ بهذه الطريقة من الرغبة والقدرة على لقاء الشخص الآخر، الشخص المختلف عنّي؛ يحرمني من فرصة لقاء الربّ (را. عظة قداسة البابا خلال قداس اليوم العالمي للمهاجرين واللاجئين، 14 يناير/كانون الثاني 2018).

"إِن أَحْبَبْتُم مَن يُحِبُّكُم، فأَيُّ أَجْرٍ لكم؟ أَوَلَيسَ الجُباةُ يفعَلونَ ذلك؟" (متى 5، 46). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: إنها المحبّة. فنحن نظهر إيماننا من خلال أعمال المحبّة (را. يع 2، 18). والمحبّة الأسمى هي التي نمارسها تجاه مَن لا يستطيع الردّ بالمثل وربما لا يقدر حتى أن يشكر عليها. "إن الوجه الذي نريد أن نعطيه كمجتمع، هو الذي وُضِعَ على المحكّ، كما وقيمة كلّ حياة. [...] انّ تقدّم شعوبنا [...] يتوقّف قبل كلّ شيء، على قدرتنا بالانفعال وبالتأثّر بفعل مَن يقرع على الباب ويفضح بنظره جميع الآلهة الزائفة التي ترهن الحياة وتستعبدها؛ آلهة تعِد بسعادة وهميّة وزائلة مبنيّة على هامش الواقع وألم الآخرين" (كلمة قداسة البابا أثناء اللقاء مع المهاجرين، الرباط، 30 مارس/آذار 2019).

"وَصَلَ إِلَيه سَامِرِيٌّ مُسافِر ورَآهُ فأَشفَقَ علَيه" (لو 10، 33). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: بل يتعلّق بإنسانيتنا. إن ما يدفع ذاك السامري –وهو غريب بالنسبة لليهود- إلى التوقّف إنما هي الشفقة، وهو شعور لا يمكن تفسيره فقط على المستوى العقلاني. فالشفقة تلمس الأوتار الأكثر حساسيّة في إنسانيّتنا، وتدفعنا فورًا لأن نكون "أقرباء" الذين نرى أنهم يمرّون بالمحن. كما يعلّمنا يسوع نفسه (را. متى 9، 35- 36؛ 14، 13- 14؛ 15، 32- 37)، أن نشفق يعني أن ندرك معاناة الآخر وأن نبدأ فورًا بالعمل كي نهدّئ ونعتني وننقذ. أن نشفق يعني أن نعطي المجال للعطف، الذي غالبًا ما يطلب منّا المجتمع اليوم أن نحبسه. "إن الانفتاح على الآخرين لا يُفقر، إنما يُثري، لأنه يساعدنا على أن نكون أكثر إنسانية: على أن نتعرف بأننا نشكّل جزءًا ناشطًا من مجموعة أكبر، وعلى أن نعتبر الحياة كعطيّة للآخرين؛ وعلى أن نرى في الهدف، لا المصالح الخاصّة، وإنما مصلحة البشرية" (كلمة البابا في مسجد حيدر علييف، باكو، أذربيجان، 2 أكتوبر/تشرين الأول 2016).

"إِيَّاكُم أَن تَحتَقِروا أَحَدًا مِن هؤلاءِ الصِّغار. أَقولُ لكم إِنَّ ملائكتَهم في السَّمَواتِ يُشاهِدونَ أَبَدًا وَجهَ أَبي الَّذي في السَّمَوات" (متى 18، 10). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: بل بعدم استبعاد أيّ شخص. إن عالم اليوم يزداد يوميًّا نخبويّة وقساوة تجاه المستبعدين. ولا تزال البلدان النامية تستنفد أفضل مواردها الطبيعية والبشريّة لصالح عدد قليل من الأسواق المتمايزة. أمّا الحروب فلا تجتاح بعض مناطق العالم وحسب، ولكن الأسلحة التي تُستخدم يتمّ إنتاجها وبيعها في مناطق أخرى لا ترغب بعد ذلك في تحمّل مسؤوليّة اللاجئين القادمين من هذه الصراعات. والذين يدفعون الثمن هم دائمًا الصغار، والفقراء، والأضعف، الذين يُمنعون من الجلوس على الطاولة ويترك لهم "فتات" الولائم (را. لو 16، 19- 21). "تعرف الكنيسة "المنطلقة" [...] كيف تأخذ المبادرة بدون خوف، وأن تذهب كي تلاقي، وأن تبحث عن البعيدين، وتصل إلى تقاطع الطرق، كي تدعو المُستبعَدين" (الإرشاد الرسولي فرح الإنجيل، 24). والتنمية الحصرية تجعل الأغنياء أكثر ثراءً والفقراء أكثر فقرّا. أمّا التطوّر الحقيقي هو ذاك الذي يهدف إلى احتضان جميع الرجال والنساء في العالم، عبر تعزيز نموّهم المتكامل، والذي يعتني أيضًا بالأجيال الصاعدة.

"مَن أَرادَ أَن يَكونَ كَبيرًا فيكم، فَلْيَكُنْ لَكُم خادِمًا. ومَن أَرادَ أَن يكونَ الأَوَّلَ فيكم، فَلْيَكُنْ لأَجمَعِكم عَبْدًا" (مر 10، 43- 44). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: بل بوضع الآخرين في المقام الأوّل. إن يسوع المسيح يطلب منّا عدم الانصياع لمنطق العالم، الذي يبرّر إساءة معاملة الآخرين بهدف تحقيق مكاسبي الشخصيّة أو مكاسب مجموعتي: أنا أوّلًا ثمّ الآخرين! إن الشعار الحقيقي للمسيحي إنما هو "الأخيرين أوّلًا!". "يشكّل روح الفردانيّة أرضًا خصبة لنضوج حسّ اللامبالاة تجاه القريب والذي يحمل على معاملته كغرض مقايضة يدفعنا إلى عدم الاكتراث بإنسانية الآخرين ويحوّلنا إلى أشخاص جبناء ومُتهكّمين. أليست ربما غالبًا هذه هي المشاعر التي نملكها إزاء الفقراء والمهمّشين والأخيرين في المجتمع؟ وما أكثر الأخيرين في مجتمعنا! من بينهم أفكّر بشكل خاص بالمهاجرين وفي ثقل صعوباتهم وآلامهم التي يواجهونها يوميًّا في البحث، اليائس أحيانًا، عن مكان يعيشون فيه بسلام وكرامة" (كلمة قداسة البابا إلى الدبلوماسيين المعتمدين لدى الكرسي الرسولي، 11 يناير/كانون الثاني 2016). فالآخِرون بحسب منطق الإنجيل هم أوّلون، وعلينا أن نضع أنفسنا بخدمتهم.

"قَد أَتَيتُ لِتَكونَ الحَياةُ لِلنَّاس وتَفيضَ فيهِم" (يو 10، 10). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: إنه مسألة الشخص بكامله، وكلّ شخص. نجد في تأكيد يسوع هذا، جوهر رسالته: ضمان حصول الجميع على ملء عطيّة الحياة، وفقًا لإرادة الآب. ينبغي علينا، في كلّ نشاط سياسيّ، وفي كلّ برنامج، وفي كلّ عمل رعويّ، أن نركّز دائمًا على الشخص، بأبعاده المتعدّدة، بما في ذلك الأبعاد الروحيّة. وهذا ينطبق على جميع الأشخاص، الذين يجب الاعتراف بمساواتهم الأساسية. لذا، فإن "التنمية لا تقتصر على مجرّد النموّ الاقتصادي. كيما يكون تطوّرًا حقيقيًا، يجب أن يكون متكاملًا، مما يعني تعزيز كلّ شخص والشخص بكامله" (القديس بولس السادس، الرسالة العامّة تـَرَقّي الشعوب، 14).

"لَستُم إِذًا بَعدَ اليَومِ غُرَباءَ أَو نُزَلاء، بل أَنتُم مِن أَبناءَ وَطَنِ القِدِّيسين ومِن أَهْلِ بَيتِ الله" (أف 2، 19). الأمر لا يتعلق بالمهاجرين وحسب: إنه مسألة بناء مدينة الله والإنسان. هناك العديد من الأبرياء الذين، في عصرنا هذا المسمّى أيضًا عصر الهجرات، يقعون ضحيّة "الخداع الكبير"، خداع التطوّر التكنولوجي والاستهلاكي اللامحدود (را. الرسالة العامة كن مسبّحًا، 34). وهكذا يشرعون في رحلة إلى "الجنّة" التي تخون تطلّعاتهم بلا رحمة. إن وجودهم، المزعج في بعض الأحيان، يساعد على وضع نهاية لأساطير التقدّم المُخصّص لقلّة من الناس، والقائم على استغلال الكثيرين. "هي بالتالي أن نرى، نحن أوّلًا، وأن نساعد الآخرين على أن يروا، في المهاجر وفي اللاجئ ليس فقط مشكلة يجب مواجهتها، إنما أخًا وأختًا علينا استقبالهم واحترامهم ومحبتّهم، ومناسبةً تمنحنا إياها العناية الإلهية كي نساهم في بناء مجتمعٍ أكثر عدالةً، وديمقراطية أكثر اكتمالًا، ودولة أكثر اتّحادًا، وعالم أكثر أخوّةً، وجماعة مسيحيّة أكثر انفتاحًا، وفقًا للإنجيل" (رسالة البابا لليوم العالمي للمهاجرين واللاجئين 2014).

أيها الإخوة والأخوات الأعزّاء، يمكن تلخيص الإجابة على التحدّي الذي تمثّله الهجرة المعاصرة في أربعة أفعال: استضافة، وحماية، ومساندة، ودمج. لكن هذه الأفعال لا تنطبق فقط على المهاجرين واللاجئين. فهي تعبّر عن رسالة الكنيسة تجاه جميع سكّان الضواحي الوجودية، الذين يجب أن نستضيفهم ونحميهم ونساندهم وندمجهم. إذا وضعنا هذه الأفعال موضع التنفيذ، فسوف نساهم في بناء مدينة الله والإنسان، ونعزّز التنمية البشريّة المتكاملة لجميع الناس، ونساعد أيضًا المجتمع الدولي على الاقتراب من أهداف التنمية المستدامة التي حدّدها لنفسه، وإلّا، فسيكون من الصعب بلوغها.

لذلك، فإن قضيّة المهاجرين ليست وحدها على المحكّ، وليست المسألة مسألتهم وحسب، بل إن الأمر يتعلّق بجميعنا، بحاضر وبمستقبل الأسرة البشريّة. فالمهاجرون، ولا سيما الأكثر ضعفًا، يساعدوننا على قراءة "علامات العصر". والربّ يدعونا من خلالهم إلى التوبة، إلى تحرير أنفسنا من التفرّد واللامبالاة وثقافة الاستبعاد. يدعونا الربّ من خلالهم، إلى استعادة حياتنا المسيحيّة بأكملها وإلى المساهمة، كلّ حسب دعوته، في بناء عالم أكثر توافقًا مع تدبير الله.

هذه هي أمنيتي التي أرافقها بالصلاة ملتمسًا، بشفاعة العذراء مريم، سيّدة الطريق، بركات وفيرة لجميع المهاجرين واللاجئين في العالم، وللذين يرافقونهم في دربهم.

 

من الفاتيكان، 30 أبريل / نيسان 2019

 

[00923-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0450-XX.02]