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Synod18 – Discorso del Santo Padre Francesco alla 1ª Congregazione Generale della XV Assemblea del Sinodo dei Vescovi, 03.10.2018


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 16.30 di questo pomeriggio, alla presenza del Santo Padre Francesco, è iniziata nell’Aula del Sinodo in Vaticano la 1a Congregazione generale della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dal tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. (3-28 ottobre 2018).

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti:

Discorso del Santo Padre

Care Beatitudini, Eminenze, Eccellenze,
cari fratelli e sorelle, carissimi giovani!

Entrando in quest’aula per parlare dei giovani, si sente già la forza della loro presenza che emana positività ed entusiasmo, capaci di invadere e rallegrare non solo quest’aula, ma tutta la Chiesa e il mondo intero.

Ecco perché non posso cominciare senza dirvi grazie! Grazie a voi presenti, grazie a tante persone che lungo un cammino di preparazione di due anni – qui nella Chiesa di Roma e in tutte le Chiese del mondo – hanno lavorato con dedizione e passione per farci giungere a questo momento. Grazie di cuore al Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, ai Presidenti Delegati, al Cardinale Sérgio da Rocha, Relatore Generale; a Mons. Fabio Fabene, Sotto-Segretario, agli Officiali della Segreteria Generale e agli Assistenti; grazie a tutti voi, Padri sinodali, Uditori, Uditrici, esperti e consultori; ai Delegati fraterni; ai traduttori, ai cantori, ai giornalisti. Grazie di cuore a tutti per la vostra partecipazione attiva e feconda.

Un grazie sentito meritano i due Segretari Speciali, Padre Giacomo Costa, gesuita, e Don Rossano Sala, salesiano, che hanno lavorato generosamente con impegno e abnegazione. Hanno lasciato la pelle, nella preparazione!

Desidero anche ringraziare vivamente i giovani collegati con noi, in questo momento, e tutti i giovani che in tanti modi hanno fatto sentire la loro voce. Li ringrazio per aver voluto scommettere che vale la pena di sentirsi parte della Chiesa o di entrare in dialogo con essa; vale la pena di avere la Chiesa come madre, come maestra, come casa, come famiglia, capace, nonostante le debolezze umane e le difficoltà, di brillare e trasmettere l’intramontabile messaggio di Cristo; vale la pena di aggrapparsi alla barca della Chiesa che, pur attraverso le tempeste impietose del mondo, continua ad offrire a tutti rifugio e ospitalità; vale la pena di metterci in ascolto gli uni degli altri; vale la pena di nuotare controcorrente e di legarsi ai valori alti: la famiglia, la fedeltà, l’amore, la fede, il sacrificio, il servizio, la vita eterna. La nostra responsabilità qui al Sinodo è di non smentirli, anzi, di dimostrare che hanno ragione a scommettere: davvero vale la pena, davvero non è tempo perso!

E ringrazio in particolare voi, cari giovani presenti! Il cammino di preparazione al Sinodo ci ha insegnato che l’universo giovanile è talmente variegato da non poter essere rappresentato totalmente, ma voi ne siete certamente un segno importante. La vostra partecipazione ci riempie di gioia e di speranza.

II Sinodo che stiamo vivendo è un momento di condivisione. Desidero dunque, all’inizio del percorso dell’Assemblea sinodale, invitare tutti a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Solo il dialogo può farci crescere. Una critica onesta e trasparente è costruttiva e aiuta, mentre non lo fanno le chiacchiere inutili, le dicerie, le illazioni oppure i pregiudizi.

E al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare. Dicevo ai giovani nella Riunione pre-sinodale: «Se parla quello che non mi piace, devo ascoltarlo di più, perché ognuno ha il diritto di essere ascoltato, come ognuno ha il diritto di parlare». Questo ascolto aperto richiede coraggio nel prendere la parola e nel farsi voce di tanti giovani del mondo che non sono presenti. È questo ascolto che apre lo spazio al dialogo. Il Sinodo dev’essere un esercizio di dialogo, anzitutto tra quanti vi partecipano. E il primo frutto di questo dialogo è che ciascuno si apra alla novità, a modificare la propria opinione grazie a quanto ha ascoltato dagli altri. Questo è importante per il Sinodo. Molti di voi hanno già preparato il loro intervento prima di venire – e vi ringrazio per questo lavoro –, ma vi invito a sentirvi liberi di considerare quanto avete preparato come una bozza provvisoria aperta alle eventuali integrazioni e modifiche che il cammino sinodale potrebbe suggerire a ciascuno. Sentiamoci liberi di accogliere e comprendere gli altri e quindi di cambiare le nostre convinzioni e posizioni: è segno di grande maturità umana e spirituale.

Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. Franchezza nel parlare e apertura nell’ascoltare sono fondamentali affinché il Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede. Il discernimento è il metodo e al tempo stesso l’obiettivo che ci proponiamo: esso si fonda sulla convinzione che Dio è all’opera nella storia del mondo, negli eventi della vita, nelle persone che incontro e che mi parlano. Per questo siamo chiamati a metterci in ascolto di ciò che lo Spirito ci suggerisce, con modalità e in direzioni spesso imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e di tempi. Per questo dispongo che durante i lavori, in assemblea plenaria e nei gruppi, ogni 5 interventi si osservi un momento di silenzio – circa tre minuti – per permettere ad ognuno di prestare attenzione alle risonanze che le cose ascoltate suscitano nel suo cuore, per andare in profondità e cogliere ciò che colpisce di più. Questa attenzione all’interiorità è la chiave per compiere il percorso del riconoscere, interpretare e scegliere.

Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi.

Usciamo da pregiudizi e stereotipi. Un primo passo nella direzione dell’ascolto è liberare le nostre menti e i nostri cuori da pregiudizi e stereotipi: quando pensiamo di sapere già chi è l’altro e che cosa vuole, allora facciamo davvero fatica ad ascoltarlo sul serio. I rapporti tra le generazioni sono un terreno in cui pregiudizi e stereotipi attecchiscono con una facilità proverbiale, tanto che spesso nemmeno ce ne rendiamo conto. I giovani sono tentati di considerare gli adulti sorpassati; gli adulti sono tentati di ritenere i giovani inesperti, di sapere come sono e soprattutto come dovrebbero essere e comportarsi. Tutto questo può costituire un forte ostacolo al dialogo e all’incontro tra le generazioni. La maggior parte dei presenti non appartiene alla generazione dei giovani, per cui è chiaro che dobbiamo fare attenzione soprattutto al rischio di parlare dei giovani a partire da categorie e schemi mentali ormai superati. Se sapremo evitare questo pericolo, allora contribuiremo a rendere possibile un’alleanza tra generazioni. Gli adulti dovrebbero superare la tentazione di sottovalutare le capacità dei giovani e di giudicarli negativamente. Avevo letto una volta che la prima menzione di questo fatto risale al 3000 a.C. ed è stata trovata su un vaso di argilla dell’antica Babilonia, dove c’è scritto che la gioventù è immorale e che i giovani non sono in grado di salvare la cultura del popolo. È una vecchia tradizione di noi vecchi! I giovani invece dovrebbero superare la tentazione di non prestare ascolto agli adulti e di considerare gli anziani “roba antica, passata e noiosa”, dimenticando che è stolto voler ricominciare sempre da zero come se la vita iniziasse solo con ciascuno di loro. In realtà, gli anziani, nonostante la loro fragilità fisica, rimangono sempre la memoria della nostra umanità, le radici della nostra società, il “polso” della nostra civiltà. Disprezzarli, scaricarli, chiuderli in riserve isolate oppure snobbarli è indice di un cedimento alla mentalità del mondo che sta divorando le nostre case dall’interno. Trascurare il tesoro di esperienze che ogni generazione eredita e trasmette all’altra è un atto di autodistruzione.

Occorre quindi, da una parte, superare con decisione la piaga del clericalismo. Infatti, l’ascolto e l’uscita dagli stereotipi sono anche un potente antidoto contro il rischio del clericalismo, a cui un’assemblea come questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno di noi. Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare. Il clericalismo è una perversione ed è radice di tanti mali nella Chiesa: di essi dobbiamo chiedere umilmente perdono e soprattutto creare le condizioni perché non si ripetano.

Occorre però, d’altra parte, curare il virus dell’autosufficienza e delle affrettate conclusioni di molti giovani. Dice un proverbio egiziano: “Se nella tua casa non c’è l’anziano, compralo, perché ti servirà”. Ripudiare e rigettare tutto ciò che è stato trasmesso nei secoli porta soltanto al pericoloso smarrimento che purtroppo sta minacciando la nostra umanità; porta allo stato di disillusione che ha invaso i cuori di intere generazioni. L’accumularsi delle esperienze umane, lungo la storia, è il tesoro più prezioso e affidabile che le generazioni ereditano l’una dall’altra. Senza scordare mai la rivelazione divina, che illumina e dà senso alla storia e alla nostra esistenza.

Fratelli e sorelle, che il Sinodo risvegli i nostri cuori! Il presente, anche quello della Chiesa, appare carico di fatiche, di problemi, di pesi. Ma la fede ci dice che esso è anche il kairos in cui il Signore ci viene incontro per amarci e chiamarci alla pienezza della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma è il tempo che il Signore ci promette perché possiamo fare esperienza della comunione con Lui, con i fratelli e con tutta la creazione. Abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle ai giovani, che di speranza sono assetati; come ben affermava il Concilio Vaticano II: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Cost. past. Gaudium et spes, 31).

L’incontro tra le generazioni può essere estremamente fecondo in ordine a generare speranza. Ce lo insegna il profeta Gioele in quella che – lo ricordavo anche ai giovani della Riunione pre-sinodale – ritengo essere la profezia dei nostri tempi: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1) e profetizzeranno.

Non c’è bisogno di sofisticate argomentazioni teologiche per mostrare il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a camminare verso il regno di Dio, senza false speranze e senza vedere soltanto rovine e guai. Infatti, San Giovanni XXIII, parlando delle persone che valutano i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio, affermò: «Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita» (Discorso per la solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).

Non lasciarsi dunque tentare dalle “profezie di sventura”, non spendere energie per «contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze», tenere fisso lo sguardo sul bene che «spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine», e non spaventarsi «davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa» (cfr Discorso ai Vescovi di recente nomina partecipanti al corso promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali, 13 settembre 2018).

Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo. Grazie.

[01531-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chères Béatitudes, Éminences, Excellences,
Chers frères et sœurs, très chers jeunes!

En entrant dans cette salle pour parler des jeunes, on sent déjà la force de leur présence qui émet positivité et enthousiasme, capables d’envahir et de réjouir non seulement cette salle, mais toute l’Église et le monde entier.

C’est pourquoi je ne peux pas commencer sans vous dire merci! Merci à vous qui êtes présents, merci à toutes les personnes qui, au long d’un chemin de préparation de deux années, – ici dans l’Église de Rome et dans toutes les Églises du monde – ont travaillé avec dévouement et passion pour nous permettre de parvenir à ce moment. Merci infiniment au Cardinal Lorenzo Baldisseri, Secrétaire général du Synode, aux Présidents délégués, au Cardinal Sergio da Rocha, Rapporteur général, à Mgr Fabio Fabene, Sous-Secrétaire, aux officials du Secrétariat général et aux assistants; merci à vous tous, Pères synodaux, auditeurs, auditrices, experts et consulteurs; aux Délégués fraternels; aux traducteurs, aux choristes, aux journalistes. Merci infiniment à tous pour votre participation active et féconde.

Méritent un cordial merci les deux Secrétaires spéciaux, le Père Giacomo Costa, jésuite, et Don Rossano Sala, salésien, qui ont travaillé généreusement avec engagement et abnégation. Ils ont donné le meilleur d’eux-mêmes dans la préparation!

Je désire aussi remercier vivement les jeunes reliés à nous, en ce moment, et tous les jeunes qui de bien des façons ont fait entendre leurs voix. Je les remercie pour avoir voulu parier que cela vaut la peine de se sentir membres de l’Église ou d’entrer en dialogue avec elle, que cela vaut la peine d’avoir l’Église comme mère, comme éducatrice, comme maison, comme famille, capable, malgré les faiblesses humaines et les difficultés, de faire briller et de transmettre le message indémodable du Christ; que cela vaut la peine de s’agripper à la barque de l’Eglise qui, même à travers les tempêtes impitoyables du monde, continue à offrir à tous refuge et hospitalité; que cela vaut la peine de nous mettre à l’écoute les uns des autres; que cela vaut la peine de nager à contrecourant et de s’attacher à des valeurs supérieures: la famille, la fidélité, l’amour, la foi, le sacrifice, le service, la vie éternelle.

Notre responsabilité ici au Synode est de ne pas les démentir, au contraire, de démontrer qu’ils ont eu raison de parier: vraiment cela vaut la peine, vraiment ce n’est pas du temps perdu!.

Et je vous remercie en particulier, chers jeunes présents! Le chemin préparatoire au Synode nous a enseigné que l’univers des jeunes est tellement diversifié qu’il ne peut pas être totalement représenté, mais vous en êtes certainement un signe important. Votre participation nous remplit de joie et d’espérance.

Le Synode que nous allons vivre est un moment de partage. Je désire donc, au début du parcours de l’Assemblée synodale, vous inviter tous à parler avec courage et franchise, c’est-à-dire en intégrant liberté, vérité et charité. Seul le dialogue peut nous faire grandir. Une critique honnête et transparente est constructive et cela aide, au contraire des bavardages inutiles, des rumeurs, des conjectures et des préjugés.

Et au courage de parler doit correspondre l’humilité de l’écoute. J’ai dit aux jeunes à l’occasion de la Réunion pré-synodale: «S’il dit quelque chose qui ne me plaît pas, je dois l’écouter encore plus, parce que chacun a le droit d’être écouté, comme chacun a le droit de parler». Cette écoute ouverte requiert le courage de prendre la parole et de se faire la voix de tant de jeunes du monde qui ne sont pas présents. C’est cette écoute qui ouvre l’espace au dialogue. Le Synode doit être un exercice de dialogue, d’abord entre ceux qui y participent. Et le premier fruit de ce dialogue est que chacun s’ouvre à la nouveauté, à la modification de sa propre opinion grâce à ce qu’il a entendu des autres. C’est important pour le Synode. Beaucoup d’entre vous ont déjà préparé leur intervention avant de venir – et je vous remercie pour ce travail – mais je vous invite à vous sentir libres de considérer tout ce que vous avez préparé comme une ébauche provisoire ouverte aux éventuelles intégrations et modifications que le chemin synodal pourrait suggérer à chacun. Sentons-nous libres d’accueillir et de comprendre les autres et donc, de changer nos convictions et nos positions: c’est un signe de grande maturité humaine et spirituelle.

Le Synode est un exercice ecclésial de discernement. Franchise dans la parole et ouverture dans l’écoute sont fondamentales afin que le Synode soit un processus de discernement. Le discernement n’est pas un slogan publicitaire, ni une technique d’organisation, ni même une mode de ce pontificat, mais une attitude intérieure qui s’enracine dans un acte de foi. Le discernement est la méthode et en même temps l’objectif que nous nous proposons: il se fonde sur la conviction que Dieu est à l’œuvre dans l’histoire du monde, dans les évènements de la vie, dans les personnes que je rencontre et qui me parlent. Pour cela, nous sommes appelés à nous mettre à l’écoute de ce que l’Esprit nous suggère, avec des modalités et dans des directions souvent imprévisibles. Le discernement a besoin d’espace et de temps. Pour cette raison, je demande que pendant les travaux, en assemblée plénière et dans les groupes, toutes les cinq interventions, on observe un moment de silence – d’environ trois minutes – pour permettre à chacun de prêter attention aux résonances que les choses entendues suscitent dans son cœur, pour aller en profondeur et saisir ce qui touche le plus. Cette attention à l’intériorité est la clef pour réaliser le chemin de la reconnaissance, de l’interprétation et du choix.

Nous sommes signe d’une Église à l’écoute et en chemin. L’attitude de l’écoute ne peut pas se limiter aux paroles que nous échangerons pendant les travaux synodaux. Le chemin préparatoire à ce moment a mis en évidence une Église "en déficit d’écoute" aussi vis-à-vis des jeunes, qui souvent ne se sentent pas compris par l’Église dans leur originalité et donc pas accueillis pour ce qu’ils sont vraiment, et parfois même rejetés. Ce Synode a l’opportunité, la tâche et le devoir d’être signe de l’Église qui se met vraiment à l’écoute, qui se laisse interpeller par les requêtes de ceux qu’elle rencontre, qui n’a pas toujours une réponse préemballée déjà prête. Une Église qui n’écoute pas se montre fermée à la nouveauté, fermée aux surprises de Dieu, et ne pourra pas s’avérer crédible, en particulier pour les jeunes, qui inévitablement s’en éloigneront plutôt que de s’en approcher.

Sortons des préjugés et des stéréotypes. Un premier pas en direction de l’écoute est de libérer nos esprits et nos cœurs des préjugés et des stéréotypes: quand nous pensons savoir déjà qui est l’autre et ce qu’il veut, alors nous avons vraiment du mal à l’écouter sérieusement. Les rapports entre générations sont un terrain où les préjugés et les stéréotypes s’enracinent avec une facilité proverbiale, si bien que souvent nous ne nous en rendons même pas compte. Les jeunes sont tentés de considérer les adultes comme dépassés; les adultes sont tentés de prendre les jeunes pour inexpérimentés, de savoir comment ils sont et surtout comment ils devraient être et se comporter. Tout cela peut constituer un obstacle important au dialogue et à la rencontre entre générations. La plus grande partie des personnes ici présentes n’appartient pas à la génération des jeunes, il est donc clair que nous devons surtout faire attention au risque de parler des jeunes à partir de catégories et de schémas mentaux désormais dépassés. Si nous savons éviter ce risque, alors nous contribuerons à rendre possible une alliance entre générations. Les adultes devront vaincre la tentation de sous évaluer les capacités des jeunes et de les juger négativement. J’ai lu autrefois que la première mention de ce fait remonte à 3000 ans avant JC, et a été découverte sur un vase d’argile de la Babylone antique, où il est écrit que la jeunesse est immorale et que les jeunes ne sont pas capables de sauvegarder la culture du peuple. C’est une vieille tradition de nous, les vieux! Les jeunes, au contraire, doivent vaincre la tentation de ne pas écouter les adultes et de considérer les personnes âgées comme “des affaires anciennes, passées et ennuyeuses”, en oubliant qu’il est stupide de vouloir toujours partir de zéro comme si la vie commençait seulement avec chacun d’eux. En réalité, les personnes âgées, malgré leur fragilité physique, restent toujours la mémoire de notre humanité, les racines de notre société, le “pouls” de notre civilisation. Les mépriser, les rejeter, les enfermer dans des réserves isolées ou bien les envoyer promener est l’indice d’une concession à la mentalité du monde qui est en train de détruire nos maisons de l’intérieur. Négliger le trésor d’expérience dont toute génération hérite et transmet à l’autre est un acte d’autodestruction.

Il faut donc, d’une part, vaincre résolument la plaie du cléricalisme. En effet, l’écoute et la sortie des stéréotypes sont aussi un puissant antidote contre le risque du cléricalisme, auquel une assemblée comme celle-ci est inévitablement exposée, au-delà des intentions de chacun de nous. Il naît d’une vision élitiste et exclusive de la vocation qui interprète le ministère reçu comme un pouvoir à exercer plutôt que comme un service gratuit et généreux à offrir. Et cela conduit à croire appartenir à un groupe qui possède toute les réponses et qui n’a plus besoin d’écouter et d’apprendre quoique ce soit, ou fait semblant d’écouter. Le cléricalisme est une perversion et est la racine de nombreux maux dans l’Eglise: nous devons en demander humblement pardon et surtout créer les conditions pour qu’ils ne se répètent pas.

Mais il faut, d’autre part, soigner le virus de l’autosuffisance et des conclusions hâtives de nombreux jeunes. Un proverbe égyptien dit: “Si dans ta maison il n’y a pas de personne âgée, achète-la car elle te servira”. Répudier et rejeter tout ce qui a été transmis au cours des siècles conduit uniquement à un dangereux égarement qui, malheureusement, est en train de menacer notre humanité; cela conduit à un état de désenchantement qui a envahi les cœurs de générations entières. L’accumulation des expériences humaines au cours de l’histoire est le trésor le plus précieux et crédible dont les générations héritent l’une de l’autre. Sans oublier jamais la révélation divine, qui illumine et donne sens à l’histoire et à notre existence.

Frères et sœurs, que le Synode réveille nos cœurs! Le présent, y compris celui de l’Eglise, apparaît chargé d’ennuis, de problèmes, de fardeaux. Mais la foi nous dit qu’il est aussi le kairos où le Seigneur vient à notre rencontre pour nous aimer et nous appeler à la plénitude de la vie. L’avenir n’est pas une menace qu’il faut craindre, mais il est le temps que le Seigneur nous promet pour que nous puissions faire l’expérience de la communion avec lui, avec les frères et avec toute la création. Nous avons besoin de retrouver les raisons de notre espérance et surtout de les transmettre aux jeunes qui sont assoiffés d’espérance: comme l’affirmait le Concile Vatican II: «On peut légitimement penser que l’avenir est entre les mains de ceux qui auront su donner aux générations de demain des raisons de vivre et d’espérer» (Const. past. Gaudium et spes, n. 31).

La rencontre entre générations peut être extrêmement féconde et en mesure de générer l’espérance. Le prophète Joël nous l’enseigne – je le rappelais aussi aux jeunes de la Rencontre pré-synodale – en ce que je pense être la prophétie de notre époque: «Vos anciens seront instruits par des songes, et vos jeunes gens par des visions» (3, 1) et ils prophétiseront.

Il n’y a pas besoin d’argumentations théologiques sophistiquées pour montrer notre devoir d’aider le monde contemporain à marcher vers le Royaume de Dieu, sans fausses espérance et sans voir seulement ruines et malheurs. En effet, saint Jean XXIII, en parlant des personnes qui analysent les faits sans objectivité suffisante, ni prudence dans le jugement, affirmait: «Dans les conditions actuelles de la société humaine, elles ne sont pas capables de voir autre chose que ruines et malheurs; elles disent que notre époque, si nous la comparons aux siècles passés, semble pire; et elles en arrivent à se comporter comme si elles n’avaient rien apprendre de l’histoire qui est maîtresse de vie» (Discours pour l’ouverture solennelle du Concile Vatican II, 11 octobre 1962).

Ne nous laissons donc pas tenter par les“prophéties de malheur”, ne dépensons pas nos énergies à «compter les échecs et ressasser les amertumes», ayons le regard fixé sur le bien qui «souvent ne fait pas de bruit, n’est pas le thème des blogs et ne fait pas la une des journaux», et ne soyons pas effrayés «devant les blessures de la chair du Christ, toujours infligées par le péché et souvent par les enfants de l’Eglise » (cf. Discours aux Evêques de nomination récente participant au cours organisé par les Congrégations pour les Evêques et pour les Eglises Orientales, 13 septembre 2018).

Engageons-nous donc à chercher à “fréquenter l’avenir”, et à faire sortir de ce synode non seulement un document – qui est en général lu par un petit nombre et critiqué par beaucoup –, mais surtout des propositions pastorales concrètes en mesure de réaliser la tâche du Synode lui-même, c’est-à-dire celle de faire germer des rêves, susciter des prophéties et des visions, faire fleurir des espérances, stimuler la confiance, bander les blessures, tisser des relations, ressusciter une aube d’espérance, apprendre l’un de l’autre, et créer un imaginaire positif qui illumine les esprits, réchauffe les cœurs, redonne des forces aux mains, et inspire aux jeunes – à tous les jeunes, personne n’est exclu – la vision d’un avenir rempli de la joie de l’Evangile. Merci.

[01531-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Beatitudes, Eminences, Excellencies,
Dear Brothers and Sisters, and beloved Young People!

Entering this hall to talk about young people, we already feel the strength of their presence that emanates a positivity and enthusiasm capable of filling and gladdening not only this hall, but the whole Church and the whole world.

That is why I cannot begin without saying thank you! I thank you who are present, I thank the many people, who throughout this two-year period of preparation have worked with dedication and passion – here in the Church of Rome and in all the Churches of the world – to enable us to reach this moment. I warmly thank Cardinal Lorenzo Baldisseri, General Secretary of the Synod, the Presidents Delegate, Cardinal Sérgio da Rocha, the General Relator, Monsignor Fabio Fabene, the Undersecretary, the Officials of the General Secretariat and Assistants; I thank all of you Synod Fathers, Auditors, experts and consultors; I thank the fraternal Delegates, translators, singers and journalists. I thank you wholeheartedly for your active and fruitful participation.

A profound thank you is due to the two Special Secretaries, the Jesuit Father Giacomo Costa, and the Salesian Father Rossano Sala, who have worked generously with dedication and selflessness. They have worked themselves to the bone in preparation!

I would also like to sincerely thank the young people connected to us now, and all the youth who in so many ways have made their voices heard. I thank them for having wagered that it is worth the effort to feel part of the Church or to enter into dialogue with her; worth the effort to have the Church as a mother, as a teacher, as a home, as a family, and, despite human weaknesses and difficulties, capable of radiating and conveying Christ’s timeless message; worth the effort to hold onto the boat of the Church which, despite the world’s cruel storms, continues to offer shelter and hospitality to everyone; worth the effort to listen to one another; worth the effort to swim against the tide and be bound by lofty values: family, fidelity, love, faith, sacrifice, service, eternal life. Our responsibility here at the Synod is not to undermine them; but rather to show that they are right to wager: it truly is worth the effort, it is not a waste of time!

And I thank you in particular, dear young people present! The path of preparation for the Synod has taught us that the universe of the young is so varied that it cannot be fully represented, but you are certainly an important sign of it. Your participation fills us with joy and hope.

The Synod we are living is a moment of sharing. I wish, therefore, at the beginning of the Synod Assembly, to invite everyone to speak with courage and frankness (parrhesia), namely to integrate freedom, truth and charity. Only dialogue can help us grow. An honest, transparent critique is constructive and helpful, and does not engage in useless chatter, rumours, conjectures or prejudices.

And humility in listening must correspond to courage in speaking. I told the young people in the pre-Synod Meeting: “If you say something I do not like, I have to listen even more, because everyone has the right to be heard, just as everyone has the right to speak”. This open listening requires courage in speaking and in becoming the voice of many young people in the world who are not present. It is this listening that creates space for dialogue. The Synod must be an exercise in dialogue, above all among those of you participating. The first fruit of this dialogue is that everyone is open to newness, to change their opinions thanks to what they have heard from others. This is important for the Synod. Many of you have already prepared your intervention beforehand – and I thank you for this work – but I invite you to feel free to consider what you have prepared as a provisional draft open to any additions and changes that the Synod journey may suggest to each of you. Let us feel free to welcome and understand others and therefore to change our convictions and positions: this is a sign of great human and spiritual maturity.

The Synod is an ecclesial exercise in discernment. To speak frankly and listen openly are fundamental if the Synod is to be a process of discernment. Discernment is not an advertising slogan, it is not an organizational technique, or a fad of this pontificate, but an interior attitude rooted in an act of faith. Discernment is the method and at the same time the goal we set ourselves: it is based on the conviction that God is at work in world history, in life’s events, in the people I meet and who speak to me. For this reason, we are called to listen to what the Spirit suggests to us, with methods and in paths that are often unpredictable. Discernment needs space and time. And so, during the work done in plenary assembly and in groups, after five interventions are made, a moment of silence of approximately three minutes will be observed. This is to allow everyone to recognize within their hearts the nuances of what they have heard, and to allow everyone to reflect deeply and seize upon what is most striking. This attention to interiority is the key to accomplishing the work of recognizing, interpreting and choosing.

We are a sign of a Church that listens and journeys. The attitude of listening cannot be limited to the words we will exchange during the work of the Synod. The path of preparation for this moment has highlighted a Church that needs to listen, including those young people who often do not feel understood by the Church in their originality and therefore not accepted for who they really are, and sometimes even rejected. This Synod has the opportunity, the task and the duty to be a sign of a Church that really listens, that allows herself to be questioned by the experiences of those she meets, and who does not always have a ready-made answer. A Church that does not listen shows herself closed to newness, closed to God’s surprises, and cannot be credible, especially for the young who will inevitably turn away rather than approach.

Let us leave behind prejudice and stereotypes. A first step towards listening is to free our minds and our hearts from prejudice and stereotypes. When we think we already know who others are and what they want, we really struggle to listen to them seriously. Relations across generations are a terrain in which prejudice and stereotypes take root with proverbial ease, so much so that we are often oblivious to it. Young people are tempted to consider adults outdated; adults are tempted to regard young people as inexperienced, to know how they are and especially how they should be and behave. All of this can be an overwhelming obstacle to dialogue and to the encounter between generations. Most of those present do not belong to a younger generation, so it is clear that we must pay attention, above all, to the risk of talking about young people in categories and ways of thinking that are already outmoded. If we can avoid this risk, then we will help to bridge generations. Adults should overcome the temptation to underestimate the abilities of young people and not judge them negatively. I once read that the first mention of this fact dates back to 3000 BC and was discovered on a clay pot in ancient Babylon, where it is written that young people are immoral and incapable of saving their people’s culture. This is an old tradition of us old ones! Young people, on the other hand, should overcome the temptation to ignore adults and to consider the elderly “archaic, outdated and boring”, forgetting that it is foolish always to start from scratch as if life began only with each of them. Despite their physical frailty, the elderly are always the memory of mankind, the roots of our society, the “pulse” of our civilization. To spurn them, reject them, isolate or snub them is to yield to a worldly mentality that is devouring our homes from within. To neglect the rich experiences that each generation inherits and transmits to the next is an act of self-destruction.

It is therefore necessary, on the one hand, to decisively overcome the scourge of clericalism. Listening and leaving aside stereotypes are powerful antidotes to the risk of clericalism, to which an assembly such as this is inevitably exposed, despite our intentions. Clericalism arises from an elitist and exclusivist vision of vocation, that interprets the ministry received as a power to be exercised rather than as a free and generous service to be given. This leads us to believe that we belong to a group that has all the answers and no longer needs to listen or learn anything, or that pretends to listen. Clericalism is a perversion and is the root of many evils in the Church: we must humbly ask forgiveness for this and above all create the conditions so that it is not repeated.

We must, on the other hand, cure the virus of self-sufficiency and of hasty conclusions reached by many young people. An Egyptian proverb goes: “If there is no elderly person in your home, buy one, because you will need him”. To shun and reject everything handed down across the ages brings only a dangerous disorientation that sadly threatens our humanity, it brings a disillusionment which has invaded the hearts of whole generations. The accumulation of human experiences throughout history is the most precious and trustworthy treasure that one generation inherits from another. Without ever forgetting divine revelation, that enlightens and gives meaning to history and to our existence.

Brothers and sisters, may the Synod awaken our hearts! The present moment, and this applies also to the Church, appears to be laden with struggles, problems, burdens. But our faith tells us that it is also the kairos in which the Lord comes to meet us in order to love us and call us to the fullness of life. The future is not a threat to be feared, but is the time the Lord promises us when we will be able to experience communion with him, with our brothers and sisters, and with the whole of creation. We need to rediscover the reasons for our hope and, above all, to pass them on to young people who are thirsting for hope. As the Second Vatican Council affirmed: “We can justly consider that the future of humanity lies in the hands of those who are strong enough to provide coming generations with reasons for living and hoping” (Pastoral Constitution Gaudium et Spes, 31).

The meeting between generations can be extremely fruitful for giving rise to hope. The prophet Joel teaches us this – I reminded young people at the pre-Synod meeting – and I consider it the prophecy of our time: “Your old men shall dream dreams, and your young men shall see visions” (2:28) and they will prophesy.

There is no need for sophisticated theological arguments to prove our duty to help the contemporary world to walk towards God’s kingdom, free of false hope and without seeing only ruin and woe. Indeed, when speaking about those who consider reality without sufficient objectivity or prudent judgment, Saint John XXIII said: “In the current conditions of human society they are not capable of seeing anything except ruin and woe; they go around saying that in our times, compared to the past, everything is worse; and they even go as far as to behave as if they had nothing to learn from history, which is our teacher” (Address on the solemn opening of the Second Vatican Council, 11 October 1962).

Do not let yourselves be tempted, therefore, by the “prophets of doom”, do not spend your energy on “keeping score of failures and holding on to reproaches”, keep your gaze fixed on the good that “often makes no sound; it is neither a topic for blogs, nor front page news”, and do not be afraid “before the wounds of Christ’s flesh, always inflicted by sin and often by the children of the Church” (cf. Address to Bishops participating in the course promoted by the Congregation for Bishops and the Congregation for Oriental Churches, 13 September 2018).

Let us therefore work to “spend time with the future”, to take from this Synod not merely a document – that generally is only read by a few and criticized by many – but above all concrete pastoral proposals capable of fulfilling the Synod’s purpose. In other words, to plant dreams, draw forth prophecies and visions, allow hope to flourish, inspire trust, bind up wounds, weave together relationships, awaken a dawn of hope, learn from one another, and create a bright resourcefulness that will enlighten minds, warm hearts, give strength to our hands, and inspire in young people – all young people, with no one excluded – a vision of the future filled with the joy of the Gospel. Thank you.

[01531-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Eure Seligkeiten, Eminenzen, Exzellenzen,
liebe Brüder und Schwestern, liebe junge Freunde!

Wenn wir diese Aula betreten, um über die jungen Menschen zu sprechen, so spürt man bereits die Kraft ihrer Anwesenheit, die eine positive Stimmung und einen Enthusiasmus verbreitet, die im Stande sind, nicht nur diese Aula zu erfüllen und zu erfreuen, sondern die gesamte Kirche und die ganze Welt.

Deshalb kann ich nicht anfangen, ohne euch zu danken! Danke den Anwesenden, danke so vielen Personen, die während eines langen zweijährigen Vorbereitungswegs – hier in der Kirche von Rom und in allen Kirchen der Welt – mit Hingabe und Leidenschaft gearbeitet haben, um diesen Augenblick zu ermöglichen. Ich danke von Herzen Kardinal Lorenzo Baldisseri, Generalsekretär der Synode, den delegierten Vorsitzenden, Kardinal Sérgio da Rocha, Generalrelator, dem Untersekretär Bischof Fabio Fabene, den Sachbearbeitern des Generalsekretariats und den Assistenten; ich danke euch allen, den Synodenvätern, den Auditoren und Auditorinnen, den Experten und Konsultoren, den brüderlichen Abgesandten (delegati fraterni), den Übersetzern, den Sängern und den Journalisten. Einen herzlichen Dank an alle für eure aktive und fruchtbare Teilnahme.

Ein aufrichtiges Wort des Dankes verdienen die zwei Spezialsekretäre, der Jesuitenpater Giacomo Costa und der Salesianer Don Rossano Sala, die mit großzügigem Einsatz und Opferbereitschaft gearbeitet haben. In der Vorbereitung haben sie sich förmlich aufgerieben!

Ich möchte auch aufrichtig den in diesem Augenblick mit uns verbundenen jungen Menschen danken und allen, die sich auf vielerlei Weise zu Wort gemeldet haben. Ich danke ihnen für ihre Überzeugung, dass es sich lohnt, sich als Teil der Kirche zu fühlen oder mit ihr in Dialog zu treten; es lohnt sich, die Kirche als Mutter, als Lehrmeisterin, als Zuhause, als Familie zu haben, die trotz menschlicher Schwächen und Schwierigkeiten fähig ist, zu leuchten und die unvergängliche Botschaft Christi weiterzugeben; es ist lohnend, sich am Schiff der Kirche festzuklammern, die auch durch die unerbittlichen Stürme der Welt hindurch fortfährt, allen Zuflucht und Aufnahme anzubieten; es lohnt sich, einander zuzuhören; es lohnt sich, gegen den Strom zu schwimmen und sich an hohe Werte zu binden: die Familie, die Treue, die Liebe, den Glauben, das Opfer, den Dienst, das ewige Leben.

Unsere Verantwortung hier bei der Synode ist es, ihnen gegenüber redlich zu sein, ja, ihnen zu zeigen, dass ihre Überzeugung gerechtfertigt ist: Es lohnt sich wahrhaft, es ist wirklich keine verlorene Zeit!

Und ich danke insbesondere euch, liebe anwesende junge Freunde! Der Vorbereitungsweg für die Synode hat uns gelehrt, dass die Welt der jungen Menschen so vielfältig ist, dass sie hier nicht vollständig repräsentiert werden kann, aber ihr seid gewiss ein wichtiges Zeichen dafür. Eure Teilnahme erfüllt uns mit Freude und Hoffnung.

Die Synode, die wir nun erleben, ist ein Moment des Teilens. Ich möchte daher zu Beginn des Wegs der Synodenversammlung alle dazu einladen, mit Mut und Parrhesia zu sprechen, also Freiheit, Wahrheit und Liebe miteinander zu verbinden. Nur der Dialog kann uns wachsen lassen. Eine ehrliche und transparente Kritik ist konstruktiv und hilft, was für unnützes Gerede, Gerüchte, Unterstellungen oder Vorurteile nicht gilt.

Und der Mut zum Sprechen und die Demut des Zuhörens gehören zusammen. Ich habe den jungen Menschen in der vorsynodalen Versammlung gesagt: »Wenn jemand spricht, den ich nicht mag, dann muss ich ihm erst recht zuhören, denn jeder hat das Recht, angehört zu werden, und jeder hat das Recht zu reden«. Dieses offene Zuhören erfordert Mut, das Wort zu ergreifen und den hier nicht anwesenden jungen Menschen in der Welt eine Stimme zu verleihen. Dieses Zuhören eröffnet den Raum für den Dialog. Die Synode muss ein Akt des Dialogs sein, vor allem unter den Teilnehmern. Und die erste Frucht dieses Dialogs ist, dass jeder offen ist für Neues, um die eigene Meinung aufgrund dessen zu ändern, was er von den anderen gehört hat. Dies ist für die Synode wichtig. Viele von euch haben ihre Diskussionsbeiträge schon vorbereitet, bevor sie hierhergekommen sind – und ich danke euch für diese Arbeit –, aber ich lade euch ein, euch frei zu fühlen, das von euch Vorbereitete als einen vorläufigen Entwurf zu betrachten, der für eventuelle Ergänzungen und Änderungen offen ist, die der synodale Weg vielleicht nahelegt. Fühlen wir uns frei, die anderen anzunehmen und zu verstehen und dann auch unsere Überzeugungen und Haltungen zu ändern: Das ist Zeichen großer menschlicher und geistlicher Reife.

Die Synode ist ein kirchlicher Akt der Unterscheidung. Direktheit im Sprechen und Offenheit im Zuhören sind grundlegend, damit die Synode ein Prozess der Unterscheidung wird. Die Unterscheidung ist nicht ein Werbeslogan, sie ist nicht eine Organisationstechnik und auch nicht eine Mode dieses Pontifikats, sondern eine innere Haltung, die in einem Glaubensakt verwurzelt ist. Die Unterscheidung ist die Methode und zugleich das Ziel, das wir uns vornehmen: Sie gründet auf der Überzeugung, dass Gott in der Geschichte der Welt, in den Ereignissen des Lebens, in den Personen, denen ich begegne und die mit mir sprechen, am Werk ist. Deshalb sind wir gerufen, auf das zu hören, was der Geist uns in oftmals unvorhersehbaren Arten und Richtungen eingibt. Die Unterscheidung bedarf des Raums und der Zeit. Deshalb verfüge ich, dass während der Arbeiten in der Vollversammlung und den Gruppen nach je 5 Beiträgen ein Augenblick der Stille eingehalten wird – circa drei Minuten -, um jedem zu ermöglichen, auf den Widerhall aufmerksam zu sein, den die gehörten Dinge in seinem Herzen erwecken, um in die Tiefe zu gehen und das zu erfassen, was ihn am meisten beeindruckt. Diese Aufmerksamkeit für die Innerlichkeit ist der Schlüssel, um den Weg des Erkennens, des Interpretierens und der Entscheidung zu gehen.

Wir sind Zeichen einer Kirche, die zuhört und unterwegs ist. Die Haltung des Zuhörens kann sich nicht auf die Worte beschränken, die wir während der synodalen Arbeit austauschen werden. Der Vorbereitungsweg für diesen Augenblick hat eine Kirche erkennen lassen, die „Gehör schuldet, auch den jungen Menschen gegenüber, die sich von der Kirche in ihrer Originalität oft nicht verstanden und in ihrem wirklichen Sosein nicht angenommen, ja bisweilen sogar zurückgewiesen fühlen. Diese Synode hat die Gelegenheit, die Aufgabe und die Pflicht, zeichenhaft eine Kirche zu sein, die wirklich zuhört, die sich von den Instanzen derjenigen, die sie trifft, anfragen lässt und nicht immer eine schon vorbereitete fertige Antwort hat. Eine Kirche, die nicht zuhört, zeigt sich für die Neuheit verschlossen, verschlossen für die Überraschungen Gottes und wird nicht glaubwürdig erscheinen, insbesondere bei den jungen Menschen, die sich unvermeidlich entfernen werden, anstatt sich zu nähern.

Lassen wir Vorurteile und Klischees hinter uns. Ein erster Schritt in Richtung des Zuhörens ist, unseren Geist und unsere Herzen von Vorurteilen und Klischees zu befreien: Wenn wir denken, schon zu wissen, wer der andere ist und was er will, dann haben wir wirklich Mühe, ihm ernsthaft zuzuhören. Die Beziehungen zwischen den Generationen sind ein Boden, auf dem die Vorurteile und die Klischees mit einer solch sprichwörtlichen Leichtigkeit Wurzeln schlagen, dass wir uns oftmals dessen nicht einmal bewusst sind. Die jungen Menschen sind versucht, die Erwachsenen als überholt zu betrachten; die Erwachsenen sind versucht, die jungen Menschen für unerfahren zu halten, zu wissen, wie sie sind und vor allem wie sie sich verhalten müssten. All dies kann ein mächtiges Hindernis für den Dialog und die Begegnung unter den Generationen darstellen. Der Großteil der Anwesenden gehört nicht der jungen Generation an, weshalb es klar ist, dass wir vor allem vor der Gefahr auf der Hut sein müssen, ausgehend von bereits überholten Kategorien und Denkschemata über die jungen Menschen zu sprechen. Wenn wir es verstehen werden, diese Gefahr zu vermeiden, werden wir dazu beitragen, einen Pakt zwischen den Generationen zu ermöglichen. Die Erwachsenen müssten die Versuchung überwinden, die Fähigkeiten der jungen Menschen zu unterschätzen und sie negativ zu beurteilen. Ich hatte einmal gelesen, dass die erste Erwähnung dieser Tatsache auf das Jahr 3000 vor Christus zurückgeht: Auf einem alten babylonischen Tongefäß findet sich eine Inschrift, die sagt, dass die Jugend unmoralisch ist und die jungen Menschen nicht im Stande sind, die Kultur des Volkes zu retten. Das ist bei uns Alten eine alte Tradition! Andererseits sollten die jungen Menschen die Versuchung überwinden, den Erwachsenen kein Gehör zu schenken, die Alten als „altes, vergangenes und langweiliges Zeug“ zu betrachten und dabei zu vergessen, dass es töricht ist, immer bei null beginnen zu wollen, als ob das Leben nur mit jedem von ihnen anfangen würde. In Wirklichkeit bleiben die Alten trotz ihrer körperlichen Gebrechlichkeit immer das Gedächtnis unserer Menschheit, die Wurzeln unserer Gesellschaft, der „Puls“ unserer Zivilisation. Sie geringzuschätzen, sie loswerden zu wollen, sie in isolierte Reservate einzuschließen oder auf sie herabzuschauen zeigt ein Nachgeben gegenüber der Denkweise der Welt, die unser Zuhause von innen verschlingt. Den Erfahrungsschatz zu vernachlässigen, den jede Generation erbt und der anderen weitergibt, ist ein Akt der Selbstzerstörung.

Schließlich muss man einerseits mit Entschiedenheit das Übel des Klerikalismus überwinden. In der Tat sind das Zuhören und der Verzicht auf die vorgefassten Meinungen ein starkes Gegenmittel gegen die Gefahr des Klerikalismus, der eine Versammlung wie diese unvermeidlich ausgesetzt ist, über die guten Absichten eines jeden von uns hinaus. Der Klerikalismus entsteht aus einer elitären und ausschließenden Sicht von Berufung, die das empfangene Amt als eine auszuübende Macht versteht und nicht als einen mit Selbstlosigkeit und Großmut anzubietenden Dienst. Jene Haltung führt zu der Auffassung, man gehöre zu einer Gruppe, die alle Antworten besitzt und nicht mehr zuhören und nichts mehr zu lernen braucht. Oder sie tut nur so, als hörte sie zu. Der Klerikalismus ist eine Perversion und die Wurzel vieler Übel in der Kirche: Für diese müssen wir demütig um Vergebung bitten. Vor allem aber müssen wir Bedingungen schaffen, dass sich diese Übel nicht mehr wiederholen.

Man muss allerdings andererseits auch den Virus der Selbstgenügsamkeit behandeln wie auch die übereilten Schlussfolgerungen vieler junger Menschen. Ein ägyptisches Sprichwort sagt: „Wenn es in deinem Haus keinen Alten gibt, kauf dir einen; denn er wird dir nützen“. Sich von allem loszusagen und alles abzulehnen, was durch die Jahrhunderte überliefert wurde, führt nur zu einem schädlichen Verlust, der leider unsere Menschheit immer mehr bedroht. Er bringt einen Zustand der Leere hervor, der in die Herzen ganzer Generationen eingedrungen ist. Die Ansammlung von menschlichen Erfahrungen im Lauf der Geschichte ist der kostbarste und verlässlichste Schatz, den eine Generation von der anderen erben kann. Dabei vergessen wir nie die göttliche Offenbarung, welche die Geschichte und unsere Existenz erleuchtet und ihnen Sinn gibt.

Brüder und Schwestern, die Synode möge unsere Herzen aufwecken! Die Gegenwart, auch die der Kirche, scheint mit Mühen, Problemen und Lasten beladen zu sein. Der Glaube sagt uns jedoch, dass sie auch der kairos ist, in dem der Herr uns entgegenkommt, um uns zu lieben und zur Fülle des Lebens zu rufen. Die Zukunft ist keine Bedrohung, die man fürchten müsste, sondern eine Zeit, die der Herr uns verheißt, damit wir die Erfahrung der Gemeinschaft mit ihm machen können, mit den Brüdern und Schwestern sowie mit der gesamten Schöpfung. Wir müssen die Gründe unserer Hoffnung wiederfinden und sie vor allem den jungen Menschen übermitteln, die nach Hoffnung dürsten; wie es das Zweite Vatikanische Konzil schön formuliert hat: »Mit Recht dürfen wir annehmen, dass das künftige Schicksal der Menschheit in den Händen jener ruht, die den kommenden Geschlechtern Triebkräfte des Lebens und der Hoffnung vermitteln können« (Pastoralkonst. Gaudium et spes, 31).

Die Begegnung der Generationen kann höchst fruchtbar sein in Bezug auf die Erweckung von Hoffnung. Das lehrt der Prophet Joël in dem, was – wie ich schon den jungen Teilnehmern des vorsynodalen Treffens in Erinnerung gerufen habe – ich für die Prophetie unserer Zeit halte: »Eure Alten werden Träume haben, und eure jungen Männer haben Visionen« (3,1) und werden Propheten sein.

Es sind keine ausgefeilten theologischen Argumentationen nötig, um unsere Pflicht deutlich zu machen, der heutigen Welt zu helfen, auf das Reich Gottes zuzugehen ohne falsche Hoffnungen und ohne nur Brüche und Unheil zu sehen. Der heilige Johannes XXIII. sagte über die Menschen, welche die Gegebenheiten mit mangelnder Objektivität und Umsicht beurteilen: »Sie sehen in den modernen Zeiten nur Unrecht und Niedergang. Sie sagen ständig, unsere Zeit habe sich im Vergleich zur Vergangenheit dauernd zum schlechteren gewandelt. Sie betragen sich, als hätten sie nichts aus der Geschichte gelernt, die doch Lehrmeisterin des Lebens ist« (Ansprache zur feierlichen Eröffnung des Zweiten Vatikanischen Konzils, 11. Oktober 1962).

Wir wollen uns also nicht von den „Unglückspropheten“ in Versuchung führen lassen und nicht Energien vergeuden, um »Misserfolge aufzurechnen und Bitterkeit einander vorzuhalten«. Konzentrieren wir uns auf das Gute, das »oft keinen Lärm macht, kein Thema der blogs ist und keine Schlagzeilen produziert«, und erschrecken wir nicht »vor den Wunden im Fleisch Christi, die immer von der Sünde geschlagen worden sind […] und nicht selten seitens der Söhne und Töchter der Kirche« (vgl. Ansprache an die neuernannten Bischöfe, die an einem Kurs der Kongregationen für die Bischöfe und für die orientalischen Kirchen teilnehmen, 13. September 2018).

Bemühen wir uns also um ein „Rendezvous mit der Zukunft“. Von dieser Synode soll nicht nur ein Dokument erscheinen – das normalerweise von wenigen gelesen, aber von vielen kritisiert wird –, sondern vor allem konkrete pastorale Initiativen erarbeitet werden, die in der Lage sind, den Auftrag der Synode selbst zu verwirklichen; das heißt, Träume aufkommen zu lassen, Prophetien und Visionen zu wecken, Hoffnungen erblühen zu lassen, Vertrauen zu stimulieren, Wunden zu verbinden, Beziehungen zu knüpfen, eine Morgenröte der Hoffnung aufleben zu lassen, voneinander zu lernen und eine positive Vorstellungswelt zu schaffen, die den Verstand erleuchtet, das Herz erwärmt, neue Kraft zum Anpacken gibt und die jungen Menschen inspiriert – alle jungen Menschen ohne Ausnahme –, eine Vision von Zukunft, die erfüllt ist von der Freude des Evangeliums. Danke.

[01531-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Estimadas Beatitudes, Eminencias y Excelencias
Queridos hermanos y hermanas, queridísimos jóvenes.

Entrando en esta aula para hablar de los jóvenes, se siente ya la fuerza de su presencia, que transmite una positividad y un entusiasmo capaz de inundar y llenar de alegría, no solo esta aula sino toda la Iglesia y el mundo entero.

Por esta razón no puedo comenzar sin deciros antes «gracias». Gracias a los que estáis aquí presentes, gracias a tantas personas que, a lo largo de un camino de preparación de dos años —aquí en la Iglesia de Roma y en todas las iglesias del mundo— han trabajado con entrega y pasión para que pudiéramos llegar a este momento. Gracias de corazón al cardenal Lorenzo Baldisseri, secretario general del Sínodo, a los presidentes delegados, al cardenal Sérgio da Rocha, relator general, a Mons. Fabio Fabene, subsecretario; a los oficiales de la Secretaría general y a los ayudantes; gracias a todos vosotros, padres sinodales, auditores, auditoras, expertos y consultores; a los delegados fraternos; a los traductores, a los cantores, a los periodistas. Gracias de corazón a todos por vuestra participación activa y fecunda.

Un sentido «gracias» merecen los dos secretarios especiales, Padre Giacomo Costa, jesuita, y Don Rossano Sala, salesiano, que han trabajado generosamente con empeño y abnegación. Se han dejado la piel en la preparación.

Deseo enviar también un vivo agradecimiento a los jóvenes que están conectados con nosotros en este momento, y a todos los jóvenes que de distintas formas han hecho oír su voz. Les doy las gracias por haber apostado a favor de que merece la pena sentirse parte de la Iglesia, o entrar en diálogo con ella; vale la pena tener a la Iglesia como madre, como maestra, como casa, como familia, y que, a pesar de las debilidades humanas y las dificultades, es capaz de brillar y trasmitir el mensaje imperecedero de Cristo; vale la pena aferrarse a la barca de la Iglesia que, aun a través de las terribles tempestades del mundo, sigue ofreciendo a todos refugio y hospitalidad; vale la pena que nos pongamos en actitud de escucha los unos de los otros; vale la pena nadar contra corriente y vincularse a los valores más grandes: la familia, la fidelidad, el amor, la fe, el sacrificio, el servicio, la vida eterna.

Nuestra responsabilidad en el Sínodo es la de no desmentirlos, es más, la de demostrar que tenían razón en apostar: de verdad vale la pena, de verdad no es una pérdida de tiempo.

Y os doy las gracias especialmente a vosotros, queridos jóvenes aquí presentes. El camino de preparación al Sínodo nos ha enseñado que el universo juvenil es tan variado que no puede ser representado totalmente, pero vosotros sois de verdad un signo importante del mismo. Vuestra participación nos llena de alegría y de esperanza.

EI Sínodo que estamos viviendo es un tiempo para la participación. Deseo, por tanto, en este inicio del itinerario de la Asamblea sinodal, invitar a todos a hablar con valentía y parresia, es decir integrando libertad, verdad y caridad. Solo el diálogo nos hace crecer. Una crítica honesta y transparente es constructiva y útil, mientras que no lo son la vana palabrería, los rumores, las sospechas o los prejuicios.

Y a la valentía en el hablar debe corresponder la humildad en el escuchar. Decía a los jóvenes en la reunión pre-sinodal: «Si habla el que no me gusta, debo escuchar más, porque cada uno tiene el derecho de ser escuchado, como cada uno tiene el derecho de hablar». Esta escucha franca requiere valentía para tomar la palabra y hacerse portavoz de tantos jóvenes del mundo que no están presentes. Este escuchar es el que abre espacio al diálogo. El Sínodo debe ser un ejercicio de diálogo, en primer lugar entre los que participan en él. Y el primer fruto de ese diálogo es que cada uno se abra a la novedad, a cambiar su propia opinión gracias a lo que ha escuchado de los demás. Esto es importante para el Sínodo. Muchos de vosotros habéis preparado ya vuestra intervención antes de venir —y os doy las gracias por este trabajo—, pero os invito a sentiros libres de considerar lo que habéis preparado como un borrador provisional abierto a las eventuales integraciones y modificaciones que el camino sinodal os podrá sugerir a cada uno. Sintámonos libres de acoger y comprender a los demás y por tanto de cambiar nuestras convicciones y posiciones: es signo de gran madurez humana y espiritual.

El Sínodo es un ejercicio eclesial de discernimiento. La franqueza en el hablar y la apertura en el escuchar son fundamentales para que el Sínodo sea un proceso de discernimiento. El discernimiento no es un slogan publicitario, no es una técnica organizativa, y ni siquiera una moda de este pontificado, sino una actitud interior que tiene su raíz en un acto de fe. El discernimiento es el método y a la vez el objetivo que nos proponemos: se funda en la convicción de que Dios está actuando en la historia del mundo, en los acontecimientos de la vida, en las personas que encuentro y que me hablan. Por eso estamos llamados a ponernos en actitud de escuchar lo que el Espíritu nos sugiere, de maneras y en direcciones muchas veces imprevisibles. El discernimiento tiene necesidad de espacios y de tiempos. Por esto dispongo que, durante los trabajos, en la asamblea plenaria y en los grupos, cada cinco intervenciones se observe un momento de silencio —de tres minutos aproximadamente—, para permitir que cada uno preste atención a la resonancia que las cosas que ha escuchado suscite en su corazón, para profundizar y aceptar lo que más le haya interesado. Este interés con respecto a la interioridad es la llave para recorrer el camino del reconocer, interpretar y elegir.

Somos signo de una Iglesia a la escucha y en camino. La actitud de escucha no puede limitarse a las palabras que nos dirijamos en los trabajos sinodales. El camino de preparación para este momento ha evidenciado una Iglesia «con una deuda de escucha», también en relación a los jóvenes, que muchas veces no se sienten comprendidos en su originalidad por parte de la Iglesia y, por tanto, no suficientemente aceptados por lo que son realmente, y, alguna vez incluso, hasta rechazados. Este Sínodo tiene la oportunidad, la tarea y el deber de ser signo de la Iglesia que se pone verdaderamente a la escucha, que se deja interpelar por las instancias de aquellos con los que se encuentra, que no tiene siempre una respuesta ya preparada y pre confeccionada. Una Iglesia que no escucha se muestra cerrada a la novedad, cerrada a las sorpresas de Dios, y no será creíble, en particular para los jóvenes, que inevitablemente se alejan en vez de acercarse.

Huyamos de prejuicios y estereotipos. Un primer paso en la dirección de la escucha es liberar nuestras mentes y nuestros corazones de prejuicios y estereotipos: cuando pensamos que ya sabemos quién es el otro y lo que quiere, entonces se hace realmente difícil escucharlo en serio. Las relaciones entre las generaciones son un terreno en el que los prejuicios y estereotipos se arraigan con una facilidad proverbial, sin que a menudo ni siquiera nos demos cuenta. Los jóvenes tienen la tentación de considerar a los adultos como anticuados; los adultos tienen la tentación de calificar a los jóvenes como inexpertos, de saber cómo son y sobre todo cómo deberían de ser y de comportarse. Todo esto puede llegar a ser un fuerte obstáculo para el diálogo y el encuentro entre las generaciones. La mayoría de los aquí presentes no pertenecéis a la generación de los jóvenes, por lo que es evidente que debemos vigilar para evitar sobre todo el riesgo de hablar de los jóvenes a partir de categorías y esquemas mentales que ya están superados. Si podemos evitar este riesgo, entonces podremos contribuir a que sea posible una alianza entre generaciones. Los adultos deben superar la tentación de subestimar las capacidades de los jóvenes y juzgarlos negativamente. Leí una vez que la primera mención de este hecho se remonta al 3000 a.C. y fue encontrado en una vasija de barro de la antigua Babilonia, donde está escrito que la juventud es inmoral y que los jóvenes no son capaces de salvar la cultura del pueblo. Es una vieja tradición de nosotros, los viejos. Los jóvenes, en cambio, deberían de vencer la tentación de no escuchar a los adultos y de considerar a los ancianos como «algo antiguo, pasado y aburrido», olvidando que es absurdo querer empezar siempre de cero, como si la vida comenzara solo con cada uno de ellos. En realidad, los ancianos, a pesar de su fragilidad física, permanecen siempre como la memoria de nuestra humanidad, las raíces de nuestra sociedad, el «pulso» de nuestra civilización. Despreciarlos, desprenderse de ellos, encerrarlos en reservas aisladas o ignorarlos es una muestra de cesión a la mentalidad del mundo que está devorando nuestras casas desde dentro. Descuidar el tesoro de las experiencias que cada generación recibe en herencia y transmite a la siguiente es un acto de autodestrucción.

Por una parte, es necesario superar con decisión la plaga del clericalismo. En efecto, escuchar y huir de los estereotipos es también un poderoso antídoto contra el riesgo del clericalismo, al que una asamblea como esta se ve inevitablemente expuesta, más allá de las intenciones de cada uno de nosotros. Surge de una visión elitista y excluyente de la vocación, que interpreta el ministerio recibido como un poder que hay que ejercer más que como un servicio gratuito y generoso que ofrecer; y esto nos lleva a creer que pertenecemos a un grupo que tiene todas las respuestas y no necesita ya escuchar ni aprender nada, o hace como que escucha. El clericalismo es una perversión y es la raíz de muchos males en la Iglesia: debemos pedir humildemente perdón por ellos y, sobre todo, crear las condiciones para no repetirlos.

Por otro lado, sin embargo, es necesario curar el virus de la autosuficiencia y de las conclusiones apresuradas de muchos jóvenes. Un proverbio egipcio dice: «Si no hay un anciano en tu casa, cómpralo, porque te será útil». Repudiar y rechazar todo lo que se ha transmitido a lo largo de los siglos solo conduce al peligroso extravío que lamentablemente está amenazando nuestra humanidad; lleva al estado de desilusión que se ha apoderado del corazón de generaciones enteras. La acumulación, a lo largo de la historia, de experiencias humanas es el tesoro más valioso y digno de confianza que las generaciones reciben unas de otras. Sin olvidar nunca la revelación divina, que ilumina y da sentido a la historia y a nuestra existencia.

Hermanos y hermanas: Que el Sínodo despierte nuestros corazones. El presente, también el de la Iglesia, aparece lleno de trabajos, problemas y cargas. Pero la fe nos dice que es también kairos, en el que el Señor viene a nuestro encuentro para amarnos y llamarnos a la plenitud de la vida. El futuro no es una amenaza que hay que temer, sino el tiempo que el Señor nos promete para que podamos experimentar la comunión con él, con nuestros hermanos y con toda la creación. Necesitamos redescubrir las razones de nuestra esperanza y sobre todo transmitirlas a los jóvenes, que tienen sed de esperanza, como bien afirmó el Concilio Vaticano II: «Podemos pensar, con razón que el porvenir de la humanidad está en manos de aquellos sean capaces de transmitir a las generaciones venideras razones para vivir y para esperar» (Cost. Past., Gaudium et Spes, 31).

El encuentro entre generaciones puede ser extremadamente fructífero para generar esperanza. El profeta Joel nos los enseña –lo recordé también a los jóvenes de la reunión pre-sinodal– en esa que considero la profecía de nuestro tiempo: «Vuestros ancianos tendrán sueños y vuestros jóvenes verán visiones» (3,1), y profetizarán.

No hay necesidad de sofisticados argumentos teológicos para mostrar nuestro deber de ayudar al mundo contemporáneo a caminar hacia el reino de Dios, sin falsas esperanzas y sin ver solo ruinas y problemas. En efecto, san Juan XXIII, hablando de las personas que valoran los hechos sin suficiente objetividad ni juicio prudente, dijo: «Ellas no ven en los tiempos modernos sino prevaricación y ruina; van diciendo que nuestra época, comparada con las pasadas, ha ido empeorando; y se comportan como si nada hubieran aprendido de la historia, que sigue siendo maestra de la vida» (Discurso pronunciado para la solemne apertura del Concilio Vaticano II, 11 octubre 1962).

Por tanto, no hay que dejarse tentar por las «profecías de desgracias», ni gastar energías en «llevar cuenta de los fallos y echar en cara amarguras», hay que mantener los ojos fijos en el bien, que «a menudo no hace ruido, ni es tema de los blogs ni aparece en las primeras páginas», y no asustarse «ante las heridas de la carne de Cristo, causadas siempre por el pecado y con frecuencia por los hijos de la Iglesia» (cf. Discurso a los Obispos participantes en el curso promovido por la Congregación para los Obispos y para las Iglesias orientales, 13 septiembre, 2018).

Comprometámonos a procurar «frecuentar el futuro», y a que salga de este Sínodo no sólo un documento –que generalmente es leído por pocos y criticado por muchos–, sino sobre todo propuestas pastorales concretas, capaces de llevar a cabo la tarea del propio Sínodo, que es la de hacer que germinen sueños, suscitar profecías y visiones, hacer florecer esperanzas, estimular la confianza, vendar heridas, entretejer relaciones, resucitar una aurora de esperanza, aprender unos de otros, y crear un imaginario positivo que ilumine las mentes, enardezca los corazones, dé fuerza a las manos, e inspire a los jóvenes –a todos los jóvenes, sin excepción– la visión de un futuro lleno de la alegría del evangelio. Gracias.

[01531-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Prezadas Beatitudes, Eminências, Excelências,
Amados irmãos e irmãs, Queridos jovens!

Ao entrar neste Auditório para falar dos jovens, já se sente a força da sua presença, que exala positividade e entusiasmo capazes de invadir e alegrar não só este Auditório, mas toda a Igreja e o mundo inteiro.

Por isso mesmo, não posso começar sem vos dizer obrigado! Obrigado a vós que estais presentes; obrigado a tantas pessoas, que ao longo dum caminho de preparação de dois anos – aqui na Igreja de Roma e em todas as Igrejas do mundo –, trabalharam com dedicação e paixão para nos fazer chegar a este momento. De coração, obrigado ao Cardeal Lorenzo Baldisseri, Secretário Geral do Sínodo, aos Presidentes Delegados, ao Cardeal Sérgio da Rocha, Relator Geral; ao Bispo D. Fabio Fabene, Subsecretário, aos Oficiais da Secretaria Geral e aos Assistentes; obrigado a todos vós, Padres sinodais, Auditores, Auditoras, peritos e consultores; aos Delegados Fraternos; aos tradutores, aos cantores, aos jornalistas. De coração, obrigado a todos pela vossa participação ativa e fecunda.

Um sentido obrigado merecem os dois Secretários Especiais, o padre jesuíta Giacomo Costa, e o padre salesiano Rossano Sala, que trabalharam com generoso empenho e abnegação. Jogaram a pele, na preparação!

Desejo também agradecer vivamente aos jovens que neste momento estão conectados connosco e a todos os jovens que fizeram ouvir, de muitos modos, a sua voz. Agradeço-lhes por terem querido apostar que vale a pena sentir-se parte da Igreja ou entrar em diálogo com ela; vale a pena ter a Igreja como mãe, como mestra, como casa, como família, capaz – não obstante as fraquezas humanas e as dificuldades – de fazer resplandecer e transmitir a mensagem sem ocaso de Cristo; vale a pena agarrar-se à barca da Igreja que, mesmo através das tempestades implacáveis do mundo, continua a oferecer a todos refúgio e hospitalidade; vale a pena colocar-se à escuta uns dos outros; vale a pena nadar contracorrente e aderir a valores altos, como a família, a fidelidade, o amor, a fé, o sacrifício, o serviço, a vida eterna.

A nossa responsabilidade aqui, no Sínodo, é não os desmentir; antes, é demonstrar que têm razão em apostar: verdadeiramente vale a pena, verdadeiramente não é tempo perdido!

E, de modo particular, agradeço a vós, queridos jovens presentes! O caminho de preparação para o Sínodo ensinou-nos que o universo juvenil é tão variado que não pode estar aqui totalmente representado, mas vós sois seguramente um sinal importante daquele. A vossa participação enche-nos de alegria e esperança.

O Sínodo que estamos a viver é um momento de partilha. Assim, no início do percurso da Assembleia sinodal, a todos desejo convidar a falarem com coragem e parresia, isto é, aliando liberdade, verdade e caridade. Só o diálogo nos pode fazer crescer. Uma crítica honesta e transparente é construtiva e ajuda, ao contrário das bisbilhotices inúteis, das murmurações, das ilações ou dos preconceitos.

E à coragem de falar deve corresponder a humildade de escutar. Como dizia aos jovens na Reunião Pré-sinodal, «se [alguém] falar de algo que não gosto, ainda o devo ouvir melhor; pois cada um tem o direito de ser ouvido, como cada um tem o direito de falar». Esta escuta aberta requer coragem para tomar a palavra e fazer-se voz de tantos jovens no mundo que não estão presentes. É esta escuta que abre espaço ao diálogo. O Sínodo deve ser um exercício de diálogo, antes de mais nada entre os que participam nele. E o primeiro fruto deste diálogo é cada um abrir-se à novidade, estar pronto a mudar a sua opinião face àquilo que ouviu dos outros. Isto é importante para o Sínodo. Muitos de vós já prepararam, antes de vir, a sua intervenção – e agradeço-vos por este trabalho –, mas convido a sentir-vos livres para considerar aquilo que preparastes como um projeto provisório aberto a eventuais acréscimos e alterações que o caminho sinodal possa sugerir a cada um. Sintamo-nos livres para aceitar e compreender os outros e, consequentemente, para mudar as nossas convicções e posições: é sinal de grande maturidade humana e espiritual.

O Sínodo é um exercício eclesial de discernimento. Franqueza no falar e abertura na escuta são fundamentais para que o Sínodo seja um processo de discernimento. O discernimento não é um slôgane publicitário, não é uma técnica organizativa, nem uma moda deste pontificado, mas um procedimento interior que se enraíza num ato de fé. O discernimento é o método e, simultaneamente, o objetivo que nos propomos: baseia-se na convicção de que Deus atua na história do mundo, nos acontecimentos da vida, nas pessoas que encontro e me falam. Por isso, somos chamados a colocar-nos à escuta daquilo que nos sugere o Espírito, segundo modalidades e direções muitas vezes imprevisíveis. O discernimento precisa de espaços e tempos próprios. Por isso estabeleço que, durante os trabalhos tanto na assembleia plenária como nos grupos, depois de cada cinco intervenções se observe um tempo de silêncio – cerca de três minutos – para permitir que cada um preste atenção às ressonâncias que as coisas ouvidas suscitam no seu coração, para aprofundar e apreender o que mais o impressiona. Esta atenção à interioridade é a chave para se efetuar o percurso reconhecer, interpretar e escolher.

Sejamos sinal duma Igreja à escuta e em caminho. A atitude de escuta não se pode limitar às palavras que trocaremos entre nós nos trabalhos sinodais. O caminho de preparação para este momento destacou uma Igreja «com deficit de escuta» inclusive para com os jovens, que muitas vezes se sentem não-compreendidos pela Igreja na sua originalidade e, por conseguinte, não aceites pelo que são verdadeiramente e, às vezes, até rejeitados. Este Sínodo possui a ocasião, a tarefa e o dever de ser sinal da Igreja que se coloca verdadeiramente à escuta, que se deixa interpelar pelas solicitações daqueles que encontra, que não tem uma resposta pré-confecionada sempre pronta. Uma Igreja que não escuta mostra-se fechada à novidade, fechada às surpresas de Deus, e não poderá ser credível, especialmente para os jovens, os quais, em vez de se aproximar, afastar-se-ão inevitavelmente.

Deixemos para trás preconceitos e estereótipos. Um primeiro passo rumo à escuta é libertar as nossas mentes e os nossos corações de preconceitos e estereótipos: quando pensamos já saber quem é o outro e o que quer, então teremos verdadeiramente dificuldade em escutá-lo seriamente. As relações entre as gerações são um terreno onde preconceitos e estereótipos pegam com facilidade proverbial, a ponto de muitas vezes nem nos darmos conta disso. Os jovens são tentados a considerar ultrapassados os adultos; os adultos são tentados a julgar os jovens inexperientes, a saber como são e sobretudo como deveriam ser e comportar-se. Tudo isto pode constituir um forte obstáculo ao diálogo e ao encontro entre as gerações. A maioria dos presentes não pertence à geração dos jovens, pelo que devemos claramente ter cuidado sobretudo com o risco de falar dos jovens a partir de categorias e esquemas mentais já superados. Se soubermos evitar este risco, então contribuiremos para tornar possível uma aliança entre gerações. Os adultos deveriam superar a tentação de subestimar as capacidades dos jovens e de os julgar negativamente. Uma vez li que a primeira menção deste facto remonta a 3000 a.C., tendo sido encontrada num vaso de barro da antiga Babilónia, onde está escrito que a juventude é imoral e que os jovens não são capazes de salvar a cultura do povo. É velha tradição nossa, dos idosos! Por sua vez, os jovens deveriam superar a tentação de não prestar ouvidos aos adultos e considerar os idosos «coisa antiga, passada e chata», esquecendo-se que é insensato querer partir sempre do zero, como se a vida começasse apenas com cada um deles. Na realidade, apesar da sua fragilidade física, os idosos permanecem sempre a memória da nossa humanidade, as raízes da nossa sociedade, o «pulso» da nossa civilização. Desprezá-los, abandoná-los, fechá-los em reservas isoladas ou então ignorá-los é índice de cedência à mentalidade do mundo que está a devorar as nossas casas a partir de dentro. Negligenciar o tesouro de experiências que cada geração herda e transmite à outra é um ato de autodestruição.

Por conseguinte, é preciso, por um lado, superar decididamente o flagelo do clericalismo. De facto, a escuta e o abandono dos estereótipos são também um forte antídoto contra o risco do clericalismo, ao qual uma assembleia como esta, independentemente das boas intenções de cada um de nós, está inevitavelmente exposta. O clericalismo nasce duma visão elitista e excludente da vocação, que interpreta o ministério recebido mais como um poder a ser exercido do que como um serviço gratuito e generoso a oferecer; e isto leva a julgar que se pertence a um grupo que possui todas as respostas e já não precisa de escutar e aprender mais nada, ou então finge escutar. O clericalismo é uma perversão e é raiz de muitos males na Igreja: destes devemos pedir humildemente perdão e sobretudo criar as condições para que não se repitam.

Mas, por outro lado, é preciso curar o vírus da autossuficiência e das conclusões precipitadas de muitos jovens. Diz um provérbio egípcio: «Se não houver um idoso na tua casa, compra-o, porque ser-te-á de proveito». Repudiar e rejeitar tudo o que foi transmitido ao longo dos séculos leva apenas àquele perigoso extravio que está, infelizmente, a ameaçar a nossa humanidade; leva ao estado de desilusão que invadiu os corações de gerações inteiras. A acumulação das experiências humanas ao longo da história é o tesouro mais precioso e fiável que as gerações herdam uma da outra; sem nunca esquecer a revelação divina, que ilumina e dá sentido à história e à nossa existência.

Irmãos e irmãs, que o Sínodo desperte os nossos corações! O momento presente, mesmo da Igreja, aparece carregado de canseiras, problemas, pesos. Mas a fé diz-nos que é também o kairos no qual o Senhor vem ao nosso encontro para nos amar e chamar à plenitude da vida. O futuro não constitui uma ameaça que devemos temer, mas é o tempo que o Senhor nos promete para podermos experimentar a comunhão com Ele, com os irmãos e com toda a criação. Precisamos de reencontrar as razões da nossa esperança e sobretudo de as transmitir aos jovens, que estão sedentos de esperança. Como justamente afirmava o Concílio Vaticano II, «podemos legitimamente pensar que o destino futuro da humanidade está nas mãos daqueles que souberem dar às gerações vindouras razões de viver e de esperar» (Const. past. Gaudium et spes, 31).

O encontro entre as gerações pode ser extremamente fecundo para gerar esperança. Assim no-lo ensina o profeta Joel naquela que considero – lembrei-o também aos jovens da Reunião Pré-sinodal – ser a profecia dos nossos tempos: «Os vossos anciãos terão sonhos e os vossos jovens terão visões» (3, 1) e profetizarão.

Não há necessidade de sofisticados raciocínios teológicos para demonstrar o nosso dever de ajudar o mundo atual a caminhar para o reino de Deus, sem falsas esperanças e sem ver apenas ruínas e problemas. De facto São João XXIII, referindo-se a pessoas que avaliam os factos sem objetividade suficiente nem prudente discernimento, afirmava: «Nos tempos atuais, não veem senão prevaricações e ruínas; vão repetindo que a nossa época, em comparação com as passadas, tem piorado; e comportam-se como quem nada aprendeu da história, que é também mestra da vida» (Discurso na abertura solene do Concílio Vaticano II, 11 de outubro de 1962).

Assim, não nos deixemos tentar pelas «profecias de desgraças», não gastemos energias a «contabilizar falências e recordar amarguras», mantenhamos o olhar fixo no bem que «muitas vezes não faz barulho, não é tema dos blogues nem chega às primeiras páginas» dos jornais, nem nos assustemos «diante das feridas da carne de Cristo, sempre infligidas pelo pecado e, não raramente, pelos filhos da Igreja» (cf. Discurso aos Bispos recentemente nomeados que participaram no curso promovido pelas Congregações para os Bispos e para as Igrejas Orientais, 14 de setembro de 2018).

Esforcemo-nos, pois, por procurar «frequentar o futuro» e por fazer sair deste Sínodo não só um documento – que geralmente é lido por poucos e criticado por muitos – mas sobretudo propósitos pastorais concretos, capazes de realizar a tarefa do próprio Sínodo, que é fazer germinar sonhos, suscitar profecias e visões, fazer florescer a esperança, estimular confiança, faixar feridas, entrançar relações, ressuscitar uma aurora de esperança, aprender um do outro, e criar um imaginário positivo que ilumine as mentes, aqueça os corações, restitua força às mãos e inspire aos jovens – a todos os jovens, sem excluir nenhum – a visão dum futuro repleto da alegria do Evangelho. Obrigado!

[01531-PO.02] [Texto original: Italiano]

 

Traduzione in lingua polacca

Wasze Świątobliwości, Eminencje, Ekscelencje,
drodzy bracia i siostry, umiłowani młodzi!

            Wchodząc do tej auli, by mówić o młodych, już odczuwa się siłę ich obecności, która emanuje uczuciami pozytywnymi i entuzjazmem zdolnym, aby wtargnąć i rozradować nie tylko tę aulę, ale cały Kościół i cały świat.

            Dlatego nie mogę zacząć bez powiedzenia wam dziękuję! Dziękuję wam obecnym, dziękuję wielu osobom, które podczas dwuletniego procesu przygotowawczego - tutaj, w Kościele rzymskim i we wszystkich Kościołach świata - pracowały z poświęceniem i pasją, abyśmy dotarli do tej chwili. Serdeczne podziękowania dla kardynała Lorenzo Baldisseriego, Sekretarza Generalnego Synodu, dla przewodniczących delegowanych, dziękuję kardynałowi Sérgio da Rocha, relatorowi generalnemu, biskupowi Fabio Fabene, podsekretarzowi; pracownikom Sekretariatu Generalnego i osobom pomagającym. Dziękuję wam wszystkim  ojcowie synodalni, audytorom i audytorkom, ekspertom i konsultorom, delegatom bratnich Kościołów, tłumaczom, konsultorom, śpiewającym, dziennikarzom.  Serdecznie dziękuję wszystkim za wasze czynne i owocne uczestnictwo!

            Na serdeczne podziękowania zasługują dwaj sekretarze specjalni, ks. Giacomo Costa, jezuita i salezjanin ks. Rossano Sala, którzy pracowali wielkodusznie z zaangażowaniem i poświęceniem. Poświęcili się bez reszty tym przygotowaniom.

            Chciałbym również serdecznie podziękować ludziom młodym łączącym się z nami w tej chwili oraz wszystkim młodym, którzy na wiele sposobów pozwolili usłyszeć swój głos. Dziękuję im za to, że zechcieli postawić na to, iż warto poczuć się częścią Kościoła lub nawiązać z nim dialog. Warto mieć Kościół za matkę, za nauczyciela, za dom, za rodzinę, zdolną, pomimo ludzkich słabości i trudności, by jaśnieć i przekazywać ponadczasowe orędzie Chrystusa. Warto uchwycić się łodzi Kościoła, który pomimo bezlitosnych sztormów świata oferuje wszystkim schronienie i gościnność. Warto słuchać siebie nawzajem. Warto płynąć pod prąd i wiązać się ze wzniosłymi wartościami: rodziną, wiernością, miłością, wiarą, ofiarą, służbą, życiem wiecznym.

            Naszym obowiązkiem tutaj na Synodzie jest to, by się ich nie wyprzeć, a wręcz wykazać im, że mają rację stawiając na Kościół: naprawdę warto, to naprawdę nie jest strata czasu!

            Szczególnie dziękuję wam, drodzy obecni tutaj młodzi! Proces przygotowania do Synodu nauczył nas, że świat młodzieży jest tak różnorodny, że nie może być w pełni reprezentowany, ale z pewnością jesteście jego ważnym znakiem. Wasz udział napełnia nas radością i nadzieją.

            Przeżywany przez nas Synod jest wydarzeniem dzielenia się. Dlatego pragnę na początku zgromadzenia synodalnego zaprosić wszystkich do mówienia z odwagą i parezją, to znaczy włączając  wolność, prawdę i miłość. Tylko dialog może spowodować nasz rozwój. Szczera i przejrzysta krytyka jest konstruktywna i pomaga, natomiast nie czynią tego bezużyteczne plotki, gadanina, domysły lub uprzedzenia.

            Odwadze mówienia powinna odpowiadać pokora słuchania.  Powiedziałem do młodych ludzi na spotkaniu przed-synodalnym: „Jeśli mówi ten, kto mi się nie podoba, muszę go słuchać bardziej, bo każdy ma prawo do bycia wysłuchanym, jak każdy ma prawo do wypowiadania się”. To otwarte słuchanie wymaga odwagi w zabieraniu głosu i wypowiadaniu się w imieniu wielu młodych na świecie, którzy nie są obecni. To właśnie słuchanie otwiera przestrzeń dla dialogu. Synod musi być realizowaniem dialogu, przede wszystkim wśród tych, którzy w nim uczestniczą. A pierwszym owocem tego dialogu jest to, iż każdy otwiera się na nowości, zmienia zdanie dzięki temu, co usłyszał od innych. Jest to ważne dla synodu. Wielu z was przygotowało już swoje wystąpienie przed przybyciem - i dziękuję wam za tę pracę - ale zachęcam was, byście czuli, że swobodnie możecie uważać to, co przygotowaliście, za projekt tymczasowy otwarty na ewentualne uzupełnienia lub zmiany, które mógłby każdemu podpowiedzieć proces synodalny. Czujmy się wolni, aby zaakceptować i zrozumieć innych, a tym samym zmienić nasze przekonania i stanowiska: jest to znak wielkiej dojrzałości ludzkiej i duchowej.

            Synod jest kościelnym realizowaniem rozeznania. Szczerość w mówieniu i otwartość w słuchaniu mają podstawowe znaczenie, aby synod był procesem rozeznania. Rozeznanie nie jest sloganem reklamowym, nie jest techniką organizacyjną ani modą tego pontyfikatu, ale postawą wewnętrzną zakorzenioną w akcie wiary. Rozeznanie jest metodą a jednocześnie celem, jaki sobie stawiamy: opiera się na przekonaniu, że Bóg działa w historii świata, w wydarzeniach życia, w ludziach, których spotykamy i którzy do nas mówią. Z tego powodu jesteśmy wezwani do słuchania tego, co podpowiada nam Duch, w sposób i w kierunkach często nieprzewidywalnych. Rozeznanie potrzebuje przestrzeni i czasów. Dlatego nakazuję, aby podczas dyskusji na posiedzeniu plenarnym oraz w grupach, po każdych 5 wystąpieniach zachowywać chwilę milczenia – około trzech minut – aby umożliwić każdemu zwrócenie uwagi na rezonans, jaki usłyszane kwestie wzbudzają w jego sercu, aby przejść głębiej i uchwycić to, co uderza najbardziej. Ta wrażliwość na wnętrze jest kluczem, by dokonać drogi rozpoznania, interpretacji i wyboru.

            Jesteśmy znakiem Kościoła, który słucha i jest w drodze. Postawa słuchania nie może ograniczać się do słów, które wymienimy w pracach synodalnych. Proces przygotowania do tego wydarzenia uwydatnił Kościół „potrzebujący słuchania” również wobec ludzi młodych, którzy często czują się niezrozumiani przez Kościół w swojej oryginalności i dlatego nie akceptowani z powodu tego, czym są naprawdę, a czasem nawet odrzuceni. Ten Synod ma szansę, zadanie i obowiązek być znakiem Kościoła, który naprawdę słucha, który pozwala stawiać sobie pytania przez postulaty tych, których spotyka, że nie ma zawsze już gotowej odpowiedzi przygotowanej wcześniej. Kościół, który nie słucha, okazuje się zamknięty dla nowości, zamknięty na niespodzianki Boga i nie może być wiarygodny, szczególnie dla młodych, którzy nieuchronnie odwracają się, zamiast się przybliżać.

            Porzućmy uprzedzenia i stereotypy. Pierwszym krokiem w kierunku słuchania jest uwolnienie naszych umysłów i serc od uprzedzeń i stereotypów: kiedy myślimy, że już wiemy kim jest inny, czego chce, wtedy trudno nam naprawdę wysłuchać go poważnie. Relacje międzypokoleniowe są terenem, w którym uprzedzenia i stereotypy zakorzeniają się z przysłowiową łatwością tak bardzo, że często nawet nie zdajemy sobie z tego sprawy. Młodzi ludzie mają pokusę, aby uważać dorosłych za  anachronicznych. Dorośli mają pokusę, by uważać młodych za  niedoświadczonych, sądzić że wiedzą, jacy są, a zwłaszcza, jacy powinni być i jak powinni się zachowywać. Wszystko to może być potężną przeszkodą w dialogu i spotkaniu między pokoleniami. Większość tu obecnych nie należy do pokolenia ludzi młodych, a więc jest jasne, że musimy zwracać uwagę przede wszystkim na groźbę mówienia o młodych, wychodząc ze zdezaktualizowanych już kategorii i schematów mentalnych. Jeśli uda nam się uniknąć tego ryzyka, to przyczynimy się do umożliwienia przymierza między pokoleniami. Dorośli powinni przezwyciężyć pokusę niedoceniania umiejętności ludzi młodych i osądzania ich negatywnie. Czytałem kiedyś, że pierwsza wzmianka o tym fakcie sięga 3000 lat przed Chrystusem i została znaleziona na glinianym garnku ze starożytnego Babilonu, gdzie napisano, że młodzież jest niemoralna, i że młodzi ludzie nie są w stanie ocalić kultury narodu. To stara tradycja nas starych! Natomiast młodzi powinni przezwyciężyć pokusę nie słuchania dorosłych i uważania starszych za „starocie, minione i nudne”, zapominając, że chęć zaczynania zawsze od zera jest głupotą, tak jakby życie zaczęło się dopiero wraz z każdym z nich. W istocie osoby starsze, pomimo swojej fizycznej słabości pozostają zawsze pamięcią naszego człowieczeństwa, korzeniami naszego społeczeństwa, „pulsem” naszej cywilizacji. Pogardzanie nimi, wyrzucanie ich, zamykanie w odosobnionych rezerwatach lub lekceważenie ich jest oznaką poddania się mentalności świata, który pożera nasze domy od wewnątrz. Lekceważenie skarbu doświadczeń, które każde pokolenie dziedziczy i przekazuje następnemu jest aktem samozniszczenia.

            Trzeba zatem z jednej strony, zdecydowane przezwyciężyć plagę klerykalizmu. Rzeczywiście słuchanie i porzucenie stereotypów jest również potężnym antidotum na niebezpieczeństwo klerykalizmu, na które nieuchronnie narażone jest takie zgromadzenie jak to, niezależnie od intencji każdego z nas. Rodzi się on z elitarnej i wykluczającej wizji powołania, rozumiejącej otrzymaną posługę jako władzę, którą należy wypełniać, a nie bezinteresowną i wielkoduszną służbę, którą należy oferować. A to prowadzi nas do przekonania, że należymy do grupy, która ma wszystkie odpowiedzi i nie musi już niczego słuchać i niczego się uczyć, albo udaje, że słucha. Klerykalizm jest perwersją i źródłem wielkiego zła w Kościele: musimy za nie pokornie prosić o przebaczenie, a przede wszystkim stworzyć warunki, aby się nie powtórzyło.

            Z drugiej jednak strony konieczne jest leczenie wirusa samowystarczalności i pochopnych wniosków wielu młodych ludzi. Pewne egipskie przysłowie mówi: „Jeśli w twoim domu nie ma starca, kup go, bo to ci pomoże”. Wyrzeczenie się i odrzucenie wszystkiego, co zostało przekazane przez wieki, prowadzi tylko do niebezpiecznej straty, która niestety zagraża naszemu człowieczeństwu. Prowadzi do stanu rozczarowania, który ogarnął serca całych pokoleń. Nagromadzenie ludzkich doświadczeń na przestrzeni całych dziejów jest najcenniejszym i najbardziej niezawodnym skarbem, który pokolenia dziedziczą jedno po drugim. Nigdy nie można zapominać o Bożym objawieniu, które rozjaśnia i nadaje sens historii i naszemu istnieniu.

            Bracia i siostry, niech Synod przebudzi nasze serca! Obecny czas, także czas Kościoła wydaje się być pełen znoju, problemów i ciężarów. Ale wiara mówi nam, że jest to również kairos, w którym Pan wychodzi nam na spotkanie, aby nas miłować i wzywać do pełni życia. Przyszłość nie jest zagrożeniem, którego należy się obawiać, ale czasem, który obiecuje nam Pan, abyśmy mogli doświadczyć komunii z Nim, z naszymi braćmi i z całym stworzeniem. Musimy odnaleźć na nowo motywy naszej nadziei, a przede wszystkim przekazać je młodym, którzy są spragnieni nadziei, jak to dobrze stwierdził Sobór Watykański II: „Słusznie możemy sądzić, że przyszły los ludzkości spoczywa w rękach tych, którzy zdolni są przekazać przyszłym pokoleniom motywację do życia i do nadziei” (Konst. duszp. Gaudium et spes, 31).

            Spotkanie między pokoleniami może być niezwykle owocne w odniesieniu do rodzenia nadziei. Uczy nas już tego prorok Joel w tym, co – jak przypominałem młodym uczestniczącym w spotkaniu przed synodalnym – uważam za proroctwo naszego czasu „wasi starcy będą śnić po nocach, młodzieńcy zaś będą miewali widzenia” (3,1) i będą prorokowali.

Nie potrzeba wyrafinowanych argumentów teologicznych, aby ukazać nasz obowiązek dopomożenia współczesnemu światu w podążaniu ku królestwu Bożemu, bez fałszywych nadziei i nie widząc jedynie ruin i problemów. Jan XXIII, mówiąc bowiem o ludziach, którzy oceniają fakty bez dostatecznego obiektywizmu ani też roztropnego osądu stwierdził: „W obecnych warunkach ludzkiego społeczeństwa [ludzie ci] nie są w stanie zobaczyć nic prócz ruin i problemów; mówią, że nasze czasy, jeśli je się porównuje z minionymi wiekami, okazują się pod każdym względem gorsze; i w końcu zachowują się tak, jakby nie mogli niczego się nauczyć z historii, która jest nauczycielką życia” (Przemówienie na otwarcie II Powszechnego Soboru Watykańskiego II – 11 października 1962).

            Nie wolno zatem ulec pokusom „proroctw nieszczęść”, ani marnować energii na „rozliczanie porażek i wypominanie goryczy”. Trzeba skoncentrować się na dobru, które „często nie czyni zgiełku, nie jest tematem blogów ani też nie dociera na pierwsze strony”, a lękać się „w obliczu ran na ciele Chrystusa, zawsze zadawanych przez grzech [...] przez synów Kościoła” (por.  Przemówienie do biskupów niedawno mianowanych uczestniczących w kursie przygotowanym przez Kongregację ds. Biskupów i dla Kościołów Wschodnich, 14 września 2018).

            Zaangażujmy się zatem w „spotkanie się z przyszłością” oraz sprawienie, aby z tego synodu wyszedł nie tylko  dokument, który zazwyczaj czytany jest przez nielicznych, a krytykowany przez wielu – ale przede wszystkim konkretne propozycje duszpasterskie, zdolne do zrealizowania zadania tego synodu, to znaczy, by zrodziły się marzenia, wzbudziły proroctwa i wizje, rozkwitły nadzieje, rozbudziło zaufanie, opatrzono rany, nawiązano relacje, rozbudzono jutrzenkę nadziei, by uczono się od siebie nawzajem i tworzono pozytywną wyobraźnię, która oświeciłaby umysły, rozpaliła serca, przywróciła rękom siły i natchnęłaby młodych – wszystkich ludzi młodych, nikogo nie wykluczając – wizją przyszłości przepełnionej radością Ewangelii. Dziękuję!

[01531-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0721-XX.02]