Alle ore 19 di questa sera, il Santo Padre Francesco si è recato nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano per l’incontro con la Diocesi di Roma.
Al suo arrivo, il Papa è stato accolto dal Cardinale Vicario per la Diocesi di Roma Angelo De Donatis. Erano presenti, tra gli altri, i Vescovi Ausiliari, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, centinaia di laici provenienti dalle parrocchie e dalle altre realtà ecclesiali della diocesi di Roma nonché i rappresentanti delle cappellanie e delle scuole cattoliche della città.
Questo incontro ha concluso il cammino di riflessione sul “fare memoria” e sulla “riconciliazione” compiuto dalle parrocchie e dalle varie aggregazioni ecclesiali nel corso dell’anno pastorale su invito del Cardinale Vicario.
Quindi, dopo un momento di preghiera, e alcune brevi testimonianze, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha rivolto ai presenti all’Incontro:
Discorso del Santo Padre
Papa Francesco:
Grazie del vostro intervento e del vostro ascolto.
La prima tentazione che può venire dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano è: “No no, dobbiamo risistemare la città, risistemare la diocesi, mettere tutto a posto, mettere ordine”. Questo sarebbe guardare a noi, tornare a guardarci all’interno. Sì, le cose saranno risistemate e noi avremo messo a posto il “museo”, il museo ecclesiastico della città, tutto in ordine… Questo significa addomesticare le cose, addomesticare i giovani, addomesticare il cuore della gente, addomesticare le famiglie; fare calligrafia, tutto perfetto. Ma questo sarebbe il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano anti-evangelico. Non si tratta di “risistemare”. Abbiamo sentito [negli interventi precedenti] gli squilibri della città, lo squilibrio dei giovani, degli anziani, delle famiglie… Lo squilibrio dei rapporti con i figli… Oggi siamo stati chiamati a reggere lo squilibrio. Noi non possiamo fare qualcosa di buono, di evangelico se abbiamo paura dello squilibrio. Dobbiamo prendere lo squilibrio tra le mani: questo è quello che il Signore ci dice, perché il Vangelo – credo che mi capirete – è una dottrina “squilibrata”. Prendete le Beatitudini: meritano il premio Nobel dello squilibrio! Il Vangelo è così.
Gli Apostoli si sono innervositi quando veniva il tramonto e quella folla – cinquemila solo gli uomini – continuava ad ascoltare Gesù; e loro hanno guardato l’orologio e dicevano: “Questo è troppo, dobbiamo pregare i Vespri, la Compieta… e poi mangiare…”. E hanno cercato la maniera di “risistemare” le cose: si sono avvicinati al Signore e hanno detto: “Signore, congedali, perché il posto è deserto: che vadano a comprarsi da mangiare”, nella pianura deserta. Questa è l’illusione dell’equilibrio della gente “di Chiesa” tra virgolette; e io credo – l’ho detto non ricordo dove – che lì è incominciato il clericalismo: “Congeda la gente, che se ne vadano, e noi mangeremo quello che abbiamo”. Forse lì c’è l’inizio del clericalismo, che è un bell’“equilibrio”, per sistemare le cose.
Ho preso nota delle cose che ascoltavo e che mi toccavano il cuore… E poi, su questa strada del “sistemare le cose” avremo una bella diocesi funzionalizzata. Clericalismo e funzionalismo. Sto pensando – e questo lo dico con carità, ma devo dirlo – a una diocesi – ce ne sono parecchie, ma penso a una – che ha tutto funzionalizzato: il dipartimento di questo, il dipartimento dell’altro, e in ognuno dei dipartimenti ha quattro, cinque, sei specialisti che studiano le cose… Quella diocesi ha più dipendenti del Vaticano! E quella diocesi, oggi – non voglio nominarla per carità – quella diocesi si allontana ogni giorno di più da Gesù Cristo perché rende culto all’“armonia”, all’armonia non della bellezza, ma della mondanità funzionalista. E siamo caduti, in questi casi, nella dittatura del funzionalismo. È una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma. E tanti lasciano il kerygma, inventano sinodi e contro-sinodi… che in realtà non sono sinodi, sono “risistemazioni”. Perché? Perché per essere un sinodo – e questo vale anche per voi [come assemblea diocesana] – ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo. Chiediamo al Signore la grazia di non cadere in una diocesi funzionalista. Ma io credo che, secondo quello che ho sentito, le cose sono ben orientate. E andiamo avanti.
Poi, questa sera, vorrei comprendere meglio il grido della gente della diocesi: ci aiuterà a comprendere meglio cosa chiede la gente al Signore. Quel grido è un grido che spesso anche noi non ascoltiamo o che facilmente dimentichiamo. E questo succede perché abbiamo smesso di abitare con il cuore. Abitiamo con le idee, con i piani pastorali, con la curiosità, con soluzioni prestabilite; ma bisogna abitare con il cuore. Mi ha colpito quello che don Ben [direttore della Caritas] ha provato per quel ragazzo [che aveva visto prendere un pezzo di pane da un cassonetto]: si è vergognato di sé stesso, non è stato capace di andare a domandargli: “Cosa pensi, com’è il tuo cuore, che cosa cerchi?”. Se la Chiesa non fa questi passi, rimarrà ferma, perché non sa ascoltare con il cuore. La Chiesa sorda al grido della gente, sorda all’ascolto della città.
Vorrei condividere qualche riflessione che ho qui – che mi hanno preparato e che io ho “ricucinato” un po’ –, riflessioni che illuminino il cammino per il prossimo anno. Possiamo partire da un brano evangelico; poi richiamerò qualche passaggio del discorso che ho fatto alla Chiesa italiana a Firenze [10 novembre 2015], che è proprio lo stile della nostra Chiesa. “Che bello, quel discorso! Ah, il Papa ha parlato bene, ha indicato bene la strada”, e dagli con l’incenso… Ma oggi, se io domandassi: “Ditemi qualcosa del discorso di Firenze” – “Eh, sì, non ricordo…”. Sparito. È entrato nell’alambicco delle distillazioni intellettuali ed è finito senza forza, come un ricordo. Riprendiamo il discorso di Firenze che, con la Evangelii gaudium, è il piano per la Chiesa in Italia ed è il piano per questa Chiesa di Roma.
Possiamo incominciare con un brano del Vangelo.
[Lettura di Matteo 18,1-14]
Papa Francesco:
Tenete bene nella mente e nel cuore che, quando il Signore vuole convertire la sua Chiesa, cioè renderla più vicina a Sé, più cristiana, fa sempre così: prende il più piccolo e lo mette al centro, invitando tutti a diventare piccoli e a “umiliarsi” – dice letteralmente il testo evangelico – per diventare piccoli, così come ha fatto Lui, Gesù. La riforma della Chiesa incomincia dall’umiltà, e l’umiltà nasce e cresce con le umiliazioni. In questa maniera neutralizza le nostre pretese di grandezza. Il Signore non prende un bambino perché è più innocente o perché è più semplice, ma perché sotto i 12 anni i bambini non avevano nessuna rilevanza sociale, in quel tempo. Solo chi segue Gesù per questa strada dell’umiltà e si fa piccolo può davvero contribuire alla missione che il Signore ci affida. Chi cerca la propria gloria non saprà né ascoltare gli altri né ascoltare Dio, come potrà collaborare alla missione? Forse uno di voi, non ricordo chi, mi diceva che non voleva incensare: ma fra noi ci sono tanti “liturgisti” sbagliati che non hanno imparato a incensare bene: invece di incensare il Signore, incensano sé stessi e vivono così. Chi cerca la propria gloria, come potrà riconoscere e accogliere Gesù nei piccoli che gridano a Dio? Tutto il suo spazio interiore è occupato da sé stesso o dal gruppo a cui appartiene – persone come noi, tante volte – per cui non ha né occhi né orecchie per gli altri. Quindi il primo sentimento da avere nel cuore, per sapere ascoltare, è l’umiltà e il guardarsi bene dal disprezzare i piccoli, chiunque essi siano, giovani affetti da orfanezza o finiti nel tunnel della droga, famiglie provate dalla quotidianità o sfasciate nelle relazioni, peccatori, poveri, stranieri, persone che hanno perso la fede, persone che non hanno mai avuto la fede, anziani, disabili, giovani che cercano il pane nell’immondizia, come abbiamo sentito… Guai a chi guarda dall’alto in basso e disprezza i piccoli. Soltanto in un caso ci è lecito guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla ad alzarsi. L’unico caso. In altri casi non è lecito. Guai a quelli che guardano dall’alto in basso per disprezzare i piccoli, anche quando i loro stili di vita, i modi di ragionare fossero lontanissimi dal Vangelo; nulla giustifica il nostro disprezzo. Chi è senza umiltà e disprezza non sarà mai un buon evangelizzatore, perché non vedrà mai al di là delle apparenze. Penserà che gli altri siano solo nemici, dei “senza Dio”, e perderà l’occasione di ascoltare il grido che hanno dentro, quel grido che spesso è dolore e sogno di un “Altrove”, in cui si manifesta il bisogno della salvezza. Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da questa “risistematizzazione” diocesana. Che tra l’altro è un gattopardismo: voler cambiare tutto perché nulla cambi.
Il secondo tratto necessario – il primo è l’umiltà: per ascoltare, tu devi abbassarti – il secondo tratto necessario per ascoltare il grido è il disinteresse. Viene espresso nel brano evangelico della parabola del pastore che va in cerca della pecora che si è smarrita. Non ha nessun interesse personale da difendere, questo buon pastore: l’unica preoccupazione è che nessuno si perda. Abbiamo interessi personali, noi che siamo questa sera? Ognuno ci può pensare: qual è il mio interesse nascosto, personale, che ho nella mia attività ecclesiale? La vanità? Non so… ognuno ha il proprio. Siamo preoccupati delle nostre strutture parrocchiali?, del futuro del nostro istituto?, del consenso sociale?, di quello che la gente dirà se ci occupiamo dei poveri, dei migranti, dei rom? O siamo attaccati a quel po’ di potere che esercitiamo ancora sulle persone della nostra comunità o del nostro quartiere? Tutti noi abbiamo visto parrocchie che hanno fatto scelte sul serio, sotto l’ispirazione dello Spirito, e tanti fedeli che andavano lì si sono allontanati perché “ah, questo parroco è troppo esigente, anche un po’ comunista”, e la gente se ne va. E quando non arrivano le lamentele al vescovo… E se il vescovo non è coraggioso, se non è un uomo che ha umiltà, un uomo disinteressato, chiama il prete e gli dice: “Non esagerare, sai, un po’ di equilibrio…”. Ma lo Spirito Santo non capisce l’equilibrio, non lo capisce. Capisce la […]. Il disinteresse per sé stessi è la condizione necessaria per poter essere pieni di interesse per Dio e per gli altri, per poterli ascoltare davvero. C’è il “peccato dello specchio”. E noi, preti, suore, laici con la vocazione di lavorare, cadiamo tante volte in questo peccato dello specchio: si chiama narcisismo e autoreferenzialità, i peccati dello specchio che ci soffocano. Il Signore ha ascoltato il grido degli uomini che ha incontrato e si è fatto loro vicino, perché non aveva nulla da difendere e nulla da perdere, non aveva “lo specchio”: aveva la coscienza in preghiera, in contemplazione con il Padre e unta dallo Spirito Santo. Questo è il suo segreto, e per questo è andato avanti. Lascia le novantanove al sicuro e si mette a cercare chi si è smarrito. Noi, invece, come ho detto altre volte, siamo spesso ossessionati per le poche pecore che sono rimaste nel recinto. E tanti smettono di essere pastori di pecore per diventare “pettinatori” di pecore squisite. E passano tutto il tempo a pettinarle. Tante? No. Dieci…, piccola cosa… E’ brutto. Non troviamo mai il coraggio di cercare le altre, quelle che si sono perse, che vanno per sentieri che non abbiamo mai battuto. Per favore, convinciamoci che tutto merita di essere lasciato e sacrificato per il bene della missione. Lasciare l’orgoglio, essere umili, lasciare questo benessere, questo interesse per sé stessi. Mosè, di fronte alla missione, ha avuto paura, ha fatto mille resistenze e obiezioni; ha cercato di convincere Dio a rivolgersi a qualcun altro; ma alla fine, è sceso con Dio in mezzo al suo popolo e si è messo ad ascoltare. Che il Signore ci riempia il cuore dell’audacia e della libertà di chi non è legato da interessi e vuole mettersi con empatia e simpatia in mezzo alle vite degli altri.
L’ultimo tratto del cuore, necessario per ascoltare il grido e per evangelizzare, è avere sperimentato le Beatitudini. Oggi parlavo con un rabbino, molto amico, che era venuto da Buenos Aires, e mi ha detto: “Nella Legge io trovo che il nostro punto di partenza per il dialogo giudeo-cristiano sia la legge dell’amore: Amerai il tuo Dio con tutte le forze e il prossimo come te stesso. E nel Vangelo, nei libri cristiani, quale pensi tu che sia un testo che possa aiutarci tanto?”. Gli ho detto subito: “Le Beatitudini”. Le Beatitudini sono un messaggio cristiano, ma anche umano. È il messaggio che ti fa vivere, il messaggio della novità… A me sempre ha aiutato pensare che anche alla gente pagana o agnostica, le Beatitudini arrivano. Lo stesso Gandhi a suo tempo ha confessato che era il suo testo preferito. Le Beatitudini: significa avere imparato dal Signore e dalla vita dov’è la gioia vera, quella che il Signore ci dona, e saper discernere dove trovarla e farla trovare agli altri, senza sbagliare strada. Chi sbaglia strada o chi inciampa, magari con la presunzione di camminare sulla via di Dio, rischia di far sbagliare e inciampare anche gli altri. Lo vediamo in alcuni movimenti pelagiani o in alcuni movimenti esoterici, o gnostici, che oggi ci sono tra noi: tutti inciampano, tutti, sono incapaci di andare verso un orizzonte, vanno un po’ avanti per tornare su sé stessi; sono le proposte egocentriche. Invece, le Beatitudini sono teocentriche, che guardano la vita, ti portano avanti, ti spogliano ma ti rendono più leggero seguire Gesù. E Gesù parla di non scandalizzare i piccoli. Perché? Perché lo scandalo è una pietra d’inciampo. Tu non hai capito lo spirito delle Beatitudini. Pensiamo al mondo dei dottori della Legge: era una continua pietra d’inciampo al popolo. Il popolo sapeva che non avevano autorità: scandalizzavano. E per questa strada finiamo per diventare guide cieche: inciampiamo noi e facciamo inciampare chi pretendiamo di aiutare. Alle persone fragili, ferite dalla vita o dal peccato, ai piccoli che gridano a Dio possiamo e dobbiamo offrire la vita delle Beatitudini che anche noi abbiamo sperimentato, cioè la gioia dell’incontro con la misericordia di Dio, la bellezza di una vita comunitaria di famiglia dove si è accolti per quello che si è, delle relazioni davvero umane piene di mitezza. Mi fermo un po’ su questo. In questi giorni sono un po’ ossessionato dalla mitezza. È una parola che rischia di cadere dal dizionario, come quasi è caduto il verbo “accarezzare”… La mitezza, la tenerezza, i gesti di tenerezza di Gesù… La mitezza accoglie ognuno come è. La ricchezza dei mezzi poverissimi, senza effetti speciali… Oggi, nell’incontro con i Rom, ho trovato suor Geneviève, che da 50 anni vive tra loro, anche con i circensi del luna park, in una roulotte. Semplice: prega, sorride, accarezza, fa del bene con le Beatitudini. I mezzi poverissimi dell’ascolto, del dialogo viso a viso, l’entusiasmo di lavorare insieme con coraggio per la giustizia e la pace, l’aiuto reciproco nel momento della fatica o della persecuzione, lo splendore quotidiano del contemplare con cuore puro il volto di Dio nella liturgia, nell’ascolto della Parola, nella preghiera, nei poveri... Vi sembra poco tutto questo? Questa è la strada.
È vero che le Beatitudini donate da Dio non sono il nostro “piatto forte”: dobbiamo imparare ancora; dobbiamo cercare per questa strada di offrire ai nostri concittadini il piatto forte che li farà crescere. E quando lo trovano, ecco che la fede fiorisce, mette radici, si innesta nella vigna che è la Chiesa da cui riceve la linfa della vita dello Spirito. Pensiamo di dovere offrire altro al mondo, se non il Vangelo creduto e vissuto? Vi prego, non scandalizziamo i piccoli offrendo lo spettacolo di una comunità presuntuosa... Vi invito a visitare l’Elemosineria Apostolica: lì, il Cardinale Krajewski, che è un po’ “diavoletto”, ha messo una fotografia che ha fatto un giovane fotografo di Roma, artista: c’è l’uscita di un ristorante, d’inverno, esce una signora di una certa età, quasi anziana, con la pelliccia, il cappello, i guanti, elegantissima la signora, solo guardando tu senti l’odore del profumo francese, tutto perfetto…, e ai piedi della porta, sul pavimento, un’altra donna, vestita di stracci, che tende la mano; e quella signora elegante guarda dall’altra parte. Quella fotografia si chiama indifferenza. Andate a vederla. Non scandalizziamo i piccoli. Non cadiamo nell’indifferenza. Se offriamo lo spettacolo di una comunità presuntuosa – come questa fotografia –, interessata, triste, che vive la competizione, il conflitto, l’esclusione, ci meritiamo le parole di Gesù: “Non ho bisogno di voi, non mi servite a nulla. Anzi, poiché rischiate di fare molti danni – direbbe Gesù – sarebbe meglio che spariste, buttandovi nel fondo del mare”. Per non scandalizzare. Roma è un po’ lontana dal mare, ma si può dire: “Vatte a butta’ ner Tevere”.
A Firenze chiesi poi a tutti i partecipanti al Convegno di riprendere in mano la Evangelii gaudium. Questo è il secondo punto di partenza dell’evangelizzazione post-conciliare. Perché dico “secondo punto di partenza”? Perché il primo punto di partenza è il documento più grande uscito dal dopo-Concilio: la Evangelii nuntiandi [di Paolo VI, 8 dicembre 1975]. L’Evangelii gaudium è un aggiornamento, un’imitazione dell’Evangelii nuntiandi per l’oggi, ma la forza è il primo. Prendete in mano la Evangelii gaudium, ritornate sul percorso di trasformazione missionaria delle comunità cristiane che è proposto nelle pagine dell’Esortazione. Lo stesso chiedo a voi stasera, indirizzandovi in particolare a una parte del secondo capitolo dell’Evangelii gaudium, quello delle sfide all’evangelizzazione, le sfide della cultura urbana: i numeri che vanno dal 61 al 75. Faccio due sottolineature, che, in vista del cammino del prossimo anno, rappresentano anche i due compiti che vi affido.
1) Esercitare uno sguardo contemplativo sulla vita delle persone che abitano la città. Guardare. E per far questo, in ogni parrocchia cerchiamo di comprendere come vivono le persone, come pensano, cosa sentono gli abitanti del nostro quartiere, adulti e giovani; cerchiamo di raccogliere storie di vita. Storie di vite esemplari, significative di quello che vive la maggioranza delle persone. Possiamo raccogliere queste storie di vita interrogando con amicizia i genitori dei bambini e dei ragazzi, o andando a trovare gli anziani, o intervistando i giovani a scuola, d’intesa con i loro insegnanti. Ho menzionato gli anziani: per favore, non dimenticateli. Adesso sono più curati perché, siccome manca il lavoro e l’anziano ha la pensione, lo curano meglio, l’anziano… Ma fate parlare i vecchi: non per diventare antiquati, no, per avere l’odore delle radici e potere andare avanti radicati. Noi, con questa tecnologia del virtuale, rischiamo di perdere il radicamento, le radici, di diventare sradicati, liquidi – come diceva un filosofo – oppure, come piace piuttosto dire a me, gassosi, senza consistenza, perché non siamo radicati e abbiamo perso il succo delle radici per crescere, per fiorire, per dare frutti. Facciamo parlare gli anziani: non dimenticatevi di questo. Un ascolto della gente che sempre più è il grido dei piccoli. Ma soprattutto abbiate uno sguardo contemplativo, per avvicinarsi con questo sguardo… E avvicinarsi toccando la realtà. Il tatto, dei cinque sensi, è il più pieno, il più completo.
2) Secondo compito: esercitare uno sguardo contemplativo sulle culture nuove che si generano nella città. Lo sappiamo, la città di Roma è un organismo che palpita: prendiamo consapevolezza che lì, dove le persone vivono e si incontrano, si produce sempre qualcosa di nuovo che va al di là delle singole storie dei suoi abitanti. Nella Evangelii gaudium ho sottolineato che sono proprio i contesti urbani i luoghi dove viene prodotta una nuova cultura: nuovi racconti, nuovi simboli, nuovi paradigmi, nuovi linguaggi, nuovi messaggi (cfr n. 73). Occorre capirli; trovarli e capirli. E tutto questo produce del bene e del male. Il male è spesso sotto gli occhi di tutti: «cittadini a metà, non cittadini, avanzi urbani» (ibid., 74), perché ci sono persone che non accedono alle stesse possibilità di vita degli altri e che vengono scartate; segregazione, violenza, corruzione, criminalità, traffico di droga e di esseri umani, abuso dei minori e abbandono degli anziani. Si generano così delle tensioni insopportabili. Come avete ricordato, ci sono in tanti quartieri di Roma guerre tra poveri, discriminazioni, xenofobia e anche razzismo. Oggi ho incontrato in Vaticano cinquecento Rom e ho sentito cose dolorose. Xenofobia. State attenti, perché il fenomeno culturale mondiale, diciamo almeno europeo, dei populismi cresce seminando paura. Ma nella città c’è anche tanto bene, perché ci sono luoghi positivi, luoghi fecondi: lì dove i cittadini si incontrano e dialogano in maniera solidale e costruttiva, ecco che si crea «un tessuto connettivo dove persone e gruppi condividono diverse modalità di sognare la vita, immaginari simili, e si costituiscono nuovi settori umani, territori culturali invisibili» (ibid.).
Il Signore benedica il nostro ascolto della città. E poi, ci diamo appuntamento a Pentecoste. Sarà per noi l’incontro con il volto del Signore nel roveto ardente. Ci toglieremo i sandali, ci veleremo il volto e diremo a Dio il nostro “sì”: Ti seguiamo mentre scendi in mezzo al popolo, per ascoltare il grido dei poveri.
Grazie!
[00803-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[B0394-XX.02]