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Messaggio del Santo Padre Francesco per la II Giornata Mondiale dei Poveri, 14.06.2018


Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la II Giornata Mondiale dei Poveri che si celebra la XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – quest’anno il 18 novembre 2018 – sul tema Questo povero grida e il Signore lo ascolta:

Messaggio del Santo Padre

Questo povero grida e il Signore lo ascolta

1. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Le parole del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”. Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità.

Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia, oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie. Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3).

In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi.

2. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri.

È il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente.

3. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. È stato così quando Abramo esprimeva a Dio il suo desiderio di avere una discendenza, nonostante lui e la moglie Sara, ormai anziani, non avessero figli (cfr Gen 15,1-6). È accaduto quando Mosè, attraverso il fuoco di un roveto che bruciava intatto, ha ricevuto la rivelazione del nome divino e la missione di far uscire il popolo dall’Egitto (cfr Es 3,1-15). È questa risposta si è confermata lungo tutto il cammino del popolo nel deserto: quando sentiva i morsi della fame e della sete (cfr Es 16,1-16; 17,1-7), e quando cadeva nella miseria peggiore, cioè l’infedeltà all’alleanza e l’idolatria (cfr Es 32,1-14).

La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano. La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di assistenza – pur necessaria e provvidenziale in un primo momento –, ma richiede quella «attenzione d’amore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199) che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene.

4. Un terzo verbo è “liberare”. Il povero della Bibbia vive con la certezza che Dio interviene a suo favore per restituirgli dignità. La povertà non è cercata, ma creata dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dall’ingiustizia. Mali antichi quanto l’uomo, ma pur sempre peccati che coinvolgono tanti innocenti, portando a conseguenze sociali drammatiche. L’azione con la quale il Signore libera è un atto di salvezza per quanti hanno manifestato a Lui la propria tristezza e angoscia. La prigionia della povertà viene spezzata dalla potenza dell’intervento di Dio. Tanti Salmi narrano e celebrano questa storia della salvezza che trova riscontro nella vita personale del povero: «Egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto» (Sal 22,25). Poter contemplare il volto di Dio è segno della sua amicizia, della sua vicinanza, della sua salvezza. «Hai guardato alla mia miseria, hai conosciute le angosce della mia vita; […] hai posto i miei piedi in un luogo spazioso» (Sal 31,8-9). Offrire al povero un “luogo spazioso” equivale a liberarlo dal “laccio del predatore” (cfr Sal 91,3), a toglierlo dalla trappola tesa sul suo cammino, perché possa camminare spedito e guardare la vita con occhi sereni. La salvezza di Dio prende la forma di una mano tesa verso il povero, che offre accoglienza, protegge e permette di sentire l’amicizia di cui ha bisogno. È a partire da questa vicinanza concreta e tangibile che prende avvio un genuino percorso di liberazione: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187).

5. E’ per me motivo di commozione sapere che tanti poveri si sono identificati con Bartimeo, del quale parla l’evangelista Marco (cfr 10,46-52). Il cieco Bartimeo «sedeva lungo la strada a mendicare» (v. 46), e avendo sentito che passava Gesù «cominciò a gridare» e a invocare il «Figlio di Davide» perché avesse pietà di lui (cfr v. 47). «Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte» (v. 48). Il Figlio di Dio ascoltò il suo grido: «“Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”» (v. 51). Questa pagina del Vangelo rende visibile quanto il Salmo annunciava come promessa. Bartimeo è un povero che si ritrova privo di capacità fondamentali, quali il vedere e il lavorare. Quanti percorsi anche oggi conducono a forme di precarietà! La mancanza di mezzi basilari di sussistenza, la marginalità quando non si è più nel pieno delle proprie forze lavorative, le diverse forme di schiavitù sociale, malgrado i progressi compiuti dall’umanità… Come Bartimeo, quanti poveri sono oggi al bordo della strada e cercano un senso alla loro condizione! Quanti si interrogano sul perché sono arrivati in fondo a questo abisso e su come ne possono uscire! Attendono che qualcuno si avvicini loro e dica: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (v. 49).

Purtroppo si verifica spesso che, al contrario, le voci che si sentono sono quelle del rimprovero e dell’invito a tacere e a subire. Sono voci stonate, spesso determinate da una fobia per i poveri, considerati non solo come persone indigenti, ma anche come gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani. Si tende a creare distanza tra sé e loro e non ci si rende conto che in questo modo ci si rende distanti dal Signore Gesù, che non li respinge ma li chiama a sé e li consola. Come risuonano appropriate in questo caso le parole del profeta sullo stile di vita del credente: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo […] dividere il pane con l’affamato, […] introdurre in casa i miseri, senza tetto, […] vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7). Questo modo di agire permette che il peccato sia perdonato (cfr 1 Pt 4,8), che la giustizia percorra la sua strada e che, quando saremo noi a gridare verso il Signore, allora Egli risponderà e dirà: eccomi! (cfr Is 58,9).

6. I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. Dio rimane fedele alla sua promessa, e anche nel buio della notte non fa mancare il calore del suo amore e della sua consolazione. Tuttavia, per superare l’opprimente condizione di povertà, è necessario che essi percepiscano la presenza dei fratelli e delle sorelle che si preoccupano di loro e che, aprendo la porta del cuore e della vita, li fanno sentire amici e famigliari. Solo in questo modo possiamo scoprire «la forza salvifica delle loro esistenze» e «porle al centro della vita della Chiesa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198).

In questa Giornata Mondiale siamo invitati a dare concretezza alle parole del Salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (Sal 22,27). Sappiamo che nel tempio di Gerusalemme, dopo il rito del sacrificio, avveniva il banchetto. In molte Diocesi, questa è stata un’esperienza che, lo scorso anno, ha arricchito la celebrazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri. Molti hanno trovato il calore di una casa, la gioia di un pasto festivo e la solidarietà di quanti hanno voluto condividere la mensa in maniera semplice e fraterna. Vorrei che anche quest’anno e in avvenire questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica. Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana, che l’evangelista Luca descrive in tutta la sua originalità e semplicità: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. […] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,42.44-45).

7. Sono innumerevoli le iniziative che ogni giorno la comunità cristiana intraprende per dare un segno di vicinanza e di sollievo alle tante forme di povertà che sono sotto i nostri occhi. Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un aiuto che da soli non potremmo realizzare. Riconoscere che, nell’immenso mondo della povertà, anche il nostro intervento è limitato, debole e insufficiente conduce a tendere le mani verso altri, perché la collaborazione reciproca possa raggiungere l’obiettivo in maniera più efficace. Siamo mossi dalla fede e dall’imperativo della carità, ma sappiamo riconoscere altre forme di aiuto e solidarietà che si prefiggono in parte gli stessi obiettivi; purché non trascuriamo quello che ci è proprio, cioè condurre tutti a Dio e alla santità. Il dialogo tra le diverse esperienze e l’umiltà di prestare la nostra collaborazione, senza protagonismi di sorta, è una risposta adeguata e pienamente evangelica che possiamo realizzare.

Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri. Chi si pone al servizio è strumento nelle mani di Dio per far riconoscere la sua presenza e la sua salvezza. Lo ricorda San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto, che gareggiavano tra loro nei carismi ricercando i più prestigiosi: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12,21). L’Apostolo fa una considerazione importante osservando che le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie (cfr v. 22); e che quelle che «riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno» (vv. 23-24). Mentre dà un insegnamento fondamentale sui carismi, Paolo educa anche la comunità all’atteggiamento evangelico nei confronti dei suoi membri più deboli e bisognosi. Lungi dai discepoli di Cristo sentimenti di disprezzo e di pietismo verso di essi; piuttosto sono chiamati a rendere loro onore, a dare loro la precedenza, convinti che sono una presenza reale di Gesù in mezzo a noi. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

8. Qui si comprende quanto sia distante il nostro modo di vivere da quello del mondo, che loda, insegue e imita coloro che hanno potere e ricchezza, mentre emargina i poveri e li considera uno scarto e una vergogna. Le parole dell’Apostolo sono un invito a dare pienezza evangelica alla solidarietà con le membra più deboli e meno dotate del corpo di Cristo: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26). Alla stessa stregua, nella Lettera ai Romani ci esorta: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile» (12,15-16). Questa è la vocazione del discepolo di Cristo; l’ideale a cui tendere con costanza è assimilare sempre più in noi i «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).

9. Una parola di speranza diventa l’epilogo naturale a cui la fede indirizza. Spesso sono proprio i poveri a mettere in crisi la nostra indifferenza, figlia di una visione della vita troppo immanente e legata al presente. Il grido del povero è anche un grido di speranza con cui manifesta la certezza di essere liberato. La speranza fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a Lui (cfr Rm 8,31-39). Scriveva santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione: «La povertà è un bene che racchiude in sé tutti i beni del mondo; ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni terreni, dal momento che ce li fa disprezzare» (2, 5). E’ nella misura in cui siamo capaci di discernere il vero bene che diventiamo ricchi davanti a Dio e saggi davanti a noi stessi e agli altri. È proprio così: nella misura in cui si riesce a dare il giusto e vero senso alla ricchezza, si cresce in umanità e si diventa capaci di condivisione.

10. Invito i confratelli vescovi, i sacerdoti e in particolare i diaconi, a cui sono state imposte le mani per il servizio ai poveri (cfr At 6,1-7), insieme alle persone consacrate e ai tanti laici e laiche che nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti rendono tangibile la risposta della Chiesa al grido dei poveri, a vivere questa Giornata Mondiale come un momento privilegiato di nuova evangelizzazione. I poveri ci evangelizzano, aiutandoci a scoprire ogni giorno la bellezza del Vangelo. Non lasciamo cadere nel vuoto questa opportunità di grazia. Sentiamoci tutti, in questo giorno, debitori nei loro confronti, perché tendendo reciprocamente le mani l’uno verso l’altro, si realizzi l’incontro salvifico che sostiene la fede, rende fattiva la carità e abilita la speranza a proseguire sicura nel cammino verso il Signore che viene.

Dal Vaticano, 13 giugno 2018
Memoria liturgica di S. Antonio da Padova

FRANCESCO

[00940-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Un pauvre crie, le Seigneur entend

1. «Un pauvre crie; le Seigneur entend.» (Ps 33, 7). Les paroles du psalmiste deviennent les nôtres lorsque nous rencontrons des situations de souffrance et de marginalisation, dans lesquelles vivent tant de frères et de soeurs que nous avons coutume de désigner par l’appellation générique de «pauvres». Celui qui écrit ces mots n’est pas étranger à cette condition, bien au contraire. Il fait l’expérience directe de la pauvreté et la transforme cependant en un chant de louange et d’action de grâce au Seigneur. A nous qui sommes concernés par tant de formes de pauvretés, ce Psaume nous donne de comprendre qui sont les véritables pauvres vers qui nous sommes invités à tourner le regard pour entendre leur cri et reconnaitre leurs besoins.

Il nous a d’abord été dit que le Seigneur entend les pauvres qui crient vers Lui, et qu’Il est bon avec ceux qui cherchent refuge en Lui, le coeur brisé par la tristesse, la solitude et l’exclusion. Il écoute ceux dont la dignité est foulée, et qui ont cependant la force d’élever leur regard vers le haut pour recevoir lumière et réconfort. Il écoute ceux qui sont persécutés par une justice inique, opprimés par des politiques indignes de ce nom et dans la peur de la violence, tout en considérant Dieu comme leur Sauveur. Ce qui jaillit de cette prière est d’abord un sentiment d’abandon confiant en un Père qui écoute et accueille. C’est sur la même longueur d’onde que nous pouvons comprendre ce que Jésus a proclamé à travers cette béatitude: «Heureux les pauvres de cœur, car le royaume des Cieux est à eux.» (Mt 5, 3).

C’est en raison de cette expérience unique, et par bien des aspects imméritée et impossible à exprimer entièrement, qu’on ressent le désir de la partager, et d’abord à ceux qui, comme le Psalmiste, sont pauvres, exclus et marginalisés. De fait, nul ne doit se considérer comme exclu de l’amour du Père, tout particulièrement dans un monde pour qui la richesse, qui enferme sur soi, est élevée au rang d’objectif premier.

2. Le Psaume exprime l’attitude du pauvre et sa relation à Dieu avec trois verbes. D’abord «crier». Le fait d’être pauvre ne peut se résumer en un seul mot: c’est un cri qui traverse les cieux et rejoint Dieu. Qu’exprime le cri du pauvre, sinon la souffrance et la solitude, sa déception et son espérance? Nous pouvons nous demander: comment se fait-il que ce cri qui monte jusqu’à Dieu ne parvient pas à nos oreilles et nous laisse indifférents et impassibles? Au cours d’une telle Journée, nous sommes appelés à un sérieux examen de conscience pour saisir si nous sommes réellement capables d’écouter les pauvres.

Pour reconnaître leur voix, nous avons besoin du silence de l’écoute. Plus nous parlons, plus nous aurons du mal à les entendre. J’ai souvent peur que beaucoup d’initiatives, cependant nécessaires et vertueuses, servent davantage à nous satisfaire nous-mêmes qu’à entendre réellement le cri du pauvre. Dans cette situation, lorsque les pauvres font entendre leur cri, notre réaction manque de cohérence et est incapable de rejoindre réellement leur condition. Nous sommes à ce point prisonniers d’une culture qui nous fait nous regarder dans la glace et ne s’occuper que de soi, qu’on ne peut imaginer qu’un geste altruiste puisse satisfaire pleinement, sans être directement compromis.

3. «Répondre» est un deuxième verbe. Le Seigneur, dit le Psalmiste, non seulement entend le cri du pauvre, mais il répond. Sa réponse, ainsi que l’atteste toute l’histoire du salut, est un partage plein d’amour, de la condition du pauvre. Ce fut ainsi lorsque Abraham exprima à Dieu son désir d’une descendance, alors que lui et son épouse Sara, désormais âgés, n’avaient pas d’enfant (cf Gn 15, 1-6). C’est ce qui s’est produit lorsque Moïse, à travers le feu du buisson ardent, a reçu la révélation du nom divin et la mission de faire sortir son peuple de l’Egypte (cf Ex 3, 1-15). Cette réponse fut confirmée tout au long de la marche du peuple à travers le désert : quand il ressentait la morsure de la faim et de la soif (cf Ex 16, 1-16; 17, 1-7), et quand il tombait dans une misère pire encore, l’infidélité à l’alliance et l’idolâtrie (cf Ex 32, 1-14).

La réponse de Dieu au pauvre est toujours une intervention de salut pour soigner les blessures de l’âme et du corps, pour rétablir la justice et pour aider à reprendre une vie digne. La réponse de Dieu est aussi un appel pour que quiconque croit en lui puisse faire de même dans les limites de l’humanité. La Journée Mondiale des Pauvres se veut une modeste réponse de toute l’Eglise, dispersée de par le monde, adressée aux pauvres de toutes sortes et de tous lieux, afin que nul ne croit que son cri s’est perdu dans le vide. Il s’agit sans doute d’une goutte d’eau dans l’océan de la pauvreté. Elle peut être cependant comme un signe partagé par tous ceux qui sont dans le besoin, afin qu’ils ressentent la présence active d’un frère et d’une soeur. On ne répond pas aux besoins des pauvres par procuration, mais en écoutent leur cri et en s’engageant personnellement. La sollicitude des croyants ne peut pas se résumer à une assistance - même si elle est nécessaire et un droit social dans un premier temps - mais appelle cette «attention aimante» (Exhortation Apostolique Evangelii gaudium, 199) qui honore l’autre en tant que personne et recherche son bien.

4. «Libérer» est un troisième verbe. Le pauvre de la Bible vit dans la certitude que Dieu intervient en sa faveur pour lui redonner sa dignité. La pauvreté n’est pas recherchée mais elle est le fruit de l’égoïsme, de l’orgueil, de l’avidité et de l’injustice. Des maux aussi vieux que l’humanité, qui sont toujours des péchés qui blessent tant d’innocents, ont des conséquences sociales dramatiques. L’agir du Seigneur qui libère est une oeuvre de salut à l’égard de ceux qui Lui manifestent leur tristesse et leur angoisse. La prison de la pauvreté est détruite par la puissance de l’intervention de Dieu. De nombreux Psaumes racontent et célèbrent l’histoire du salut qui trouve écho dans la vie personnelle du pauvre: «Il n'a pas rejeté, il n'a pas réprouvé le malheureux dans sa misère; il ne s'est pas voilé la face devant lui, mais il entend sa plainte.» (Ps 21, 25). Pouvoir contempler le visage de Dieu est signe de son amitié, de sa proximité, de son salut. «Tu vois ma misère et tu sais ma détresse; devant moi, tu as ouvert un passage.» (Ps 30, 8-9). Ouvrir au pauvre «un passage», c’est le libérer des «filets du chasseur» (cf Ps 90, 3), lui éviter le piège tendu sous ses pas, pour qu’il puisse ainsi avancer d’un pas léger et voir la vie avec un regard serein. Le salut de Dieu prend la forme d’une main tendue vers le pauvre, une main qui accueille, protège, et donne de percevoir l’amitié dont on a besoin. C’est à partir de cette proximité concrète et tangible que peut être entrepris un authentique chemin de libération: «Chaque chrétien et chaque communauté sont appelés à être instruments de Dieu pour la libération et la promotion des pauvres, de manière à ce qu’ils puissent s’intégrer pleinement dans la société ; ceci suppose que nous soyons dociles et attentifs à écouter le cri du pauvre et à le secourir.» (Exhortation Apostolique Evangelii gaudium, 187).

5. Je suis ému par le fait de savoir que beaucoup de pauvres se sont identifiés à Bartimée, dont parle l’évangéliste Marc (cf 10, 46-52). Bartimée «un aveugle qui mendiait, était assis au bord du chemin. (v. 46), et ayant entendu Jésus passer « se mit à crier » et à invoquer le « Fils de David» pour qu’il ait pitié de lui (cf v. 47). «Beaucoup de gens le rabrouaient pour le faire taire, mais il criait de plus belle» (v. 48). Le Fils de Dieu entendit son cri: «Que veux-tu que je fasse pour toi ?». Et l’aveugle lui répondit: «Rabbouni, que je retrouve la vue!» (v. 51). Ce passage d’évangile donne à voir ce que le Psaume annonçait comme une promesse. Bartimée est un pauvre privé de ses capacités fondamentales: voir et travailler. Combien de situations aujourd’hui encore produisent des états de précarité. Le manque des moyens de base de subsistance, la marginalisation dûe au manque de travail, les différentes formes d’esclavage social, malgré les avancées accomplies par l’humanité… Comme Bartimée, beaucoup de pauvres sont aujourd’hui au bord de la route et cherchent un sens à leur condition. Combien s’interrogent sur les raisons de leur descente dans un tel abysse, et sur la manière d’en sortir! Ils attendent que quelqu’un s’approchent d’eux et leur disent: «Confiance, lève-toi; il t’appelle.» (v. 49).

Au contraire, on constate pourtant souvent que les voix qui s’entendent sont celles des reproches et de l’invitation à se taire et à subir. Ce sont des voix qui sonnent faux, dictées par la peur des pauvres, considérés non seulement comme indigents, mais aussi source d’insécurité, d’instabilité, de changement des habitudes, et qu’il faut pour cela repousser et tenir à distance. On crée ainsi une distance entre eux et nous, sans se rendre compte qu’on s’éloigne ainsi du Seigneur Jésus, qui ne les repousse pas, mais les appelle à lui et les console. Les paroles du prophète sur le mode de vie des croyants trouvent ici une résonance: «faire tomber les chaînes injustes, délier les attaches du joug, rendre la liberté aux opprimés, briser tous les jougs[…] partager ton pain avec celui qui a faim, accueillir chez toi les pauvres sans abri, couvrir celui que tu verras sans vêtement» (Is 58, 6-7). Cette façon d’agir fait que les péchés sont pardonnés (cf 1 P 4, 8), que la justice poursuive son chemin et lorsque nous crierons vers le Seigneur, qu’Il nous réponde: Me voici ! (cf Is 58, 9).

6. Les pauvres sont les premiers capables de reconnaître la présence de Dieu et de témoigner de sa proximité dans leur vie. Dieu demeure fidèle à sa promesse, et jusque dans l’obscurité de la nuit, la chaleur de son amour et de sa consolation ne fait jamais défaut. Pour que les pauvres sortent de leur condition dégradante, il leur faut percevoir la présence de frères et de soeurs qui s’occupent d’eux, et ouvrant la porte de leur coeur et de leur vie, les considèrent comme des amis et des familiers. Ce n’est qu’ainsi que nous pourrons découvrir «la force salvifique de leurs existences» et «les mettre au centre du cheminement de l’Église» ( Exhortation Apostolique Evangelii gaudium, 198).

En cette Journée Mondiale, nous sommes invités à donner corps aux paroles du Psaume: «Les pauvres mangeront: ils seront rassasiés» (Ps 21, 27). Au Temple de Jérusalem, nous savons qu’après le rite du sacrifice, un banquet avait lieu. C’est une expérience que de nombreux diocèses ont faite l’année dernière, qui a enrichi la célébration de la première Journée Mondiales des Pauvres. Beaucoup ont trouvé la chaleur d’une maison, la joie d’un repas festif, et la solidarité auprès de ceux qui ont voulu partager la nourriture d’une façon simple et fraternelle. Je voudrais que cette année encore, et à l’avenir, cette Journée soit placée sous le signe de la joie et d’une capacité renouvelée à se retrouver. Prier ensemble en communauté et partager le repas du dimanche. C’est une expérience qui nous ramène à la première communauté chrétienne, dont l’évangéliste Luc décrivait l’originalité et la simplicité: «Ils étaient assidus à l’enseignement des Apôtres et à la communion fraternelle, à la fraction du pain et aux prières. […] Tous les croyants vivaient ensemble, et ils avaient tout en commun; ils vendaient leurs biens et leurs possessions, et ils en partageaient le produit entre tous en fonction des besoins de chacun» (Ac 2, 42.44-45).

7. On ne compte plus les initiatives que la communauté chrétienne prend quotidiennement pour manifester sa proximité et soulager tant de formes de pauvreté que nous avons sous les yeux. La collaboration avec d’autres instances, qui ne sont pas animées par la foi mais par la solidarité humaine, permet d’apporter une aide que nous ne pourrions pas réaliser seuls. Dans ce monde immense de la pauvreté, reconnaître les limites, la faiblesse, et l’insuffisance de nos moyens, invite à une collaboration réciproque qui nous permet ainsi d’être davantage efficaces. C’est la foi et l’impératif de la charité qui nous animent, mais nous savons travailler avec d’autres formes d’aide et de solidarité qui partage en partie les mêmes objectifs, pourvu que nous ne mettions pas de côté ce qui nous est propre: conduire tous à Dieu et à la sainteté. Le dialogue entre des expériences différentes, ainsi que la collaboration que nous offrons avec humilité, hors de toute prétention, est la réponse ajustée et pleinement évangélique que nous pouvons donner.

Il ne s’agit pas de vouloir jouer les premiers rôles face aux pauvres, mais il nous faut reconnaître humblement que c’est l’Esprit qui suscite des gestes qui expriment la réponse et la proximité de Dieu. Lorsqu’il nous est donné de nous faire proche des pauvres, sachons reconnaître que c’est Lui, le premier, qui a ouvert nos yeux et notre coeur à la conversion. Les pauvres n’ont pas besoin de compétiteurs, mais d’un amour qui sache demeurer discret et oublier le bien accompli. Les véritables acteurs sont le Seigneur et les pauvres. Celui qui se met au service est l’instrument entre les mains de Dieu pour faire reconnaître sa présence et son salut. C’est ce que nous rappelle saint Paul lorsqu’il écrit aux chrétiens de Corinthe qui rivalisaient entre eux au sujet des charismes les plus grands: «L’œil ne peut pas dire à la main: «Je n’ai pas besoin de toi»; la tête ne peut pas dire aux pieds: «Je n’ai pas besoin de vous» (1 Co 12, 21). L’Apôtre fait une observation importante lorsqu’il observe que les membres du corps qui paraissent les plus faibles sont les plus nécessaires (cf v. 22) ; et que les parties du corps «qui passent pour moins honorables, ce sont elles que nous traitons avec plus d’honneur; celles qui sont moins décentes, nous les traitons plus décemment; pour celles qui sont décentes, ce n’est pas nécessaire.» (vv. 23-24). En livrant un enseignement fondamental sur les charismes, Paul apprend aussi à la communauté l’attitude évangélique à adopter à l’égard de ses membres les plus faibles et dans le besoin. Les disciples du Christ sont loin d’avoir à les mépriser ou à s’apitoyer sur eux. Ils sont bien au contraire appelés à les honorer, leur donner la première place, convaincus d’être réellement en présence de Jésus. «Chaque fois que vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait». (Mt 25, 40).

8. On comprend ainsi quelle distance il y a entre notre mode de vie et celui du monde qui fait la louange, aspire à imiter ceux qui ont le pouvoir et la richesse, et qui marginalise les pauvres, les considère comme des déchets qui font honte. Les mots de l’Apôtre nous invitent à donner toute sa plénitude évangélique à la solidarité à l’égard des membres les plus faibles et moins bien pourvus du Corps du Christ: «Si un seul membre souffre, tous les membres partagent sa souffrance; si un membre est à l’honneur, tous partagent sa joie.» (1 Co 12, 26). De la même manière, dans la Lettre aux Romains, il exhorte : «Soyez joyeux avec ceux qui sont dans la joie, pleurez avec ceux qui pleurent. Soyez bien d’accord les uns avec les autres; n’ayez pas le goût des grandeurs, mais laissez-vous attirer par ce qui est humble» (12,15-16). C’est la vocation du disciple du Christ, l’idéal vers lequel tendre constamment, pour adopter toujours plus en nous les «dispositions qui sont dans le Christ Jésus» (Ph 2, 5).

9. C’est une parole d’espérance que la foi nous indique comme épilogue naturel. Souvent les pauvres mettent en cause notre indifférence, fruit d’une vision de la vie trop immanente et liée au présent. Le cri du pauvre est aussi un cri d’espérance par lequel il manifeste la certitude d’être libéré. C’est l’espérance fondée sur l’amour de Dieu qui n’abandonne pas celui qui se confie en Lui (cf Rm 8, 31-39). Sainte Thérèse d’Avila écrivait dans son Chemin de la perfection: «La pauvreté d'esprit est un bien qui renferme en soi tous les biens du monde. Elle confère une souveraineté suprême, car c'est être le souverain de tous les biens du monde que de les mépriser» (2, 5). C’est dans la mesure où nous sommes capables de discerner le bien véritable que nous devenons riches devant Dieu et sages devant les autres et nous-mêmes. C’est précisément dans la mesure où l’on parvient à donner à la richesse son sens véritable et juste que l’on grandit en humanité et capable de partager.

10. J’invite mes frères évêques, les prêtres et les diacres en particulier, à qui on a imposé les mains pour le service des pauvres, (cf Ac 6, 1-7), avec les consacrés et tant de laïcs qui donnent corps à la réponse de l’Eglise au cri des pauvres, dans les paroisses, les associations et les mouvements, à vivre cette Journée Mondiale comme un moment privilégié de nouvelle évangélisation. Les pauvres nous évangélisent, en nous aidant à découvrir chaque jour la beauté de l’Evangile. Ne passons pas à côté de cette occasion de grâce. En ce jour, considérons-nous comme leurs débiteurs. Se tendre la main les uns et les autres, c’est vivre une rencontre de salut qui soutient la foi, rend effective la charité, donne l’espérance pour avancer sur le chemin où le Seigneur vient à notre rencontre.

Du Vatican, 13 juin 2018
Mémoire liturgique de saint Antoine de Padoue.

FRANÇOIS

[00940-FR.01] [Texte original: Italien - version de travail]

Traduzione in lingua inglese

This poor man cried and the Lord heard him

1.         “This poor man cried, and the Lord heard him” (Ps 34:6). The words of the Psalmist become our own whenever we are called to encounter the different conditions of suffering and marginalization experienced by so many of our brothers and sisters whom we are accustomed to label generically as “the poor”. The Psalmist is not alien to suffering; quite the contrary. He has a direct experience of poverty and yet transforms it into a song of praise and thanksgiving to the Lord. Psalm 34 allows us today, surrounded as we are by many different forms of poverty, to know those who are truly poor. It enables us to open our eyes to them, to hear their cry and to recognize their needs.

            We are told, in the first place, that the Lord listens to the poor who cry out to him; he is good to those who seek refuge in him, whose hearts are broken by sadness, loneliness and exclusion.  The Lord listens to those who, trampled in their dignity, still find the strength to look up to him for light and comfort. He listens to those persecuted in the name of a false justice, oppressed by policies unworthy of the name, and terrified by violence, yet know that God is their Saviour. What emerges from this prayer is above all the sense of abandonment and trust in a Father who can hear and understand. Along these same lines, we can better appreciate the meaning of Jesus’ words, “Blessed are the poor in spirit, for theirs is the kingdom of heaven” (Mt 5:3).

            This experience, unique and in many ways undeserved and inexpressible, makes us want to share it with others, especially those who, like the Psalmist, are poor, rejected and marginalized.  No one should feel excluded from the Father’s love, especially in a world that often presents wealth as the highest goal and encourages self-centredness.

2.         Psalm 34 uses three verbs to describe the poor man in his relationship with God. First of all, “to cry”. Poverty cannot be summed up in a word; it becomes a cry that rises to heaven and reaches God. What does the cry of the poor express, if not their suffering and their solitude, their disappointment and their hope?  We can ask ourselves how their plea, which rises to the presence of God, can fail to reach our own ears, or leave us cold and indifferent.  On this World Day of the Poor, we are called to make a serious examination of conscience, to see if we are truly capable of hearing the cry of the poor.

            To hear their voice, what we need is the silence of people who are prepared to listen. If we speak too much ourselves, we will be unable to hear them. At times I fear that many initiatives, meritorious and necessary in themselves, are meant more to satisfy those who undertake them than to respond to the real cry of the poor. When this is the case, the cry of the poor resounds, but our reaction is inconsistent and we become unable to empathize with their condition. We are so trapped in a culture that induces us to look in the mirror and pamper ourselves, that we think that an altruistic gesture is enough, without the need to get directly involved.

3.         The second verb is “to answer”. The Psalmist tells us that the Lord does not only listen to the cry of the poor, but responds. His answer, as seen in the entire history of salvation, is to share lovingly in the lot of the poor. So it was when Abram spoke to God of his desire for offspring, despite the fact that he and his wife Sarah were old in years and had no children (cf. Gen 15:1-6).  So too when Moses, in front of a bush that burned without being consumed, received the revelation of God’s name and the mission to free his people from Egypt (Ex 3:1-15). This was also the case during Israel’s wandering in the desert, in the grip of hunger and thirst (cf. Ex 16:1-6; 17:1-7), and its falling into the worst kind of poverty, namely, infidelity to the covenant and idolatry (cf. Ex 32:1-14).

            God’s answer to the poor is always a saving act that heals wounds of body and soul, restores justice and helps to live life anew in dignity.  God’s answer is also a summons to those who believe in him to do likewise, within the limits of what is humanly possible. The World Day of the Poor wishes to be a small answer that the Church throughout the world gives to the poor of every kind and in every land, lest they think that their cry has gone unheard.  It may well be like a drop of water in the desert of poverty, yet it can serve as a sign of sharing with those in need, and enable them to sense the active presence of a brother or a sister.  The poor do not need intermediaries, but the personal involvement of all those who hear their cry.  The concern of believers in their regard cannot be limited to a kind of assistance – as useful and as providential as this may be in the beginning – but requires a “loving attentiveness” (Evangelii Gaudium, 199) that honours the person as such and seeks out his or her best interests.

4.         The third verb is “to free”. In the Bible, the poor live in the certainty that God intervenes on their behalf to restore their dignity. Poverty is not something that anyone desires, but is caused by selfishness, pride, greed and injustice. These are evils as old as the human race itself, but also sins in which the innocent are caught up, with tragic effects at the level of social life. God’s act of liberation is a saving act for those who lift up to him their sorrow and distress. The bondage of poverty is shattered by the power of God’s intervention. Many of the Psalms recount and celebrate this history of salvation mirrored in the personal life of the poor: “For he has not despised or abhorred the affliction of the afflicted; and he has not hid his face from him, but has heard, when he cried to him” (Ps 22:24).  The ability to see God’s face is a sign of his friendship, his closeness and his salvation.  “You have seen my affliction, you have taken heed of my adversities… you have set my feet in a broad place” (Ps 31:7-8).  To offer the poor a “broad space” is to set them free from the “snare of the fowler” (Ps 91:3); it is to free them from the trap hidden on their path, so that they can move forward with serenity on the path of life.  God’s salvation is a hand held out to the poor, a hand that welcomes, protects and enables them to experience the friendship they need.  From this concrete and tangible proximity, a genuine path of liberation emerges.  “Each individual Christian and every community is called to be an instrument of God for the liberation and promotion of the poor, and for enabling them to be fully a part of society. This demands that we be docile and attentive to the cry of the poor and to come to their aid” (Evangelii Gaudium, 187).

5.         I find it moving to know that many poor people identify with the blind beggar Bartimaeus mentioned by the evangelist Mark (cf. 10:46-52). Bartimaeus “was sitting by the roadside to beg” (v. 46); having heard that Jesus was passing by, “he began to cry out and say, ‘Jesus, Son of David, have mercy on me’” (v. 47). “Many rebuked him, telling him to be silent; but he cried out all the more” (v. 48).  The Son of God heard his plea and said: “What do you want me to do for you?”  The blind man said to him, “Master, let me receive my sight” (v. 51).  This Gospel story makes visible what the Psalm proclaims as a promise.  Bartimaeus is a poor person who finds himself lacking things as essential as sight and the ability to work for a living.  How many people today feel in the same situation!  Lack of basic means of subsistence, marginalization due to a reduced capacity for work, various forms of social enslavement, despite all our human progress… How many poor people today are like Bartimaeus, sitting on the roadside and looking for meaning in their lives!  How many of them wonder why they have fallen so far and how they can escape! They are waiting for someone to come up to them and say: “Take heart; rise, he is calling you” (v. 49).

            Sadly, the exact opposite often happens, and the poor hear voices scolding them, telling them to be quiet and to put up with their lot. These voices are harsh, often due to fear of the poor, who are considered not only destitute but also a source of insecurity and unrest, an unwelcome distraction from life as usual and needing to be rejected and kept afar.  We tend to create a distance between them and us, without realizing that in this way we are distancing ourselves from the Lord Jesus, who does not reject the poor, but calls them to himself and comforts them.  The words of the Prophet Isaiah telling believers how to conduct themselves are most apt in this case.  They are “to loose the bonds of wickedness, to undo the thongs of the yoke, to let the oppressed go free and to break every yoke… to share bread with the hungry and bring the homeless and poor into the house… to cover the naked” (58:6-7).  Such deeds allow sin to be forgiven (cf. 1 Pet 4:8) and justice to take its course. They ensure that when we cry to the Lord, he will answer and say: “Here I am!” (cf. Is 58:9).

6.         The poor are the first to recognize God’s presence and to testify to his closeness in their lives.  God remains faithful to his promise; and even in the darkness of the night, he does not withhold the warmth of his love and consolation.  However, for the poor to overcome their oppressive situation, they need to sense the presence of brothers and sisters who are concerned for them and, by opening the doors of their hearts and lives, make them feel like friends and family.  Only in this way can the poor discover “the saving power at work in their lives” and “put them at the centre of the Church’s pilgrim way” (Evangelii Gaudium, 198).

            On this World Day, we are asked to fulfil the words of the Psalm: “The afflicted shall eat and be satisfied” (Ps 22:26).  We know that in the Temple of Jerusalem, after the rites of sacrifice, a banquet was held.  It was this experience that, in many dioceses last year, enriched the celebration of the first World Day of the Poor.  Many people encountered the warmth of a home, the joy of a festive meal and the solidarity of those who wished to sit together at table in simplicity and fraternity.  I would like this year’s, and all future World Days, to be celebrated in a spirit of joy at the rediscovery of our capacity for togetherness.  Praying together as a community and sharing a meal on Sunday is an experience that brings us back to the earliest Christian community, described by the evangelist Luke in all its primitive simplicity: “They devoted themselves to the apostles’ teaching and fellowship, to the breaking of bread and the prayers… And all who believed were together and had all things in common; and they sold their possessions and goods and distributed them to all, as any had need” (Acts 2:42.44-45).

7.         Countless initiatives are undertaken every day by the Christian community in order to offer closeness and a helping hand in the face of the many forms of poverty all around us.  Often too, our cooperation with other initiatives inspired not by faith but by human solidarity, make it possible for us to provide help that otherwise we would have been unable to offer.  The realization that in the face of so much poverty our capacity for action is limited, weak and insufficient, leads us to reach out to others so that, through mutual cooperation, we can attain our goals all the more effectively.  We Christians are inspired by faith and by the imperative of charity, but we can also acknowledge other forms of assistance and solidarity that aim in part for the same goals, provided that we do not downplay our specific role, which is to lead everyone to God and to holiness.  Dialogue between different experiences, and humility in offering our cooperation without seeking the limelight, is a fitting and completely evangelical response that we can give.

            In the service of the poor, there is no room for competition.  Rather, we should humbly recognize that the Spirit is the source of our actions that reveal God’s closeness and his answer to our prayers.  When we find ways of drawing near to the poor, we know that the primacy belongs to God, who opens our eyes and hearts to conversion.  The poor do not need self-promoters, but a love that knows how to remain hidden and not think about all the good it has been able to do.  At the centre must always be the Lord and the poor.  Anyone desirous of serving is an instrument in God’s hands, a means of manifesting his saving presence.  Saint Paul recalled this when he wrote to the Christians in Corinth who competed for the more prestigious charisms: “The eye cannot say to the hand, ‘I have no need of you,’ nor again the head to the feet, ‘I have no need of you’” (1 Cor 12:21).  Paul makes an important point when he notes that the apparently weaker parts of the body are in fact the most necessary (cf. v. 22), and that those “we think less honourable we invest with the greater honour, and our unpresentable parts are treated with greater modesty, which our more presentable parts do not require” (vv. 23-24).  Paul offers the community a basic teaching about charisms, but also about the attitude it should have, in the light of the Gospel, towards its weaker and needier members.  Far be it from Christ’s disciples to nurture feelings of disdain or pity towards the poor.  Instead, we are called to honour the poor and to give them precedence, out of the conviction that they are a true presence of Jesus in our midst.  “As you did it to one of the least of these my brethren, you did it to me” (Mt 25:40).

8.         Here we can see how far our way of life must be from that of the world, which praises, pursues and imitates the rich and powerful, while neglecting the poor and deeming them useless and shameful.  The words of the Apostle Paul invite us to a fully evangelical solidarity with the weaker and less gifted members of the body of Christ: “If one member suffers, all suffer together; if one member is honoured, all rejoice together” (1 Cor 12:26).  In his Letter to the Romans, Paul also tells us: “Rejoice with those who rejoice, weep with those who weep.  Live in harmony with one another; do not be haughty, but associate with the lowly” (12:15-16). This is the vocation of each of Christ’s followers; the ideal for which we must constantly strive is ever greater conformity to the “mind of Jesus Christ” (Phil 2:5).

9.         Faith naturally inspires a message of hope. Often it is precisely the poor who can break through our indifference, born of a worldly and narrow view of life.  The cry of the poor is also a cry of hope that reveals the certainty of future liberation.  This hope is grounded in the love of God, who does not abandon those who put their trust in him (cf. Rom 8:31-39).  As Saint Teresa of Avila writes in The Way of Perfection: “Poverty comprises many virtues.  It is a vast domain.  I tell you, whoever despises all earthly goods is master of them all” (2:5).  It is in the measure in which we are able to discern authentic good that we become rich before God and wise in our own eyes and in those of others.  It is truly so.  To the extent that we come to understand the true meaning of riches, we grow in humanity and become capable of sharing.

10.       I invite my brother bishops, priests, and especially deacons, who have received the laying on of hands for the service of the poor (cf. Acts 6:1-7), as well as religious and all those lay faithful – men and women – who in parishes, associations and ecclesial movements make tangible the Church’s response to the cry of the poor, to experience this World Day as a privileged moment of new evangelization.  The poor evangelize us and help us each day to discover the beauty of the Gospel.  Let us not squander this grace-filled opportunity.  On this day, may all of us feel that we are in debt to the poor, because, in hands outstretched to one another, a salvific encounter can take place to strengthen our faith, inspire our charity and enable our hope to advance securely on our path towards the Lord who is to come.

From the Vatican, 13 June 2018

Memorial of Saint Anthony of Padua

FRANCIS

[00940-EN.02] [Original text: Italian - working translation]

Traduzione in lingua tedesca

Da ist ein Armer, er rief und der Herr erhörte ihn

1. «Da ist ein Armer; er rief und der Herr erhörte ihn» (Ps 34,7). Die Worte des Psalmisten werden in dem Augenblick auch zu den unseren, in dem wir aufgerufen sind, den verschiedenen Situationen des Leidens und der Ausgrenzung zu begegnen, in denen so viele Brüder und Schwestern leben, die wir gewohnt sind, mit dem allgemeinen Begriff „arm“ zu bezeichnen. Dem Verfasser jener Worte sind diese Lebensbedingungen nicht fremd, im Gegenteil. Er erfährt diese Armut unmittelbar, doch er verwandelt sie in ein Lied des Lobes und des Dankes an den Herrn. Dieser Psalm ermöglicht es heute auch uns, die wir von so vielen Formen der Armut umgeben sind, zu verstehen, wer die wahrhaft Armen sind, auf die unseren Blick zu richten, wir aufgerufen sind, um ihren Schrei zu hören und ihre Nöte und Bedürfnisse zu erkennen.

Es wird uns vor allem gesagt, dass der Herr die Armen, die zu Ihm rufen, hört und dass Er gut ist zu jenen, die bei Ihm Zuflucht suchen mit einem von Trauer, Einsamkeit und Ausgrenzung zerbrochenen Herzen. Er erhört jene, die in ihrer Würde mit Füßen getreten werden und dennoch die Kraft haben, ihren Blick nach oben zu erheben, um Licht und Zuspruch zu empfangen. Er erhört diejenigen, die im Namen einer falschen Gerechtigkeit verfolgt werden, unterdrückt durch politische Maßnahmen, die dieser Bezeichnung nicht würdig sind, und verängstigt durch die Gewalt; die dennoch wissen, dass sie in Gott ihren Erlöser haben. Was aus diesem Gebet hervorgeht, ist vor allem das Gefühl des völligen Sich‑Verlassens und des Vertrauens auf einen Vater, der erhört und annimmt. Auf der Wellenlänge dieser Worte können wir tiefer verstehen, was Jesus mit der Seligpreisung verkündet hat: « Selig, die arm sind vor Gott; denn ihnen gehört das Himmelreich» (Mt 5,3)

Aufgrund dieser einzigartigen und in vieler Hinsicht unverdienten und fast nicht auszudrückenden Erfahrung spürt man jedenfalls den Wunsch, sie anderen mitzuteilen, zuallererst jenen, die – wie der Psalmist – arm, zurückgestoßen und ausgegrenzt sind. Tatsächlich darf sich niemand von der Liebe des Vaters ausgeschlossen fühlen, besonders in einer Welt, die oft den Reichtum zum Hauptzweck erhebt und in sich selbst verschlossen macht.

2. Der Psalm charakterisiert die Haltung des Armen und seine Beziehung zu Gott mit drei Zeitwörtern. Zuallererst: „schreien“. Die Situation der Armut erschöpft sich nicht in einem Wort, sondern wird zu einem Schrei, der die Himmel durchdringt und Gott erreicht. Was drückt der Schrei des Armen aus, wenn nicht sein Leiden und seine Einsamkeit, seine Enttäuschung und Hoffnung? Wir können uns fragen: Wie kommt es, dass dieser Schrei, der zum Angesicht Gottes aufsteigt, nicht zu unseren Ohren zu gelangen vermag und uns gleichgültig und untätig lässt? An einem Welttag wie diesem sind wir zu einer ernsthaften Gewissenserforschung aufgerufen, um uns darüber klar zu werden, ob wir wirklich fähig sind, auf die Armen zu hören.

Was wir brauchen, um ihre Stimme zu erkennen, das ist die Stille des Hinhörens. Wenn wir selbst zu viel reden, werden wir es nicht schaffen, sie anzuhören. Ich befürchte, dass viele und sogar verdienstvolle und notwendige Initiativen häufig mehr darauf ausgerichtet sind, uns selbst zu gefallen, als darauf, den Schrei des Armen wirklich wahrzunehmen. Ist das der Fall, so ist zu dem Zeitpunkt, da die Armen ihren Schrei hören lassen, die Reaktion nicht stimmig, sie ist nicht geeignet, mit ihrer Situation in Einklang zu treten. Man ist derart gefangen in einer Kultur, die einen zwingt, sich selbst im Spiegel zu betrachten und sich über die Maßen um sich selbst zu kümmern, dass man überzeugt ist, dass eine Geste der Selbstlosigkeit ausreichen könne, um zufrieden zu sein, ohne sich direkt verpflichten zu lassen.

3. Ein zweites Zeitwort ist „antworten“. Der Herr, so sagt der Psalmist, hört nicht nur auf den Schrei des Armen, sondern er antwortet. Seine Antwort ist – wie in der gesamten Heilsgeschichte bezeugt wird – eine Anteilnahme voller Liebe an der Situation des Armen. So war es, als Abraham vor Gott seinen Wunsch nach Nachkommenschaft zum Ausdruck brachte, obwohl er und seine Frau bereits alt waren und keine Kinder hatten (vgl. Gen 15,1‑6). So geschah es, als Mose durch das Feuer eines Dornbusches hindurch, der brannte und doch nicht verbrannte, die Offenbarung des göttlichen Namens und die Sendung empfing, das Volk aus Ägypten herauszuführen (vgl. Ex 3,1‑15). Und diese Antwort hat sich auf dem gesamten Weg des Volkes durch die Wüste bestätigt: als es die Qualen des Hungers und des Durstes verspürte (vgl. Ex 16,1-16; 17,1-7), und als es in das schlimmste Elend fiel, nämlich in die Untreue gegenüber dem Bund und in den Götzendienst (vgl. Ex 32,1-14).

Die Antwort Gottes für den Armen ist immer ein rettendes Eingreifen, um die Wunden der Seele und des Leibes zu heilen, um Gerechtigkeit wiederherzustellen und um zu helfen, das Leben in Würde wieder aufzunehmen. Die Antwort Gottes ist auch ein Appell dazu, dass jeder, der an Ihn glaubt, innerhalb der Grenzen des menschlich Möglichen ebenso handeln möge. Der Welttag der Armen will eine kleine Antwort sein, die sich von der Kirche, die über die ganze Welt verstreut ist, an die Armen jeder Art und jeden Landes richtet, damit sie nicht denken, ihr Schrei sei auf taube Ohren gestoßen. Wahrscheinlich ist er wie ein Tropfen Wasser in der Wüste der Armut; und dennoch kann er ein Zeichen des Mitfühlens mit jenen in Not sein, damit sie die aktive Anwesenheit eines Bruders und einer Schwester spüren. Was die Armen brauchen, ist nicht ein Akt der Delegierung, sondern das persönliche Engagement jener, die ihren Schrei hören. Die Fürsorge der Gläubigen kann sich nicht auf eine – wenn auch in einem ersten Moment notwendige und vorsorgliche – Form der Assistenz beschränken, sondern erfordert jene «liebevolle Zuwendung» (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 199), die den anderen als Person ehrt und sein Wohl sucht.

4. Ein drittes Zeitwort ist „befreien“. Der Arme der Bibel lebt in der Gewissheit, dass Gott zu seinen Gunsten eingreift, um ihm seine Würde wiederzugeben. Die Armut wird nicht gesucht, sondern vom Egoismus, vom Stolz, von der Gier und von der Ungerechtigkeit erzeugt. Von Übeln, so alt wie die Menschheit, aber trotzdem immer Sünden, die so viele Unschuldige betreffen und die zu dramatischen sozialen Konsequenzen führen. Die Handlung, mit welcher der Herr befreit, ist ein Akt der Erlösung für all jene, die Ihm ihre eigene Trauer und Angst gezeigt haben. Die Gefangenschaft der Armut wird von der Macht des Eingreifen Gottes aufgebrochen. Zahlreiche Psalmen erzählen und feiern diese Heilsgeschichte, die im persönlichen Leben des Armen Bestätigung findet. «Denn er hat nicht verachtet, nicht verabscheut das Elend des Armen. Er verbirgt sein Gesicht nicht vor ihm; er hat auf sein Schreien gehört» (Ps 22,25). Das Angesicht Gottes schauen zu dürfen, ist ein Zeichen seiner Freundschaft, seiner Nähe, seines Heils. «Du hast mein Elend angesehen, du bist mit meiner Not vertraut. […] du hast meinen Füßen freien Raum geschenkt» (Ps 31,8-9). Dem Armen einen „freien Raum“ anzubieten, ist gleichbedeutend damit, ihn aus der „Schlinge des Jägers” zu befreien (vgl. Ps 91,3), ihn aus der Falle herauszuholen, die über seinen Weg ausgespannt ist, damit er zügig voranschreiten und die Welt mit klaren Augen sehen kann. Das Heil Gottes nimmt die Form einer dem Armen entgegengestreckten Hand an, die Aufnahme anbietet, behütet und die Freundschaft erfahren lässt, die er braucht. Von dieser konkreten und spürbaren Nähe aus beginnt ein echter Weg der Befreiung: «Jeder Christ und jede Gemeinschaft ist berufen, Werkzeug Gottes für die Befreiung und die Förderung der Armen zu sein, so dass diese sich vollkommen in die Gesellschaft einfügen können; das setzt voraus, dass wir gefügig und aufmerksam sind, um den Schrei des Armen zu hören und ihm zu Hilfe zu kommen» (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 187).

5. Es bewegt mich, zu wissen, dass so viele arme Menschen sich mit Bartimäus identifizieren, von dem der Evangelist Markus spricht (vgl. Mk 10,46-52). Der blinde Bartimäus «saß an der Straße» und bettelte (V. 46), und da er gehört hatte, dass Jesus vorbeiging, «rief er laut» und rief den «Sohn Davids» an, er möge mit ihm Erbarmen haben (Vgl. V. 47). «Viele wurden ärgerlich und befahlen ihm zu schweigen. Er aber schrie noch viel lauter» (V. 48). Der Sohn Gottes hörte auf seinen Schrei: «„Was willst du, dass ich dir tue?“ Der Blinde antwortete: „Rabbuni, ich möchte wieder sehen können!“» (V. 51). Dieser Abschnitt des Evangeliums macht sichtbar, was der Psalm als Verheißung verkündete. Bartimäus ist ein Armer, der die Grundfähigkeiten entbehrte, wie das Sehen und das Arbeiten. Wie viele Wege führen auch heute noch zu Formen der mangelnden Absicherung! Der Mangel an grundlegenden Mitteln des Lebensunterhalts, die Ausgrenzung, wenn man nicht mehr in der Fülle der eigenen Arbeitskraft steht, die verschiedenen Formen der sozialen Sklaverei, trotz der von der Menschheit erzielten Fortschritte ... Wie viele Arme sitzen heute – wie Bartimäus – am Straßenrand und suchen einen Sinn für ihre Situation! Wie viele fragen sich, warum sie am Tiefpunkt dieses Abgrunds angelangt sind und wie sie da herauskommen können! Sie warten darauf, dass jemand sich ihnen nähert und sagt: «Hab nur Mut, steh auf, er ruft dich!» (V. 49).

Leider erweist sich oft, dass die Stimmen, die zu hören sind, Stimmen des Vorwurfs und der Aufforderung sind, zu schweigen und zu ertragen. Es sind dissonante Stimmen, die oft von einer Angst vor den Armen bestimmt sind, die nicht nur als Bedürftige angesehen werden, sondern auch als Träger von Unsicherheit, Instabilität, Störung der alltäglichen Gewohnheiten und daher als Zurückzuweisende und Fernzuhaltende. Man tendiert dazu, eine Distanz zwischen sich und ihnen zu schaffen, und man begreift nicht, dass man sich auf diese Weise vom Herrn Jesus distanziert, der sie nicht zurückweist, sondern sie zu sich ruft und sie tröstet. Wie treffend klingen in diesem Fall die Worte des Propheten über den Lebensstil des Gläubigen nach: «die Fesseln des Unrechts zu lösen, die Stricke des Jochs zu entfernen, die Versklavten freizulassen, jedes Joch zu zerbrechen, an die Hungrigen dein Brot auszuteilen, die obdachlosen Armen ins Haus aufzunehmen, wenn du einen Nackten siehst, ihn zu bekleiden» (vgl. Jes 48,6f). Diese Weise zu handeln ermöglicht, dass die Sünde vergeben wird (vgl. 1 Petr 4,8), dass die Gerechtigkeit ihren Lauf nimmt und dass der Herr, wenn wir es dann sind, die zu Ihm schreien, antwortet und sagt: «Hier bin ich!» (vgl. Jes 58,9)

6. Die Armen sind die ersten, die die Anwesenheit Gottes erkennen und Zeugnis von seiner Nähe in ihrem Leben geben können. Gott bleibt seiner Verheißung treu, und auch im Dunkel der Nacht lässt er es nicht an der Wärme seiner Liebe und seiner Tröstung fehlen. Dennoch ist es, um die erdrückende Situation der Armut zu überwinden, notwendig, dass diese die Anwesenheit von Brüdern und Schwestern wahrnehmen, die sich um sie kümmern und – indem sie die Türe des Herzens und des Lebens öffnen – sie spüren lassen, dass sie Freunde und Familienangehörige sind. Nur auf diese Weise ist es uns möglich, «die heilbringende Kraft ihrer Leben zu erkennen und sie in den Mittelpunkt des Weges der Kirche zu stellen» (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 198).

An diesem Welttag sind wir eingeladen, die Worte des Psalms konkret werden zu lassen: «Die Armen sollen essen und sich sättigen» (Ps 22,27). Wir wissen, dass im Jerusalemer Tempel nach dem Opferritus das Festmahl stattfand. In vielen Diözesen war dies eine Erfahrung, die im vergangenen Jahr die Begehung des Welttags der Armen bereichert hat. Viele haben die Wärme eines Hauses gefunden, die Freude eines festlichen Essens und die Solidarität all jener, die in einfacher und brüderlicher Weise das Mahl mit ihnen teilen wollten. Ich möchte, dass auch in diesem Jahr und in Zukunft dieser Welttag gefeiert wird im Zeichen der Freude über die wiedergewonnene Fähigkeit, zusammen zu sein. Am Sonntag in Gemeinschaft miteinander zu beten und die Mahlzeit zu teilen. Eine Erfahrung, die uns zurückführt zur frühen christlichen Gemeinschaft, die der Evangelist Lukas in all ihrer Ursprünglichkeit und Einfachheit beschreibt: «Sie hielten an der Lehre der Apostel fest und an der Gemeinschaft, am Brechen des Brotes und an den Gebeten. Und alle, die gläubig geworden waren, bildeten eine Gemeinschaft und hatten alles gemeinsam. Sie verkauften Hab und Gut und gaben davon allen, jedem so viel, wie er nötig hatte» (Apg 2,42.44-45).

7. Es sind unzählige Initiativen, die die christliche Gemeinschaft jeden Tag unternimmt, um ein Zeichen der Nähe und der Linderung für die vielen Formen der Armut zu geben, die wir vor Augen haben. Oft gelingt es in der Zusammenarbeit mit anderen Akteuren, die zwar nicht vom Glauben, aber von der menschlichen Solidarität bewegt sind, eine Hilfe zu bringen, die wir alleine nicht verwirklichen könnten. Anzuerkennen, dass innerhalb der immensen Welt der Armut auch unser Einsatz begrenzt, schwach und ungenügend ist, führt dazu, den anderen die Hände entgegenzustrecken, damit die gegenseitige Zusammenarbeit das Ziel in wirksamerer Weise erreichen kann. Wir sind bewegt vom Glauben und vom Gebot der Nächstenliebe, doch wissen wir andere Formen der Hilfe und der Solidarität anzuerkennen, die sich teilweise dieselben Ziele setzen; wenn wir nur nicht das vernachlässigen, was uns eigen ist, nämlich alle zu Gott und zur Heiligkeit zu führen. Der Dialog zwischen den verschiedenen Erfahrungen und die Demut, unsere Mitarbeit zu leisten ohne irgendeine Art von Geltungsdrang, ist eine angemessene und völlig evangeliumsgemäße Antwort, die wir verwirklichen können.

Vor den Armen geht es nicht darum, um den Vorrang des Einschreitens zu spielen, vielmehr können wir demütig anerkennen, dass es der Heilige Geist ist, der Gesten hervorruft, die Zeichen der Antwort und der Nähe Gottes sein sollen. Sobald wir eine Weise finden, den Armen nahe zu sein, wissen wir, dass der Primat Ihm gebührt, der unsere Augen und Herzen für die Umkehr geöffnet hat. Nicht Geltungsdrang brauchen die Armen, sondern Liebe, die sich zu verbergen und das getane Gute zu vergessen weiß. Die wahren Protagonisten sind der Herr und die Armen. Wer sich in den Dienst stellt, ist Werkzeug in den Händen Gottes, um seine Gegenwart und sein Heil erkennen zu lassen. Daran erinnert der heilige Paulus, wenn er den Christen von Korinth schreibt, die untereinander um die Gnadengaben wetteiferten und dabei die angesehensten begehrten: «Das Auge kann nicht zur Hand sagen: Ich bin nicht auf dich angewiesen. Der Kopf kann nicht zu den Füßen sagen: Ich brauche euch nicht» (1 Kor 12,21). Der Apostel stellt eine wichtige Überlegung an, indem er feststellt, dass die Glieder des Leibes, die am schwächsten scheinen, die wichtigsten sind (vgl. V. 22); und «denen, die wir für weniger edel ansehen, erweisen wir umso mehr Ehre und unseren weniger anständigen Gliedern begegnen wir mit mehr Anstand, während die anständigen das nicht nötig haben» (VV. 23-24a). Während er eine grundlegende Unterweisung über die Charismen gibt, erzieht Paulus die Gemeinschaft auch zur evangeliumsgemäßen Haltung gegenüber ihren schwächsten und bedürftigsten Gliedern.

Fern seien von den Jüngern Christi Gefühle der Verachtung und des geheuchelten Mitleids ihnen gegenüber; vielmehr sind sie gerufen, ihnen Ehre zu erweisen, ihnen den Vortritt zu lassen, überzeugt, dass sie eine wirkliche Gegenwart Christi in unserer Mitte sind. «Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan» (Mt 25,40).

8. Hier versteht man, wie weit unsere Lebensweise von jener der Welt entfernt ist, die diejenigen rühmt, ihnen hinterherläuft und sie nachahmt, die Macht und Reichtum haben, während sie die Armen ausgrenzt und sie als Abfall und als Schande ansieht. Die Worte des Apostels Paulus sind eine Einladung, der Solidarität mit den schwächsten und weniger begabten Gliedern des Leibes die Vollkommenheit des Evangeliums zu verleihen: «Wenn darumeinGlied leidet, leiden alle Glieder mit; wenn ein Glied geehrt wird, freuen sich alle anderen mit ihm» (1 Kor 12,26). In gleicher Weise fordert er uns im Brief an die Römer auf: «Freut euch mit den Fröhlichen und weint mit den Weinenden! Seid untereinander eines Sinnes; strebt nicht hoch hinaus, sondern bleibt demütig!Haltet euch nicht selbst für weise!» (12,15-16). Dies ist die Berufung des Jüngers Christi; das Ideal, dem er mit Beständigkeit zustrebt, ist, in uns immer mehr die «Gesinnung Christi» aufzunehmen (vgl. Phil 2,5).

9. Ein Wort der Hoffnung wird zum natürlichen Ausklang, auf den der Glaube hinführt. Häufig sind es gerade die Armen, die unsere Gleichgültigkeit in Frage stellen, welche die Frucht eines zu sehr immanenten und an die Gegenwart gebundenen Lebens ist. Der Schrei des Armen ist auch ein Ruf der Hoffnung, mit dem er die Gewissheit ausdrückt, befreit zu werden. Der Hoffnung, die in der Liebe Gottes gründet, der niemanden im Stich lässt, der sich ihm anvertraut (vgl. Röm 8,31-39). Die heilige Teresa von Ávila schrieb in ihrem Weg der Vollkommenheit: «Die Armut ist ein Gut, das alle Güter der Welt in sich einschließt; sie ist ein großer herrschaftlicher Besitz; ich sage, dass sie für denjenigen bedeutet, alle Güter der Welt neu zu besitzen, der sich nichts aus ihnen macht. » (2,5) In dem Maß, in dem wir fähig sind, das wahre Gut zu unterscheiden, werden wir reich vor Gott und weise vor uns selbst und vor den anderen. Es ist genauso: In dem Maß, in dem man fähig ist, dem Reichtum seinen rechten und wahren Sinn zu geben, wächst man in der Menschlichkeit und wird fähig, zu teilen.

10. Ich lade die Mitbrüder im Bischofsamt, die Priester und besonders die Diakone, denen die Hände aufgelegt wurden für den Dienst an den Armen (vgl. Apg 6,1-7), zusammen mit den Personen des geweihten Lebens und den vielen Laien und Laiinnen, die in den Pfarren, in den Vereinigungen und in den Bewegungen die Antwort der Kirche auf den Ruf der Armen greifbar machen, dazu ein, diesen Welttag als einen bevorzugten Moment der Neuevangelisierung zu leben. Die Armen evangelisieren uns, indem sie uns helfen, jeden Tag die Schönheit des Evangeliums zu entdecken. Lassen wir diese Gelegenheit der Gnade nicht auf taube Ohren stoßen. Wir wollen an diesem Tag spüren, dass wir alle ihnen gegenüber in der Pflicht stehen, damit – indem wir einander die Hände entgegenstrecken – sich die rettende Begegnung verwirklicht, die den Glauben festigt, die Nächstenliebe tatkräftig macht und die sichere Hoffnung befähigt, den Weg weiterzugehen hin auf den Herrn, der kommt.

Aus dem Vatikan, am 13. Juni 2018
Liturgischer Gedenktag des hl. Antonius von Padua

FRANZISKUS

[00940-DE.01] [Originalsprache: Italienisch - Arbeitsübersetzung]

Traduzione in lingua spagnola

Este pobre gritó y el Señor lo escuchó

1. «Este pobre gritó y el Señor lo escuchó» (Sal 34, 7). Las palabras del salmista se vuelven también las nuestras a partir del momento en que somos llamados a encontrar las diversas situaciones de sufrimiento y marginación en las que viven tantos hermanos y hermanas, que habitualmente designamos con el término general de “pobres”. Quien escribe tales palabras no es ajeno a esta condición, al contrario. Él tiene experiencia directa de la pobreza y, sin embargo, la transforma en un canto de alabanza y de acción de gracias al Señor. Este salmo permite también a nosotros hoy comprender quiénes son los verdaderos pobres a los que estamos llamados a volver nuestra mirada para escuchar su grito y reconocer sus necesidades.

Se nos dice, ante todo, que el Señor escucha los pobres que claman a Él y que es bueno con aquellos que buscan refugio en Él con el corazón destrozado por la tristeza, la soledad y la exclusión. Escucha a cuantos son atropellados en su dignidad y, a pesar de ello, tienen la fuerza de alzar su mirada hacia lo alto para recibir luz y consuelo. Escucha a aquellos que son perseguidos en nombre de una falsa justicia, oprimidos por políticas indignas de este nombre y atemorizados por la violencia; y aun así saben que en Dios tienen a su Salvador. Lo que surge de esta oración es ante todo el sentimiento de abandono y confianza en un Padre que escucha y acoge. En la misma onda de estas palabras podemos comprender más a fondo lo que Jesús proclamó con las bienaventuranzas: «Bienaventurados los pobres en el espíritu, porque de ellos es el reino de los cielos» (Mt 5, 3).

En virtud de esta experiencia única y, en muchos sentidos, inmerecida e imposible de describir por completo, nace por cierto el deseo de contarla a otros, en primer lugar a aquellos que son, como el salmista, pobres, rechazados y marginados. En efecto, nadie puede sentirse excluido del amor del Padre, especialmente en un mundo que con frecuencia pone la riqueza como primer objetivo y hace que las personas se encierren en sí mismas.

2. El salmo caracteriza con tres verbos la actitud del pobre y su relación con Dios. Ante todo, “gritar”. La condición de pobreza no se agota en una palabra, sino que se transforma en un grito que atraviesa los cielos y llega hasta Dios. ¿Qué expresa el grito del pobre si no es su sufrimiento y soledad, su desilusión y esperanza? Podemos preguntarnos: ¿cómo es que este grito, que sube hasta la presencia de Dios, no alcanza a llegar a nuestros oídos, dejándonos indiferentes e impasibles? En una Jornada como esta, estamos llamados a hacer un serio examen de conciencia para darnos cuenta si realmente hemos sido capaces de escuchar a los pobres.

El silencio de la escucha es lo que necesitamos para poder reconocer su voz. Si somos nosotros los que hablamos mucho, no lograremos escucharlos. A menudo me temo que tantas iniciativas, aunque de suyo meritorias y necesarias, estén dirigidas más a complacernos a nosotros mismos que a acoger el clamor del pobre. En tal caso, cuando los pobres hacen sentir su voz, la reacción no es coherente, no es capaz de sintonizar con su condición. Se está tan atrapado en una cultura que obliga a mirarse al espejo y a cuidarse en exceso, que se piensa que un gesto de altruismo bastaría para quedar satisfechos, sin tener que comprometerse directamente.

3. El segundo verbo es “responder”. El Señor, dice el salmista, no sólo escucha el grito del pobre, sino que responde. Su respuesta, como se testimonia en toda la historia de la salvación, es una participación llena de amor en la condición del pobre. Así ocurrió cuando Abrahán manifestaba a Dios su deseo de tener una descendencia, no obstante él y su mujer Sara, ya ancianos, no tuvieran hijos (cf. Gén 15, 1-6). Sucedió cuando Moisés, a través del fuego de una zarza que se quemaba intacta, recibió la revelación del nombre divino y la misión de hacer salir al pueblo de Egipto (cf. Éx 3, 1-15). Y esta respuesta se confirmó a lo largo de todo el camino del pueblo por el desierto: cuando el hambre y la sed asaltaban (cf. Éx 16, 1-16; 17, 1-7), y cuando se caía en la peor miseria, la de la infidelidad a la alianza y de la idolatría (cf. Éx 32, 1-14).

La respuesta de Dios al pobre es siempre una intervención de salvación para curar las heridas del alma y del cuerpo, para restituir justicia y para ayudar a retomar la vida con dignidad. La respuesta de Dios es también una invitación a que todo el que cree en Él obre de la misma manera dentro de los límites de lo humano. La Jornada Mundial de los Pobres pretende ser una pequeña respuesta que la Iglesia entera, extendida por el mundo, dirige a los pobres de todo tipo y de toda región para que no piensen que su grito se ha perdido en el vacío. Probablemente es como una gota de agua en el desierto de la pobreza; y sin embargo puede ser un signo de compartir para cuantos pasan necesidad, que hace sentir la presencia activa de un hermano o una hermana. Los pobres no necesitan un acto de delegación, sino del compromiso personal de aquellos que escuchan su clamor. La solicitud de los creyentes no puede limitarse a una forma de asistencia – que es necesaria y providencial en un primer momento –, sino que exige esa «atención amante» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 199) que honra al otro como persona y busca su bien.

4. El tercer verbo es “liberar”. El pobre de la Biblia vive con la certeza de que Dios interviene en su favor para restituirle dignidad. La pobreza no es buscada, sino creada por el egoísmo, el orgullo, la avaricia y la injusticia. Males tan antiguos como el hombre, pero que son siempre pecados, que involucran a tantos inocentes, produciendo consecuencias sociales dramáticas. La acción con la cual el Señor libera es un acto salvación para quienes le han manifestado su propia tristeza y angustia. Las cadenas de la pobreza se rompen gracias a la potencia de la intervención de Dios. Tantos salmos narran y celebran esta historia de salvación que se refleja en la vida personal del pobre: «Él no ha mirado con desdén ni ha despreciado la miseria del pobre: no le ocultó su rostro y lo escuchó cuando pidió auxilio» (Sal 22, 25). Poder contemplar el rostro de Dios es signo de su amistad, de su cercanía, de su salvación. «Tú viste mi aflicción y supiste que mi vida peligraba, […] me pusiste en un lugar espacioso» (Sal 31, 8-9). Ofrecer al pobre un “lugar espacioso” equivale a liberarlo de la “red del cazador” (cf. Sal 91, 3), a alejarlo de la trampa tendida en su camino, para que pueda caminar expedito y mirar la vida con ojos serenos. La salvación de Dios toma la forma de una mano tendida hacia el pobre, que ofrece acogida, protege y hace posible experimentar la amistad de la cual se tiene necesidad. Es a partir de esta cercanía, concreta y tangible, que comienza un genuino itinerario de liberación: «Cada cristiano y cada comunidad están llamados a ser instrumentos de Dios para la liberación y promoción de los pobres, de manera que puedan integrarse plenamente en la sociedad; esto supone que seamos dóciles y atentos para escuchar el clamor del pobre y socorrerlo» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 187).

5. Me conmueve saber que muchos pobres se han identificado con Bartimeo, del cual habla el evangelista Marcos (cf. 10, 46-52). El ciego Bartimeo «estaba sentado al borde del camino pidiendo limosna» (v. 46), y habiendo escuchado que pasaba Jesús «empezó a gritar» y a invocar el «Hijo de David» para que tuviera piedad de él (cf. v. 47). «Muchos lo increpaban para que se callara. Pero él gritaba más fuerte» (v. 48). El Hijo de Dios escuchó su grito: «“¿Qué quieres que haga por ti?”. El ciego le contestó: “Rabbunì, que recobre la vista!”» (v. 51). Esta página del Evangelio hace visible lo que el salmo anunciaba como promesa. Bartimeo es un pobre que se encuentra privado de capacidades básicas, como son la de ver y trabajar. ¡Cuántas sendas conducen también hoy a formas de precariedad! La falta de medios básicos de subsistencia, la marginación cuando ya no se goza de la plena capacidad laboral, las diversas formas de esclavitud social, a pesar de los progresos realizados por la humanidad… Como Bartimeo, ¡cuántos pobres están hoy al borde del camino en busca de un sentido para su condición! ¡Cuántos se cuestionan sobre el porqué tuvieron que tocar el fondo de este abismo y sobre el modo de salir de él! Esperan que alguien se les acerque y les diga: «Ánimo. Levántate, que te llama» (v. 49).

Lastimosamente a menudo se constata que, por el contrario, las voces que se escuchan son las del reproche y las que invitan a callar y a sufrir. Son voces destempladas, con frecuencia determinadas por una fobia hacia los pobres, considerados no sólo como personas indigentes, sino también como gente portadora de inseguridad, de inestabilidad, de desorden para las rutinas cotidianas y, por lo tanto, merecedores de rechazo y apartamiento. Se tiende a crear distancia entre ellos y el proprio yo, sin darse cuenta que así se produce el alejamiento del Señor Jesús, quien no los rechaza sino que los llama así y los consuela. Con mucha pertinencia resuenan en este caso las palabras del profeta sobre el estilo de vida del creyente: «soltar las cadenas injustas, desatar los lazos del yugo, dejar en libertad a los oprimidos y romper todos los yugos; […] compartir tu pan con el hambriento, […] albergar a los pobres sin techo, […] cubrir al que veas desnudo» (Is 58, 6-7). Este modo de obrar permite que el pecado sea perdonado (cf. 1Pe 4, 8), que la justicia recorra su camino y que, cuando seremos nosotros lo que gritaremos al Señor, Él entonces responderá y dirá: ¡Aquí estoy! (cf. Is 58, 9).

6. Los pobres son los primeros capacitados para reconocer la presencia de Dios y dar testimonio de su proximidad en sus vidas. Dios permanece fiel a su promesa, e incluso en la oscuridad de la noche no hace faltar el calor de su amor y de su consolación. Sin embargo, para superar la opresiva condición de pobreza es necesario que ellos perciban la presencia de los hermanos y hermanas que se preocupan por ellos y que, abriendo la puerta del corazón y de la vida, los hacen sentir amigos y familiares. Sólo de esta manera podremos «reconocer la fuerza salvífica de sus vidas» y «ponerlos en el centro del camino de la Iglesia» (Exhort. apost. Evangelii gaudium, 198).

En esta Jornada Mundial estamos invitados a hacer concretas las palabras del Salmo: «los pobres comerán hasta saciarse» (Sal 22, 27). Sabemos que en el templo de Jerusalén, después del rito del sacrificio, tenía lugar el banquete. En muchas Diócesis, esta fue una experiencia que, el año pasado, enriqueció la celebración de la primera Jornada Mundial de los Pobres. Muchos encontraron el calor de un una casa, la alegría de una comida festiva y la solidaridad de cuantos quisieron compartir la mesa de manera simple y fraterna. Quisiera que también este año y en el futuro esta Jornada fuera celebrada bajo el signo de la alegría por redescubrir el valor de estar juntos. Orar juntos y compartir la comida el día domingo. Una experiencia que nos devuelve a la primera comunidad cristiana, que el evangelista Lucas describe en toda su originalidad y simplicidad: «Todos se reunían asiduamente para escuchar la enseñanza de los Apóstoles y participar en la vida común, en la fracción del pan y en las oraciones. […]Todos los creyentes se mantenían unidos y ponían lo suyo en común: vendían sus propiedades y sus bienes, y distribuían el dinero entre ellos, según las necesidades de cada uno» (Hch 2, 42. 44-45).

7. Son innumerables las iniciativas que diariamente emprende la comunidad cristiana para dar un signo de cercanía y de alivio a las variadas formas de pobreza que están ante nuestros ojos. A menudo la colaboración con otras realidades, que no están motivadas por la fe sino por la solidaridad humana, hace posible brindar una ayuda que solos no podríamos realizar. Reconocer que, en el inmenso mundo de la pobreza, nuestra intervención es también limitada, débil e insuficiente hace que tendamos la mano a los demás, de modo que la colaboración mutua pueda alcanzar el objetivo de manera más eficaz. Nos mueve la fe y el imperativo de la caridad, pero sabemos reconocer otras formas de ayuda y solidaridad que, en parte, se fijan los mismos objetivos; siempre y cuando no descuidemos lo que nos es propio, a saber, llevar a todos hacia Dios y a la santidad. El diálogo entre las diversas experiencias y la humildad en el prestar nuestra colaboración, sin ningún tipo de protagonismo, es una respuesta adecuada y plenamente evangélica que podemos realizar.

Frente a los pobres, no es cuestión de jugar a ver quién tiene el primado de la intervención, sino que podemos reconocer humildemente que es el Espíritu quien suscita gestos que son un signo de la respuesta y cercanía de Dios. Cuando encontramos el modo para acercarnos a los pobres, sabemos que el primado le corresponde a Él, que ha abierto nuestros ojos y nuestro corazón a la conversión. No es protagonismo lo que necesitan los pobres, sino ese amor que sabe esconderse y olvidar el bien realizado. Los verdaderos protagonistas son el Señor y los pobres. Quien se pone al servicio es instrumento en las manos de Dios para hacer reconocer su presencia y su salvación. Lo recuerda San Pablo escribiendo a los cristianos de Corinto, que competían ente ellos por los carismas, en busca de los más prestigiosos: «El ojo no puede decir a la mano: “No te necesito”, ni la cabeza, a los pies: “No tengo necesidad de ustedes”» (1Cor 12, 21). El Apóstol hace una consideración importante al observar que los miembros que parecen más débiles son los más necesarios (cf. v. 22); y que «los que consideramos menos decorosos son los que tratamos más decorosamente. Así nuestros miembros menos dignos son tratados con mayor respeto, ya que los otros no necesitan ser tratados de esa manera» (vv. 23-24). Mientras ofrece una enseñanza fundamental sobre los carismas, Pablo también educa a la comunidad en la actitud evangélica respecto a los miembros más débiles y necesitados. Lejos de los discípulos de Cristo sentimientos de desprecio o de pietismo hacia ellos; más bien están llamados a honrarlos, a darles precedencia, convencidos de que son una presencia real de Jesús entre nosotros. «Cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,40).

8. Aquí se comprende cuánta distancia existe entre nuestro modo de vivir y el del mundo, el cual elogia, sigue e imita a quienes tienen poder y riqueza, mientras margina a los pobres, considerándolos un desecho y una vergüenza. Las palabras del Apóstol son una invitación a darle plenitud evangélica a la solidaridad con los miembros más débiles y menos capaces del cuerpo de Cristo: «¿Un miembro sufre? Todos los demás sufren con él. ¿Un miembro es enaltecido? Todos los demás participan de su alegría» (1Cor 12, 26). Del mismo modo, en la Carta a los Romanos nos exhorta: «Alégrense con los que están alegres, y lloren con los que lloran. Vivan en armonía unos con otros, no quieran sobresalir, pónganse a la altura de los más humildes» (12, 15-16). Esta es la vocación del discípulo de Cristo; el ideal al cual aspirar con constancia es asimilar cada vez más en nosotros los «sentimientos de Cristo Jesús» (Flp 2,5).

9. Una palabra de esperanza se convierte en el epílogo natural al que conduce la fe. Con frecuencia son precisamente los pobres los que ponen en crisis nuestra indiferencia, hija de una visión de la vida en exceso inmanente y atada al presente. El grito del pobre es también un grito de esperanza con el que manifiesta la certeza de ser liberado. La esperanza fundada sobre el amor de Dios que no abandona a quien en Él confía (cf. Rom 8, 31-39). Santa Teresa de Ávila en su Camino de perfección escribía: «La pobreza es un bien que encierra todos los bienes del mundo. Es un señorío grande. Es señorear todos los bienes del mundo a quien no le importan nada» (2, 5). Es en la medida que seamos capaces de discernir el verdadero bien que nos volveremos ricos ante Dios y sabios ante nosotros mismos y ante los demás. Así es: en la medida que se logra dar el sentido justo y verdadero a la riqueza, se crece en humanidad y se vuelve capaz de compartir.

10. Invito a los hermanos obispos, a los sacerdotes y en particular a los diáconos, a quienes se les impuso las manos para el servicio de los pobres (cf. Hch 6, 1-7), junto con las personas consagradas y con tantos laicos y laicas que en las parroquias, en las asociaciones y en los movimientos hacen tangible la respuesta de la Iglesia al grito de los pobres, a que vivan esta Jornada Mundial como un momento privilegiado de nueva evangelización. Los pobres nos evangelizan, ayudándonos a descubrir cada día la belleza del Evangelio. No echemos en saco roto esta oportunidad de gracia. Sintámonos todos, en este día, deudores con ellos, para que tendiendo recíprocamente las manos, uno hacia otro, se realice el encuentro salvífico que sostiene la fe, hace activa la caridad y permite que la esperanza prosiga segura en el camino hacia el Señor que viene.

Vaticano, 13 de junio de 2018
Memoria litúrgica de San Antonio de Padua

FRANCISCO

[00940-ES.01] [Texto original: Italiano - Traducción no oficial]

Traduzione in lingua portoghese

Este pobre grita e o Senhor o escuta

1. «Este pobre grita e o Senhor o escuta» (Sl 34,7). As palavras do salmista tornam-se também as nossas no momento em que somos chamados a encontrar-nos com as diversas condições de sofrimento e marginalização em que vivem tantos irmãos e irmãs nossos que estamos habituados a designar com o termo genérico de “pobres”. Quem escreve aquelas palavras não é estranho a esta condição; bem pelo contrário. Faz experiência direta da pobreza e, apesar disso, transforma-a num cântico de louvor e de agradecimento ao Senhor. Também a nós hoje, imersos em tantas formas de pobreza, este salmo permite que compreendamos quem são os verdadeiros pobres para os quais somos chamados a dirigir o olhar, para escutar o seu grito e conhecer as suas necessidades.

É-nos dito, antes de mais, que o Senhor escuta os pobres que clamam por Ele e que é bom para com os que n’Ele procuram refúgio, com o coração despedaçado pela tristeza, pela solidão e pela exclusão. Escuta os que são espezinhados na sua dignidade e, apesar disso, têm a força de levantar o olhar para as alturas, para receber luz e conforto. Escuta os que são perseguidos em nome de uma falsa justiça, oprimidos por políticas indignas deste nome e atemorizados pela violência; mesmo assim sabem que têm em Deus o seu Salvador. O que emerge desta oração é, antes de mais, o sentimento de abandono e de confiança num Pai que escuta e acolhe. Em sintonia com estas palavras podemos compreender mais a fundo o que Jesus proclamou com a bem-aventurança: «Bem-aventurados os pobres em espírito, porque deles é o Reino dos céus» (Mt 5,3).

Em virtude desta experiência única e, sob muitos aspetos, imerecida e impossível de se exprimir plenamente, sente-se, no entanto, o desejo de a comunicar a outros, antes de mais aos que, como o salmista, são pobres, rejeitados e marginalizados. Com efeito, ninguém pode sentir-se excluído pelo amor do Pai, especialmente num mundo que frequentemente eleva a riqueza ao primeiro objetivo e que faz com que as pessoas se fechem em si mesmas.

2. O salmo caracteriza com três verbos a atitude do pobre e a sua relação com Deus. Antes de mais, “gritar”. A condição de pobreza não se esgota numa palavra, mas torna-se um grito que atravessa os céus e chega até Deus. Que exprime o grito dos pobres, que não seja o seu sofrimento e a sua solidão, a sua desilusão e esperança? Podemos perguntar-nos: como é que este grito, que sobe até à presença de Deus, não consegue chegar aos nossos ouvidos e nos deixa indiferentes e impassíveis? Num Dia como este, somos chamados a fazer um sério exame de consciência, de modo a compreender se somos verdadeiramente capazes de escutar os pobres.

É do silêncio da escuta que precisamos para reconhecer a voz deles. Se falarmos demasiado, não conseguiremos escutá-los. Muitas vezes, tenho receio que tantas iniciativas, apesar de meritórias e necessárias, estejam mais orientadas para nos satisfazer a nós mesmos do que para acolher realmente o grito do pobre. Nesse caso, no momento em que os pobres fazem ouvir o seu grito, a reação não é coerente, não é capaz de entrar em sintonia com a condição deles. Está-se tão presos na armadilha de uma cultura que obriga a olhar-se ao espelho e a acudir de sobremaneira a si mesmos, que se considera que um gesto de altruísmo pode ser suficiente para deixar satisfeitos, sem se deixar comprometer diretamente.

3. Um segundo verbo é “responder”. O Senhor, diz o salmista, não só escuta o grito do pobre, como também responde. A sua resposta, como está atestado em toda a história da salvação, é uma participação cheia de amor na condição do pobre. Foi assim, quando Abraão apresentava a Deus o seu desejo de ter uma descendência, apesar de ele e a mulher Sara, já idosos, não terem filhos (cf. Gn 15,1-6). Aconteceu quando Moisés, através do fogo de uma sarça que ardia sem se consumir, recebeu a revelação do nome divino e a missão de tirar o povo do Egito (cf. Ex 3,1-15). E esta resposta confirmou-se ao longo de todo o caminho do povo no deserto: quando sentia os flagelos da fome e da sede (cf. Ex 16,1-16; 17,1-7) e quando caía na pior miséria, que é a da infidelidade à aliança e da idolatria (cf. Ex 32,1-14).

A resposta de Deus ao pobre é sempre uma intervenção de salvação para cuidar das feridas da alma e do corpo, para repor a justiça e para ajudar a recuperar uma vida com dignidade. A resposta de Deus é também um apelo para que quem acredita n’Ele possa proceder de igual modo, dentro das limitações do que é humano. O Dia Mundial dos Pobres pretende ser uma pequena resposta que, de toda a Igreja, dispersa por todo mundo, é dirigida aos pobres de todos os tipos e de todas as terras para que não pensem que o seu grito tenha caído no vazio. Provavelmente, é como uma gota de água no deserto da pobreza; e, contudo, pode ser um sinal de partilha para com os que estão em necessidade, para sentirem a presença ativa de um irmão e de uma irmã. Não é de um ato de delegação que os pobres precisam, mas do envolvimento pessoal de quem escuta o seu grito. A solicitude dos crentes não pode limitar-se a uma forma de assistência – mesmo se esta é necessária e providencial num primeiro momento –, mas requer aquela «atenção de amor» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 199) que honra o outro enquanto pessoa e procura o seu bem.

4. Um terceiro verbo é “libertar”. O pobre da Bíblia vive com a certeza que Deus intervém a seu favor para lhe restituir a dignidade. A pobreza não é procurada, mas é criada pelo egoísmo, pela soberba, pela avidez e pela injustiça. Males tão antigos como o homem, mas mesmo assim continuam a ser pecados que implicam tantos inocentes, conduzindo a consequências sociais dramáticas. A ação com a qual o Senhor liberta é um ato de salvação para com os que Lhe apresentaram a sua tristeza e angústia. As amarras da pobreza são quebradas pelo poder da intervenção de Deus. Muitos salmos narram e celebram esta história da salvação que encontra correspondência na vida pessoal do pobre: «Ele não desprezou nem repeliu a angústia do pobre, nem escondeu dele a sua face, mas atendeu-o quando Lhe pediu socorro» (Sl 22,25). Poder contemplar a face de Deus é sinal da sua amizade, da sua proximidade, da sua salvação. «Pusestes os olhos na minha miséria e conhecestes as angústias da minha vida; […] colocastes os meus pés num lugar espaçoso» (Sl 31,8-9). Dar ao pobre um “lugar espaçoso” equivale a libertá-lo do “laço do caçador” (cf. Sl 91,3), a retirá-lo da armadilha montada no seu caminho, para que possa caminhar desimpedido e encarar a vida com olhar sereno. A salvação de Deus toma a forma de uma mão estendida ao pobre, que oferece acolhimento, protege e permite sentir a amizade de que precisa. É a partir desta proximidade concreta e palpável que tem início um genuíno percurso de libertação: «Cada cristão e cada comunidade são chamados a ser instrumentos de Deus ao serviço da libertação e promoção dos pobres, para que possam integrar-se plenamente na sociedade; isto supõe que sejamos dóceis e atentos, para ouvir o clamor do pobre e socorrê-lo» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 187).

5. Para mim é um motivo de comoção saber que tantos pobres se identificaram com Bartimeu, de quem fala o evangelista Marcos (cf. 10,46-52). O cego Bartimeu «estava sentado a pedir esmola à beira do caminho» (v. 46) e, tendo ouvido dizer que Jesus estava a passar, «começou a gritar» e a invocar o «Filho de David» para que tivesse piedade dele (cf. v. 47). «Muitos repreendiam-no para que se calasse, mas ele gritava cada vez mais» (v. 48). O Filho de Deus escutou o seu grito: «“Que queres que Eu te faça?”. E o cego respondeu-Lhe: “Rabuni, que eu veja de novo”» (v. 51). Esta página do Evangelho torna visível o que o salmo anunciava como promessa. Bartimeu é um pobre que se encontra privado de capacidades fundamentais, como ver e trabalhar. Quantos percursos, também hoje, conduzem a formas de precariedade! A falta de meios elementares de subsistência, a marginalidade quando se deixa de estar no pleno das próprias forças de trabalho, as diversas formas de escravidão social, apesar dos progressos levados a cabo pela humanidade… Quantos pobres, como Bartimeu, estão hoje à beira da estrada e procuram um sentido para a sua condição! Quantos são os que se interrogam sobre o porquê de ter chegado ao fundo deste abismo e sobre o modo de sair dele! Esperam que alguém se aproxime deles e diga: «Coragem! Levanta-te, que Ele está a chamar-te» (v. 49).

Infelizmente, verifica-se com frequência que, pelo contrário, as vozes que se ouvem são as da repreensão e do convite a calar-se e aguentar. São vozes desafinadas, muitas vezes determinadas por uma aversão aos pobres, considerados não apenas como pessoas indigentes, mas também como gente que traz insegurança, instabilidade, desorientação das atividades diárias e, por isso, gente que deve ser rejeitada e mantida ao longe. Há uma tendência a criar distância entre nós e eles, e não nos damos conta que, deste modo, nos tornamos distantes do Senhor Jesus que não os rejeita, mas os chama a Si e os consola. Como soam apropriadas neste caso as palavras do profeta sobre o estilo de vida do crente: «quebrar as cadeias injustas, desatar os laços da servidão, pôr em liberdade os oprimidos, destruir todos os jugos […], repartir o pão com o faminto, dar pousada aos pobres sem abrigo, levar roupa aos que não têm que vestir» (Is 58,6-7). Este modo de agir permite que o pecado seja perdoado (cf. 1Pe 4,8), que a justiça faça o seu caminho e que, quando formos nós a gritar ao Senhor, Ele responda e diga: “Estou aqui!” (cf. Is 58,9).

6. Os pobres são os primeiros a estar habilitados para reconhecer a presença de Deus e para dar testemunho da sua proximidade na vida deles. Deus permanece fiel à sua promessa e, mesmo na escuridão da noite, não deixa que falte o calor do seu amor e da sua consolação. Contudo, para superar a opressiva condição de pobreza, é necessário que eles se se apercebam da presença de irmãos e irmãs que se preocupam com eles e que, ao abrir a porta do coração e da vida, fazem com que eles se sintam amigos e familiares. Apenas deste modo podemos descobrir «a força salvífica das suas vidas» e «colocá-los no centro do caminho da Igreja» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 198).

Neste Dia Mundial somos convidados a tornar concretas as palavras do salmo: «Os pobres hão de comer e serão saciados» (Sl 22,27). Sabemos que, no templo de Jerusalém, depois do rito do sacrifício, tinha lugar o banquete. Em muitas dioceses, esta foi uma das experiências que, no ano passado, enriqueceu a celebração do primeiro Dia Mundial dos Pobres. Muitos encontraram o calor de uma casa, a alegria de uma refeição festiva e a solidariedade dos que quiseram partilhar a mesa de maneira simples e fraterna. Gostaria que, também este ano, bem como no futuro, este Dia fosse celebrado com a marca da alegria pela redescoberta capacidade de estar juntos. Rezar juntos em comunidade e partilhar a refeição no dia de domingo. Uma experiência que nos leva de volta à primeira comunidade cristã, que o evangelista Lucas descreve com toda a sua originalidade e simplicidade: «Os irmãos eram assíduos ao ensino dos Apóstolos, à comunhão fraterna, à fração do pão e às orações. […] Todos os que haviam abraçado a fé viviam unidos e tinham tudo em comum. Vendiam propriedades e bens e distribuíam o dinheiro por todos, conforme as necessidades de cada um» (At 2,42.44-45).

7. São inúmeras as iniciativas que, todos os dias, a comunidade cristã leva a cabo para dar um sinal de proximidade e de conforto às muitas formas de pobreza que estão diante dos nossos olhos. Muitas vezes, a colaboração com outras realidades, que têm como motor não a fé, mas a solidariedade humana, consegue prestar uma ajuda que, sozinhos, não poderemos realizar. Reconhecer que, no imenso mundo da pobreza, mesmo a nossa intervenção é limitada, frágil e insuficiente leva a estender as mãos aos outros, para que a colaboração recíproca possa atingir o objetivo de maneira mais eficaz. Somos movidos pela fé e pelo imperativo da caridade, mas sabemos reconhecer outras formas de ajuda e solidariedade que se propõem em parte os mesmos objetivos; desde que não descuidemos o que nos é próprio, isto é, levar todos até Deus e à santidade. O diálogo entre as diversas experiências e a humildade de prestar a nossa colaboração, sem qualquer espécie de protagonismos, é uma resposta adequada e plenamente evangélica que podemos realizar.

Diante dos pobres não se trata de jogar para ter a primazia da intervenção, mas podemos reconhecer humildemente que é o Espírito quem suscita gestos que são sinal da resposta e da proximidade de Deus. Quando descobrimos o modo de nos aproximarmos dos pobres, sabemos que a primazia Lhe pertence a Ele que abriu os nossos olhos e o nosso coração à conversão. Não é de protagonismo que os pobres precisam, mas de amor que sabe esconder-se e esquecer o bem realizado. Os verdadeiros protagonistas são o Senhor e os pobres. Quem se coloca ao serviço é instrumento nas mãos de Deus para fazer reconhecer a sua presença e a sua salvação. É São Paulo quem o recorda, quando escreve aos cristãos de Corinto, que competiam entre si nos carismas procurando os mais prestigiosos: «O olho não pode dizer à mão: “Não preciso de ti”; nem a cabeça dizer aos pés: “Não preciso de vós”» (1Cor 12,21). O Apóstolo faz uma consideração importante, observando que os membros do corpo que parecem mais fracos são os mais necessários (cf. v. 22); e que os que «nos parecem menos honrosos cuidamo-los com maior consideração, e os menos decorosos são tratados com maior decência, ao passo que os que são mais decorosos não precisam de tais cuidados» (vv. 23-24). Ao ministrar um ensinamento fundamental sobre os carismas, Paulo educa também a comunidade para a atitude evangélica para com os seus membros mais fracos e necessitados. Longe dos discípulos de Cristo sentimentos de desprezo e de pietismo para com eles; pelo contrário, são chamados a honrá-los, a dar-lhes precedência, convictos de que eles são uma presença real de Jesus no meio de nós. «Tudo o que fizestes a um destes meus irmãos mais pequeninos, a Mim o fizestes» (Mt 25,40).

8. Aqui compreende-se como o nosso modo de viver é diferente do do mundo, que louva, segue e imita os que têm poder e riqueza, ao passo que marginaliza os pobres e os considera um refugo e uma vergonha. As palavras do Apóstolo são um convite para conferir plenitude evangélica à solidariedade para com os membros mais fracos e menos dotados do Corpo de Cristo: «Se um membro sofre, todos os membros sofrem com ele; se um membro é honrado, todos os membros se alegram com ele» (1Cor 12,26). Na mesma linha, na Carta aos Romanos exorta-nos: «Alegrai-vos com os que estão alegres, chorai com os que choram. Tende os mesmos sentimentos uns para com os outros. Não aspireis às grandezas, mas conformai-vos com o que é humilde» (12,15-16). Esta é a vocação do discípulo de Cristo; o ideal para o qual se deve tender com perseverança é assimilar cada vez mais em nós os «sentimentos de Cristo Jesus» (Flp 2,5).

9. Uma palavra de esperança torna-se o epílogo natural para o qual a fé orienta. Muitas vezes, são mesmo os pobres a colocar em crise a nossa indiferença, filha de uma visão da vida, demasiado imanente e ligada ao presente. O grito do pobre é também um grito de esperança com a qual ele dá mostras da certeza de ser libertado. A esperança, que se alicerça no amor de Deus que não abandona quem n’Ele confia (cf. Rm 8,31-39). Escrevia Santa Teresa de Ávila no seu Caminho de Perfeição: «A pobreza é um bem que encerra em si todos os bens do mundo; assegura-nos um grande domínio; quero dizer que nos torna senhores de todos os bens terrenos, uma vez que nos leva a desprezá-los» (2,5). É na medida em que somos capazes de discernir o verdadeiro bem que nos tornamos ricos diante de Deus e sábios diante de nós mesmos e dos outros. É mesmo assim: na medida em que se consegue dar um sentido justo e verdadeiro à riqueza, cresce-se em humanidade e torna-se capazes de partilha.

10. Convido os irmãos bispos, os sacerdotes e, de modo particular, os diáconos, a quem foram impostas as mãos para o serviço aos pobres (cf. At 6,1-7), juntamente com as pessoas consagradas e tantos leigos e leigas que nas paróquias, nas associações e nos movimentos tornam palpável a resposta da Igreja ao grito dos pobres, a viver este Dia Mundial como um momento privilegiado de nova evangelização. Os pobres evangelizam-nos, ajudando-nos a descobrir cada dia a beleza do Evangelho. Não deixemos cair no vazio esta oportunidade de graça. Neste dia, sintamo-nos todos devedores para com eles, para que, estendendo reciprocamente as mãos um ao outro, se realize o encontro salvífico que sustenta a fé, torna eficaz a caridade e habilita a esperança para prosseguir com firmeza pelo caminho em direção ao Senhor que vem.

Vaticano, 13 de junho de 2018
Memória litúrgica de Santo António de Pádua

FRANCISCO

[00940-PO.01] [Texto original: Italiano - Tradução não oficial]

Traduzione in lingua polacca

Biedak zawołał, a Pan go usłyszał

1. ”Oto biedak zawołał, a Pan go wysłuchał” (Ps 34,7). Te słowa Psalmisty stają się też naszymi wtedy, gdy stykamy się z różnymi formami cierpienia i marginalizacji, doświadczanymi przez wielu braci i sióstr, których zazwyczaj określamy ogólnym terminem "ubodzy". Piszącemu te słowa Psalmiście nie jest obca ta sytuacja, wręcz przeciwnie, doświadcza on ubóstwa bezpośrednio, a jednak przekształca je w pieśń uwielbienia i dziękczynienia Panu. Psalm ten również dziś nam pozwala zanurzyć się w różne formy ubóstwa, zrozumieć kim są prawdziwi ubodzy, na których mamy zwrócić wzrok, by usłyszeć ich wołanie i rozeznać ich potrzeby.

Słowa te mówią nam przede wszystkim o tym, że Pan wysłuchuje ubogich, wołających do Niego i jest dobry wobec tych, którzy z sercem rozdartym przez smutek, samotność i wykluczenie w Nim szukają schronienia. Pan wysłuchuje wszystkich poniżonych, pozbawionych godności, którzy pomimo tego, co ich spotkało, mają siłę do zwrócenia wzroku ku górze, aby otrzymać światło i pocieszenie. Wysłuchuje On prześladowanych w imię fałszywej sprawiedliwości, uciskanych przez politykę niezgodną z zasadami i zastraszonych przez przemoc; mimo to świadomych, że w Bogu mają swojego Zbawiciela. To, co wyłania się z tej modlitwy, to przede wszystkim poczucie powierzenia się i zaufania Ojcu, który wysłuchuje i przyjmuje. Dzięki tym słowom możemy głębiej zrozumieć błogosławieństwo wypowiedziane przez Jezusa: "Błogosławieni ubodzy w duchu, albowiem do nich należy królestwo niebieskie" (Mt 5,3).

Pomimo tego wyjątkowego i pod wieloma względami niezasłużonego oraz niemożliwego do pełnego wyrażenia doświadczenia, wyczuwa się pragnienie podzielenia się nim z innymi, przede wszystkim z tymi, którzy tak, jak Psalmista, są biedni, odrzuceni i zmarginalizowani. W rzeczywistości nikt nie może czuć się wyłączony z miłości Ojca, szczególnie w świecie, który bogactwo czyni pierwszym celem i zamyka osoby na innych.

2. Psalm charakteryzuje postawę ubogiego i jego związek z Bogiem za pomocą trzech czasowników. Przede wszystkim "wołać". Stan ubóstwa nie wyraża się mową, lecz staje się krzykiem, który rozdziera niebiosa i dochodzi do Boga. Co oznacza wołanie ubogiego, jeśli nie cierpienie i samotność, rozczarowanie i nadzieję? Możemy zadać sobie pytanie: dlaczego ten krzyk, który wznosi się przed oblicze Boga, nie może dosięgnąć naszych uszu, pozostawiając nas obojętnymi i biernymi ? W takim Dniu jak ten, który dziś przezywamy, jesteśmy wezwani do poważnego rachunku sumienia, aby zrozumieć, czy naprawdę potrafimy słuchać ubogich.

Potrzebujemy zasłuchania w ciszę, aby rozpoznać ich głos. Jeśli mówimy za dużo, nie zdołamy ich usłyszeć. Obawiam się, że często wiele inicjatyw, nawet godziwych i koniecznych, jest bardziej ukierunkowanych na samozadowolenie, niż na prawdziwe rozpoznanie wołania ubogiego. Z powodu tego ukierunkowania na samozadowolenie, gdy ubodzy zaczną wznosić swoje wołanie, to nasza reakcja nie będzie odpowiednia, ponieważ nie będziemy w stanie wczuć się w ich sytuację. Staliśmy się więźniami kultury, która nakłania do przeglądania się w lustrze i do nadmiernej troski o siebie, uważając, że wystarczy gest altruizmu aby być zadowolonym, bez konieczności bezpośredniego zaangażowania.

3. Drugi czasownik to "odpowiedzieć". Jak mówi Psalmista, Pan nie tylko słyszy wołanie ubogiego, ale również mu odpowiada. Jego odpowiedź, jak potwierdza cała historia zbawienia, jest pełnym miłości udziałem w sytuacji ubogiego. Tak było, gdy Abraham wyraził Bogu pragnienie posiadania potomstwa, chociaż on i jego żona Sara, już w podeszłym wieku, nie mogli mieć dzieci (Rdz 15,1-6). Tak się stało, gdy Mojżesz, za pośrednictwem płonącego krzewu ognia, otrzymał objawienie Imienia Bożego i misję, aby wyprowadzić lud z Egiptu (por. Wj 3,1-15). I ta odpowiedź potwierdzała się podczas całej wędrówki ludu na pustyni, kiedy odczuwał dotkliwy głód i pragnienie (por. Wj 16,1-16; 17,1-7), i kiedy popadał w najgorszą nędzę: w niewierność przymierzu oraz w bałwochwalstwo (por. Wj 32,1-14).

Odpowiedzią Boga wobec ubogiego jest zawsze interwencja zbawcza, by opatrzyć rany duszy i ciała, aby przywrócić sprawiedliwość i godne życie. Odpowiedź Boga jest również wezwaniem, aby każdy, kto wierzy w Niego, czynił to samo według swoich ludzkich możliwości. Światowy Dzień ubogich zamierza być maleńką odpowiedzią całego Kościoła, rozsianego po całym świecie, skierowaną do wszystkich ubogich, aby nie myśleli, że ich krzyk upadł w próżnię. Prawdopodobnie będzie kroplą wody na pustyni ubóstwa, mimo to jednak może stać się oznaką dzielenia z potrzebującymi, aktywnego odczuwania obecności brata i siostry. Biedni nie potrzebują aktu delegacji, ale osobistego zaangażowania tych, którzy słuchają ich wołania. Troska wierzących nie może ograniczać się do pewnej formy pomocy - chociaż koniecznej i opatrznościowej na początku - ale wymaga owej „wrażliwości miłości” (Adhortacja Apostolska Evangelii Gaudium, 199), która traktuje drugiego jako osobę i szuka jego dobra.

4. Trzeci czasownik to "wyzwolić". Ubogi z Biblii żyje pewnością, że Bóg działa na jego korzyść, aby przywrócić mu godność. Nędza nie jest kwestią wyboru, ale wynikiem samolubstwa, pychy, chciwości i niesprawiedliwości. Zło jest tak stare, jak człowiek, ale to grzech właśnie dotyka tak wielu niewinnych i prowadzi do dramatycznych konsekwencji społecznych. Wyzwalające działanie Pana jest aktem zbawienia wobec tych, którzy przedstawili Mu swój smutek i udrękę. Niewola ubóstwa zostaje złamana mocą działania Boga. Wiele Psalmów opowiada i celebruje historię zbawienia, która znajduje odzwierciedlenie w osobistym życiu ubogiego: „Bo On nie wzgardził ani się nie brzydził nędzą biedaka, ani nie ukrył przed nim swojego oblicza i wysłuchał go, kiedy ten zawołał do Niego” (Ps 22,25). Możliwość kontemplacji oblicza Boga jest znakiem Jego przyjaźni, Jego bliskości, Jego zbawienia. „Boś wejrzał na moją nędzę, uznałeś udręki mej duszy […] postawiłeś me stopy na miejscu przestronnym.” (Ps 31,8-9). Podarować biednemu „przestronne miejsce” jest równoważne z uwolnieniem go z „sideł myśliwego” (por. Ps 91,3), z pułapki zastawionej na jego drodze, tak aby mógł on kroczyć szybko i pogodnie spoglądać na życie. Boże zbawienie przyjmuje formę wyciągniętej ku ubogiemu ręki, która ofiaruje gościnność, chroni i pozwala odczuć przyjaźń, której potrzebuje. I poczynając od tej konkretnej i namacalnej bliskości, rozpoczyna się prawdziwa droga wyzwolenia: „Każdy chrześcijanin i każda wspólnota są wezwani, by być narzędziami Boga na rzecz wyzwolenia i promocji ubogich, tak aby mogli oni w pełni włączyć się w społeczeństwo. Zakłada to, że jesteśmy uważni na krzyk ubogiego i gotowi go wesprzeć” (Adhortacja apostolska Evangelii Gaudium, 187).

5. Wzrusza mnie fakt, że tak wielu ubogich utożsamiło się z Bartymeuszem, o którym mówi Ewangelista Marek (zob. 10.46-52). Niewidomy Bartymeusz siedział przy drodze i żebrał (w. 46), a usłyszawszy, że Jezus przechodzi, „zaczął wołać” i wzywać „Syna Dawida”, by miał litość nad nim (por w. 47). „Wielu nastawało na niego, żeby umilkł. Lecz on jeszcze głośniej wołał” (w.48). Syn Boży usłyszał jego wołanie: „Co chcesz, abym ci uczynił?” A niewidomy mu odpowiedział: „Rabbuni, żebym przejrzał” (w. 51). Ta strona Ewangelii przedstawia to, co Psalm zwiastował jako obietnicę. Bartymeusz to ubogi, który pozbawiony jest podstawowych możliwości, takich jak wzrok i praca. Również dzisiaj wiele dróg prowadzi do różnych form niepewności! Brak podstawowych środków do życia, marginalizacja, gdy nie jest się już w pełni swoich sił roboczych, różne formy niewolnictwa społecznego, pomimo postępów osiągniętych przez ludzkość... Iluż ubogich, podobnie jak Bartymeusz, jest dziś na skraju drogi i szuka sensu swojej sytuacji! Ilu zastanawia się, dlaczego zeszli na dno tej otchłani i jak można się z niej wydostać! Czekają, aż ktoś podejdzie do nich i powie: „Bądź dobrej myśli, wstań, woła cię!” (w. 49).

Niestety, często się zdarza coś zupełnie przeciwnego. Ubodzy słyszą słowa, które są zarzutami i zaproszeniem do milczenia oraz do cierpienia. Są to głosy konfliktowe, często uzależnione od strachu wobec ubogich, którzy są traktowani nie jako ludzie potrzebujący, ale jako przynoszący niepewność, niestabilność, dezorientację w codziennych nawykach, a zatem godni odrzucenia i trzymania się od nich z dala. Mamy skłonność do tworzenia dystansu między nami a nimi i nie zdajemy sobie sprawy, że w ten sposób oddalamy się od Pana Jezusa, który ich nie odrzuca, ale wzywa do siebie i pociesza. Jak stosownie brzmią w tym przypadku słowa proroka o stylu życia wierzącego: „rozerwać kajdany zła, rozwiązać więzy niewoli, wypuścić wolno uciśnionych i wszelkie jarzmo połamać; dzielić swój chleb z głodnym, wprowadzić w dom biednych tułaczy, nagiego, którego ujrzysz, przyodziać” (Iz 58,6-7). Taki sposób postępowania pozwoli na to, że grzech zostanie odpuszczony (por. 1 P 4,8), że sprawiedliwość pójdzie swoją drogą i wtedy, gdy zawołamy do Pana, On odpowie i rzeknie: oto jestem! (por. Iz 58,9).

6. Ubodzy są pierwszymi, którzy potrafią rozpoznać obecność Boga i świadczą o jego bliskości w ich życiu. Bóg pozostaje wierny swojej obietnicy i nawet w ciemności nocy nie pozbawia ciepła Swojej miłości i Swojego pocieszenia. Jednak by pokonać przytłaczający stan ubóstwa koniecznym jest, aby ubodzy doświadczyli obecności braci i sióstr, którzy się o nich troszczą, a otwierając drzwi serca i życia dadzą odczuć, że są przyjaciółmi i rodziną. Tylko w ten sposób możemy odkryć "zbawczą moc ich egzystencji" i "umieścić ją w centrum życia Kościoła" (Adhortacja apostolska Evangelii Gaudium, 198).

W ten Światowy Dzień jesteśmy zaproszeni do nadania treści słowom psalmu: „Ubodzy będą jedli i nasycą się” (Ps 22, 27). Wiemy, że w świątyni jerozolimskiej, po rytuale ofiary, odbywało się przyjęcie. W ubiegłym roku w wielu diecezjach to doświadczenie wzbogaciło obchody pierwszego Światowego Dnia Ubogich. Wielu odnalazło ciepło domu, radość świątecznego posiłku i solidarność tych, którzy zechcieli podzielić się stołem w prosty i braterski sposób. Chciałbym, aby również w tym roku i w przyszłości Dzień ten był świętowany pod znakiem radości z nowo odkrytej rzeczywistości bycia razem. Modlitwa we wspólnocie i dzielenie się posiłkiem w niedzielę to doświadczenia, które wprowadzają nas na nowo do pierwotnej wspólnoty chrześcijańskiej, którą opisuje Ewangelista Łukasz w całej swojej oryginalności i prostocie: „Trwali oni w nauce Apostołów i we wspólnocie, w łamaniu chleba i w modlitwach. […] Ci wszyscy, co uwierzyli, przebywali razem i wszystko mieli wspólne. Sprzedawali majątki i dobra i rozdzielali je każdemu według potrzeby.” (Dz 2,42.44-45).

7. Jest wiele inicjatyw, które codziennie podejmuje wspólnota chrześcijańska, aby okazać bliskość i ulgę w wielu formach ubóstwa, które widzimy. Często współpraca z innymi organizacjami, które działają niekoniecznie z pobudek wiary, ale ze względu na ludzką solidarność, może przynieść pomoc, której sami nie bylibyśmy w stanie osiągnąć. Świadomość, że w niezmierzonym świecie ubóstwa nawet nasz wkład jest ograniczony, słaby i niewystarczający, prowadzi do wyciągnięcia ręki do innych, aby wzajemna współpraca mogła skuteczniej osiągnąć cel. Jesteśmy umotywowani wiarą i przykazaniem miłości, ale uznajemy inne formy pomocy i solidarności, które po części stawiają przed sobą te same cele; pod warunkiem że nie zaniedbujemy tego, co jest właściwe nam, to znaczy doprowadzić wszystkich do Boga i do świętości. Dialog z innymi doświadczeniami i pokora gotowości naszej współpracy, bez jakichkolwiek uprzedzeń, jest adekwatną i w pełni ewangeliczną odpowiedzią, jakiej możemy udzielić.

W pomocy ubogim nie chodzi o odegranie pewnej roli, by uzyskać pierwszeństwo działania, ale to, byśmy mogli pokornie przyznać, że to Duch Święty sugeruje gesty, które są znakiem odpowiedzi i bliskości Boga. Kiedy znajdujemy okazję, aby zbliżyć się do ubogich, musimy zdać sobie sprawę z tego, że pierwszeństwo należy do Niego, gdyż to On otworzył nasze oczy i nasze serce na nawrócenie. Ubodzy nie potrzebują osób, które działają aby zadowolić najpierw siebie. Ubodzy potrzebują miłości, która potrafi się ukryć i zapomnieć o wyrządzonym dobru. Prawdziwym pierwszym planem działania jest Pan oraz ubodzy. Ten, kto oddaje się na służbę, jest narzędziem w ręku Boga, aby ukazać Jego obecność i Jego zbawienie. Wspomina o tym św. Paweł pisząc do chrześcijan w Koryncie, którzy rywalizowali ze sobą pod względem charyzmatów, szukając tych najbardziej prestiżowych: „Nie może więc oko powiedzieć ręce: «Nie jesteś mi potrzebna», albo głowa nogom: «Nie potrzebuję was».” (1 Kor 12, 21). Apostoł czyni ważną uwagę podkreślając, że członki ciała, które wydają się słabsze, są właśnie najbardziej potrzebne (zob. w. 22); „a te, które uważamy za mało godne szacunku, tym większym obdarzamy poszanowaniem. Tak przeto szczególnie się troszczymy o przyzwoitość wstydliwych członków ciała, a te, które nie należą do wstydliwych, tego nie potrzebują.” (w. 23-24). Dając podstawowe nauczanie o charyzmatach, Paweł poucza wspólnotę także o ewangelicznej postawie wobec jej najsłabszych i najbardziej potrzebujących członków. Z dala od uczucia pogardy i litości wobec nich; uczniowie Chrystusa są powołani raczej, aby okazać im szacunek, dać im pierwszeństwo w przekonaniu, że są oni znakiem prawdziwej obecności Jezusa wśród nas. „Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili”. (Mt 25,40).

8. Dzięki temu zrozumiałym staje się, jak odległy jest nasz styl życia od stylu życia świata, który chwali, postępuje i naśladuje tych, którzy mają władzę i bogactwo, jednocześnie marginalizując ubogich i uważa ich za odpadki i coś wstydliwego. Słowa Apostoła są zaproszeniem, by wypełnić ewangeliczne wezwanie do solidarności ze słabszymi i mniej obdarzonymi członkami ciała Chrystusowego: „Tak więc, gdy cierpi jeden członek, współcierpią wszystkie inne członki; podobnie gdy jednemu członkowi okazywane jest poszanowanie, współweselą się wszystkie członki” (1 Kor 12,26). Tak samo w Liście do Rzymian napomina nas: „Weselcie się z tymi, którzy się weselą, płaczcie z tymi, którzy płaczą. Bądźcie zgodni we wzajemnych uczuciach! Nie gońcie za wielkością, lecz niech was pociąga to, co pokorne (12,15-16). Takie jest powołanie ucznia Chrystusa; ideał, do którego musimy nieustannie dążyć, aby coraz bardziej asymilować w nas „dążenia Jezusa Chrystusa” (Flp 2, 5).

9. Słowo nadziei staje się naturalnym zakończeniem, do którego prowadzi wiara. Często to właśnie ubodzy podważają naszą obojętność, która jest owocem wizji życia zbyt skoncentrowanego na sobie oraz nadmiernie powiązanego z teraźniejszością. Wołanie ubogiego jest również okrzykiem nadziei, poprzez który manifestuje on pewność, że zostanie wyzwolony. Nadzieja ta oparta jest na miłości Boga, który nie porzuca tego, kto mu się powierza (por. Rz 8, 31-39). Święta Teresa z Ávili napisała w swojej Drodze doskonałości: "Ubóstwo jest dobrem, które zawiera w sobie wszystkie dobra świata; zapewnia nam wielkie panowanie, to znaczy: czyni nas właścicielami wszystkich ziemskich dóbr, ponieważ sprawia, że nimi gardzimy "(2, 5). Na miarę tego, jak jesteśmy w stanie rozpoznać prawdziwe dobro, stajemy się bogaci przed Bogiem oraz mądrzy przed sobą i przed innymi. Jest dokładnie tak: na tyle, na ile zdoła się nadać właściwy i prawdziwy sens bogactwu, wzrasta się w człowieczeństwie i staje się zdolnym do dzielenia się z innymi.

10. Zapraszam braci Biskupów, Kapłanów a w szczególności Diakonów, na których nałożono ręce dla służby ubogim (por. Dz 6,1-7), zapraszam Osoby konsekrowane oraz Świeckich, którzy w parafiach, stowarzyszeniach oraz ruchach dają konkretną odpowiedź Kościoła na wołanie ubogich, aby przeżyli w ten Światowy Dzień Ubogich jako uprzywilejowany moment nowej ewangelizacji. Ubodzy nas ewangelizują, pomagając nam odkrywać każdego dnia piękno Ewangelii. Nie przegapmy tej okazji do bycia łaskawymi. Poczujmy się wszyscy w tym dniu dłużnikami ubogich, abyśmy poprzez wyciągnięte ręce do siebie nawzajem mogli zrealizować zbawcze spotkanie, które umacnia wiarę, urzeczywistnia miłość i umożliwia nadzieję w kroczeniu bezpiecznie na drodze do Pana, który przychodzi.

Z Watykanu, 13 czerwca 2018 r
Wspomnienie liturgiczne św. Antoniego z Padwy

FRANCISZEK

[00940-PL.01] [Testo originale: Italiano]

[B0443-XX.02]