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Udienza ai partecipanti all’Incontro dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG), 10.05.2019


Discorso e Dialogo a braccio del Santo Padre

Discorso del Santo Padre consegnato

 

Alle ore 11.45 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti all’Incontro dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG), in occasione della XXI Assemblea Plenaria, dal titolo “Seminatrici di speranza profetica”, che ha visto la partecipazione di circa 850 Superiore Generali provenienti da 80 paesi diversi (6-10 maggio, Roma).

Dopo aver consegnato ai presenti il discorso preparato per l’occasione, il Papa si è rivolto a braccio ai partecipanti all’Udienza, rispondendo anche alle domande rivoltegli da alcune religiose.

Ne pubblichiamo di seguito i testi:

Discorso e Dialogo a braccio del Santo Padre

 

Papa Francesco:

Grazie per la vostra presenza. Io ho preparato un discorso, ma leggere dei discorsi è noioso e così lo consegnerò alla Presidente e lei farà arrivare a voi il discorso ufficiale. Vorrei avere con voi un dialogo. Ma prima vorrei prendere due o tre piccole cose che ha detto la Presidente.

Voi siete 850 più o meno, di 80 diversi Paesi – è variegata la cosa. Ho pensato a trent’anni fa, un incontro di Superiore Generali, ognuna con l’abito proprio [ridono]: tutte uguali nel nascondersi. Oggi, ognuna ha l’abito che ha scelto la congregazione: l’abito secolare, l’abito tradizionale, un abito più moderno, così, un abito nazionale: la presidente… Credo che il premio lo daremo alla Superiora delle Suore di Gesù e Maria perché è proprio elegante con l’abito indiano.

Grazie tante. Grazie per il cammino di aggiornamento che state facendo. È rischioso. Sempre. Sempre crescere è rischioso, ma più rischioso è spaventarsi e non crescere. Perché tu ora non vedi la crisi, il pericolo, ma alla fine rimarrai pusillanime, piccola. Non un bambino: un infante, è peggio. Grazie per il vostro lavoro.

Il problema degli abusi: il problema degli abusi non si risolve con le soluzioni della Chiesa da un giorno all’altro. Si è incominciato un processo. Ieri è uscito un altro documento e così, lentamente, stiamo facendo un processo. Perché è una cosa di cui da 20 anni ad adesso noi non avevamo coscienza e stiamo prendendo coscienza, con tanta vergogna, ma benedetta vergogna!, perché la vergogna è una grazia di Dio. E sì, è un processo ma dobbiamo andare avanti, avanti in un processo, passo dopo passo, per risolvere questo problema.

Alcune delle organizzazioni anti-abusi non sono rimaste contente dell’Incontro di febbraio [dei Presidenti delle Conferenze Episcopali]: “No, ma non hanno fatto nulla”. Io li capisco, perché c’è la sofferenza dentro. E ho detto che se avessimo impiccato cento preti abusatori in Piazza San Pietro sarebbero stati tutti contenti, ma il problema non si sarebbe risolto. I problemi nella vita si risolvono con i processi, non occupando spazi.

Poi, l’abuso delle religiose è un problema serio, è un problema grave, io ne sono cosciente. Anche qui a Roma sono coscienti dei problemi, delle informazioni che vengono. E non solo l’abuso sessuale della religiosa: anche l’abuso di potere, l’abuso di coscienza. Dobbiamo lottare contro questo. E anche il servizio delle religiose: per favore, servizio sì, servitù no. Tu non ti sei fatta religiosa per diventare la domestica di un chierico, no. Ma in questo, aiutiamoci a vicenda. Noi possiamo dire di no, ma se la superiora dice di sì… No, tutti insieme: servitù no, servizio sì. Tu lavori nei dicasteri, in questo, nell’altro, anche amministrando una nunziatura come amministratrice, un fenomeno, questo va bene. Ma domestica, no. Se vuoi fare la domestica, fa’ come facevano e come fanno le suore del padre Pernet, dell’Assomption, che fanno le infermiere, le domestiche nelle case degli ammalati: lì sì, perché è servizio. Ma servitù no. In questo, aiutiamoci.

Poi, il diaconato femminile. Quando voi mi avete suggerito di fare una commissione – perché l’idea è stata vostra – ho detto di sì, ho fatto la commissione, la commissione ha lavorato bene, erano tutti in gamba, uomini e donne teologi, e sono arrivati fino a un certo punto, tutti d’accordo. Poi, ognuno aveva la propria idea, così… io consegno alla Presidente – lo consegno ufficialmente oggi – il risultato del poco a cui sono arrivati tutti d’accordo. Poi, io ho con me la relatio di ognuno, personale, uno che va più avanti, uno che si ferma a un certo punto… E si deve studiare la cosa, perché io non posso fare un decreto sacramentale senza un fondamento teologico, storico. Ma si è lavorato abbastanza. Poco, è vero: il risultato non è un granché. Ma è un passo avanti. Certo, c’era una forma di diaconato femminile al principio, soprattutto in Siria, in quella zona; l’ho detto [nella conferenza stampa] sull’aereo [nel volo di ritorno dalla Macedonia]: aiutavano nel battesimo, in caso di scioglimento di matrimonio, queste cose … la forma di ordinazione non era una formula sacramentale, era per così dire – questo è quello che mi dice l’informazione, perché io non sono perito in questo – come oggi è la benedizione abbaziale di una abbadessa, una benedizione speciale per il diaconato alle diaconesse. Si andrà avanti, perché di qui a un po’ io potrei far chiamare i membri della commissione, vedere come sono andati avanti. Consegno ufficialmente la relazione comune; trattengo io – se qualcuna ha interesse, io posso in caso darla – l’opinione personale di ciascuno. Ma hanno fatto un bel lavoro, e grazie di questo.

Poi, sulla funzione nella Chiesa. Cercate… Dobbiamo andare avanti nella domanda: qual è il lavoro della suora nella Chiesa, della donna, e della donna consacrata? E non sbagliare pensando che sia solo un lavoro funzionale… Può darsi, sì, che lo sia, un capo dicastero… A Buenos Aires io avevo una cancelliera; tante donne cancelliere nei vescovadi ci sono… Sì, può darsi, anche funzionali; ma l’importante è una cosa che va oltre le funzioni, che ancora non è stata maturata, che ancora noi non abbiamo capito bene. Io dico “la Chiesa è femminile”, “la Chiesa è donna”, e qualcuno dice: “Sì, ma questa è un’immagine”. No, è la realtà. Nella Bibbia, nell’Apocalisse la chiamano “la sposa”, è la sposa di Gesù, è una donna. Ma su questa teologia della donna dobbiamo andare avanti.

Questo volevo dirvi. E adesso ci sono 40 minuti per fare le domande.

Prima domanda (in tedesco)

Bruder Franziskus (fratello Francesco), sono francescana come Lei; mi trovo qui insieme a 850 superiore generali e rappresentiamo un gran numero di sorelle che sono impegnate in tanti ministeri della Chiesa.

Papa Francesco:

Langsam, bitte (Lentamente, per favore).

Suora:

Parlo per molte donne che vorrebbero servire il popolo di Dio ma con gli stessi diritti, e speriamo oggi non solo di trovare la risposta alla questione del ruolo delle donne nella Chiesa su base storica e dogmatica: certo, abbiamo bisogno anche di queste fonti della rivelazione, ma abbiamo bisogno anche della forza di Gesù, di quel modo con cui Gesù ha trattato le donne. E quali risposte possiamo trovare oggi, nel XXI secolo, a queste domande? La prego di cuore di continuare a riflettere su questo, in seno alla commissione, affinché non siano consultate solamente le fonti storiche e dogmatiche, ma cerchiamo di capire di cosa ha bisogno l’umanità di oggi, dalle donne, dagli uomini, da tutto il popolo di Dio.

Papa Francesco:

È vero quello che Lei dice, che la Chiesa non è soltanto il Denzinger, cioè la collezione di passi dogmatici, di cose storiche. Questo è vero. Ma la Chiesa si sviluppa nel cammino nella fedeltà alla Rivelazione. Noi non possiamo cambiare la Rivelazione. È vero che la Rivelazione si sviluppa, la parola è “svilupparsi”. Si sviluppa con il tempo. E noi con il tempo capiamo meglio, meglio, la fede. Il modo di capire oggi la fede, dopo il Vaticano II, è diverso dal modo di capire la fede prima del Vaticano II, perché?, perché c’è uno sviluppo della coscienza, e Lei ha ragione. E questa non è una novità, perché la natura stessa, la natura stessa della Rivelazione è in movimento continuo per chiarire sé stessa, anche la natura stessa della coscienza morale. Per esempio, oggi io ho detto chiaramente che la pena di morte non è accettabile, è immorale, ma cinquant’anni fa non si diceva così. È cambiata la Chiesa? No: si è sviluppata la coscienza morale. Uno sviluppo. E questo lo avevano capito i padri. Nel V secolo c’era un padre francese, Vincenzo di Lerins, che aveva coniato una bella espressione. Dice che la coscienza della fede – lo dico in latino poi traduco – va «ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate»: cioè cresce, cresce con gli anni; è in crescita continua, non cambia, cresce, si allarga con il tempo. Si capisce meglio, e con gli anni si sublima… E se io vedo che questo che penso adesso è in connessione con la Rivelazione, va bene, ma se è una cosa strana, che non è nella Rivelazione, anche nel campo morale, che non è secondo la morale, non va. Per questo, sul caso del diaconato, dobbiamo cercare cosa c’era all’inizio della Rivelazione, e se c’era qualcosa, farla crescere e che arrivi… Se non c’era qualcosa, se il Signore non ha voluto il ministero, il ministero sacramentale per le donne non va. E per questo andiamo alla storia, al dogma. Poi quello che ha detto la madre mi è piaciuto tanto, perché non è solo questo che lei ha detto, ci sono due cose in più: una cosa in più è il dialogo col mondo in cui viviamo. Un dialogo di esperienze. E questo dialogo con il mondo provoca situazioni nuove, che chiedono risposte nuove, ma queste risposte devono essere in armonia con la Rivelazione. C’è il dialogo, pure lo sviluppo della fede e della morale – come ho spiegato –, ma sempre con il fondamento. Secondo: l’armonia con la Rivelazione nel dialogo. Non aver paura di dialogare, è importante. E la terza cosa: la testimonianza. E su questo credo che la cosa più importante che la madre ha detto, a cui ha accennato un po’, è la necessità della testimonianza. Pertanto è vero: non servono solo le cose dogmatiche. Noi con il Denzinger non andiamo da nessuna parte nella vita concreta. Sappiamo com’è la verità, sappiamo com’è il dogma, ma come affrontiamo questo, come lo facciamo crescere, è un’altra cosa. Il Denzinger ci aiuta perché lì c’è tutta la dogmatica, ma noi dobbiamo crescere continuamente. Io avevo fatto riferimento al vostro abito, di adesso: “Avete cambiato l’abito, avete rovinato la vita consacrata!”. Niente: nel dialogo con il mondo, ogni congregazione ha visto come era meglio esprimere il proprio carisma, esprimersi. E questa che non ha abito, questa che ha un abito un po’ così, questa e quell’altra che hanno un altro abito non sono né peggiori né migliori: ogni congregazione fa il suo discernimento. E con questo io cado nella parola-chiave: discernere. Abbiamo bisogno di discernere. Non è tutto bianco o nero, neppure grigio. È tutto in cammino, tutto è in cammino, ma camminiamo sulla strada giusta, la strada della Rivelazione. Non possiamo camminare su un’altra strada. Credo che, sebbene io non abbia risposto a tutte le sfumature che c’erano nella domanda della madre, funzionalmente questa è la risposta. È vero: non ci aiuteranno solo le definizioni dogmatiche, le cose storiche, non solo. Ma non possiamo andare oltre la Rivelazione e l’esplicitazione dogmatica. Capito questo? Siamo cattolici. Se qualcuno vuol fare un’altra Chiesa è libero, ma…

Seconda domanda

Mi chiamo suor Francesca, sono delle Suore di Sant’Anna. Voglio innanzitutto dirLe un immenso grazie perché Lei, ogni volta che facciamo la plenaria, riserva questo spazio di incontro con noi. È un desiderio impossibile a realizzarsi, che Lei fosse presente alla plenaria, perché nella plenaria sono venuti tutti i semi di speranza, il senso della vita religiosa femminile in questo mondo, in questo mondo di oggi. Non è solo commovente, è stimolante, dà forza, il percepire quanti semi, con i distinti abiti, con i vari carismi, le differenti missioni, siamo presenti lì dove ci sono fragilità, fragilità umane, bambini violentati, uomini che hanno lasciato la loro patria e tante volte stiamo là, anche in luoghi di guerra, dove è difficile, e ascoltare queste testimonianze anche di cura del pianeta, a partire dalle piccole cose, si diceva: “una farfalla alla volta”, una persona alla volta. Sì, forse la vita religiosa femminile non ha grande visibilità nel mondo di oggi ma c’è e sono tanti piccoli semi. Tutto sommato, voglio dire, ma personalmente, non abbiamo bisogno di occupare spazi clericali perché questo servizio sia visibile, perché già c’è, c’è e continuerà ad esserci e per questo sarebbe bello che nella plenaria della UISG ci fosse anche qualche maschio, come uditore, per sentire la realtà viva, non solo leggerla dalle carte, sentirla dalle voci delle sorelle, è quello che anche abbiamo condiviso nei tavoli. Questa è vita, è reale, c’è, è il seme che spesse volte muore e noi superiore generali facciamo l’esperienza di tante morti ma sappiamo che questa è la via per la vita e in questo nostro servizio di madri ci è data l’esperienza di grazia di testimoniare, di essere testimoni oculari di tanta vita. Una domanda. Noi siamo qui tutte madri: ci dia qualche indicazione concreta, di quelle che sa darci Lei, per essere serve, non diacone, serve, madri, in questo nostro mondo oggi. Serve anzitutto delle nostre sorelle perché le fragilità stanno anche dentro, e prima di tutto siamo strumenti, serve delle serve di Gesù che sono le nostre sorelle. Grazie per la sua prossimità a ciascuno di noi.

Papa Francesco:

Grazie a te. Sarebbe importante che ci fossero osservatori maschi nella prossima… È importante, per capire queste nuances che in un riassunto non vengono mai… Sarebbe una bella idea. Lei ha usato tre parole, tre pilastri: “fragilità”, “madre” e “serva”.

La maternità della Chiesa. Torno sullo stesso punto: la Chiesa è donna, è madre. Noi lo diciamo: credo nella santa madre Chiesa. Parlando della fragilità, il punto d’incontro con la fragilità è il punto che ci fa capire cosa era successo quando Dio inviò il suo Figlio: Dio incontra la fragilità più grande, più grande. La fragilità umana e prende la fragilità più grande, prende la nostra umanità. Non avere paura delle fragilità, anzi, avvicinarsi alla fragilità umana. E avvicinarsi alla fragilità umana non è un atto di beneficenza sociale, no, è un atto teologico, è andare al punto dell’incontro fra Dio e una donna, si è incarnato… Stamattina alla Messa c’erano 25 suore del Cottolengo che facevano il 50° di vita consacrata, e queste per vocazione vivono nella fragilità perché lavorano con disabili, continuamente, alcuni disabili gravissimi… Ma una felicità! Si sentono madri. Questo bambino, questo ragazzo, non sarebbe più utile che fosse curato da un’infermiera dello Stato? No, una suora, sentono quella vocazione verso la fragilità. E non solo queste, tante… Voi, superiore, quante volte dovete carezzare le fragilità delle suore! Portare sulle spalle le fragilità delle vostre comunità; e lì, in questa sofferenza, parlare con una suora che se ne vuole andare, parlare con quell’altra che non va bene, capirla, entrare nel cuore, andare avanti… Il ministero con la fragilità… Anche noi lo abbiamo. Ma non bisogna avere paura, perché è lo specchio dell’incarnazione del Signore. E poi essere madri. Madri e serve. Noi possiamo essere servi, sì, i maschi possono essere servi, ma madri no. Padri sì, ma madri no. La maternità della Chiesa e la maternità della Madonna hanno riflesso nella donna consacrata, un riflesso totale. Anche una mamma di famiglia la riflette, ma la consacrata è il riflesso totale: chi vede una suora vede la Chiesa e vede Maria. Nella fragilità, perché è madre nella fragilità, perché è madre nella fragilità, consacrata, senza partorire un figlio proprio… Questa rinuncia… Non vorrei parlare troppo…

Commento moderatrice:

Vorrei semplicemente dire che durante questa settimana noi abbiamo avuto alcune persone che hanno detto che cosa fanno. C’è una che lavora nella Repubblica Centrafricana e che ha fatto questa domanda che la gente rivolge a loro: “Anche voi volete partire [andare via] da qui?”, perché sono in zone molto turbolente di guerra. E questa domanda penso che dice quella fragilità della quale noi facciamo parte. Se noi non siamo nelle zone fragili, non possiamo neanche essere veramente madri, forse.

Papa Francesco:

È vero quello che dici. Quella domanda – “anche voi volete partire?” – è il popolo disperato che non vuole rimanere senza madre. Bello, no?

Terza domanda:

Innanzitutto un grande grazie, Santo Padre. In questi giorni abbiamo trattato diversi temi, uno di questi è il dialogo interreligioso: grazie per tutto quello che Lei fa in questo ambito. Penso anche al dialogo ecumenico, e porto nel cuore la sofferenza che ho toccato con mano, che ho visto in tante parti per la divisione che c’è tra i cristiani. So che Lei ha già fatto tanto anche in questo settore. Chiedo: è possibile fare qualche passo in più per arrivare a questa comunione tra i cristiani? Grazie.

Papa Francesco:

Grazie a te. Credo che l’ecumenismo si faccia in cammino, sempre. È vero che i teologi devono studiare, discutere… Ma c’è quell’aneddoto – che è vero, mi hanno detto che è vero – che quando San Paolo VI incontrò Athenagoras – mi piacerebbe dire Sant’Athenagoras – Athenagoras disse a Paolo VI: “Facciamo una cosa: andiamo insieme noi, e i teologi li mandiamo su un’isola che riflettano e che facciano la teologia, e noi andiamo avanti insieme”. Uno scherzo, dicono che sia vero. Ma se non è vero è ben trovato. [L’ecumenismo] si fa sempre in cammino. Ci sono dei poveri? Andiamo insieme a lavorare con i poveri. Ci sono i migranti? Insieme. Sempre insieme. Questo è l’ecumenismo del povero, come io chiamo quello che si fa in cammino con le opere di carità. Ma c’è un altro ecumenismo: quello del sangue. Quando uccidono i cristiani per il fatto di essere cristiani, non domandano: “Tu sei anglicano? Tu sei luterano? Tu sei cattolico? Tu sei ortodosso?”. Uccidono. E il sangue si mischia. Io ricordo una volta che un parroco a Amburgo, il parroco di Sankt Josef a Wannsee, vicino ad Amburgo, era incaricato di portare avanti la causa di un sacerdote ghigliottinato dai nazisti per avere insegnato la catechesi ai bambini. Ma dopo di lui è stato ghigliottinato, per lo stesso motivo, un pastore luterano. E lui è andato dal vescovo dicendo: “Io non posso andare avanti con la causa di questo senza la causa del luterano, perché il loro sangue si è mischiato”. È l’ecumenismo del sangue. Abbiamo tanti, tanti martiri comuni. Paolo VI, quando canonizzò i martiri dell’Uganda, erano catechisti metà cattolici e metà anglicani, più o meno, e nel discorso di canonizzazione ha fatto menzione del martirio degli anglicani. Già Paolo VI aveva detto questo. C’è l’ecumenismo del sangue. Dobbiamo fare insieme il più possibile. Per esempio, vengo dal benedire l’esposizione sulla tratta [“Talitha kum”, aperta prima di questa udienza nell’atrio dell’Aula Paolo VI]: lavoriamo insieme, tutti, cattolici, evangelici, tutti, perché è un problema sociale che dobbiamo aiutare a risolvere. E questo credo che sia importante: l’ecumenismo si fa in cammino, non si fa soltanto con la riflessione teologica. Questo aiuterà, perché abbiamo fatto bei progressi, per esempio con i luterani, sulla giustificazione… bei progressi. Ma non possiamo rimanere fermi fino a che non si risolvano tutti i punti teologici. I teologi hanno una grande funzione nella Chiesa: che studino e che ci aiutino; ma noi, nel frattempo, dobbiamo camminare. E poi l’ecumenismo della preghiera. Sono tre. L’ecumenismo della preghiera, l’ecumenismo del sangue, l’ecumenismo del povero. Pregare uno per l’altro, anche uno con l’altro. Questo, per quanto riguarda l’ecumenismo. Nel dialogo interreligioso, anche lì cercare i valori comuni, cercare i valori comuni che ci sono, e questo va bene. Per esempio, tra i valori comuni, il rispetto per la vita dei neonati o dei non nati che hanno i musulmani è meraviglioso.

Quarta domanda: [in portoghese]

Sono suor Marlise, delle Suore dell’Immacolato Cuore di Maria del Brasile. Caro Papa Francesco, così noi la sentiamo,  mi sento molto emozionata di essere qui e anche suor Carmen ha detto che non avrebbe mai immaginato di potersi sedere accanto a lei. Anch’io non avrei mai immaginato di poter essere qui per rivolgermi a lei e farle una domanda. Sono stata incoraggiata dalle mie consorelle brasiliane a venire qui. Vorrei dirle che ci sentiamo molto felici e orgogliose  di avere un Papa latinoamericano. Tutte le latinoamericane presenti qui sentono la stessa cosa.  [Applausi] Grazie! Vorrei anche dirle che la ringraziamo per tutte le sue iniziative, principalmente quelle a favore dei poveri. Noi in Brasile e in vari Paesi dell’America latina stiamo vivendo la situazione di un popolo molto sofferente e anche in tante altre parti del mondo, e lei è stato una presenza molto significativa nel mondo per questa porzione dell’umanità: poveri, rifugiati, vittime della tratta. Alla sua iniziativa di contrasto alla tratta umana anche noi abbiamo dato il nostro contributo in Brasile attraverso la “Rete un grido per la vita” e vogliamo approfondire e incentivare ulteriormente più consorelle a partecipare a questa lotta contro il traffico di essere umani. Sta per iniziare il Sinodo sull’Amazzonia e vorremo chiederle quale contributo può dare in modo particolare la vita religiosa consacrata al Sinodo sull’Amazzonia. Questa è la mia domanda.

Papa Francesco:

Io dovrei farLe la domanda: chi è più importante, Pelè o Maradona? [ridono] Nell’Amazzonia è importante la presenza della donna per la sensibilità dei popoli indigeni, e anche la donna è capace è capace - la religiosa, la consacrata – di capire meglio il problema tribale, perché non è un problema… Ogni tribù, ogni categoria indigena non è una cosa come fosse un club di calcio o un’associazione culturale. È vitale, e soltanto la donna è capace di capire la vita. E la donna consacrata, sicuramente, saprà cercare le strade per arrivare lì. Ci sono dei problemi che alcune denominazioni religiose hanno con gli indigeni, perché non capiscono bene la loro strada. Anche il problema dell’espressione liturgica, l’inculturazione che una congregazione per il culto studia tanto bene: l’inculturazione liturgica loro, che ha una vecchia tradizione. Anche in Cina padre Ricci, in India padre De Nobili: in quei tempi già c’era il problema della inculturazione. Anche c’è questo problema. Io credo che il vostro contributo aiuterà tanto a non sbagliare nella inculturazione, e accompagnare, accompagnare con il rispetto, perché una donna consacrata è molto, molto curata nel rispetto di come cresce la vita, del rispetto intorno a quelle delle suore di Sant’Anna, intorno alla fragilità. Una donna consacrata sa muoversi con la fragilità, in modo speciale, in un modo teologale.

Quinta domanda [in inglese]

Sono Suor Alice Drajea della Congregazione delle Sorelle del Sacro Cuore di Gesù, fondata dai missionari comboniani. Sono la Superiore Generale delle Sorelle con sede a Juba, Sud Sudan. In primo luogo, vorrei portarle i saluti della popolazione del Sud Sudan: la gente vuole che io Le dica quanto loro si sentano grati per i gesti che lei ha tenuto nei riguardi dei presidenti del Sud Sudan [applauso]. Siamo rimasti tutti onorati e grati per questo suo gesto, ma molte persone che vivono nelle zone rurali non avevano i mezzi per vedere né leggere su questo evento. In secondo luogo, vorremmo ringraziarLa per il nuovo vescovo della diocesi di Torit. Come Congregazione locale basata in Sud Sudan, l’unica che ora è in crescita, abbiamo di fronte a noi molte sfide, ma la sfida che vorrei portare alla sua attenzione in una domanda è la sfida all’interno della Chiesa. Lei ha parlato di un processo, che è una cosa positiva. Noi al momento abbiamo almeno tre diocesi senza un vescovo, e le altre due hanno vescovi che hanno già raggiunto l’età della pensione, come ci hanno detto, compreso il nostro arcivescovo Paulino Lukudu Loro. Ora, con la situazione che c’è in Sud Sudan, penso che abbiamo bisogno di una Chiesa forte, una diocesi forte con persone che abbiano una guida. Perché, come dice il Vangelo, le pecore senza un pastore si spargono. Quindi, la mia domanda è: quanto può funzionare e andare avanti una diocesi senza un vescovo? Abbiamo bisogno di un vescovo. E l’ultima domanda: io stessa e le persone del Sud Sudan, le chiediamo di venire in Sud Sudan. Grazie!

Papa Francesco:

Grazie tante. E’ vero quello che dice, sono cinque vescovi che mancano: due sono già anziani e le altre tre diocesi sono vacanti. Abbiamo fatto fatica per nominare quest’ultimo e mi dicono che sono in cammino i processi di due. Speriamo… Ma Lei ha ragione, e lì si soffre tanto perché alcuni vescovi per visitare i cattolici, devono andare nei campi profughi perché la situazione non è chiara ancora. Questa è una delle cose più importanti: la nomina dei vescovi. Non sempre si trovano dei candidati adatti, si deve aspettare, ma almeno possiamo dire alla suora che pregheremo perché si trovino bravi vescovi! E ci sono anche i difetti umani: è un bravo prete ma non può fare il vescovo perché non ha questa dimensione, non ha sviluppato quell’altra... Cercare un candidato non è facile. Ma Lei ha ragione, accompagniamo questo con la preghiera. Io sono stato vicino ad andare in Sud Sudan con l’Arcivescovo di Canterbury. Ma non è stato possibile. Abbiamo promesso di andarci insieme, l’Arcivescovo anglicano e io. Forse quest’anno – forse, non è una promessa! – quando vado in Mozambico, Madagascar, Mauritius [in settembre], forse sarà il tempo di passare lì. Quando dico “tempo” non è il tempo dell’orologio, è il tempo maturo per arrivare lì. Io voglio andare. Il Sud Sudan lo porto nel cuore. Ma vorrei dire una cosa molto bella del Sud Sudan. Quando c’era questa situazione da cui non si sapeva come uscire, è arrivata ai dirigenti politici la proposta di fare un ritiro spirituale qui in Vaticano, due giorni, e l’hanno fatto. Facevano il pranzo nella sala da pranzo comune, dove pranzo io, e io li vedevo lì a tavola come novizi: zitti, che mangiavano. Questi che facevano la guerra! Zitti perché pensavano alla meditazione che aveva dato il cattolico, l’episcopaliano, l’anglicano… ma per unirci, sempre. Nessuna nazione ha fatto questo, soltanto loro, sono bravi. E io dico: Signore, se hanno avuto questo coraggio di dare una testimonianza del genere, di venire a fare un ritiro spirituale, da’ loro la possibilità di andare avanti! Lì, c’è il problema della povertà e c’è la fame. Io vorrei andarci. E c’è anche un piano di poter andare. Quello dei vescovi davvero [è un punto importante]… E anche la vita religiosa: aiutate perché cresca bene, che siano donne forti, che portino avanti questo, che sarà molto, molto importante.

Mi è piaciuta questa testimonianza, da quell’angolo della geografia africana, che ci aiuterà tanto. E credo che lì qualcuno può dire: “E voi, volete partire?” - “No”, come ha detto la Presidente.

Adesso è ora. Io vorrei continuare… ma prendo sul serio – se sarò vivo, non so – l’invito a partecipare almeno a una parte della prossima assemblea. Credo che la motivazione che ha dato la suora è una motivazione vera, se sarò vivo ci andrò. Altrimenti, ricordatelo, lo ricordi al successore! Che faccia lo stesso! Grazie tante, pregate per me e vi invito a pregare insieme il Regina Caeli.

[Regina coeli]

[Benedizione]

 

[00814-IT.01] [Testo originale: Italiano]

 

Discorso del Santo Padre consegnato

Queridas hermanas:

Me alegra mucho poder recibirlas hoy con motivo de su Asamblea general, y desearles un tiempo pascual lleno de paz, alegría y pasión por llevar el Evangelio a todos los rincones de la tierra. Sí, la Pascua es todo esto y nos invita a ser testigos del Resucitado viviendo una nueva etapa evangelizadora marcada por la alegría. Nadie nos puede robar la pasión por la evangelización. No hay Pascua sin misión: «Vayan y anuncien el Evangelio a todos los hombres» (cf. Mt 16,15-20). A su Iglesia el Señor le pide que muestre el triunfo de Cristo sobre la muerte, le pide que mostremos su Vida. Vayan hermanas y anuncien a Cristo Resucitado como la fuente de la alegría que nada ni nadie nos puede arrebatar. Renueven constantemente su encuentro con Jesucristo Resucitado y serán sus testigos, llevando a todos los hombres y mujeres amados por el Señor, particularmente a cuantos se sienten víctimas de la cultura de la exclusión, la dulce y confortadora alegría del Evangelio.

La vida consagrada, como ya afirmó en su día san Juan Pablo II, como cualquier otra realidad de la Iglesia, está atravesando un tiempo «delicado y duro» (S. Juan Pablo II, Exhort. ap. Vita consecrata, 13). Frente a la disminución numérica que vive la vida consagrada, particularmente la femenina, la tentación es la del desánimo, la resignación o el “arrocamiento” en lo de “siempre se ha hecho así”.

En este contexto les repito con fuerza lo que les he dicho en otras ocasiones: no tengan miedo de ser pocas, sino de ser insignificantes, de dejar de ser luz que ilumine a cuantos están inmersos en la “noche oscura” de la historia. No tengan miedo tampoco de «confesar con humildad y a la vez con gran confianza en el amor de Dios su fragilidad» (Carta a todos los consagrados, 21 noviembre 2014, I, 1). Tengan miedo, es más: tengan pánico de dejar de ser sal que dé sabor a la vida de los hombres y mujeres de nuestra sociedad. Trabajen sin descanso para ser centinelas que anuncien la llegada del alba (cf. Is 21,11-12); para ser fermento allí donde se encuentren y con quien se encuentren, aunque eso, aparentemente no les aporte beneficios tangibles e inmediatos (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 210).

Hay mucha gente que las necesita y las espera. Necesita de su sonrisa amiga que les devuelva confianza; de sus manos que les sostengan en su caminar; de su palabra que siembre esperanza en sus corazones; de su amor al estilo del de Jesús (cf. Jn 13,1-15) que cure las heridas más profundas causadas por la soledad, el rechazo y la exclusión. No cedan nunca a la tentación de la autorreferencialidad, de convertirse en “ejércitos cerrados”. Tampoco se refugien «en una obra para eludir la capacidad operativa del carisma» (La fuerza de la vocación, 56). Desarrollen, más bien, la fantasía de la caridad y vivan la fidelidad creativa a sus carismas. Con ellas serán capaces de «reproducir la santidad y la creatividad de sus fundadores» (S. Juan Pablo II, Exhort. ap. Vita consecrata, 37), abriendo nuevas sendas para llevar el aliento y la luz del Evangelio a las distintas culturas en las que viven y trabajan en los más diversos ámbitos de la sociedad, como hicieron ellos en su tiempo. Con ellas serán capaces de revisitar sus carismas, de ir a las raíces viviendo el presente convenientemente, sin tener miedo a caminar, «sin permitir que el agua deje de correr [...] La vida consagrada es como el agua: estancada se pudre» (La fuerza de la vocación, 44-45). Y de este modo, sin perder la memoria, necesaria siempre para vivir el presente con pasión, evitarán tanto el “restauracionismo” como la ideología, del signo que sea, que tanto daño hacen a la vida consagrada y a la misma Iglesia.

Y todo con su presencia y su servicio humilde y discreto, animado siempre por la oración gratuita y la oración de adoración y de alabanza. Orar, alabar y adorar no es perder el tiempo. Cuanto más unidos estemos al Señor, más cerca estaremos de la humanidad, particularmente de la humanidad que sufre. “Nuestro futuro estará lleno de esperanza”, como afirma el lema de esta Plenaria, y nuestros proyectos serán proyectos de futuro, en la medida en que nos detengamos diariamente delante del Señor en la gratuidad de la oración, si no queremos que el vino se convierta en vinagre y la sal se vuelva insípida. Sólo será posible conocer los proyectos que el Señor ha hecho para nosotros si mantenemos nuestros ojos y nuestro corazón vueltos hacia el Señor, contemplando su rostro y escuchando su Palabra (cf. Sal 33). Sólo así serán capaces de despertar el mundo con su profecía, nota distintiva y prioridad de su ser religiosas y consagradas (cf. Carta a todos los consagrados, 21 noviembre 2014, II, 2). Cuanto más urgente es descentrarse para ir a las periferias existenciales, más urgente es centrarse en Él y concentrarse en los valores esenciales de nuestros carismas.

Entre los valores esenciales de la vida religiosa está la vida fraterna en comunidad. Compruebo con tanta alegría los grandes logros que se han alcanzado en esa dimensión: comunicación más intensa, corrección fraterna, búsqueda de la sinodalidad en la conducción de la comunidad, acogida fraterna en el respeto por la diversidad..., pero al mismo tiempo me preocupa el que haya hermanos y hermanas que llevan su vida al margen de la fraternidad; hermanas y hermanos que llevan años ausentes ilegítimamente de la comunidad, por lo que acabo de promulgar un Motu Proprio, Communis vita, con normas bien precisas para evitar esos casos.

En cuanto a la vida fraterna en comunidad, también me preocupa que haya Institutos en los que la multiculturalidad y la internacionalización no son vistas como una riqueza, sino como una amenaza, y se viven como conflicto, en lugar de vivirlos como nuevas posibilidades que muestran el verdadero rostro de la Iglesia y de la vida religiosa y consagrada. Pido a las responsables de los Institutos que se abran a lo nuevo propio del Espíritu, que sopla donde quiere y como quiere (cf. Jn 3,8) y que preparen a las generaciones de otras culturas para asumir responsabilidades. Vivan hermanas la internacionalización de sus Institutos como buena noticia. Vivan el cambio de rostro de sus comunidades con alegría, y no como un mal necesario para la conservación. La internacionalidad y la interculturalidad no tienen vuelta atrás.

Me preocupan los conflictos generacionales, cuando los jóvenes no son capaces de llevar adelante los sueños de los ancianos para hacerlos fructificar, y los ancianos no saben acoger la profecía de los jóvenes (cf. Jl 2,28). Como me gusta repetir: los jóvenes corren mucho, pero los mayores conocen el camino. En una comunidad son necesarias tanto la sabiduría de los ancianos como la inspiración y la fuerza de los jóvenes.

Queridas hermanas: En ustedes agradezco a todas las hermanas de sus Institutos el gran trabajo que realizan en las distintas periferias en que viven. La periferia de la educación, en la que educar es ganar siempre, ganar para Dios; la periferia de la sanidad, en la que son servidoras y mensajeras de la vida, y de una vida digna; y la periferia del trabajo pastoral en sus más variadas manifestaciones, en el que, testimoniando con sus vidas el Evangelio, están manifestando el rostro materno de la Iglesia. Gracias por lo que son y por lo que hacen en la Iglesia. Nunca dejen de ser mujeres. «No hace falta dejar de ser mujer para igualarse» (La fuerza de la vocación, 111).

Al mismo tiempo les pido: Cultiven la pasión por Cristo y la pasión por la humanidad. Sin pasión por Cristo y por la humanidad no hay futuro para la vida religiosa y consagrada. La pasión las lanzará a la profecía, a ser fuego que encienda otros fuegos. Sigan dando pasos en la misión compartida entre diversos carismas y con los laicos, convocándolos a obras significativas, sin dejar a ninguno sin la debida formación y el sentido de pertenencia a la familia carismática. Trabajen en las mutuas relaciones con los pastores, incluyéndolos en su discernimiento e integrándolos en la selección de presencias y ministerios. El camino de la vida consagrada, tanto masculina como femenina, es el camino de la inserción eclesial. Fuera de la Iglesia y en paralelo con la Iglesia local, las cosas no funcionan. Presten gran atención a la formación tanto permanente como inicial y a la formación de formadores capaces de escuchar y de acompañar, de discernir, saliendo al encuentro de los que llaman a nuestras puertas. Y, aun en medio de las pruebas por las que podemos estar pasando, vivan con alegría su consagración. Esa es la mejor propaganda vocacional.

Que la Virgen las acompañe y proteja con su materna intercesión. Por mi parte las bendigo de corazón y bendigo a todas las hermanas que el Señor les ha confiado. Y, por favor, no se olviden de rezar por mí.

[00810-ES.01] [Texto original: Español]

 

[B0396-XX.02]