Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Lituania, Lettonia ed Estonia (22 – 25 settembre 2018) – Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Consacrati e Seminaristi, 23.09.2018


Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Consacrati e Seminaristi

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Lasciato il Palazzo della Curia, dopo aver salutato 20 persone tra benefattori e collaboratori, il Santo Padre si è trasferito alla Cattedrale di Kaunas dove alle ore 14.40 (13.40 ora di Roma) ha avuto luogo l’incontro con i Sacerdoti, i Religiosi, i Consacrati e i Seminaristi.

Al Suo arrivo in papamobile, il Papa è stato accolto all'ingresso principale della Cattedrale dal Parroco, da una religiosa, da un religioso e da un seminarista.

Quindi il Santo Padre ha percorso la navata centrale fino all’abside dove un religioso e una religiosa gli hanno donato dei fiori che ha deposto nella Cappella del Santissimo, dove ha sostato in preghiera silenziosa per alcuni minuti. Prima di lasciare la Cappella, Papa Francesco ha salutato un gruppo di religiose presenti, rivolgendo loro alcune parole a braccio.

Dopo il canto d’ingresso, S.E. Mons. Linas Vodopjanovas, O.F.M., Vescovo di Panevėžys e incaricato della vita consacrata, ha rivolto al Papa il suo indirizzo di saluto e, dopo una preghiera e una lettura biblica, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine dell’incontro, il Papa ha impartito la Benedizione. Quindi si è trasferito in auto al Museo delle Occupazioni e Lotte per la Libertà.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha rivolto ai presenti nel corso dell’incontro:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Prima di tutto, vorrei dire un sentimento che provo. Guardando voi, vedo dietro di voi tanti martiri. Martiri anonimi, nel senso che neppure sappiamo dove sono stati sepolti. Anche qualcuno di voi: ho salutato uno che ha saputo che cos’era la prigione. Mi viene in mente una parola per incominciare: non dimenticatevi, abbiate memoria. Siete figli di martiri, questa è la vostra forza. E lo spirito del mondo non venga a dirvi qualche altra cosa diversa da quella che hanno vissuto i vostri antenati. Ricordate i vostri martiri e prendete esempio da loro: non avevano paura. Parlando con i Vescovi, i vostri Vescovi, oggi, dicevano: “Come si può fare per introdurre la causa di beatificazione per tanti dei quali non abbiamo documenti, ma sappiamo che sono martiri?”. È una consolazione, è bello sentire questo: la preoccupazione per coloro che ci hanno dato testimonianza. Sono dei santi.

Il Vescovo [Linas Vodopjanovas, O.F.M., incaricato per la vita consacrata] ha parlato senza sfumature – i francescani parlano così –: “Oggi spesso, in vari modi, viene messa alla prova la nostra fede”, ha detto. Lui non pensava alle persecuzioni dei dittatori, no. “Dopo aver risposto alla chiamata della vocazione spesso non proviamo più gioia né nella preghiera né nella vita comunitaria”.

Lo spirito della secolarizzazione, della noia per tutto quello che tocca la comunità è la tentazione della seconda generazione. I nostri padri hanno lottato, hanno sofferto, sono stati carcerati e forse noi non abbiamo la forza di andare avanti. Tenete conto di questo!

La Lettera agli Ebrei fa un’esortazione: “Non dimenticatevi dei primi giorni. Non dimenticatevi dei vostri antenati” (cfr 10,32-39). Questa è l’esortazione che all’inizio rivolgo a voi.

Tutta la visita al vostro Paese è stata incorniciata in questa espressione: “Cristo Gesù, nostra speranza”. Ormai quasi al termine di questo giorno, troviamo un testo dell’apostolo Paolo che ci invita a sperare con costanza. E questo invito lo fa dopo averci annunciato il sogno di Dio per ogni essere umano, di più, per tutto il creato: cioè che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28); «raddrizza» tutte le cose, sarebbe la traduzione letterale.

Oggi vorrei condividere con voi alcuni tratti caratteristici di questa speranza; tratti che noi – sacerdoti, seminaristi, consacrati e consacrate – siamo chiamati a vivere.

Anzitutto, prima di invitarci alla speranza, Paolo ha ripetuto tre volte la parola “gemere”: geme la creazione, gemono gli uomini, geme lo Spirito in noi (cfr Rm 8,22-23.26). Si geme per la schiavitù della corruzione, per l’anelito alla pienezza. E oggi ci farà bene domandarci se quel gemito è presente in noi, o se invece nulla più grida nella nostra carne, nulla anela al Dio vivente. Come diceva il vostro Vescovo: “Non proviamo più la gioia nella preghiera, nella vita comunitaria”. Il bramito della cerva assetata davanti alla carenza di acqua dovrebbe essere il nostro nella ricerca della profondità, della verità, della bellezza di Dio. Cari, noi non siamo “funzionari di Dio”! Forse la società del benessere ci ha resi troppo sazi, pieni di servizi e di beni, e ci ritroviamo appesantiti di tutto e pieni di nulla; forse ci ha resi storditi o dissipati, ma non pieni. Peggio ancora: a volte non sentiamo più la fame. Siamo noi, uomini e donne di speciale consacrazione, coloro che non possono mai permettersi di perdere quel gemito, quell’inquietudine del cuore che solo nel Signore trova riposo (cfr S. Agostino, Confessioni, I,1,1). L’inquietudine del cuore. Nessuna informazione immediata, nessuna comunicazione virtuale istantanea può privarci dei tempi concreti, prolungati, per conquistare – di questo si tratta, di uno sforzo costante – per conquistare un dialogo quotidiano con il Signore attraverso la preghiera e l’adorazione. Si tratta di coltivare il nostro desiderio di Dio, come scriveva san Giovanni della Croce. Diceva così: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore» (Consigli per raggiungere la perfezione, 9).

Questo gemito deriva anche dalla contemplazione del mondo degli uomini, è un appello alla pienezza di fronte ai bisogni insoddisfatti dei nostri fratelli più poveri, davanti alla mancanza di senso della vita dei più giovani, alla solitudine degli anziani, ai soprusi contro l'ambiente. È un gemito che cerca di organizzarsi per incidere sugli eventi di una nazione, di una città; non come pressione o esercizio di potere, ma come servizio. Il grido del nostro popolo ci deve colpire, come Mosè, al quale Dio rivelò la sofferenza del suo popolo nell’incontro presso il roveto ardente (cfr Es 3,9). Ascoltare la voce di Dio nella preghiera ci fa vedere, ci fa udire, conoscere il dolore degli altri per poterli liberare. Ma altrettanto dobbiamo essere colpiti quando il nostro popolo ha smesso di gemere, ha smesso di cercare l'acqua che estingue la sete. È un momento anche per discernere che cosa stia anestetizzando la voce della nostra gente.

Il grido che ci fa cercare Dio nella preghiera e nell’adorazione è lo stesso che ci fa ascoltare il lamento dei nostri fratelli. Loro “sperano” in noi e abbiamo bisogno, a partire da un attento discernimento, di organizzarci, programmare ed essere audaci e creativi nel nostro apostolato. Che la nostra presenza non sia lasciata all’improvvisazione, ma risponda ai bisogni del popolo di Dio e sia quindi fermento nella massa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 33).

Ma l’Apostolo parla anche di costanza, costanza nella sofferenza, costanza nel perseverare nel bene. Questo significa essere centrati in Dio, rimanere fermamente radicati in Lui, essere fedeli al suo amore.

Voi, i più anziani di età – come non menzionare Mons. Sigitas Tamkevicius? – saprete testimoniare questa costanza nel patire, questo “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18). La violenza usata su di voi per aver difeso la libertà civile e religiosa, la violenza della diffamazione, il carcere e la deportazione non hanno potuto vincere la vostra fede in Gesù Cristo, Signore della storia. Per questo, avete molto da dirci e insegnarci, e anche molto da proporre, senza dover giudicare l’apparente debolezza dei più giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. Vedo che ci sono giovani qui. Ripeto, perché ci sono dei giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. È meglio che prendiate un’altra strada piuttosto che vivere nella mediocrità. Questo per i giovani. Siete ancora in tempo, e la porta è aperta. Sono proprio le tribolazioni a delineare i tratti distintivi della speranza cristiana, perché quando è solo una speranza umana possiamo frustrarci e schiacciarci nel fallimento; ma non accade lo stesso con la speranza cristiana: essa esce più limpida, più provata dal crogiolo delle tribolazioni.

È vero che questi sono altri tempi e viviamo in altre strutture, ma è anche vero che questi consigli vengono meglio assimilati quando coloro che hanno vissuto quelle dure esperienze non si chiudono, ma le condividono approfittando dei momenti comuni. Le loro storie non sono piene di nostalgie di tempi passati presentati come migliori, né di accuse dissimulate verso quanti hanno strutture affettive più fragili. La provvista di costanza di una comunità di discepoli è efficace quando sa integrare – come quello scriba del Vangelo – il nuovo e il vecchio (cfr Mt 13,52), quando è consapevole che la storia vissuta è radice affinché l’albero possa fiorire.

Infine, guardare a Cristo Gesù come nostra speranza significa identificarci con Lui, partecipare comunitariamente al suo destino. Per l’apostolo Paolo, la salvezza sperata non si limita a un aspetto negativo – liberazione da una tribolazione interna o esterna, temporale o escatologica – ma l’accento è posto su qualcosa di altamente positivo: la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo (cfr 1 Ts 5,9-10), la partecipazione al suo Regno glorioso (cfr 2 Tm 4,18), la redenzione del corpo (cfr Rm 8,23-24). Dunque, si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ognuno, per ognuno di noi. Perché non c’è nessuno che ci conosca e ci abbia conosciuto tanto profondamente come Dio, perciò Egli ci ha destinati a qualcosa che sembra impossibile: scommette senza possibilità di errore che noi riproduciamo l’immagine di suo Figlio. Egli ha riposto le sue aspettative in noi, e noi speriamo in Lui.

Noi: un “noi” che integra, ma anche supera ed eccede l’“io”; il Signore ci chiama, ci giustifica e ci glorifica insieme, così insieme da includere tutta la creazione. Molte volte abbiamo posto così tanto l’accento sulla responsabilità personale che la dimensione comunitaria è diventata uno sfondo, solo un ornamento. Ma lo Spirito Santo ci riunisce, riconcilia le nostre differenze e genera nuovi dinamismi per dare impulso alla missione della Chiesa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).

Questo tempio in cui ci siamo radunati, è intitolato ai Santi Pietro e Paolo. Entrambi gli Apostoli furono consapevoli del tesoro che era stato loro dato, entrambi, in momenti e modi diversi, furono invitati a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4). Sulla barca della Chiesa ci siamo tutti. cercando sempre di gridare a Dio, di essere costanti in mezzo alle tribolazioni e di avere Cristo Gesù come oggetto della nostra speranza. E questa barca, riconosce al centro della propria missione l’annuncio di quella gloria sperata, che è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in Cristo Risorto, e che un giorno, atteso con ansia da tutta la creazione, si manifesterà nei figli di Dio. Questa è la sfida che ci spinge: il mandato di evangelizzare. È la ragione della nostra speranza e della nostra gioia.

Quante volte troviamo sacerdoti, consacrati e consacrate, tristi. La tristezza spirituale è una malattia. Tristi perché non sanno… Tristi perché non trovano l’amore, perché non sono innamorati: innamorati del Signore. Hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso sembra che si siano stancati... E scende la tristezza. Per favore, quando voi vi troverete tristi, fermatevi. E cercate un prete saggio, una suora saggia. Non saggi perché siano laureati all’università, no, non per quello. Saggio o saggia perché è stato capace o è stata capace di andare avanti nell’amore. Andate a chiedere consiglio. Quando incomincia quella tristezza, possiamo profetizzare che se non è guarita in tempo farà di voi “zitelloni” e “zitellone”, uomini e donne che non sono fecondi. E di questa tristezza abbiate paura! La semina il diavolo.

E oggi quel mare in cui “prendere il largo” saranno gli scenari e le sfide sempre nuove di questa Chiesa in uscita. Dobbiamo domandarci nuovamente: che cosa ci chiede il Signore? Quali sono le periferie che più hanno bisogno della nostra presenza per portare ad esse la luce del Vangelo? (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Altrimenti, se voi non avete la gioia della vocazione, chi potrà credere che Gesù Cristo è la nostra speranza? Solo il nostro esempio di vita darà ragione della nostra speranza in Lui.

C’è un’altra cosa che si collega con la tristezza: confondere la vocazione con un’impresa, con una ditta di lavoro. “Io mi impiego in questo, lavoro in questo, mi entusiasmo con questo…, e sono felice perché ho questo”. Ma domani, viene un vescovo, un altro o lo stesso, o viene un altro superiore, superiora, e ti dice: “No, taglia questo e va da quella parte”. È il momento della sconfitta. Perché? Perché, in quel momento, ti accorgerai di essere andato per una strada equivoca. Ti accorgerai che il Signore, che ti ha chiamato per amare, è deluso da te, perché tu hai preferito fare l’affarista. All’inizio vi ho detto che la vita di chi segue Gesù non è la vita di funzionario o funzionaria: è la vita dell’amore del Signore e dello zelo apostolico per la gente. Farò una caricatura: cosa fa un prete funzionario? Ha il suo orario, il suo ufficio, apre l’ufficio a quell’ora, fa il suo lavoro, chiude l’ufficio… E la gente è fuori. Non si avvicina alla gente. Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari, vi dirò una parola: vicinanza! Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene…”. Vai a trovarla! “Ma, i ragazzi oggi non vengono…”. Inventa qualcosa: l’oratorio, per seguirli, per aiutarli. Vicinanza con la gente. E vicinanza con il Signore nel Tabernacolo. Il Signore vi vuole pastori di popolo, e non chierici di Stato! Dopo dirò qualcosa alle suore, ma dopo…

Vicinanza vuol dire misericordia. In questa terra dove Gesù si è rivelato come Gesù misericordioso, un sacerdote non può non essere misericordioso. Soprattutto nel confessionale. Pensate a come Gesù accoglierebbe questa persona [che viene a confessarsi]. Già abbastanza lo ha bastonato la vita, quel poveraccio! Fagli sentire l’abbraccio del Padre che perdona. Se non puoi dargli l’assoluzione, per esempio, dagli la consolazione del fratello, del padre. Incoraggialo ad andare avanti. Convincilo che Dio perdona tutto. Ma questo col calore di padre. Mai cacciare qualcuno dal confessionale! Mai cacciare via. “Guarda, tu non puoi… Adesso non posso, ma Dio ti ama, tu prega, ritorna e parleremo…”. Così. Vicinanza. Questo è essere padre. A te non importa di quel peccatore, che lo cacci via così? Non sto parlando di voi, perché non vi conosco. Parlo di altre realtà. E misericordia. Il confessionale non è lo studio di uno psichiatra. Il confessionale non è per scavare nel cuore della gente.

E per questo, cari sacerdoti, vicinanza per voi significa anche avere viscere di misericordia. E le viscere di misericordia, sapete dove si prendono? Lì, al Tabernacolo.

E voi, care suore… Tante volte si vedono suore che sono brave – tutte le suore sono brave –, ma che chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano… Domandate a quella che è al primo posto dall’altra parte – la penultima – se nel carcere aveva tempo di chiacchierare, mentre cuciva i guanti. Domandatele. Per favore, siate madri! Siate madri, perché voi siete icona della Chiesa e della Madonna. E ogni persona che vi vede, possa vedere la mamma Chiesa e la mamma Maria. Non dimenticate questo. E la mamma Chiesa non è “zitellona”. La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. La vostra vicinanza è essere madre: icona della Chiesa e icona della Madonna.

Vicinanza al Tabernacolo e alla preghiera. Quella sete dell’anima di cui ho parlato, e con gli altri. Servizio sacerdotale e vita consacrata non da funzionari, ma di padri e madri di misericordia. E se voi fate così, da vecchi avrete un sorriso bellissimo e degli occhi brillanti! Perché avrete l’anima piena di tenerezza, di mitezza, di misericordia, di amore, di paternità e maternità.

E pregate per questo povero vescovo. Grazie!

[01436-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs, bonjour!

Avant tout, je voudrais exprimer un sentiment que j’éprouve. En vous regardant, je vois derrière vous beaucoup de martyrs. Des martyrs anonymes, au sens où l’on ne sait même pas où ils ont été enterrés. Même l’un d’entre vous: j’ai salué quelqu’un qui a connu ce qu’est la prison. Un mot me vient à l’esprit pour commencer: n’oubliez pas, gardez la mémoire. Vous êtes fils de martyrs, c’est votre force. Que l’esprit du monde ne vienne pas vous dire autre chose que ce qu’ont vécu vos ancêtres. Souvenez-vous de vos martyrs et prenez exemple sur eux: ils n’avaient pas peur. En parlant avec les évêques, vos évêques, aujourd’hui, ils m’ont dit: «Comment faire pour introduire la cause de béatification pour tant de ceux pour qui nous n’avons pas de documentation, mais dont nous savons qu’ils sont martyrs?». C’est une consolation, c’est beau d’entendre cela: le souci pour ceux qui nous ont donné leur témoignage. Ce sont des saints.

L’évêque [Linas Vodopjanovas, O.F.M. chargé de la vie consacrée] a parlé sans nuances – les franciscains parlent comme cela -, il a dit: “souvent aujourd’hui, de diverses manières, notre foi est mise à l’épreuve”. Il ne pense pas aux persécutions des dictateurs, non. «Après avoir répondu à l’appel de la vocation, souvent nous ne sentons plus de joie ni dans la prière, ni dans la vie communautaire».

L’esprit de sécularisation, de l’ennui pour tout ce qui regarde la communauté, est la tentation de la seconde génération. Nos pères ont lutté, ils ont souffert, ils ont été emprisonnés et peut être n’avons-nous pas la force d’avancer. Prenez cela en compte!

La Lettre aux Hébreux fait une exhortation: «Souvenez-vous des premiers jours, souvenez-vous de vos ancêtres» (cf. 10, 32-39). Voilà l’exhortation que je vous adresse pour commencer!

L’ensemble de ma visite dans votre pays est encadré par cette expression: «Christ Jésus, notre espérance». Arrivés presqu’à la fin de cette journée, nous trouvons un texte de l’apôtre Paul qui nous invite à espérer avec persévérance. Et il lance cette invitation après nous avoir annoncé le rêve de Dieu pour tout être humain, mieux, pour toute la création, à savoir: «quand les hommes aiment Dieu, lui-même fait tout contribuer à leur bien » (Rm 8, 28); «Il redresse» tout, serait la traduction littérale.

Je voudrais aujourd’hui partager avec vous certains traits caractéristiques de cette espérance; des traits que nous – prêtres, séminaristes, personnes consacrées – sommes appelés à vivre.

Tout d’abord, avant de nous inviter à l’espérance, Paul répète trois fois le mot “gémir”: la création gémit, les hommes gémissent, l’Esprit gémit en nous (cf. Rm 8, 22-23.26). On gémit en raison de l’esclavage de la corruption, en raison du désir de plénitude. Et aujourd’hui cela nous fera du bien de nous demander si ce gémissement est présent en nous, ou si au contraire rien ne crie plus dans notre chair, rien ne languit vers le Dieu vivant. Comme le disait votre évêque:“nous ne sentons plus la joie dans la prière, ni dans la vie communautaire”. Le brame de la biche assoiffée devant le manque d’eau devrait être nôtre dans la recherche de la profondeur, de la vérité, de la beauté de Dieu. Chers frères, ne soyons pas des“fonctionnaires de Dieu”. Peut-être la “société de bien-être” nous a-t-elle trop rassasiés, remplis de services et de biens, et nous nous retrouvons “alourdis” de tout mais remplis de rien; peut-être nous a-t-elle rendus étourdis ou dissipés, mais non pas remplis. Pire encore, parfois, nous ne sentons plus la faim. Nous sommes, hommes et femmes consacrés de manière spéciale, ceux qui ne peuvent jamais se permettre de perdre ce gémissement, cette inquiétude du cœur qui ne trouve de repos qu’en Dieu seul (cf. S. Augustin, Confessions, I,1,1). L’inquiétude du cœur. Aucune information immédiate, aucune communication virtuelle instantanée ne peut nous dispenser des moments concrets, prolongés pour établir – il s’agit bien de cela, d’un effort constant – pour établir un dialogue quotidien avec le Seigneur à travers la prière et l’adoration. Il s’agit d’entretenir notre désir de Dieu, comme l’écrivait saint Jean de la Croix. Il disait: « Efforcez-vous de vivre dans une oraison continuelle, sans l’abandonner au milieu des exercices corporels. Que vous mangiez, que vous buviez, que vous parliez, que vous traitiez avec les séculiers, ou que vous fassiez toutes sortes de choses, entretenez constamment en vous le désir de Dieu, élevez vers lui vos affections» (Avis à un religieux pour atteindre la perfection, 9).

Ce gémissement dérive aussi de la contemplation du monde des hommes, il est un appel à la plénitude face aux besoins insatisfaits de nos frères les plus pauvres, face au manque de sens de la vie des plus jeunes, à la solitude des personnes âgées, aux abus contre l’environnement. C’est un gémissement qui cherche à s’organiser pour influencer les événements d’une nation, d’une ville; non pas comme une pression ou l’exercice d’un pouvoir, mais comme un service. Le cri de notre peuple doit nous toucher, comme Moïse à qui Dieu a révélé la souffrance de son peuple dans la rencontre du buisson ardent (cf. Ex 3, 9). Ecouter la voix de Dieu dans la prière nous fait voir, nous fait entendre, connaître la souffrance des autres afin de pouvoir les libérer. Mais nous devons également être touchés quand notre peuple a cessé de gémir, a cessé de chercher l’eau qui étanche la soif. C’est un moment aussi pour discerner ce qui anesthésie la voix de nos gens.

Le cri qui nous fait chercher Dieu dans la prière et dans l’adoration est le même que celui qui nous fait entendre la plainte de nos frères. Ils “espèrent” en nous, et nous avons besoin, par un discernement attentif, de nous organiser, de programmer et d’être audacieux et créatifs dans notre apostolat. Que notre présence ne soit pas laissée à l’improvisation, mais qu’elle réponde aux besoins du peuple de Dieu et soit ainsi un ferment dans la masse (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 33).

Mais l’apôtre parle aussi de persévérance; persévérance dans la souffrance, persévérance dans le bien. Cela signifie être centré en Dieu, rester fermement enraciné en lui, être fidèle à son amour.

Vous, les plus âgés – comment ne pas mentionner Mgr Sigitas Tamkevicius – vous saurez témoigner de cette persévérance dans la souffrance, cet “espérer contre toute espérance” (cf. Rm 4, 18). La violence dont vous avez été l’objet pour avoir défendu la liberté civile et religieuse, la violence de la diffamation, la prison et la déportation n’ont pas pu vaincre votre foi en Jésus-Christ, Seigneur de l’histoire. C’est pourquoi vous avez beaucoup à nous dire et à nous apprendre, et aussi beaucoup à proposer, sans avoir à juger l’apparente faiblesse des plus jeunes. Et vous, les plus jeunes, quand, devant les petites frustrations qui vous découragent vous avez tendance à vous renfermer, à recourir à des attitudes d’évasion qui ne sont pas cohérentes avec votre consécration, recherchez vos racines et regardez la route parcourue par vos aînés. Je vois qu’il y a des jeunes ici. Je répète, parce qu’il y a des jeunes. Et vous, les plus jeunes, quand, devant les petites frustrations qui vous découragent, vous avez tendance à vous fermer sur vous-mêmes, à avoir des comportements et des fuites qui ne sont pas cohérentes avec votre vocation, cherchez vos racines et regardez le chemin parcouru par les aînés. Il vaut mieux que vous preniez une autre voie plutôt que de vivre dans la médiocrité. Cela, c’est pour les jeunes. Il est encore temps et la porte est ouverte. Ce sont les tribulations elles-mêmes qui dessinent les traits distinctifs de l’espérance chrétienne, car lorsqu’il s’agit seulement d’une espérance humaine nous pouvons être frustrés et écrasés par l’échec. Mais cela ne se produit pas avec l’espérance chrétienne: elle ressort d’autant plus limpide qu’elle est éprouvée au creuset des tribulations.

Il est vrai que les temps sont autres et que nous vivons dans d’autres structures, mais il est vrai aussi que ces conseils sont mieux assimilés quand ceux qui ont vécu ces dures expériences ne se ferment pas, mais les partagent à l’occasion des moments communs. Leurs histoires ne sont pas remplies de nostalgie des temps passés présentés comme meilleurs, ni d’accusations cachées contre ceux qui ont des structures affectives plus fragiles. La provision de persévérance d’une communauté de disciples est efficace quand elle sait intégrer – comme le scribe – le neuf à l’ancien (cf. Mt 13, 52), quand elle est consciente que l’histoire vécue est une racine pour que l’arbre puisse fleurir.

Enfin, regarder le Christ Jésus comme notre espérance signifie nous identifier à lui, participer en communauté à son destin. Pour l’apôtre Paul, le salut espéré ne se limite pas à un aspect négatif – libération d’une tribulation intérieure ou extérieure, temporelle ou eschatologique –, mais l’accent est mis sur quelque chose de très positif: la participation à la vie glorieuse du Christ (cf. 1Th 5, 9-10), la participation à son Règne glorieux (cf. 2Tm 4, 18), la rédemption du corps (cf. Rm 8, 23-24). Il s’agit donc d’entrevoir le mystère du projet unique et irremplaçable que Dieu a pour chacun. Pour chacun de nous. Car il n’y a personne qui nous connaisse, et qui nous ait connu autant en profondeur que Dieu; il nous a donc destinés à quelque chose qui paraît impossible, il parie sans possibilité de se tromper, que nous reproduirons l’image de son Fils. Il a placé ses attentes en nous, et nous, nous espérons en lui.

Nous: un “nous” qui intègre, mais aussi dépasse et excède le “je”; le Seigneur nous appelle, il nous justifie, et il nous glorifie ensemble, ensemble au point d’inclure toute la création. Souvent, nous avons tant mis l’accent sur la responsabilité personnelle que la dimension communautaire est devenue un arrière-plan, une simple décoration. Mais l’Esprit Saint nous réunit, il réconcilie nos différences et engendre de nouveaux dynamismes pour donner une impulsion à la mission de l’Eglise (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 131; 235).

Ce temple où nous sommes rassemblés, est sous le vocable des Saints Pierre et Paul. Les deux apôtres ont été conscients du trésor qui leur avait été donné; tous les deux, à des moments différents et selon des façons diverses ont été invités à “prendre le large” (cf. Lc 5, 4). Nous sommes tous sur la barque de l’Eglise, cherchant toujours à crier vers Dieu, à être persévérants au milieu des tribulations et à garder le Christ Jésus comme objet de notre espérance. Et cette barque reconnaît au centre de sa mission l’annonce de cette joie espérée, qui est la présence de Dieu au milieu de son peuple dans le Christ ressuscité, et qui un jour, attendu avec impatience par toute la création, se manifestera dans les enfants de Dieu. Voilà le défi qui nous pousse: la mission d’évangéliser. C’est la raison de notre espérance et de notre joie.

Combien de fois nous rencontrons des prêtres, des personnes consacrées tristes. La tristesse spirituelle est une maladie. Tristes parce qu’ils ne savent pas… Tristes parce qu’ils ne trouvent pas l’amour, parce qu’ils ne sont pas amoureux: amoureux du Seigneur. Ils ont laissé de côté une vie matrimoniale, de famille, et ils ont voulu suivre le Seigneur. Mais maintenant il semble qu’ils se sont fatigués… et la tristesse vient. S’il vous plait, quand vous vous trouvez tristes, arrêtez-vous. Et cherchez un prêtre sage, une sœur sage. Non pas sage parce qu’ils sont diplômés de l’université, non, pas pour ça. Sage parce qu’il ou elle a été capable de progresser dans l’amour. Allez demander conseil. Quand cette tristesse commence, on peut prophétiser que si elle n’est pas guérie à temps elle fera de vous des “vieux garçons” et des “vieilles filles”, des hommes et des femmes sans fécondité. Et ayez peur de cette tristesse. C’est le diable qui la sème.

Et aujourd’hui, cette mer sur laquelle il faut “prendre le large”, ce sont les situations et défis toujours nouveaux de cette Eglise en sortie. Nous devons nous demander de nouveau: qu’est-ce que le Seigneur nous demande ? Quelles sont les périphéries qui ont le plus besoin de notre présence pour leur porter la lumière de l’Evangile? (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 20).

Autrement, si vous vous n’avez pas la joie de la vocation, qui pourra croire que Jésus Christ est notre espérance? Seul notre exemple de vie rendra compte de notre espérance en lui.

Il y a une autre chose qui a rapport avec la tristesse: confondre la vocation avec une entreprise, comme une firme de travail. “Je m’engage à ça, je travaille dans ça, je m’enthousiasme pour ça…, et je suis heureux parce que j’ai ça”. Mais demain arrive un évêque, un autre ou le même, ou vient un autre supérieur, et qui te dit: “Non, arrête cela et va ailleurs”. C’est le moment de la déroute. Pourquoi? Parce qu’à ce moment tu te rendras compte que tu es allé sur une voie équivoque. Tu te rendras compte que le Seigneur, qui t’as appelé pour aimer, est déçu de toi, parce que tu as préféré faire l’affairiste. Je vous ai dit au début que la vie de celui qui suit Jésus n’est pas une vie de fonctionnaire.: c’est la vie de l’amour du Seigneur et du zèle apostolique pour le peuple. Je vais faire une caricature: que fait un prêtre fonctionnaire? Il a son horaire, son bureau, il ouvre le bureau à telle heure, il fait son travail, il ferme le bureau… Et les gens sont dehors. Il ne s’approche pas des gens. Chers frères et sœurs, si vous ne voulez pas être des fonctionnaires, je vous dirai un mot: proximité! Proximité. Proximité du tabernacle, du toi à toi avec le Seigneur. Et proximité avec les gens. “Mais père, les gens ne viennent pas…” Trouve quelque chose: l’oratoire, pour les suivre, pour les aider. Proximité avec les gens. Et proximité avec le Seigneur au Tabernacle. Le Seigneur vous veut pasteurs de son peuple, et non pas ecclésiastiques d’Etat. Je dirai quelque chose pour les sœurs, mais après…

Proximité veut dire miséricorde. Sur cette terre où Jésus s’est révélé comme Jésus miséricordieux, un prêtre ne peut pas ne pas être miséricordieux. Surtout au confessionnal. Pensez comment Jésus accueillerait telle personne [qui vient se confesser]. La vie l’a déjà bien frappé, ce pauvre homme! Fais-lui sentir l’embrassade du Père qui pardonne. Si tu ne peux pas lui donner l’absolution, par exemple, donne-lui la consolation du frère, du père. Encourage-le à progresser. Convainc-le que Dieu pardonne tout. Mais ça, avec la chaleur d’un père. Ne jamais chasser quelqu’un du confessionnal! Ne jamais renvoyer. “Vois, tu ne peux pas… Maintenant je ne peux pas, mais Dieu t’aime; prie, reviens et nous parlerons…” Comme ça. Proximité. C’est cela être père. Ça ne te fais rien, ce pécheur, de le chasser ainsi? Je ne suis pas en train de parler de vous, parce que je ne vous connais pas. Je parle d’une autre réalité. Et de miséricorde. Le confessionnal n’est pas le cabinet d’un psychiatre. Le confessionnal n’est pas fait pour creuser dans le cœur des gens.

Et c’est pourquoi, chers prêtres, proximité signifie pour vous aussi avoir des entrailles de miséricorde. Et les entrailles de miséricorde vous savez où on les prend? Là, au Tabernacle.

Et vous, chères sœurs… on voit souvent des sœurs qui sont bonnes – toutes les sœurs sont bonnes -, mais qui bavardent, bavardent, bavardent… Demandez à celle qui est au premier rang de l’autre côté – l’avant dernière – si dans la prison elle avait le temps de bavarder, pendant qu’elle cousait les gants. Demandez-lui. S’il vous plait, soyez des mères! Soyez des mères, parce que vous êtes l’image de l’Eglise et de la Vierge. Et que toute personne qui vous voit puisse voir la mère Eglise et la mère Marie. N’oubliez pas cela. Et la mère Eglise n’est pas une “vielle fille”. La mère Eglise ne bavarde pas: elle aime, elle sert, elle fait grandir. Votre proximité c’est d’être mère: image de l’Eglise et image de la Vierge.

Proximité du Tabernacle et de la prière. Cette soif de l’âme dont j’ai parlé, et avec les autres. Service sacerdotal et vie consacrée, non pas de fonctionnaires, mais de pères et de mères de miséricorde. Et si vous faites ainsi, vieux vous aurez un magnifique sourire et les yeux brillants! Parce que vous aurez l’âme pleine de tendresse, de douceur, de miséricorde, d’amour, de paternité et de maternité.

Et priez pour ce pauvre évêque. Merci!

[01436-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brothers and Sisters, good afternoon!

Before all else, I would like to say a word about what I am feeling. Looking out at you, I see many martyrs behind you. Anonymous martyrs, in the sense that we do not even know where they were buried. Also, one among you: I greeted one who knew what it meant to be in prison. A word comes to mind at the outset: do not forget, remember. You are the children of martyrs, that is your strength. And may the spirit of the world not tell you something different than what your forebears experienced. Remember your martyrs and follow their example: they were not afraid. Speaking with Bishops, your Bishops, today, they said: “What can we do to introduce the cause of beatification for the many for whom we have no documents, but we know that they are martyrs?” It is comforting, it is good to hear this: the concern for those who gave us their witness. They are saints.

The Bishop [Linas Vodopjanovas, OFM, in charge of consecrated life] spoke without any nuances – that’s how Franciscans speak: “Today, often, in various ways, our faith gets put to the test”, he said. He was not thinking of persecution by dictators, no. “After having answered the call of a vocation, we often no longer experience joy, neither in prayer nor in community life”.

The spirit of secularization, of boredom with everything concerning the community, is the temptation of the next generation. Our fathers and mothers struggled, suffered, were imprisoned and we perhaps do not have the strength to go forward. Take this into account!

The Letter to the Hebrews exhorts us: “Do not forget the former days. Do not forget your elders” (cf. 10:32-39). This is the plea that I wish to make to you at the outset.

My entire visit to your country has been summed up in one expression: “Jesus Christ, our hope”. Now, as this day draws to its close, we have heard a text of the apostle Paul that invites us to hope with perseverance. Paul tells us this after having proclaimed to us God’s dream for every human being, and indeed for all creation: “God makes all things work together for the good of those who love him” (Rom 8:28). He “straightens” all things: that would be the literal translation.

Today I would like to share with you some aspects of this hope: aspects that we – as priests, seminarians, consecrated men and women – are asked to embody in our lives.

First, before his invitation to hope, Paul repeats three times the word “groan”: creation groans, men and women groan, the Spirit groans within us (cf. Rom 8:22-23.26). This groaning comes from an enslavement of corruption, from a yearning for fulfilment. Today we would do well to ask if we ourselves groan inwardly, or whether our hearts are still, no longer yearning for the living God. As your Bishop was saying: “We no longer experience joy in prayer or in community life”.

Ours should be the longing of the deer for springs of water as we seek God’s mystery, his truth and his beauty. Dear friends, we are not “God’s bureaucrats”! Perhaps our “prosperous society” keeps us sated, surrounded by services and material objects; we end up “stuffed” with everything and filled by nothing. Perhaps it keeps us distracted and entertained, but not fulfilled. Even worse: sometimes we no longer feel hunger. As men and women of special consecration, we can never afford to lose that inward groaning, that restlessness of heart that finds its rest in the Lord alone (SAINT AUGUSTINE, Confessions, I,1.1). The restlessness of the heart. No instant news, no virtual communication can substitute for our need of concrete, prolonged and regular moments – calling for sustained effort – our need of daily dialogue with the Lord through prayer and adoration. We need to keep cultivating our desire for God, as Saint John of the Cross wrote. This is what he said: “Try to be continuous in prayer, and in the midst of bodily exercises, do not leave it. Whether you eat, drink, talk with others, or do anything, always go to God and attach your heart to him” (Counsels to a Religious on How to Attain Perfection, 9b).

This groaning can also come from our contemplation of the world around us, as a protest against the unsatisfied needs of our poorest brothers and sisters, before the absence of meaning in the lives of our young, the loneliness experienced by the elderly, the misuse of creation. It is a groaning that would mobilize efforts to shape events in our nation, in our cities, not by acting as a pressure group or in a bid for power, but in service to all. We too should be moved by the cry of our people, like Moses before the burning bush, when God spoke to him of the suffering of his people (cf. Ex 3:9). Listening to God’s voice in prayer makes us see, makes us hear and feel the pain of others, in order to set them free. Yet we should also be concerned when our people stop groaning, when they stop seeking water to quench their thirst. At those times, we need to discern what is silencing the voice of our people.

The cry that makes us turn to God in prayer and adoration is the same that makes us sensitive to the plea of our brothers and sisters. They put their “hope” in us, and they require us to discern carefully and then to organize, boldly and creatively, our apostolic outreach. May our presence not be haphazard but one that can genuinely respond to the needs of God’s people, and thus be leaven in the dough (cf. Evangelii Gaudium, 33).

The apostle also speaks of perseverance: constancy in suffering and in the pursuit of goodness. This calls for our being centred in God, firmly rooted in him and faithful to his love.

The older among you – and here how can I fail to mention Archbishop Sigitas Tamkevičius – know what it is to bear witness to this constancy in suffering, this “hoping against hope” (cf. Rom 4:18). The violence you endured for your defence of civil and religious freedom, the violence of slander, imprisonment and deportation, could not prevail over your faith in Jesus Christ, the Lord of history. You have much to tell us and teach us. Yet you also have much advice to give, without the need to pass judgement on the apparent limitations of the young. And you, the young, when you meet with little frustrations that can discourage you and make you want to turn in on yourselves, seeking activities and pastimes at odds with your consecration, go back to your roots and consider the path taken by your elders. I see that there are young people here. I am repeating this, because some are young. And you, younger ones, when faced with the little frustrations that discourage you, you tend to close in on yourselves, to resort to behaviour and escapism that is not consistent with your consecration. Seek out your roots and keep to the path that your elders walked. It is better to take a different path than that you live in mediocrity. That was for the young. You are still in time, and the door is still open. It is tribulation that brings out what is distinctive about Christian hope. For when our hope is merely human, we can become frustrated and end in failure. That does not happen with Christian hope: it is renewed and purified when tested by tribulation.

It is true that we are living in different times and situations, but it is also true that this advice proves most helpful when those who experienced those hardships do not keep them to themselves but share them with others. Their stories are simply expressions of nostalgia for times past, as if they were somehow better, or veiled criticisms of those who have a more fragile emotional makeup. A community of disciples can draw upon great resources of constancy if it can integrate – like the scribe in the Gospel – both new and old (cf. Mt 13:52), if it is conscious that historical experiences are the roots that enable the tree to grow and flourish.

Finally, looking to Jesus Christ as our hope means identifying ourselves with him, sharing as a community in his lot. For the apostle Paul, the salvation we await is not merely negative: freedom from some internal or external, historical or eschatological tribulation. Paul instead speaks of it as something supremely positive: our sharing in the glorious life of Christ (cf. 1 Thess 5:9-10), our sharing in his glorious kingdom (cf. 2 Tim 4:18), the redemption of our bodies (cf. Rom 8:23-24). Each of you should try to glimpse the mysterious and unique plan that God has for him or her, for each one of us. For no one can ever know us as profoundly as God does. He calls us to something apparently impossible; he gambles on us, trusting that we will reflect the image of his Son. He expects much of us, and we put our hope in him.

Us: That “us” includes, but also exceeds, each of us as an individual. The Lord calls us, justifies us and glorifies us together, and with us, he includes all creation. Often we so stress personal responsibility that our responsibility as a community ends up in the background, no more than a backdrop. But the Holy Spirit gathers us, reconciles our differences and generates new energies to advance the Church’s mission (cf. Evangelii Gaudium, 131, 235).

This Cathedral in which we are gathered is dedicated to Saints Peter and Paul. Both these apostles were conscious of the treasure they had received; both, at different moments and in different ways, had been asked to “put out into the deep water” (Lk 5:4). All of us are in the boat that is the Church. We too want constantly to cry out to God, to persevere amid tribulation and to hold fast to Jesus Christ as the object of our hope. And this boat sees it as central to her mission to proclaim the eagerly-awaited glory that is God present in the midst of his people in the risen Christ, a glory that one day, to fulfil the yearning of all creation, will be revealed in the children of God. This is the challenge that impels us: the mandate to evangelize. This is the basis of our hope and our joy.

How often we encounter priests, religious men and women, who are sad. Spiritual sadness is an illness. They are sad because they do not know… Sad because they do not find love, because they have not fallen in love with the Lord. They left aside a married life, family life, because they wanted to follow the Lord. But now they seem tired… And then sadness descends on them. Please, when you find yourselves sad, stop. And seek out a wise priest, a wise sister. Not wise because they have university degrees, no, not for that reason. Wise because they have been able to move forward in love. Go and ask for counsel. When that sadness starts, we can predict that if it is not cured in time, it will turn you into sad old spinsters and bachelors, men and women who are not fruitful. And of this sadness you should be afraid! It is the devil who sows this.

Today, the “deep water” into which we must “put out” is “the changing scenarios and ever new challenges” of this Church on the move. Yet we need to ask once more: What is it that the Lord is asking of us? Which are the peripheries that most need our presence so that we can bring them the light of the Gospel (cf. Evangelii Gaudium, 20)?

Otherwise, if you do not reflect the joy of a vocation, who will be able to believe that Jesus Christ is our hope? Only the example of our lives will show the reason for our hope in him.

There is something else linked to sadness: confusing a vocation with a business, with a company. “I am employed here, I work here, I am enthusiastic in this… and I am happy because I have this”. But tomorrow a bishop comes along, another one or the same one, or another superior, and says to you: “No, stop doing that and come this way”. It is the moment of defeat. Why? Because in that moment you will realize that you have gone down a dubious path. You will realize that the Lord, who called you for love, is disappointed by you, because you preferred to become a wheeler-dealer. At the outset I said to you that the life of one who follows Jesus is not that of a bureaucrat: it is a life of loving the Lord, and of apostolic zeal for his people. Let me give you a caricature: what does a priest bureaucrat do? He has his schedule, his office hours, he opens the office at that hour, does his work, closes the office… and the people are outside. He does not draw close to the people.

Dear Brothers and Sisters, if you do not wish to be bureaucrats, let me give you a word: closeness! Closeness, nearness. Closeness to the Tabernacle, a heart-to-heart with the Lord. And closeness to the people. “But, Father, the people do not come…”. Go out and find them! “But, the youth of today do not come…”. Make up something new: an oratory, for accompanying them, helping them. Closeness to the people. And closeness to the Lord in the Tabernacle. The Lord wants you to be pastors of his people, and not clerks of the state! Later I will say something to the sisters, but later…

Closeness means mercy. On this earth, where Jesus was revealed as the merciful Jesus, a priest cannot not be merciful. Especially in the confessional. Think of how Jesus would welcome this person [who comes to confession]. Life has already beaten him down, poor thing! Let them feel the embrace of the Father who forgives. If you cannot give them absolution, for example, give them the consolation of a brother, of a father. Encourage them to go on. Convince them that God forgives everything. But do this with a father’s warmth. Never chase someone from the confessional! Never chase them away. “Look, you can’t… I can’t right now, but God loves you, you pray, come back, and we’ll speak…”. Like that. Closeness. This is being a father. Is that sinner whom you are sending way not important to you? I am not speaking about you, because I do not know you. I am speaking about other situations. And mercy. The confessional is not a psychiatrist’s rooms. The confessional is not for digging into a person’s heart.

And for this reason, dear priests, closeness for you also means having mercy in your very being. And the being of mercy, do you know where you get this from? There, at the Tabernacle.

And you, dear sisters… Often we see good sisters – all sisters are good – but who gossip and gossip and gossip… Ask that one in the front row on the other side – the second last one – if in prison she had time for gossiping, while she was sowing gloves. Ask her. Please, be mothers! Be mothers, because you are the icon of the Church and of Our Lady. And every person who sees you, may they see Mother Church and Mother Mary. Do not forget this. And Mother Church is not an “old spinster”. Mother Church does not gossip: she loves, serves, helps others to grow. Your closeness is the way to be a mother: as icon of the Church and icon of Our Lady.

Closeness to the Tabernacle and prayer. That thirst of the soul which I spoke of, and with others. Priestly service and consecrated life not as bureaucrats, but as fathers and mothers of mercy. And if you do this, when you are elderly you will have a beautiful smile and shining eyes! Because you will have a soul full of tenderness, meekness, mercy, love, fatherhood and motherhood.

And pray for this poor bishop. Thank you!

[01436-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern, einen schönen Nachmittag!

Zuallererst möchte ich euch von einem Gefühl berichten, das ich empfinde. Wenn ich euch anschaue, sehe ich hinter euch viele Märtyrer stehen. Namenslose Märtyrer, da wir nicht einmal wissen, wo sie begraben sind. Auch einige von euch: Ich habe einen begrüßt, der das Gefängnis kennen lernen musste. Mir fallen diese Worte ein, um zu beginnen: Vergesst nicht, pflegt das Gedächtnis. Ihr seid Nachkommen der Märtyrer, das ist eure Stärke. Und der Geist der Welt soll euch nichts anderes einflüstern als das, was eure Vorfahren erlebt haben. Denkt an eure Märtyrer und nehmt sie euch zum Vorbild: sie hatten keine Angst. Als ich heute mit den Bischöfen, euren Bischöfen, gesprochen habe, sagten diese: „Wie kann man einen Seligsprechungsprozess für die vielen beginnen, von denen wir keine Unterlagen haben und doch wissen, dass sie Märtyrer sind?“ Das ist tröstlich und schön zu hören: die Sorge um die, welche uns ein Zeugnis gegeben haben. Es sind Heilige.

Der Bischof [Linas Vodopjanovas, OFM, Beauftragter für das gottgeweihte Leben] hat ohne Umschweife gesprochen – so reden die Franziskaner. Er hat gesagt: „Heute wird unser Glaube oft auf verschiedene Weise auf die Probe gestellt.“ Dabei dachte er nicht an die Verfolgungen durch Diktatoren, nein. „Nachdem wir auf unsere Berufung geantwortet haben, verspüren wir oft keine Freude mehr am Gebet noch am Gemeinschaftsleben.“

Der Geist der Verweltlichung, des Überdrusses hinsichtlich allem, was mit der Gemeinschaft zu tun hat, ist die Versuchung für die zweite Generation. Unsere Väter haben gekämpft, gelitten, wurden ins Gefängnis geworfen, und wir haben etwa keine Kraft mehr, um weiter zu machen? Daran solltet ihr denken!

Der Hebräerbrief ermahnt uns: „Erinnert euch an die früheren Tage. Erinnert euch an eure Vorfahren“ (vgl. 10,32-39). Diese Ermahnung richte ich zu Beginn an euch.

Der gesamte Besuch in eurem Land steht unter einem Motto: »Jesus Christus, unsere Hoffnung«. Nun, gegen Ende dieses Tages, begegnen wir einem Text des Apostels Paulus, der uns zur Beständigkeit in der Hoffnung einlädt. Und er spricht diese Einladung aus, nachdem er uns Gottes Plan für jeden Menschen, ja für die ganze Schöpfung verkündet: »Wir wissen aber, dass denen, die Gott lieben, alles zum Guten gereicht« (Röm 8,28); Gott „richtet alles gerade“ wäre die wörtliche Übersetzung.

Heute möchte ich mit euch einige charakteristische Aspekte dieser Hoffnung betrachten; Aspekte, die wir – Priester, Seminaristen Ordensleute – leben sollen.

Bevor Paulus uns zur Hoffnung einlädt, wiederholt er dreimal das Wort seufzen: die Schöpfung seufzt, die Menschen seufzen, der Geist seufzt in uns (vgl. Röm 8,22-23,26). Dieses Seufzen hat seinen Ursprung in der Versklavung durch die Sünde und in der Sehnsucht nach Erfüllung. Und so wird es gut sein, wenn wir uns heute einmal fragen, ob es dieses Seufzen in uns gibt oder ob im Gegenteil nichts mehr in uns schreit, sich nichts mehr sehnt nach dem lebendigen Gott. Wie euer Bischof gesagt hat: „Wir verspüren keine Freude mehr am Gebet, am Gemeinschaftsleben“. Wie der durstige Hirsch angesichts des knappen Wassers brüllt, so sollten auch wir uns bei der Suche nach der Tiefe, der Wahrheit und der Schönheit Gottes bemerkbar machen. Meine Lieben, wir sind nicht „Funktionäre Gottes“! Vielleicht hat uns die „Wohlstandsgesellschaft“ übersatt gemacht, überhäuft mit Dienstleistungen und Gütern, und wir sind am Ende „vollgestopft“ mit allem, mit allen Nichtigkeiten; vielleicht sind wir betäubt oder zügellos, aber nicht erfüllt. Noch schlimmer: Manchmal spüren wir gar keinen Hunger mehr. Wir Männer und Frauen mit einer besonderen Weihe dürfen niemals zulassen, dieses Seufzen, diese Unruhe des Herzens zu verlieren, die nur im Herrn zur Ruhe kommt (vgl. Augustinus, Bekenntnisse, I,1,1). Die Unruhe des Herzens. Keine brandaktuelle Information, keine flüchtige virtuelle Kommunikation kann die konkreten längeren Zeiten ersetzen, um das tägliche Zwiegespräch mit dem Herrn im Gebet und in der Anbetung zu erringen – denn das ist es, eine kontinuierliche Anstrengung. Es geht darum, unsere Sehnsucht nach Gott zu pflegen, wie der heilige Johannes vom Kreuz einmal schrieb: »Darum bemühe dich, ständig im Gebet zu verweilen; und auch inmitten von körperlichen Betätigungen lass nicht davon ab. Ob du isst oder trinkst, ob du mit Weltleuten oder mit irgendetwas anderem zu tun hast, bewahre in deinem Herzen immer dabei ein Verlangen nach Gott, eine Hinneigung zu ihm in deinem Herzen« (Weisungen an einen Ordensgeistlichen zur Erlangung der Vollkommenheit, 9).

Dieses Seufzen kommt auch aus der Betrachtung der Welt, in der wir leben, es ist ein Hilferuf nach Fülle angesichts der Nöte unserer ärmsten Brüder und Schwestern, angesichts der Sinnlosigkeit im Leben der Jugend, der Einsamkeit der Alten, des Missbrauchs der Schöpfung. Es ist ein Seufzen, das nach einem gemeinsamen Vorgehen verlangt, um die Ereignisse einer Nation, einer Stadt zu beeinflussen; nicht in Form von Druck oder Machtausübung, sondern als Dienst. Wir müssen vom Schrei unseres Volkes getroffen werden, wie Mose, dem Gott bei der Begegnung am brennenden Dornbusch das Leiden seines Volkes offenbarte (vgl. Ex 3,9). Das Hören auf die Stimme Gottes im Gebet lässt uns den Schmerz der anderen sehen, lässt uns hören und erkennen, damit wir sie davon befreien können. Aber ebenso muss es uns erschüttern, wenn unser Volk aufgehört hat zu seufzen und jenes Wasser zu suchen, das seinen Durst stillt. Dies ist auch der Moment dafür, zu erkennen, was die Stimme unseres Volkes verstummen lässt.

Der Schrei, der uns Gott im Gebet und in der Anbetung suchen lässt, ist derselbe Schrei, der uns die Klage unserer Brüder und Schwestern hören lässt. Sie „hoffen“ auf uns, und wir müssen uns, ausgehend von einer sorgfältigen Unterscheidung, organisieren, wir müssen planen und in unserem Apostolat mutig und kreativ sein. Unser Wirken darf nicht der Improvisation überlassen bleiben, sondern muss auf die Bedürfnisse des Volkes Gottes eingehen und so den Teig durchsäuern (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 33).

Aber der Apostel spricht auch von Beständigkeit; einer Standhaftigkeit im Leiden, einer Beständigkeit beim Ausharren im Guten. Das bedeutet, auf Gott ausgerichtet zu sein, fest in ihm verwurzelt zu bleiben, seiner Liebe treu zu sein.

Ihr, die Älteren – und wie kann Erzbischof Sigitas Tamkevičius hier unerwähnt bleiben – werden diese Beständigkeit im Leiden, dieses „Hoffen gegen jede Hoffnung“ (vgl. Röm 4,18) bezeugen können. Weder Gewalt, die gegen euch aufgrund eurer Verteidigung der bürgerlichen und religiösen Freiheit ausgeübt wurde, noch Verletzung durch Verleumdung, weder Gefangenschaft noch Deportation konnten euren Glauben an Jesus Christus, den Herrn der Geschichte, zerstören. Deshalb habt ihr uns viel zu sagen und beizubringen und auch etliche Vorschläge zu machen, ohne dass man dabei die scheinbare Schwäche der Jugend verurteilen muss. Und ihr Jüngeren, wenn ihr aufgrund von kleinen entmutigenden Enttäuschungen dazu neigt, euch in euch selbst zurückzuziehen und in Verhaltensweisen und Ablenkungen zu flüchten, die nicht eurem geweihten Leben entsprechen, dann sucht nach euren Wurzeln und schaut auf den Weg, den die Älteren gegangen sind. Ich sehe, dass junge Menschen hier sind. Ich wiederhole, weil Jüngere da sind. Und ihr Jüngeren, wenn ihr aufgrund von kleinen entmutigenden Enttäuschungen dazu neigt, euch in euch selbst zurückzuziehen und in Verhaltensweisen und Ablenkungen zu flüchten, die nicht eurem geweihten Leben entsprechen, dann sucht nach euren Wurzeln und schaut auf den Weg, den die Älteren gegangen sind. Es ist besser, einen anderen Weg zu wählen, als in der Mittelmäßigkeit zu leben. Das für die Jüngeren. Ihr seid noch rechtzeitig daran, und die Türe steht offen. Es sind gerade die Prüfungen, die die Besonderheit der christlichen Hoffnung hervortreten lassen, denn wenn es nur eine menschliche Hoffnung ist, werden wir frustriert und im Scheitern erdrückt werden. Mit der christlichen Hoffnung passiert das nicht, sie kommt klarer, geläuterter aus dem Schmelztiegel der Drangsal hervor.

Es stimmt, dass dies heute andere Zeiten sind und wir in anderen Strukturen leben; aber es ist auch wahr, dass solche Ratschläge besser aufgenommen werden, wenn diejenigen, die diese harten Erfahrungen gemacht haben, sich nicht verschließen, sondern anlässlich gemeinsamer Treffen davon erzählen. Ihre Geschichten sind nicht voller Nostalgie für vergangene Zeiten, die als besser dargestellt werden, noch gespickt mit verdeckten Vorwürfen gegen diejenigen, die zerbrechlichere emotionale Strukturen haben. Die Beständigkeit einer Jüngergemeinschaft schöpft aus einem sicheren Vorrat, wenn sie – wie jener Schriftgelehrte – Neues und Altes zu verbinden weiß (vgl. Mt 13,52), wenn sie sich bewusst ist, dass die gelebte Geschichte die Wurzel des Baumes ist, die er zum Gedeihen braucht.

Schließlich bedeutet der Blick auf Jesus Christus als unsere Hoffnung, dass wir uns mit ihm identifizieren und an seinem Schicksal als Gemeinschaft teilhaben. Für den Apostel Paulus beschränkt sich das erwartete Heil nicht auf einen negativen Aspekt – Befreiung von innerer oder äußerer, zeitlicher oder eschatologischer Bedrängnis –, sondern es geht dabei um etwas äußerst Positives: die Anteilnahme am verherrlichten Leben Christi (vgl. 1Thess 5,9-10), die Teilnahme an seinem himmlischen Reich (vgl. 2Tim 4,18), die Erlösung des Leibes (vgl. Röm 8,23-24). Es geht also darum, das Geheimnis des einzigartigen und unwiederholbaren Plans zu ergründen, den Gott für jeden, einen jeden von uns, hegt. Weil es niemanden gibt, der uns so gut kennt und uns so tief erkannt hat wie Gott, hat er uns zu etwas bestimmt, das unmöglich erscheint; er setzt unfehlbar darauf, dass wir Abbilder seines Sohnes werden. Er hat seine Erwartungen an uns und wir hoffen auf ihn.

Wir: Ein „Wir“, das das „Ich“ integriert und es zugleich aber auch übersteigt und über es hinausgeht; der Herr ruft, rechtfertigt und verherrlicht uns gemeinsam, und das geht so weit, dass er die ganze Schöpfung miteinschließt. Oft haben wir unsere Aufmerksamkeit so auf die persönliche Verantwortung gelenkt, dass die Gemeinschaft schließlich nur noch zur Hintergrundkulisse, zu einer Dekoration geworden ist. Aber der Heilige Geist versammelt uns, versöhnt unsere Unterschiede und erzeugt neue Dynamiken, um die Sendung der Kirche zu beleben (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 131; 235).

Dieses Gotteshaus, in dem wir versammelt sind, ist den Heiligen Petrus und Paulus geweiht. Beide Apostel waren sich des ihnen geschenkten Schatzes bewusst; beide waren eingeladen – zu verschiedenen Momenten und auf unterschiedliche Weise –, „auf den See hinauszufahren“ (vgl. Lk 5,4). Im Boot der Kirche befinden wir uns alle und versuchen fortwährend zu Gott zu schreien, inmitten der Bedrängnis beständig zu sein und an Jesus Christus als Gegenstand unserer Hoffnung festzuhalten. Und dieses Boot hat als seine zentrale Aufgabe die Verkündigung einer erhofften Herrlichkeit. Diese besteht in der Gegenwart Gottes inmitten seines Volkes im auferstandenen Christus, die eines Tages, von der ganzen Schöpfung ersehnt, an den Kindern Gottes offenbar wird. Das ist die Herausforderung, die uns drängt: der Auftrag, das Evangelium zu verkünden. Das ist der Grund unserer Hoffnung und unserer Freude.

Wie oft begegnen wir traurigen Priestern oder traurigen gottgeweihten Männern und Frauen. Die geistliche Traurigkeit ist eine Krankheit. Sie sind traurig, weil sie nicht wissen … Traurig, weil sie nicht die Liebe finden, weil sie nicht verliebt sind: verliebt ihn den Herrn. Sie haben auf ein Ehe- und Familienleben verzichtet und wollten dem Herrn nachfolgen. Aber nun scheint es, dass sie es leid geworden sind … Und da steigt Traurigkeit auf. Ich bitte euch, wenn ihr euch traurig fühlt, haltet ein. Sucht nach einem weisen Priester, einer weisen Ordensfrau. Nicht weise, weil sie einen Universitätsabschluss haben, nein, nicht deshalb. Weise, weil er oder sie fähig waren, in der Liebe weiterzugehen. Geht zu ihnen und bittet um Rat. Wenn diese Traurigkeit aufkommt, kann man voraussagen, dass, wer nicht rechtzeitig davon geheilt wird, zu einem eingefleischtem „Junggesellen“ oder einer alten „Jungfer“ wird, Männer und Frauen, die keine Frucht bringen. Und vor solch einer Traurigkeit müsst ihr euch fürchten! Sie wird vom Teufel gesät.

Das Meer, auf das wir hinausfahren sollen, sind heute die immer neuen Situationen und Herausforderungen dieser Kirche im Aufbruch. Wir müssen uns erneut fragen: Was verlangt der Herr von uns, und welche sind die Randgebiete, die unsere Präsenz am meisten brauchen, damit wir ihnen das Licht des Evangeliums bringen? (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 20).

Denn wenn ihr keine Freude an der Berufung habt, wer kann uns dann glauben, dass Jesus Christus unsere Hoffnung ist? Nur an unserem gelebten Beispiel wird der Grund unserer Hoffnung auf ihn sichtbar.

Dann gibt es noch einen weiteren Punkt in Verbindung mit der Traurigkeit: die Verwechslung von Berufung mit einem Unternehmen, einem Arbeitsbetrieb. „Ich kümmere mich um das, arbeite für das, begeistere mich für das … und bin glücklich, weil ich das mache.“ Aber morgen kommt ein Bischof, ein neuer oder derselbe, oder es kommt ein anderer Oberer oder eine neue Oberin und sagt dir: „Nein, lass das sein und geh dort hin“. Das ist ein Moment der Niederlage. Warum? Weil du in diesem Moment erkennst, das du dich auf einen fragwürdigen Weg begeben hast. Du erkennst, dass der Herr, der dich berufen hat, um zu lieben, von dir enttäuscht ist, weil du lieber den Geschäftsmann, die Geschäftsfrau gespielt hast. Zu Beginn habe ich euch gesagt, dass das Leben in der Nachfolge Jesu nicht das Leben eines Funktionärs oder einer Funktionärin ist: es ist das Leben der Liebe zum Herrn und des apostolischen Eifers für die Menschen. Ich karikiere: Was macht ein Funktionärspriester? Er hat feste Arbeitszeiten, sein Büro, er öffnet sein Büro zur vorgesehenen Zeit, erledigt seine Arbeit, schließt das Büro … und die Menschen bleiben draußen. Er geht nicht auf die Leute zu. Liebe Brüder und Schwestern, wenn ihr nicht zu Funktionären werden wollt, sage ich euch nur ein Wort: Nähe! Nähe, Unmittelbarkeit. Nähe zum Tabernakel, auf Du und Du mit dem Herrn. Und Nähe zu den Menschen. „Aber, Pater, die Leute kommen nicht …“ Geh du zu ihnen! „Aber die Kinder kommen heutzutage nicht …“ Erfinde etwas: einen Jugendtreff, um sie zu begleiten und ihnen zu helfen. Nähe zu den Menschen. Und Nähe zum Herrn im Tabernakel. Der Herr will, dass wir Hirten des Volkes sind und nicht Kleriker-Beamte! Nachher werde ich auch etwas zu den Schwestern sagen, aber erst nachher …

Nähe bedeutet Barmherzigkeit. In diesem Land, in dem sich Jesus als der Barmherzige Jesus geoffenbart hat, kann ein Priester nicht anders, als barmherzig zu sein. Vor allem im Beichtstuhl. Stellt euch vor, wie Jesus diese Person [die zur Beichte kommt] aufnehmen würde. Das Leben hat dem armen Kerl schon genügend hart mitgespielt! Lass ihn die Umarmung des vergebenden Vaters spüren. Wenn du ihm zum Beispiel nicht die Lossprechung erteilen kannst, dann gewähre ihm den Trost des Bruders, des Vaters. Ermutige ihn, weiter voranzuschreiten. Überzeuge ihn davon, dass Gott alles verzeiht. Aber all das mit der Güte eines Vaters. Nie darf man jemanden aus dem Beichtstuhl fortjagen! Nie fortjagen. „Schau, du kannst nicht … Ich kann jetzt nicht, aber Gott liebt dich, bete, komm wieder und wir reden darüber …“ So in der Art. Nähe. Das ist väterlich. Ist dir dieser Sünder gleichgültig, wenn du ihn so fortjagst? Ich spreche hier nicht von euch, denn ich kenne euch ja nicht. Ich spreche von anderen Situationen. Und Barmherzigkeit. Der Beichtstuhl ist nicht die Praxis eines Psychiaters. Der Beichtstuhl ist nicht dazu da, die Herzen der Leute auszuforschen.

Und deshalb, liebe Priester, bedeutet Nähe für euch auch, ein „inneres Organ“ der Barmherzigkeit zu besitzen. Und dieses „innere Organ“ der Barmherzigkeit, wisst ihr, woher es kommt? Von dort, vom Tabernakel.

Und ihr, liebe Schwestern … Oft findet man zwar gute Schwestern – alle Schwestern sind gut –, die jedoch klatschen und tratschen … Fragt die Schwester, die hier am ersten Platz auf der anderen Seite sitzt – die vorletzte –, ob sie im Gefängnis Zeit zum Klatsch hatte, während sie Handschuhe nähte. Fragt sie. Ich bitte euch, seid Mütter! Seid Mütter, weil ihr Abbilder der Kirche und der Muttergottes seid. Und jeder Mensch, der euch sieht, soll in euch die Mutter Kirche und die Mutter Maria sehen können. Vergesst das nicht. Die Mutter Kirche ist keine alte „Jungfer“. Die Mutter Kirche schwatzt nicht: sie liebt, sie dient, sie lässt wachsen. Eure Nähe besteht im Muttersein: als Bild der Kirche und Bild der Muttergottes.

Nähe zum Tabernakel und Gebet. Es geht um diesen Durst der Seele, von dem ich gesprochen habe, und um die Nähe zu den anderen. Priesterlicher Dienst und gottgeweihtes Leben nicht als Funktionäre, sondern als Väter und Mütter der Barmherzigkeit. Wenn ihr das so lebt, werdet ihr im Alter ein wunderschönes Lächeln und glänzende Augen haben! Weil eurer Herz voll von Zärtlichkeit, Milde, Barmherzigkeit, Liebe, Väterlichkeit und Mütterlichkeit ist.

Und betet für mich armen Bischof. Danke!

[01436-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas: buenas tardes.

Antes que nada, me gustaría manifestar una sensación que tengo. Mirándoos, veo muchos mártires detrás de vosotros. Mártires anónimos, en el sentido de que ni siquiera sabemos dónde fueron enterrados. También alguno entre vosotros: saludé a uno que sabía lo que era la cárcel. Me acuerdo de una palabra para comenzar: no lo olvidéis, tened memoria. Vosotros sois hijos de mártires, esta es vuestra fuerza. Y que el espíritu del mundo no venga a deciros algo diferente de lo que vivieron vuestros antepasados. Recordad a vuestros mártires y tomad ejemplo de ellos: no tenían miedo. Hablando con los obispos, vuestros obispos, decían hoy: “¿Cómo podemos hacer para presentar la causa de beatificación de tantos, de los que no tenemos documentos, pero sabemos que son mártires?”. Es un consuelo; es hermoso escuchar esto: la preocupación por aquellos que nos han dado testimonio. Ellos son santos.

El obispo [Linas Vodopjanovas, O.F.M., responsable para la vida consagrada] habló sin matices —los franciscanos hablan así—: “Hoy, en muchos sentidos, nuestra fe se pone a prueba”, dijo. Él no pensó en la persecución de los dictadores, no. “Después de responder a la llamada de la vocación, con frecuencia no sentimos más alegría en la oración o en la vida comunitaria”.

El espíritu de la secularización, del aburrimiento por todo lo que tiene relación con la comunidad es la tentación de la segunda generación. Nuestros padres lucharon, sufrieron, estuvieron en la cárcel y, quizás, nosotros no tenemos la fuerza para seguir adelante. Tened esto en cuenta.

La Carta a los Hebreos exhorta: “Recordad aquellos días primeros. No olvides a tus antepasados” (cf. 10,32-39). Esta es la exhortación que os dirijo al inicio.

Toda la visita a vuestro país ha estado enmarcada en una expresión: “Cristo Jesús, nuestra esperanza”. Ya casi al finalizar este día, nos encontramos con un texto del apóstol Pablo que nos invita a esperar con constancia. Y esta invitación la hace habiéndonos anunciado el sueño de Dios para todo ser humano, es más, para toda la creación: que «Dios dispone todas las cosas para el bien de quienes lo aman» (Rm 8,28); “endereza” todas las cosas, sería la traducción literal.

Hoy querría compartir con vosotros algunos rasgos de esa esperanza; rasgos que nosotros —sacerdotes, seminaristas, consagrados y consagradas— estamos invitados a vivir.

En primer lugar, antes de invitarnos a la esperanza, Pablo ha repetido tres veces la palabra “gemir”: gime la creación, gimen los hombres, gime el Espíritu en nosotros (cf. Rm 8,22-23.26). Se gime desde la esclavitud de la corrupción, desde el anhelo de plenitud. Y hoy nos hará bien preguntarnos si está presente en nosotros ese gemido, o por el contrario ya nada grita en nuestra carne, nada anhela al Dios vivo. Como decía vuestro obispo: “No sentimos más la alegría en la oración, en la vida comunitaria”. El bramido de la cierva sedienta ante la escasez de agua debería ser el nuestro, en la búsqueda de lo profundo, de lo verdadero, de lo bello de Dios. Queridos hermanos: ¡No somos “funcionarios de Dios”! Quizás la “sociedad del bienestar” nos tiene demasiado repletos, llenos de servicios y de bienes, y terminamos “empachados” de todo y llenos de nada; quizás nos tiene aturdidos o dispersos, pero no plenos. Peor aún: A veces no tenemos más hambre. Somos nosotros, hombres y mujeres de especial consagración, los que nunca nos podemos permitir perder ese gemido, esa inquietud del corazón que solo encuentra descanso en el Señor (cf. S. Agustín, Confesiones, I,1,1). La inquietud del corazón. Ninguna información inmediata, ninguna comunicación virtual instantánea nos puede privar de los tiempos concretos, prolongados, para conquistar —de eso se trata, de un esfuerzo sostenido—; para conquistar un diálogo cotidiano con el Señor por medio de la oración y la adoración. Se trata de cultivar nuestro deseo de Dios, como escribía san Juan de la Cruz. Decía así: «Procure ser continuo en la oración, y en medio de los ejercicios corporales no la deje. Sea que coma, beba, hable con otros, o haga cualquier cosa, siempre ande deseando a Dios y apegando a él su corazón» (Avisos a un religioso para alcanzar la perfección, 9).

Ese gemido también brota de la contemplación del mundo de los hombres, es un clamor de plenitud ante las necesidades insatisfechas de nuestros hermanos más pobres, ante la ausencia de sentido de la vida de los más jóvenes, la soledad de los ancianos, el atropello al mundo creado. Es un gemido que busca organizarse para incidir en el acontecer de una nación, de una ciudad; no como presión o ejercicio del poder, sino como servicio. A nosotros nos debe impactar el clamor de nuestro pueblo, como a Moisés, a quien Dios le reveló el sufrimiento de su pueblo en el encuentro junto a la zarza ardiente (cf. Ex 3,9). Escuchar la voz de Dios en la oración nos hace ver, nos hace oír, conocer el dolor de los demás para liberarlos. Pero también nos debe impactar cuando nuestro pueblo ha dejado de gemir, ha dejado de buscar el agua que sacia la sed. Es un momento también para discernir qué puede estar anestesiando la voz de nuestra gente.

El clamor que nos hace buscar a Dios en la oración y adoración es el mismo que nos hace auscultar el quejido de nuestros hermanos. Ellos “esperan” en nosotros y precisamos, desde un delicado discernimiento, organizarnos, planificar y ser audaces y creativos en nuestros apostolados. Que nuestra presencia no esté entregada a la improvisación, sino que responda a las necesidades del pueblo de Dios y sea así fermento en la masa (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 33).

Pero el apóstol también habla de constancia; constancia en el sufrimiento, constancia para perseverar en el bien. Esto supone estar centrados en Dios, permanecer firmemente arraigados en él, ser fieles a su amor.

Vosotros, los de mayor edad —cómo no mencionar a Mons. Sigitas Tamkevicius—sabéis testimoniar esta constancia en el sufrir, ese “esperar contra toda esperanza” (cf. Rm 4,18). La violencia ejercida sobre vosotros por defender la libertad civil y religiosa, la violencia de la difamación, la cárcel y la deportación no pudieron vencer vuestra fe en Jesucristo, Señor de la historia. Por eso, tenéis mucho que decirnos y enseñarnos, y también mucho que proponer, sin necesidad de juzgar la aparente debilidad de los más jóvenes. Y vosotros, los más jóvenes, cuando ante pequeñas frustraciones que os desalientan tendéis a encerraros en vosotros mismos, a recurrir a estilos y diversiones que no están acordes con vuestra consagración, buscad vuestras raíces y mirad el camino recorrido por los mayores. Veo que hay jóvenes aquí. Repito, porque hay jóvenes. Y vosotros, los más jóvenes, cuando ante las pequeñas frustraciones que os desalientan tendéis a cerraros en vosotros mismos, a recurrir a comportamientos y evasiones que no son coherentes con vuestra consagración, buscad vuestras raíces y mirad el camino recorrido por los mayores. Es mejor que toméis otro camino que vivir en la mediocridad. Esto para jóvenes. Todavía estáis a tiempo, y la puerta está abierta. Son precisamente las tribulaciones las que perfilan los rasgos distintivos de la esperanza cristiana, porque cuando es solo una esperanza humana podemos frustrarnos y aplastarnos en el fracaso. No sucede lo mismo con la esperanza cristiana, ella sale más nítida, más aquilatada tras pasar por el crisol de las tribulaciones.

Es cierto que estos son otros tiempos y vivimos en otras estructuras, pero también es cierto que esos consejos son mejor asimilados cuando los que han vivido esas experiencias duras no se encierran, sino que las comparten aprovechando los momentos comunes. Sus relatos no están llenos de añoranzas de tiempos pasados presentados como mejores, ni de acusaciones solapadas ante los que tienen estructuras afectivas más frágiles. La reserva de constancia de una comunidad discipular es eficaz cuando sabe integrar —como aquel escriba— lo nuevo y lo viejo (cf. Mt 13,52), cuando es consciente de que la historia vivida es raíz para que el árbol pueda florecer.

Por último, mirar a Cristo Jesús como nuestra esperanza significa identificarnos con él, participar comunitariamente de su suerte. Para el apóstol Pablo, la salvación esperada no se limita a un aspecto negativo —liberación de una tribulación interna o externa, temporal o escatológica— sino que el énfasis está puesto en algo altamente positivo: la participación en la vida gloriosa de Cristo (cf. 1 Ts 5,9-10), la participación en su Reino glorioso (cf. 2 Tm 4,18), la redención del cuerpo (cf. Rm 8,23-24). Entonces, se trata de entrever el misterio del proyecto único e irrepetible que Dios tiene para cada uno, para cada uno. Porque no hay nadie que nos conozca ni nos haya conocido con tanta profundidad como Dios, por eso él nos destina a algo que parece imposible, apuesta sin posibilidad a equivocarse a que reproduzcamos la imagen de su Hijo. Él ha puesto sus expectativas en nosotros, y nosotros esperamos en él.

Nosotros, un “nosotros” que integra, pero también supera y excede el “yo”; el Señor nos llama, nos justifica y nos glorifica juntos, tan juntos que incluye a toda la creación. Muchas veces hemos puesto tanto énfasis en la responsabilidad personal que lo comunitario pasó a ser un telón de fondo, solo un ornamento. Pero el Espíritu Santo nos reúne, reconcilia nuestras diferencias y genera nuevos dinamismos para impulsar la misión de la Iglesia (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).

Este templo en el que nos reunimos, está dedicado a San Pedro y San Pablo. Ambos apóstoles fueron conscientes del tesoro que se les había dado; ambos, en momentos y en circunstancias diferentes, fueron invitados a «ir mar adentro» (Lc 5,4). En la barca de la Iglesia estamos todos, intentando siempre clamar a Dios, ser constantes en medio de las tribulaciones y tener a Cristo Jesús como el objeto de nuestra esperanza. Y esta barca reconoce en el centro de su misión el anuncio de esa gloria esperada, que es la presencia de Dios en medio de su pueblo, en Cristo Resucitado, y que un día, anhelado por toda la creación, se manifestará en los hijos de Dios. Este es el desafío que nos urge: el mandato a evangelizar. Es la razón de ser de nuestra esperanza y de nuestra alegría.

Cuantas veces encontramos sacerdotes, consagrados y consagradas, tristes. La tristeza espiritual es una enfermedad. Triste porque no saben... Triste porque no encuentran el amor, porque no están enamorados: enamorados del Señor. Dejaron atrás una vida de matrimonio, de familia, y querían seguir al Señor. Pero ahora parece que están cansados... Y la tristeza va calando. Por favor, cuando os sintáis tristes, deteneos. Y buscad un sacerdote sabio, una monja sabia. No son sabios porque tienen un título universitario, no, no por eso. Sabio o sabia porque han sido capaces de avanzar en el amor. Id y pedid consejo. Cuando inicia esa tristeza, podemos profetizar que si no se cura a tiempo, os hará “solterones” y “solteronas”, hombres y mujeres que no son fecundos. ¡Tened miedo a esta tristeza! El diablo siembra.

Y hoy ese mar, en el que “se adentrarán”, serán “los escenarios y los desafíos siempre nuevos” de esta Iglesia en salida. Es necesario volver a preguntarnos: ¿qué nos pide el Señor? ¿Cuáles son las periferias que más necesitan de nuestra presencia para llevarles la luz del Evangelio? (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Si no, si no tenéis la alegría de la vocación, ¿quién podrá creer que Cristo Jesús es nuestra esperanza? Solo nuestro ejemplo de vida dará razón de nuestra esperanza en él.

Hay algo más que tiene relación con la tristeza: confundir la vocación con una empresa, con una empresa de trabajo. “Yo me dedico a esto, trabajo en esto, tengo entusiasmo con esto... y estoy feliz porque tengo esto”. Pero mañana, viene un obispo, otro o el mismo, o viene otro superior, superiora, y te dice: “No, deja esto y ves a otra parte”. Es el momento de la derrota. ¿Por qué? Porque, en ese momento, caerás en la cuenta de que has tomado un camino equivocado. Te darás cuenta de que el Señor, que te ha llamado a amar, está desilusionado contigo, porque has preferido hacer negocios. Al principio os dije que la vida de los que siguen a Jesús no es la vida de un funcionario o funcionaria: es la vida del amor del Señor y del celo apostólico por la gente. Haré una caricatura: ¿Qué hace un sacerdote funcionario? Él tiene su tiempo, su oficina, abre la oficina a una hora, hace su trabajo, cierra la oficina... Y la gente está afuera. Él no se acerca a la gente. Queridos hermanos y hermanas: Si no queréis ser funcionarios, os diré una palabra: cercanía. Proximidad, cercanía. Cercanía al Sagrario, cara a cara con el Señor. Y cercanía a las personas. “Pero, padre, la gente no viene...”. ¡Id a buscarla! “Pero, los jóvenes hoy no vienen...”. Inventa algo: el oratorio, para seguirlos, para ayudarlos. Cercanía a las personas y cercanía con el Señor en el Sagrario. El Señor os quiere pastores del pueblo, y no clérigos del estado. Después diré algo a las hermanas, pero después…

Cercanía significa misericordia. En esta tierra donde Jesús se reveló a sí mismo como Jesús misericordioso, un sacerdote tiene que ser misericordioso. Sobre todo en el confesionario. Pensad en cómo Jesús daría la bienvenida a esta persona [que se confiesa]. ¡A ese pobre hombre, ya lo ha golpeado bastante la vida! Hazle sentir el abrazo del Padre que perdona. Si no puedes darle la absolución, por ejemplo, dale el consuelo de hermano, de padre. Anímalo a seguir adelante. Convéncelo de que Dios perdona todo. Pero esto con la calidez de un padre. ¡Nunca eches a nadie del confesionario! Nunca eches a nadie. “Mira, no puedes... Ahora no puedo, pero Dios te ama, reza, vuelve y hablaremos...”. Así, cercanía. Esto es ser padre ¿No te importa ese pecador que lo echas así? No estoy hablando de vosotros, porque no os conozco. Hablo de otras realidades. Y misericordia. El confesionario no es el estudio de un psiquiatra. El confesionario no es para hurgar en los corazones de las personas.

Y por esto, queridos sacerdotes, la cercanía para vosotros también significa tener entrañas de misericordia. Y las entrañas de misericordia, ¿sabéis dónde se adquieren? Allí, en el Sagrario.

Y ustedes, queridas hermanas: Muchas veces vemos hermanas que son buenas —todas las monjas son buenas—, pero hablan, chismorrean... Preguntadle a la que está en el primer puesto en el otro lado —la penúltima—, si en la cárcel tenía tiempo para comentarios mientras cosía guantes. Preguntadle. Por favor, ¡sed madres! Sed madres, porque son un ícono de la Iglesia y de la Virgen. Y que cada persona que os vea pueda ver a la Madre Iglesia y a la Madre María. No olvidéis esto. Y la Madre Iglesia no es una “solterona”. La Madre Iglesia no chismorrea: ama, sirve, hace crecer. Vuestra cercanía es ser madre: un ícono de la Iglesia y un ícono de la Virgen.

Cercanía al Sagrario y a la oración. Esa sed del alma de la que hablé, y con los demás. Servicio sacerdotal y vida consagrada no de funcionarios, sino de padres y madres de misericordia. Y si hacéis así, cuando seáis ancianos, tendréis una sonrisa hermosa y ojos brillantes. Porque tendréis el alma llena de ternura, de mansedumbre, de misericordia, de amor, de paternidad y maternidad.

Y rezad por este pobre obispo. Gracias.

[01436-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Amados irmãos e irmãs, boa tarde!

Antes de mais nada, gostaria de expressar um sentimento que me vai na alma. Ao contemplar-vos, vejo atrás de vós tantos mártires. Mártires anónimos, não sabendo nós sequer onde foram sepultados. Inclusive alguns de vós: saudei um, que soube o que era a prisão. Para começar, vem-me à mente uma palavra: não vos esqueçais, fazei memória. Sois filhos de mártires: esta é a vossa força. E que o espírito do mundo não vos venha dizer outra coisa diferente da que viveram os vossos antepassados. Recordai os vossos mártires e imitai o seu exemplo: não tinham medo. Hoje, ao falar com os Bispos – os vossos Bispos –, eles diziam: «Como se pode fazer para introduzir a Causa de Beatificação de muitos que nem documentos temos, mas sabemos que são mártires?» É consolador, é bom ouvir isto: a preocupação com aqueles que nos deram testemunho. São santos.

O Bispo [Linas Vodopjanovas OFM, encarregado da vida consagrada] disse sem meias palavras (os franciscanos falam assim): «Muitas vezes hoje, de várias maneiras, é colocada à prova a nossa fé – afirmou ele; e não estava a pensar nas perseguições dos ditadores –. Depois de corresponder à chamada da vocação, muitas vezes já não sentimos alegria na oração nem na vida comunitária».

O espírito da secularização, do tédio por tudo o que diz respeito à comunidade é a tentação da segunda geração. Os nossos pais lutaram, sofreram, estiveram encarcerados… e nós talvez não tenhamos a força de continuar. Tende isto em conta!

A Carta aos Hebreus faz uma exortação: «Não vos esqueçais dos primeiros dias. Não vos esqueçais dos vossos antepassados» (cf. 10, 32-39). Esta é a exortação que vos dirijo ao começar.

Toda a visita ao vosso país decorreu sob este lema: «Jesus Cristo, nossa esperança». Já quase no final deste dia, encontramos um texto do apóstolo Paulo que nos convida a esperar com constância. E faz este convite depois de nos ter anunciado o sonho de Deus para cada ser humano, mais ainda, para toda a criação: «tudo contribui para o bem daqueles que amam a Deus» (Rm 8, 28); a tradução literal seria «endireita» todas as coisas.

Hoje gostaria de partilhar convosco alguns traços caraterísticos desta esperança; traços que nós – sacerdotes, seminaristas, consagrados e consagradas – somos chamados a viver.

Antes de nos convidar à esperança, Paulo repetiu três vezes a palavra «gemer»: geme a criação, gemem os homens, geme o Espírito em nós (cf. Rm 8, 22-23.26). Geme-se pela escravidão da corrupção, pelo anseio à plenitude. Hoje, far-nos-á bem perguntar se aquele gemido está presente em nós ou se, pelo contrário, já nada grita na nossa carne, nada anela pelo Deus vivo. Como dizia o vosso Bispo: «Já não sentimos alegria na oração, na vida comunitária». O gemido da corça sequiosa por falta de água deveria ser o nosso na busca da profundidade, da verdade, da beleza de Deus. Meus amigos, não somos «funcionários de Deus»! Talvez a «sociedade do bem-estar» nos tenha deixado demasiadamente saciados, cheios de serviços e de bens, e encontramo-nos «pesados» de tudo e cheios de nada; talvez nos tenha deixado aturdidos ou dissipados, mas não cheios. Pior ainda, às vezes já nem sentimos fome. Somos nós, homens e mulheres de especial consagração, aqueles que não podem jamais permitir-se a perda daquele gemido, daquela inquietude do coração que só no Senhor encontra repouso (cf. Santo Agostinho, Confissões, I, 1,1). A inquietude do coração. Nenhuma informação imediata, nenhuma comunicação virtual instantânea pode privar-nos dos tempos concretos, prolongados, para conquistar – é precisamente disto que se trata: de um esforço constante – para conquistar um diálogo diário com o Senhor através da oração e da adoração. Trata-se de cultivar o nosso desejo de Deus, como escrevia São João da Cruz. Dizia assim: «Sê assíduo na oração, sem a deixares sequer no meio das ocupações exteriores. Quer comas ou bebas, quer fales ou trates com os seculares quer faças qualquer outra coisa, deseja sempre a Deus mantendo n’Ele o afeto do coração» (Conselhos para alcançar a perfeição, 9).

Este gemido deriva também da contemplação do mundo dos homens, sendo um apelo à plenitude face às necessidades insatisfeitas dos nossos irmãos mais pobres, perante a falta de sentido da vida dos mais novos, a solidão dos idosos, os abusos contra o meio ambiente. É um gemido que procura organizar-se para influenciar os acontecimentos duma nação, duma cidade; não como pressão ou exercício de poder, mas como serviço. O grito do nosso povo deve-nos importunar como a Moisés, a quem Deus revelou o sofrimento do seu povo no encontro junto da sarça ardente (cf. Ex 3, 9). Escutar a voz de Deus na oração faz-nos ver, faz-nos ouvir, conhecer o sofrimento dos outros para os podermos libertar. Mas de igual modo devemos sentir-nos importunados quando o nosso povo deixou de gemer, deixou de procurar a água que mata a sede. É hora também para discernir o que está a anestesiar a voz do nosso povo.

O clamor que nos faz procurar a Deus na oração e na adoração é o mesmo que nos faz escutar o lamento dos nossos irmãos. Eles «esperam» em nós e, a partir dum discernimento atento, precisamos de nos organizar, programar e ser ousados e criativos no nosso apostolado. Que a nossa presença não seja deixada à improvisação, mas dê resposta às necessidades do povo de Deus e seja, assim fermento na massa (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 33).

Mas o Apóstolo fala também de constância; constância no sofrimento, constância em perseverar no bem. Isto significa estar centrados em Deus, permanecendo firmemente enraizados n’Ele, ser fiéis ao seu amor.

Vós, os mais idosos (como não mencionar Mons. Sigitas Tamkevicius?), sabereis testemunhar esta constância no sofrimento, este «esperar contra toda a esperança» (cf. Rm 4, 18). A violência usada contra vós por ter defendido a liberdade civil e religiosa, a violência da difamação, o cárcere e a deportação não puderam vencer a vossa fé em Jesus Cristo, Senhor da história. Por isso, tendes tanto a dizer-nos e ensinar-nos, e muito também a propor, sem precisar de julgar a aparente fraqueza dos mais jovens. E vós, mais jovens, quando vos vedes confrontados com as pequenas frustrações que vos desanimam e tendeis a fechar-vos em vós mesmos, recorrendo a comportamentos e evasões que não são coerentes com a vossa consagração, procurai as vossas raízes e olhai o caminho percorrido pelos idosos. Vejo que há jovens aqui. Repito, porque há jovens. E vós, mais jovens, quando vos vedes confrontados com as pequenas frustrações que vos desanimam e tendeis a fechar-vos em vós mesmos, recorrendo a comportamentos e evasões que não são coerentes com a vossa consagração, procurai as vossas raízes e olhai o caminho percorrido pelos idosos. É melhor seguirdes outro caminho do que viverdes na mediocridade. Isto para os jovens. Estais ainda a tempo, e a porta está aberta. São precisamente as tribulações que delineiam os traços distintivos da esperança cristã, porque, quando é apenas uma esperança humana, podemos sentir-nos frustrados e esmagados com o fracasso; mas não acontece o mesmo com a esperança cristã: esta sai mais límpida, mais experimentada do crisol das tribulações.

É verdade que estes são outros tempos e vivemos noutras estruturas, mas é verdade também que estes conselhos são melhor assimilados quando as pessoas que viveram aquelas duras experiências não se fecham, mas compartilham-nas aproveitando os momentos comuns. As suas histórias não aparecem cheias de saudade pelos tempos passados apresentados como melhores, nem de acusações dissimuladas contra aqueles que têm estruturas afetivas mais frágeis. A provisão de constância duma comunidade de discípulos é eficaz, quando sabe integrar – como o escriba – o novo e o velho (cf. Mt 13, 52), quando está ciente de que a história vivida é raiz para que a árvore possa florescer.

Por fim, olhar para Cristo Jesus como nossa esperança significa identificar-nos com Ele, participar comunitariamente no seu destino. Para o apóstolo Paulo, a salvação esperada não se limita a um aspeto negativo – libertação duma tribulação interna ou externa, temporal ou escatológica –, mas a ênfase está colocada em algo altamente positivo: a participação na vida gloriosa de Cristo (cf. 1 Ts 5, 9-10), a participação no seu Reino glorioso (cf. 2 Tm 4, 18), a redenção do corpo (cf. Rm 8, 23-24). Trata-se, portanto, de vislumbrar o mistério do projeto único e irrepetível que Deus tem para cada um, para cada um de nós. Pois não há ninguém que nos conheça e nos tenha conhecido tão profundamente como Deus; por isso Ele nos destinou para algo que parece impossível, aposta sem possibilidade de erro que reproduzamos a imagem de seu Filho. Ele colocou as suas expetativas em nós, e nós esperamos n’Ele.

Nós: um «nós» que integra, mas também supera e excede o «eu»; o Senhor chama-nos, justifica-nos e glorifica-nos juntos; e juntos, até ao ponto de incluir a criação inteira. Muitas vezes colocamos tanta ênfase na responsabilidade pessoal que a dimensão comunitária se tornou um pano de fundo, apenas um ornamento. Mas o Espírito Santo reúne-nos, reconcilia as nossas diferenças e gera novos dinamismos para dar impulso à missão da Igreja (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).

Este templo, onde estamos reunidos, é dedicado a São Pedro e São Paulo. Ambos os apóstolos estavam cientes do tesouro que lhes fora dado; e, em momentos e de modos diferentes, ambos foram convidados a «fazer-se ao largo» (cf. Lc 5, 4). No barco da Igreja, estamos todos, sempre procurando clamar a Deus, ser constantes no meio das tribulações e ter Cristo Jesus como objeto da nossa esperança. E este barco reconhece no centro da sua missão o anúncio da glória esperada que é a presença de Deus no meio do seu povo, em Cristo ressuscitado, e que um dia, ansiosamente esperado por toda criação, se manifestará nos filhos de Deus. Este é o desafio que nos impele: o mandato de evangelizar. É a razão da nossa esperança e alegria.

Quantas vezes encontramos sacerdotes, consagrados e consagradas tristes. A tristeza espiritual é uma doença. Tristes, porque não sabem... Tristes, porque não encontram amor, porque não se sentem enamorados: enamorados do Senhor. Deixaram de lado uma vida de matrimónio, de família e quiseram seguir o Senhor. Mas agora parece que se cansaram... E surge a tristeza. Por favor, quando vos encontrardes tristes, parai. E procurai um padre sábio, uma irmã sábia. Não sábios, porque se doutoraram na universidade; não por isso! Sábio ou sábia, porque foram capazes de avançar no amor. Ide pedir-lhe conselho. Quando começa aquela tristeza, podemos profetizar que ela, se não for curada a tempo, fará de vós «solteirões» e «solteironas», homens e mulheres que não são fecundos. E, desta tristeza, tende medo! É o diabo que a semeia.

E hoje aquele mar, onde «fazer-se ao largo», hão de ser «os cenários e os desafios sempre novos» desta Igreja em saída. Devemos interrogar-nos novamente: Que nos pede o Senhor? Quais são as periferias que mais precisam da nossa presença, para lhes levar a luz do Evangelho? (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Caso contrário, se não tiverdes a alegria da vocação, quem poderá acreditar que Jesus Cristo é a nossa esperança? Só o nosso exemplo de vida dará razão da nossa esperança n’Ele.

Há outra coisa que está ligada com a tristeza: confundir a vocação com uma empresa, com uma fábrica. «Estou empregado nisto, trabalho nisto, entusiasmo-me com isto..., e sou feliz, porque tenho isto». Mas, amanhã, vem um Bispo (outro ou o mesmo), ou vem outro superior, superiora, e diz-te: «Não, deixa isto e vai para tal lugar». É o momento da derrota. Porquê? Porque naquele momento dar-te-ás conta de que seguiste um caminho equivocado. Descobrirás que o Senhor, que te chamou para amar, está dececionado contigo, porque preferiste fazer o empresário. No princípio, disse-vos que, a vida de quem segue Jesus, não é a vida de funcionário ou funcionária: é a vida do amor ao Senhor e do zelo apostólico pelas pessoas. Permiti-me uma caricatura! Que faz um padre funcionário? Tem o seu horário, o seu escritório, abre o escritório àquela hora, faz o seu trabalho, fecha o escritório... E as pessoas estão fora. Não se aproxima das pessoas. Queridos irmãos e irmãs, se não quiserdes ser funcionários, digo-vos uma palavra: proximidade! Vizinhança, proximidade. Proximidade do Sacrário, face a face com o Senhor. E proximidade das pessoas. «Mas, padre, as pessoas não vêm». Vai ao encontro delas! «Mas, hoje, os adolescentes não vêm». Inventa qualquer coisa: o oratório, para os acompanhar, para os ajudar. Proximidade com as pessoas. E proximidade com o Senhor no Sacrário. O Senhor quer que sejais pastores de povo, e não clérigos de Estado! Depois direi algo às irmãs, mas depois…

Proximidade quer dizer misericórdia. Nesta terra, onde o Senhor Se revelou como Jesus misericordioso, um sacerdote não pode deixar de ser misericordioso. Sobretudo no confessionário. Pensai como Jesus acolheria esta pessoa [que vem confessar-se]. A este pobrezinho, a vida já o fustigou bastante! Fazei-lhe sentir o abraço do Pai que perdoa. E se, por exemplo, não lhe podes dar a absolvição, dá-lhe a consolação do irmão, do pai. Encoraja-o a prosseguir. Convence-o de que Deus perdoa tudo. Mas isto, com ardor de padre. Nunca afugentar alguém do confessionário! Nunca expulsá-lo. «Sabes? Tu não podes... Agora não posso, mas Deus ama-te; tu reza, volta e falaremos...». Fazer assim. Proximidade. Ser padre é isto. Não te importas daquele pecador, para o expulsares assim? Não estou a falar de vós, porque não vos conheço. Falo doutras realidades. E misericórdia. O confessionário não é o gabinete dum psiquiatra. O confessionário não é para escavar no coração das pessoas.

E por isso, queridos sacerdotes, para vós proximidade significa também ter entranhas de misericórdia. E as entranhas de misericórdia, sabeis onde se ganham? Ali, no Sacrário.

E vós, queridas irmãs! Muitas vezes vêm-se irmãs que são boas – todas as irmãs são boas – mas que murmuram, murmuram, murmuram... Perguntai àquela que está no primeiro lugar do outro lado – a penúltima –, se na prisão tinha tempo de murmurar, enquanto cosia as luvas. Perguntai-lhe. Por favor, sede mães! Sede mães, porque sois ícone da Igreja e de Nossa Senhora. Possa cada pessoa que vos vir, ver a mãe Igreja e a mãe Maria. Não esqueçais isto. E a mãe Igreja não é «solteirona». A mãe Igreja não murmura: ama, serve, faz crescer. A vossa proximidade é ser mãe: ícone da Igreja e ícone de Nossa Senhora.

Proximidade ao Sacrário e à oração: aquela sede da alma de que falei. E, com os outros, serviço sacerdotal e vida consagrada não de funcionários, mas de pais e mães de misericórdia. E, se assim fizerdes, quando fordes idosos tereis um sorriso belíssimo e olhos brilhantes! Porque tereis a alma cheia de ternura, mansidão, misericórdia, amor, paternidade e maternidade.

E rezai por este pobre bispo. Obrigado!

[01436-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy Bracia i Siostry! Dobrego popołudnia!

Najpierw chciałbym powiedzieć o uczuciu, jakie żywię. Patrząc na was, widzę za wami wielu męczenników, anonimowych męczenników, w tym sensie, że nie wiemy nawet, gdzie niektórzy z nich są pochowani. Także niektórzy z was: witałem kogoś, kto zaznał więzienia. Na początek przychodzi mi na myśl jedno słowo: nie zapominajcie, pamiętajcie. Jesteście synami męczenników. To jest wasza siła. A niech duch świata nie podpowiada wam czegoś innego, od tego, co przeżyli wasi przodkowie. Pamiętajcie o waszych męczennikach i bierzcie z nich przykład: nie lękali się. Gdy rozmawiałem dziś z waszymi biskupami, pytali: „Jak rozpocząć proces beatyfikacyjny wielu osób, co do których nie mamy dokumentów, ale wiemy, że są męczennikami?” To pocieszające, dobrze słyszeć o trosce o tych, którzy nam dali świadectwo. To święci.

Biskup [Linas Vodopjanovas OFM, odpowiedzialny za życie konsekrowane] mówił jasno, jak to mają w zwyczaju franciszkanie: „Dzisiaj często, na różne sposoby nasza wiara poddawana jest próbie”. Nie chodziło mu o prześladowania dyktatorów. „Po tym, jak odpowiedzieliśmy na nasze powołanie, często nie doświadczamy radości, ani w modlitwie ani też w życiu wspólnotowym”.

Duch sekularyzacji, nuda w tym wszystkim, co dotyczy wspólnoty – to pokusa drugiego pokolenia. Nasi ojcowie walczyli, cierpieli, byli wtrącani do więzień, a my być może nie mamy sił, aby iść naprzód. Miejcie to na uwadze!

List do Hebrajczyków zawarta jest zachęta: „Przypomnijcie sobie dawniejsze dni, nie zapominajcie o waszych przodkach” (por. Hbr 10, 32-39). Tę zachętę kieruję na początku do was.

Myślą przewodnią mojej wizyty w waszej ojczyźnie są słowa: „Jezus Chrystus - nasza nadzieja”. Teraz, pod koniec tego dnia, rozważamy tekst apostoła Pawła, który zachęca nas do wytrwałej nadziei. Czyni tę zachętę po tym, jak zapowiedział nam marzenie Boga dla każdej istoty ludzkiej, co więcej, dla całego stworzenia: to znaczy „Bóg z tymi, którzy Go miłują, współdziała we wszystkim dla ich dobra” (Rz 8, 28); można by to przetłumaczyć dosłownie - „wyprostowuje” wszystkie sprawy.

Dziś chciałbym podzielić się z wami pewnymi cechami charakterystycznymi tej nadziei; cechami, do których przeżywania my - kapłani, seminarzyści, mężczyźni i kobiety konsekrowani - jesteśmy wezwani.

Przede wszystkim św. Paweł, zanim zachęcił nas do nadziei, trzykrotnie użył terminu: „wzdychać/jęczeć”: jęczy stworzenie, jęczą ludzie, wzdycha w nas Duch Święty (por. Rz 8, 22-23.26). Jęczymy z powodu niewoli korupcji, wzdychamy za pełnią. Warto, abyśmy dzisiaj zadali sobie pytanie, czy to westchnienie jest w nas obecne, czy też przeciwnie, w naszych ciałach nic już nie woła, nic już nie tęskni za Bogiem żywym. Jak powiedział wasz biskup: „nie doświadczamy radości na modlitwie, ani w życiu wspólnotowym”. Ryk spragnionego jelenia z powodu braku wody, powinien być także naszym, w poszukiwaniu głębi, prawdy i piękna Boga. Moi drodzy, nie jesteśmy „funkcjonariuszami Boga”! Być może „społeczeństwo dobrobytu” uczyniło nas zbyt nasyconymi, pełnymi dóbr i usług, a my jesteśmy „przygnieceni” wszystkim i pełni pustki. Może to sprawiło, że jesteśmy oszołomieni lub opieszali, lecz niespełnieni. Co gorsza: czasami już nie odczuwamy głodu. My, mężczyźni i kobiety szczególnej konsekracji, nigdy nie możemy sobie pozwolić na utratę tego jęku/wzdychania, tego niepokoju serca, któretylko w Panu znajdzie spoczynek (por. Św. Augustyn, Wyznania, I, 1,1). Niepokój serca. Żadna pilna informacja, żadna natychmiastowa komunikacja wirtualna nie może pozbawić nas konkretnych, długich okresów, by zdobyć – bo o to właśnie chodzi, o stały wysiłek – aby zdobyć codzienny dialog z Panem poprzez modlitwę i adorację. To troska o podtrzymywanie pragnienia Boga, jak napisał św. Jan od Krzyża: „staraj się trwać zawsze na modlitwie i pośród zajęć fizycznych nie zaniedbuj jej. Czy jesz, czy pijesz, czy rozmawiasz, czy obcujesz ze świeckimi, czy cokolwiek innego czynisz, staraj się tak postępować, by pragnąć Boga i kierować do Niego uczucia swego serca” (Cztery wskazówki dla pewnego zakonnika, by mógł osiągnąć doskonałość, 9).

Ten jęk/wzdychanie pochodzi również z kontemplacji świata ludzi, jest apelem o pełnię w obliczu niezaspokojonych potrzeb naszych najuboższych braci i sióstr, w obliczu braku sensu w życiu młodych ludzi, samotności osób starszych, w obliczu nadużyć przeciwko środowisku. To pragnienie, by organizować się, by wpływać na wydarzenia narodu, miasta. Nie jako presja czy sprawowanie władzy, ale jako służba. Wołanie naszego ludu musi nas poruszyć, jak Mojżesza, któremu Bóg objawił cierpienia swego ludu podczas spotkania przy płonącym krzewie (por. Wj 3, 9). Słuchanie głosu Boga na modlitwie sprawia, żewidzimy, słyszymy, znamy cierpienie innych, abyśmy mogli ich uwalniać. Ale musi nas także poruszyć, gdy nasz lud przestał jęczeć i przestał poszukiwać wody, która gasi pragnienie. Jest to także chwila na rozeznanie, co znieczula głos naszego ludu.

Wołanie, które sprawia, żeszukamy Boga na modlitwie i w uwielbieniu, jest tym samym, które sprawia, żesłuchamy jęku naszych braci. Oni „w nas pokładają nadzieję” i musimy, wychodząc z uważnego rozeznania, zorganizować się, zaplanować i być odważni oraz twórczy w naszym apostolstwie. Niech nasza obecność nie będzie skazana na improwizację, ale niech odpowiada na potrzeby ludu Bożego, a tym samym niech będzie zaczynem w cieście (por. Adhort. ap. Evangelii gaudium, 33).

Ale Apostoł mówi również o stałości; stałości w cierpieniu, stałości trwania w dobrym. Oznacza to bycie skoncentrowanym na Bogu, trwanie mocno zakorzenionymi w Nim, będąc wiernymi Jego miłości.

Wy, najstarsi wiekiem – jakże nie wspomnieć abp. Sigitasa Tamkevičiusa – będziecie potrafili świadczyć o tej stałości w cierpieniu, o tym „uwierzeniu nadziei wbrew nadziei” (por. Rz 4,18). Przemoc zastosowana wobec was, z powodu obrony wolności obywatelskiej i religijnej, przemoc zniesławiania, uwięzienia i deportacja nie mogły pokonać waszej wiary w Jezusa Chrystusa, Pana dziejów. Dlatego macie nam wiele do powiedzenia i do nauczenia, a także wiele do zaproponowania, bez konieczności osądzania pozornej słabości młodszych. A wy, młodsi, kiedy w obliczu zniechęcających was małych frustracji macie skłonność do zamykania się w sobie, uciekania się do postaw i uników, które są niezgodne z waszą konsekracją, poszukujcie waszych korzeni i spójrzcie na drogę przebytą przez starszych. Widzę, że są tutaj także młodzi. Powtarzam, bo są młodzi. Wy, młodsi, kiedy w obliczu zniechęcających was małych frustracji macie skłonność do zamykania się w sobie, uciekania się do postaw i uników, które są niezgodne z waszą konsekracją, poszukujcie waszych korzeni i spójrzcie na drogę przebytą przez starszych. Lepiej, abyście obrali inną drogę, niż mielibyście żyć w przeciętności. To do młodych. Jeszcze macie czas, a drzwi są otwarte. To właśnie prześladowania nakreślają cechy charakterystyczne nadziei chrześcijańskiej, ponieważ kiedy jest to tylko nadzieja ludzka, możemy się frustrować i być zmiażdżeni niepowodzeniem. Ale nie dzieje się tak w przypadku nadziei chrześcijańskiej: wychodzi z nich czystsza, bardziej doświadczona w tyglu udręki.

To prawda, żesą to inne czasy, i żyjemy w innych strukturach, ale prawdą jest także, iż te rady są lepiej przyswajane, gdy ci, którzy przeżyli owe trudne doświadczenia nie zamykają się, ale dzielą się nimi, wykorzystując wspólne chwile. Ich historie nie są wypełnione nostalgią za czasami minionymi, przedstawianymi jako lepsze, ani też jako ukryte oskarżenia przeciwko tym, którzy mają bardziej kruche struktury uczuciowe. Zapewnienie stałości danej wspólnocie uczniów jest skuteczne, kiedy potrafi włączyć, jak ów uczony w Piśmie nowe i stare (por. Mt 13, 52), kiedy zdajemy sobie sprawę, że przeżyta historia jest korzeniem, aby drzewo mogło się rozwijać.

Wreszcie, spoglądanie na Jezusa Chrystusa jako naszą nadzieję oznacza utożsamienie się z Nim, wspólnotowe uczestnictwo w Jego losie. Dla apostoła Pawła spodziewane zbawienie nie ogranicza się do aspektu negatywnego - wyzwolenia z udręki wewnętrznej lub zewnętrznej, doczesnej czy eschatologicznej - ale kładzie on nacisk na coś bardzo pozytywnego: udział w chwalebnym życiu Chrystusa (por. 1 Tes 5, 9-10), uczestnictwo w Jego chwalebnym Królestwie (por. 2 Tm 4,18), odkupienie ciała (por. Rz 8, 23-24). Zatem jest to kwestia dostrzeżenia tajemnicy wyjątkowego i niepowtarzalnego projektu, jaki Bóg ma dla każdego, dla każdego z nas. Ponieważ nie ma nikogo, kto znałby nas i poznał tak głęboko jak Bóg. On nas bowiem przeznaczył do czegoś, co wydaje się niemożliwe, ufając bezgranicznie, że odtworzymy obraz Jego Syna. Złożył On w nas swoje oczekiwania, a my w Nim pokładamy nadzieję.

My: jest to „my”, które włącza, ale także przekracza i przewyższa „ja”. Pan powołuje nas, usprawiedliwia i uwielbia wspólnie, razem; tak razem, że obejmuje całe stworzenie. Wielokrotnie kładziemy tak duży nacisk na osobistą odpowiedzialność, że wymiar wspólnotowy stał się tłem, jedynie ozdobą. Ale Duch Święty jednoczy nas, godzi nasze różnice i rodzi nowe dynamiki, aby pobudzić misję Kościoła (por. Adhort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).

Ta świątynia, w której się zebraliśmy, jest pod wezwaniem świętych Piotra i Pawła. Obaj Apostołowie byli świadomi skarbu, jaki im dano; obaj w różnych chwilach i na różny sposób zostali zaproszeni do „wypłynięcia na głębię” (por. Łk 5, 4). Wszyscy jesteśmy w łodzi Kościoła, zawsze starając się wołać do Boga, być wytrwałymi pośród udręk i mieć Jezusa Chrystusa jako przedmiot naszej nadziei. Ta łódź uznaje za centrum swej misji głoszenie tej oczekiwanej chwały, którą jest obecność Boga pośród swego ludu w Zmartwychwstałym Chrystusie i która pewnego dnia, wyczekiwanego żarliwie przez całe stworzenie, objawi się w dzieciach Bożych. To jest wyzwanie, jakie nas pobudza: nakaz ewangelizacji. To jest motyw naszej nadziei i naszej radości.

Ileż razy spotykamy smutnych księży, czy osoby konsekrowane. Smutek duchowy jest chorobą. Smutni, bo nie wiedzą... Smutni, bo nie znajdują miłości, bo nie są zakochani: nie są zakochani w Panu. Porzucili życie rodzinne, małżeńskie i chcieli pójść za Panem, ale teraz zdaje się, że się zmęczyli… I pojawia się smutek. Proszę was, gdy poczujcie się smutni, zatrzymajcie się. I szukajcie mądrego księdza, czy mądrej siostry. Nie w tym sensie mądrych, że zdobyli stopnie uniwersyteckie, ale mądrych dlatego, że potrafili iść naprzód w miłości. Idźcie szukać rady. Kiedy zaczyna się ów smutek, możemy przewidywać, że jeśli nie zostanie uleczony na czas, uczyni was starymi kawalerami i starymi pannami, mężczyznami i kobietami bezpłodnymi. Bójcie się tego smutku! Sieje go diabeł.

A dzisiaj tym morzem, na którego głębię wypływacie, będą „nieustannie nowe scenariusze i wyzwania” owego Kościoła wychodzącego. Musimy ponownie zadać sobie pytanie: czego żąda od nas Pan? Jakie peryferie najbardziej potrzebują naszej obecności, aby przynieść im światło Ewangelii? (por. Adhort. ap. Evangelii gaudium, 20).

W przeciwnym razie, jeśli nie będziecie mieli radości powołania, kto uwierzy, że Jezus Chrystus jest naszą nadzieją? Tylko nasz przykład życia da świadectwo naszej nadziei pokładanej w Nim.

Jest jeszcze coś innego, co łączy się ze smutkiem: mylenie powołania z przedsiębiorstwem, firmą, która daje zatrudnienie. „Pracuję w tej dziedzinie, to mnie ekscytuje…, i jestem z tego szczęśliwy”. Ale jutro przychodzi biskup, inny albo ten sam, albo inny przełożony czy przełożona i mówi ci: „Nie, zerwij z tym i udaj się gdzie indziej”. To chwila porażki. Dlaczego? Ponieważ w tym momencie zdasz sobie sprawę, że poszedłeś drogą dwuznaczną. Zdasz sobie sprawę, że Pan, który powołał ciebie do miłości, jest tobą zawiedziony, bo wolałeś być biznesmenem. Na początku powiedziałem wam, że życie osoby, która idzieza Jezusem nie jest życiem funkcjonariusza czy funkcjonariuszki. Jest to życie umiłowania Pana i gorliwości apostolskiej wobec ludzi. Nakreślę karykaturę: co czyni ksiądz-funkcjonariusz? Ma ściśle wyznaczone godziny, swoje biuro. Otwiera je o tej porze, wykonuje pracę, zamyka biuro, a ludzie są na zewnątrz. Nie zbliża się do ludzi. Drodzy bracia i siostry: jeśli nie chcecie być funkcjonariuszami powiem wam jedno słowo: bliskość. Bliskość tabernakulum: sam na sam z Panem. I bliskość z ludźmi. „Ależ Ojcze, ludzie nie przychodzą…!”. To idź ich poszukaj! „Ale młodzi dzisiaj nie przychodzą…”. To coś wymyśl: oratorium, by za nimi podążać, aby im pomóc. Bliskość wobec ludzi. I bliskość z Panem w tabernakulum! Pan chce, byście byli pasterzami ludu, a nie urzędnikami państwa. Potem powiem coś do sióstr, ale później...

Bliskość oznacza miłosierdzie. Na tej ziemi, gdzie Jezus objawił się jako Jezus Miłosierny, kapłan nie może nie być miłosierny. Dotyczy to zwłaszcza konfesjonału. Pomyślcie, jak Jezus przyjąłby tę osobę [która przychodzi do konfesjonału]. Życie dostatecznie obiło tego biedaka. Pozwól mu odczuć objęcie w ramionach przebaczającego Ojca. Jeśli na przykład nie możesz mu udzielić rozgrzeszenia, daj mu pocieszenie brata, ojca. Dodaj mu otuchy, by szedł naprzód. Przekonaj go, że Bóg przebacza wszystko. Ale trzeba to czynić z serdecznością ojca. Nigdy nie wolno nikogo wypędzać z konfesjonału! Nigdy nie wolno wypędzać. „Spójrz, teraz nie możesz... teraz nie mogę, ale Bóg cię kocha, módl się, wróć i porozmawiamy…”. W ten sposób. Bliskość. To oznacza być ojcem. Czy dla ciebie nie jest ważny ten grzesznik, którego przepędzasz w taki sposób? Nie mówię o was, bo was nie znam. Mówię o innych sytuacjach. I miłosierdzie. Konfesjonał to nie gabinet psychiatryczny. Konfesjonał nie jest dla drążenia w ludzkich sercach.

Dlatego, drodzy księża, bliskość oznacza dla was także mieć miłosierne serce. A czy wiecie, gdzie nabywa się serca miłosiernego? Tam, przy tabernakulum.

A wy, drogie siostry… Wiele razy widzimy wspaniałe siostry – wszystkie siostry są wspaniałe – ale, które plotkują i plotkują bez przerwy. Zapytajcie jednak tej, która jest tam z tyłu na pierwszym miejscu, przedostatniej, czy miała w więzieniu czas na plotki, gdy szyła rękawice? Zapytajcie jej. Proszę was bardzo: bądźcie matkami! Jesteście bowiem ikoną Kościoła i Matki Bożej. Niech każda osoba, która was zobaczy, widzi mamę-Kościół i mamę Maryję. O tym nie zapominajcie, a mama Kościół nie jest starą panną. Mama Kościół nie plotkuje – kocha, służy, dba o rozwój. Wasza bliskość wyraża się w macierzyństwie, w byciu ikoną Kościoła, ikoną Matki Bożej.

Bliskość tabernakulum i modlitwy. To pragnienie duszy, o którym mówiłem, oraz wobec innych osób. Posługa kapłańska i życie konsekrowane nie funkcjonariuszy, ale ojców i matek, posługa miłosierdzia. A jeśli tak będziecie czynić, gdy będziecie starzy, to będziecie mieli przepiękny uśmiech i jaśniejące oczy! Bo będziecie mieli duszę wypełnioną czułością, łagodnością, miłosierdziem, miłością, ojcostwem i macierzyństwem.

I módlcie się za tego biednego biskupa. Dziękuję.

[01436-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0681-XX.02]