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Santa Messa celebrata dal Santo Padre Francesco nella II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, 08.04.2018


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 10.30 di oggi, II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica in Piazza San Pietro.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato, dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20); poi dissero a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore» (v. 25). Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: «Mostrò loro le mani e il fianco» (v. 20). Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi» (v. 25) e dopo aver veduto credette (v. 27).

Nonostante la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le sue piaghe, i segni del suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso «Didimo» (v. 24), cioè gemello, e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi non basta sapere che Dio c’è: non ci riempie la vita un Dio risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di “vedere Dio”, di toccare con mano che è risorto, e risorto per noi.

Come possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le sue piaghe. Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l’aveva rinnegato e chi l’aveva abbandonato. Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi. Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia (cfr vv. 19-20) più forti di ogni dubbio.

Tommaso, dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Vorrei attirare l’attenzione su quell’aggettivo che Tommaso ripete: mio. È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso fare mio l’Onnipotente? In realtà, dicendo mio non profaniamo Dio, ma onoriamo la sua misericordia, perché è Lui che ha voluto “farsi nostro”. E come in una storia di amore, gli diciamo: “Ti sei fatto uomo per me, sei morto e risorto per me e allora non sei solo Dio; sei il mio Dio, sei la mia vita. In te ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”.

Dio non si offende a essere “nostro”, perché l’amore chiede confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei dieci comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2) e ribadiva: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (v. 5). Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si presenta come tuo Dio. E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «Mio Signore e mio Dio!». Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore! Non dobbiamo avere paura di questa parola: innamorati del Signore.

Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che la sera stessa di Pasqua (cfr v. 19), cioè appena risorto, Gesù, per prima cosa, dona lo Spirito per perdonare i peccati. Per sperimentare l’amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare? Per sperimentare quell’amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio perdonare? “Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile…”. Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo: barricarci a porte chiuse. Essi lo facevano per timore e noi pure abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura.

C’è invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della rassegnazione. La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il “capitolo Gesù” sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla era cambiato, rassegniamoci. Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia. Ma il Signore ci interpella: “Non credi che la mia misericordia è più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!”. E poi – chi conosce il Sacramento del perdono lo sa – non è vero che tutto rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati, perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita cristiana.

Dopo la vergogna e la rassegnazione, c’è un’altra porta chiusa, a volte blindata: il nostro peccato, lo stesso peccato. Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà, non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però, è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio “a porte chiuse” l’abbiamo sentito –, quando ogni varco sembra sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie. Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere il nostro Dio: di trovare nel suo perdono la nostra gioia, di trovare nella sua misericordia la nostra speranza.

[00556-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Dans l’Évangile de ce jour, le verbe voir revient plusieurs fois: «Les disciples furent remplis de joie en voyant le Seigneur» (Jn 20, 20). Ils dirent ensuite à Thomas: «Nous avons vu le Seigneur» (v.25). Mais l’Évangile ne décrit pas comment ils l’ont vu, il ne décrit pas le Ressuscité, il met seulement en évidence un détail: «Il leur montra ses mains et son côté» (v. 20). L’Évangile semble vouloir nous dire que les disciples ont reconnu Jésus ainsi: par ses plaies. La même chose est arrivée à Thomas: lui aussi voulait voir «dans ses mains la marque des clous» (v. 25) et croire après avoir vu (v. 27).

Malgré son incrédulité, nous devons remercier Thomas car il ne s’est pas contenté d’entendre dire par les autres que Jésus était vivant, ni même de le voir en chair et en os; mais il a voulu voir dedans, toucher de la main ses plaies, les signes de son amour. L’Évangile appelle Thomas «Didyme» (v. 24), ce qui veut dire jumeau, et, en cela, il est vraiment notre frère jumeau. Car il ne nous suffit pas non plus de savoir que Dieu existe: un Dieu ressuscité mais lointain ne remplit pas notre vie; un Dieu distant ne nous attire pas, même s’il est juste et saint. Non, nous avons besoin, nous aussi, de “voir Dieu”, de toucher de la main qu’il est ressuscité, et ressuscité pour nous.

Comment pouvons-nous le voir? Comme les disciples: à travers ses plaies. En regardant ces plaies, ils ont compris qu’il ne les aimait pas pour plaisanter et qu’il les pardonnait même s’il y en avait un parmi eux qui l’avait renié et qui l’avait abandonné. Entrer dans ses plaies, c’est contempler l’amour démesuré qui déborde de son cœur. Voilà le chemin! C’est comprendre que son cœur bat pour moi, pour toi, pour chacun de nous. Chers frères et sœurs, nous pouvons nous estimer et nous dire chrétiens, et parler de nombreuses belles valeurs de la foi, mais, comme les disciples, nous avons besoin de voir Jésus en touchant son amour. C’est seulement ainsi que nous allons au cœur de la foi et, comme les disciples, nous trouvons une paix et une joie (cf. vv. 19-20) plus fortes que tout doute.

Thomas s’est exclaméaprès avoir vu les plaies du Seigneur : «Mon Seigneur et mon Dieu!» (v. 28). Je voudrais attirer l’attention sur cet adjectif que Thomas répète: mon. C’est un adjectif possessif et, si nous y réfléchissons bien, il pourrait sembler déplacé de le référer à Dieu: Comment Dieu peut-il être à moi? Comment puis-je faire mien le Tout Puissant? En réalité, en disant mon nous ne profanons pas Dieu, mais nous honorons sa miséricorde, parce que c’est lui qui a voulu se “faire nôtre”. Et nous lui disons, comme dans une histoire d’amour: “Tu t’es fait homme pour moi, tu es mort et ressuscité pour moi, et donc tu n’es pas seulement Dieu, tu es mon Dieu, tu es ma vie. En toi j’ai trouvé l’amour que je cherchais, et beaucoup plus, comme jamais je ne l’aurais imaginé”.

Dieu ne s’offense pas d’être “nôtre”, car l’amour demande de la familiarité, la miséricorde demande de la confiance. Déjà, au début des dix commandements, Dieu disait: «Je suis le Seigneur ton Dieu» (Ex 20,2) et il confirmait: «Moi le Seigneur ton Dieu, je suis un Dieu jaloux» (v.5). Voilà la proposition de Dieu, amoureux jaloux qui se présente comme ton Dieu. Et du cœur ému de Thomas jaillit la réponse: «Mon Seigneur et mon Dieu!». En entrant aujourd’hui, à travers les plaies, dans le mystère de Dieu, nous comprenons que la miséricorde n’est pas une de ses qualités parmi les autres, mais le battement de son cœur même. Et alors, comme Thomas, nous ne vivons plus comme des disciples hésitants, dévots mais titubants; nous devenons, nous aussi, de vrais amoureux du Seigneur! Nous ne devons pas avoir peur de ce mot: amoureux du Seigneur.

Comment savourer cet amour, comment toucher aujourd’hui de la main la miséricorde de Jésus? C’est encore l’Évangile qui nous le suggère lorsqu’il souligne que, le soir même de Pâques (cf. v. 19), c’est-à-dire à peine ressuscité, Jésus, avant toute chose, donne l’Esprit pour pardonner les péchés. Pour faire l’expérience de l’amour, il faut passer par là: se laisser pardonner. Se laisser pardonner. Je me demande, ainsi qu’à chacun d’entre vous: est-ce que moi, je me laisse pardonner? Pour faire l’expérience de cet amour, il faut passer par là. Est-ce que je me laisser pardonner, moi? ‘‘Mais, mon Père, aller se confesser semble difficile...’’. Face à Dieu, nous sommes tentés de faire comme les disciples dans l’Evangile: nous barricader, les portes fermées. Ils le faisaient par crainte, et, nous aussi, nous avons peur, honte de nous ouvrir et de dire nos péchés. Que le Seigneur nous donne la grâce de comprendre la honte, de la voir non pas comme une porte fermée, mais comme le premier pas de la rencontre. Quand nous éprouvons de la honte, nous devons être reconnaissants: cela veut dire que nous n’acceptons pas le mal, et cela est bon. La honte est une invitation secrète de l’âme qui a besoin du Seigneur pour vaincre le mal. Le drame c’est quand on n’a plus honte de rien. N’ayons pas peur d’éprouver de la honte! Et passons de la honte au pardon! N’ayez pas peur d’éprouver de la honte! N’ayez pas peur!

Il y a, en revanche, une porte fermée face au pardon du Seigneur, celle de la résignation. La résignation est toujours une porte fermée. Les disciples en ont fait l’expérience qui, à Pâques, constataient amèrement que tout était redevenu comme avant: ils étaient encore là, à Jérusalem, découragés; le “chapitre Jésus” semblait clos, et après tant de temps passé avec lui, rien n’avait changé; résignons-nous! Nous aussi nous pouvons penser: “Je suis chrétien depuis si longtemps, et pourtant rien ne change en moi, je commets toujours les mêmes péchés”. Alors, découragés, nous renonçons à la miséricorde. Mais le Seigneur nous interpelle: “Ne crois-tu pas que ma miséricorde est plus grande que ta misère? Tu récidives en péchant? Récidive en demandant la miséricorde, et nous verrons qui l’emportera! ” Et puis – celui qui connaît le Sacrement du pardon le sait – il n’est pas vrai que tout reste comme avant. A chaque pardon nous sommes ragaillardis, encouragés, car nous nous sentons à chaque fois plus aimés, davantage embrassés par le Père. Et quand, aimés, nous retombons, nous éprouvons davantage de souffrance qu’avant. C’est une souffrance bénéfique qui lentement nous éloigne du péché. Nous découvrons alors que la force de la vie, c’est de recevoir le pardon de Dieu et d’aller de l’avant, de pardon en pardon. Ainsi va la vie: de honte en honte, de pardon en pardon. C’est cela la vie chrétienne!

Après la honte et la résignation, il y a une autre porte fermée, blindée parfois: notre péché, le même péché. Quand je commets un gros péché, si moi, en toute honnêteté, je ne veux pas me pardonner, pourquoi Dieu devrait-il le faire? Mais cette porte est verrouillée seulement d’un côté, le nôtre; pour Dieu elle n’est jamais infranchissable. Comme nous l’apprend l’Évangile, il aime, justement, entrer “les portes étant fermées” – nous l’avons entendu –, quand tout passage semble barré. Là, Dieu fait des merveilles. Il ne décide jamais de se séparer de nous, c’est nous qui le laissons dehors. Mais quand nous nous confessons il se produit une chose inouïe: nous découvrons que précisément ce péché qui nous tenait à distance du Seigneur devient le lieu de la rencontre avec lui. Là, le Dieu blessé d’amour vient à la rencontre de nos blessures. Et il rend nos misérables plaies semblables à ses plaies glorieuses. Il y a une transformation: ma misérable plaie ressemble à ses plaies glorieuses. Car il est miséricorde et fait des merveilles dans nos misères. Comme Thomas, demandons aujourd’hui la grâce de reconnaître notre Dieu: de trouver dans son pardon notre joie, de trouver dans sa miséricorde notre espérance.

[00556-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

In today’s Gospel, we hear, over and over, the word “see”. The disciples rejoiced when they saw the Lord (Jn 20:20). They tell Thomas: “We have seen the Lord” (v. 25). But the Gospel does not describe how they saw him; it does not describe the risen Jesus. It simply mentions one detail: “He showed them his hands and his side” (v. 20). It is as if the Gospel wants to tell us that that is how the disciples recognized Jesus: through his wounds. The same thing happened to Thomas. He too wanted to see “the mark of the nails in his hands” (v. 25), and after seeing, he believed (v. 27).

Despite his lack of faith, we should be grateful to Thomas, because he was not content to hear from others that Jesus was alive, or merely to see him in the flesh. He wanted to see inside, to touch with his hand the Lord’s wounds, the signs of his love. The Gospel calls Thomas Didymus (v. 24), meaning the Twin, and in this he is truly our twin brother. Because for us too, it isn’t enough to know that God exists. A God who is risen but remains distant does not fill our lives; an aloof God does not attract us, however just and holy he may be. No, we too need to “see God”, to touch him with our hands and to know that he is risen, and risen for us.

How can we see him? Like the disciples: through his wounds. Gazing upon those wounds, the disciples understood the depth of his love. They understood that he had forgiven them, even though some had denied him and abandoned him. To enter into Jesus’ wounds is to contemplate the boundless love flowing from his heart. This is the way. It is to realize that his heart beats for me, for you, for each one of us. Dear brothers and sisters, we can consider ourselves Christians, call ourselves Christians and speak about the many beautiful values of faith, but, like the disciples, we need to see Jesus by touching his love. Only thus can we go to the heart of the faith and, like the disciples, find peace and joy (cf. vv. 19-20) beyond all doubt.

Thomas, after seeing the Lord’s wounds, cried out: “My Lord and my God!” (v. 28). I would like to reflect on the adjective that Thomas repeats: my. It is a possessive adjective. When we think about it, it might seem inappropriate to use it of God. How can God be mine? How can I make the Almighty mine? The truth is, by saying my, we do not profane God, but honour his mercy. Because God wished to “become ours”. As in a love story, we tell him: “You became man for me, you died and rose for me and thus you are not only God; you are my God, you are my life. In you I have found the love that I was looking for, and much more than I could ever have imagined”.

God takes no offence at being “ours”, because love demands confidence, mercy demands trust. At the very beginning of the Ten Commandments, God said: “I am the Lord your God” (Ex 20:2), and reaffirmed: “I, the Lord your God am a jealous God” (v. 5). Here we see how God presents himself as a jealous lover who calls himself your God. From the depths of Thomas’s heart comes the reply: “My Lord and my God!” As today we enter, through Christ’s wounds, into the mystery of God, we come to realize that mercy is not simply one of his qualities among others, but the very beating of his heart. Then, like Thomas, we no longer live as disciples, uncertain, devout but wavering. We too fall in love with the Lord! We must not be afraid of these words: to fall in love with the Lord.

How can we savour this love? How can we touch today with our hand the mercy of Jesus? Again, the Gospel offers a clue, when it stresses that the very evening of Easter (cf. v. 19), soon after rising from the dead, Jesus begins by granting the Spirit for the forgiveness of sins. To experience love, we need to begin there: to let ourselves be forgiven. To let ourselves be forgiven. I ask myself, and each one of you: do I allow myself to be forgiven? To experience that love, we need to begin there. Do I allow myself to be forgiven? “But, Father, going to confession may seem difficult…”. Before God we are tempted to do what the disciples did in the Gospel: to barricade ourselves behind closed doors. They did it out of fear, yet we too can be afraid, ashamed to open our hearts and confess our sins. May the Lord grant us the grace to understand shame, to see it not as a closed door, but as the first step towards an encounter. When we feel ashamed, we should be grateful: this means that we do not accept evil, and that is good. Shame is a secret invitation of the soul that needs the Lord to overcome evil. The tragedy is when we are no longer ashamed of anything. Let us not be afraid to experience shame! Let us pass from shame to forgiveness! Do not be afraid to be ashamed! Do not be afraid.

But there is still one door that remains closed before the Lord’s forgiveness, the door of resignation. Resignation is always a closed door. The disciples experienced it at Easter, when they recognized with disappointment how everything appeared to go back to what it had been before. They were still in Jerusalem, disheartened; the “Jesus chapter” of their lives seemed finished, and after having spent so much time with him, nothing had changed, they were resigned. We too might think: “I’ve been a Christian for all this time, but nothing has changed in me; I keep committing the same sins”. Then, in discouragement, we give up on mercy. But the Lord challenges us: “Don’t you believe that my mercy is greater than your misery? Are you a backslider? Then be a backslider in asking for mercy, and we will see who comes out on top”. In any event, – and anyone who is familiar with the sacrament of Reconciliation knows this – it isn’t true that everything remains the way it was. Every time we are forgiven, we are reassured and encouraged, because each time we experience more love, and more embraced by the Father. And when we fall again, precisely because we are loved, we experience even greater sorrow – a beneficial sorrow that slowly detaches us from sin. Then we discover that the power of life is to receive God’s forgiveness and to go forward from forgiveness to forgiveness. This is how life goes: from shame to shame, from forgiveness to forgiveness. This is the Christian life.

After the shame and resignation, there is another closed door. Sometimes it is even ironclad: our sin, the same sin. When I commit a grave sin, if I, in all honesty, do not want to forgive myself, why should God forgive me? This door, however, is only closed on one side, our own; but for God, no door is ever completely closed. As the Gospel tells us, he loves to enter precisely, as we heard, “through closed doors”, when every entrance seems barred. There God works his wonders. He never chooses to abandon us; we are the ones who keep him out. But when we make our confession, something unheard-of happens: we discover that the very sin that kept us apart from the Lord becomes the place where we encounter him. There the God who is wounded by love comes to meet our wounds. He makes our wretched wounds like his own glorious wounds. There is a transformation: my wretched wounds resemble his glorious wounds. Because he is mercy and works wonders in our wretchedness. Let us today, like Thomas, implore the grace to acknowledge our God: to find in his forgiveness our joy, and to find in his mercy our hope.

[00556-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Im heutigen Evangelium kehrt mehrfach das Verb sehen wieder: »Da freuten sich die Jünger, als sie den Herrn sahen« (Joh 20,20); dann sagten sie zu Thomas: »Wir haben den Herrn gesehen« (V. 25). Aber das Evangelium beschreibt nicht, wie sie ihn sahen, es beschreibt nicht den Auferstandenen, sondern hebt nur ein Detail hervor: Er »zeigte […] ihnen seine Hände und seine Seite« (V. 20). Es scheint uns sagen zu wollen, dass die Jünger Jesus so wiedererkannt haben: durch seine Wunden. Das Gleiche ist bei Thomas geschehen: Auch er wollte »das Mal der Nägel an seinen Händen« (V. 25) sehen, und nachdem er gesehen hatte, glaubte er (V. 27).

Trotz seines Unglaubens müssen wir Thomas danken, weil er sich nicht damit begnügt hat, von den anderen zu hören, dass Jesus lebt, und nicht einmal damit, ihn in Fleisch und Blut zu sehen, sondern hineinschauen wollte, seine Wunden, die Zeichen seiner Liebe, mit Händen berühren wollte. Das Evangelium nennt Thomas »Didymus« (V. 24), das heißt Zwilling, und darin ist er wirklich unser Zwillingsbruder. Denn auch uns genügt es nicht zu wissen, dass es Gott gibt: Ein auferstandener, aber ferner Gott erfüllt unser Leben nicht; ein ferner Gott, mag er noch so gerecht und heilig sein, zieht uns nicht an. Nein, auch wir haben es nötig, „Gott zu sehen“ und mit Händen zu greifen, dass er auferstanden ist und für uns auferstanden ist.

Wie können wir ihn sehen? So wie die Jünger: durch seine Wunden. Indem sie auf sie schauten, haben sie verstanden, dass er sie nicht aus Spaß liebte und ihnen vergab, auch wenn unter ihnen solche waren, die ihn verleugnet und ihn verlassen hatten. In seine Wunden eintreten heißt seine unermessliche Liebe betrachten, die aus seinem Herzen entspringt. Das ist der Weg. Es bedeutet zu verstehen, dass sein Herz für mich, für dich, für jeden von uns schlägt. Liebe Brüder und Schwestern, wir können uns für Christen halten und uns so nennen, wir können über viele schöne Werte des Glaubens sprechen, doch tut es uns not, wie die Jünger Jesus zu sehen, indem wir seine Liebe berühren. Nur so gehen wir zur Herzmitte des Glaubens und finden wir wie die Jünger einen Frieden und eine Freude (vgl. Vv. 19-20), die stärker sind als jeder Zweifel.

Nachdem Thomas die Wunden gesehen hatte, rief er aus: »Mein Herr und mein Gott!« (V. 28). Ich möchte auf das Pronomen aufmerksam machen, das Thomas wiederholt: mein. Es ist ein Possessivpronomen und könnte, wenn wir darüber nachdenken, unangebracht scheinen in Bezug auf Gott: Wie kann Gott mein sein? Wie kann ich den Allmächtigen mein werden lassen? Wenn wir mein Sagen, entehren wir Gott in Wirklichkeit nicht, sondern ehren seine Barmherzigkeit, weil nämlich er „unser werden“ wollte. Und wie in einer Liebesgeschichte sagen wir ihm: „Du bist für mich Mensch geworden, du bist für mich gestorben und auferstanden, und daher bist du nicht nur Gott – du bist mein Gott, du bist mein Leben. In dir habe ich die Liebe gefunden, die ich suchte, und noch viel mehr, als ich mir je hätte vorstellen können.“

Gott sieht es nicht als Beleidigung an, „unser“ zu sein, weil die Liebe Vertrautheit erfordert, die Barmherzigkeit Vertrauen verlangt. Schon am Anfang der Zehn Gebote sagte Gott: »Ich bin der Herr, dein Gott« (Ex 20,2), und bekräftigte: »Denn ich bin der Herr, dein Gott, ein eifersüchtiger Gott« (V. 5). Das ist das Angebot Gottes als eifersüchtiger Liebender, der sich als dein Gott vorstellt. Und aus dem ergriffenen Herzen des Thomas kommt die Antwort: »Mein Herr und mein Gott!« Wenn wir heute durch die Wunden in das Geheimnis Gottes eintreten, verstehen wir, dass die Barmherzigkeit nicht eine seiner Eigenschaften unter anderen ist, sondern sein Herzschlag selbst. Leben wir also wie Thomas nicht mehr als unsichere, als fromme, aber zaudernde Jünger; werden auch wir zu echten in den Herrn Verliebten! Wir dürfen vor diesem Wort keine Angst haben: in den Herrn Verliebte.

Wie können wir diese Liebe kosten, wie können wir heute die Barmherzigkeit Jesu mit Händen greifen? Das Evangelium wieder legt es uns nahe, wenn es unterstreicht, dass am Abend des Ostertages selbst (vgl. V. 19) der eben auferstandene Jesus als Erstes den Geist schenkt, um die Sünden zu vergeben. Um die Liebe zu erfahren, muss man hier durch: sich verzeihen lassen. Sich verzeihen lassen. Ich frage mich und jeden von euch: Lasse ich mir verzeihen? Um diese Liebe zu erfahren, muss man hier durch. Lasse ich mir verzeihen? „Aber, Pater, beichten zu gehen scheint schwierig...“ Wir sind versucht, uns Gott gegenüber so zu verhalten wie die Jünger im Evangelium: uns hinter verschlossenen Türen verschanzen. Sie taten es aus Angst, und auch wir haben Angst, Scham, uns zu öffnen und die Sünden zu sagen. Möge der Herr uns die Gnade geben, die Scham zu verstehen und sie nicht als eine verschlossene Tür zu sehen, sondern als den ersten Schritt der Begegnung. Wenn wir Scham verspüren, müssen wir dankbar sein: Es bedeutet nämlich, dass wir das Böse nicht annehmen, und das ist gut. Die Scham ist eine versteckte Einladung der Seele, die den Herrn braucht, um das Böse zu besiegen. Das Drama ist, wenn man sich für nichts mehr schämt. Haben wir keine Angst, Scham zu empfinden! Und gehen wir von der Scham zur Vergebung über! Habt keine Angst, euch zu schämen! Habt keine Angst.

Es gibt hingegen eine verschlossene Tür für die Vergebung des Herrn, jene der Resignation. Die Resignation ist immer eine verschlossene Tür. Die Jünger haben sie erlebt, die an Ostern bitter feststellten, dass alles wieder so wie vorher war: Sie waren noch dort, in Jerusalem, verzagt; das „Kapitel Jesus“ schien zu Ende, und nach so langer Zeit mit ihm hatte sich nichts verändert, wir geben auf. Auch wir können denken: „Ich bin seit langem Christ, und doch ändert sich nichts in mir, ich begehe immer die gleichen Sünden.“ Dann verzichten wir verzagt auf die Barmherzigkeit. Aber der Herr stellt uns die Frage: „Glaubst du nicht, dass meine Barmherzigkeit größer ist als dein Elend? Bist du im Sündigen rückfällig? Sei darin rückfällig, um Barmherzigkeit zu bitten, und wir werden sehen, wer siegen wird!“ Und dann – wer das Sakrament der Vergebung kennt, weiß es – ist es nicht wahr, dass alles beim Alten bleibt. Bei jeder Vergebung werden wir bestärkt, ermutigt, weil wir uns mit jedem Mal geliebter, vom Vater noch mehr umarmt fühlen. Und wenn wir als Geliebte erneut fallen, empfinden wir mehr Schmerz als vorher. Es ist ein wohltuender Schmerz, der uns allmählich von der Sünde trennt. Wir entdecken dann, dass die Kraft des Lebens darin liegt, die Vergebung Gottes zu empfangen und weiter zu gehen, von Vergebung zu Vergebung. So geht das Leben: von Scham zu Scham, von Verzeihung zu Verzeihung. Das ist das christliche Leben.

Nach der Scham und der Resignation gibt es eine weitere verschlossene Tür, die zuweilen eine Panzertür ist: unsere Sünde, die Sünde selbst. Wenn ich eine große Sünde begehe, wenn ich mir in aller Ehrlichkeit nicht vergeben will, warum sollte dann Gott es tun? Diese Tür aber ist nur von einer Seite verschlossen, von unserer; für Gott ist sie nie unüberwindlich. Er liebt es, wie uns das Evangelium lehrt, gerade „bei verschlossenen Türen“ einzutreten, - wir haben es gehört - wenn jeder Durchgang versperrt scheint. Dort wirkt Gott Wundertaten. Er beschließt nie, sich von uns zu trennen – wir sind es, die ihn draußen lassen. Aber wenn wir beichten, geschieht das Unerhörte: Wir entdecken, dass gerade diese Sünde, die uns vom Herrn fernhielt, zum Ort der Begegnung mit ihm wird. Dort kommt der von Liebe verwundete Herr unseren Wunden entgegen. Und er macht unsere erbärmlichen Wunden seinen glorreichen Wunden ähnlich. Es gibt eine Verwandlung: meine erbärmliche Wunde wird seinen glorreichen Wunden ähnlich. Denn er ist Barmherzigkeit und wirkt in unserem Elend Wunder. Wie Thomas bitten wir heute um die Gnade, unseren Gott zu erkennen: in seiner Vergebung unsere Freude zu finden, in seiner Barmherzigkeit unsere Hoffnung zu finden.

[00556-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

 

En el Evangelio de hoy aparece varias veces el verbo ver: «Los discípulos se llenaron de alegría al ver al Señor» (Jn 20,20); luego, dijeron a Tomás: «Hemos visto al Señor» (v. 25). Pero el Evangelio no describe al Resucitado ni cómo lo vieron; solo hace notar un detalle: «Les enseñó las manos y el costado» (v. 20). Es como si quisiera decirnos que los discípulos reconocieron a Jesús de ese modo: a través de sus llagas. Lo mismo sucedió a Tomás; también él quería ver «en sus manos la señal de los clavos» (v. 25) y después de haber visto creyó (v. 27).

A pesar de su incredulidad, debemos agradecer a Tomás que no se conformara con escuchar a los demás decir que Jesús estaba vivo, ni tampoco con verlo en carne y hueso, sino que quiso ver en profundidad, tocar sus heridas, los signos de su amor. El Evangelio llama a Tomás «Dídimo» (v. 24), es decir, mellizo, y en su actitud es verdaderamente nuestro hermano mellizo. Porque tampoco para nosotros es suficiente saber que Dios existe; no nos llena la vida un Dios resucitado pero lejano; no nos atrae un Dios distante, por más que sea justo y santo. No, tenemos también la necesidad de “ver a Dios”, de palpar que él resucitó, resucitó por nosotros.

¿Cómo podemos verlo? Como los discípulos, a través de sus llagas. Al mirarlas, ellos comprendieron que su amor no era una farsa y que los perdonaba, a pesar de que estuviera entre ellos quien lo renegó y quien lo abandonó. Entrar en sus llagas es contemplar el amor inmenso que brota de su corazón. Este es el camino. Es entender que su corazón palpita por mí, por ti, por cada uno de nosotros. Queridos hermanos y hermanas: Podemos considerarnos y llamarnos cristianos, y hablar de los grandes valores de la fe, pero, como los discípulos, necesitamos ver a Jesús tocando su amor. Solo así vamos al corazón de la fe y encontramos, como los discípulos, una paz y una alegría (cf. vv. 19-20) que son más sólidas que cualquier duda.

Tomás, después de haber visto las llagas del Señor, exclamó: «¡Señor mío y Dios mío!» (v. 28). Quisiera llamar la atención sobre este adjetivo que Tomás repite: mío. Es un adjetivo posesivo y, si reflexionamos, podría parecer fuera de lugar atribuirlo a Dios: ¿Cómo puede Dios ser mío? ¿Cómo puedo hacer mío al Omnipotente? En realidad, diciendo mío no profanamos a Dios, sino que honramos su misericordia, porque él es el que ha querido “hacerse nuestro”. Y como en una historia de amor, le decimos: “Te hiciste hombre por mí, moriste y resucitaste por mí, y entonces no eres solo Dios; eres mi Dios, eres mi vida. En ti he encontrado el amor que buscaba y mucho más de lo que jamás hubiera imaginado”.

Dios no se ofende de ser “nuestro”, porque el amor pide intimidad, la misericordia suplica confianza. Cuando Dios comenzó a dar los diez mandamientos ya decía: «Yo soy el Señor, tu Dios» (Ex 20,2) y reiteraba: «Yo, el Señor, tu Dios, soy un Dios celoso» (v. 5). He aquí la propuesta de Dios, amante celoso que se presenta como tu Dios. Y la respuesta brota del corazón conmovido de Tomás: «¡Señor mío y Dios mío!». Entrando hoy en el misterio de Dios a través de las llagas, comprendemos que la misericordia no es una entre otras cualidades suyas, sino el latido mismo de su corazón. Y entonces, como Tomás, no vivimos más como discípulos inseguros, devotos pero vacilantes, sino que nos convertimos también en verdaderos enamorados del Señor. No tengamos miedo a esta palabra: enamorados del Señor.

¿Cómo saborear este amor, cómo tocar hoy con la mano la misericordia de Jesús? Nos lo sugiere el Evangelio, cuando pone en evidencia que la misma noche de Pascua (cf. v. 19), lo primero que hizo Jesús apenas resucitado fue dar el Espíritu para perdonar los pecados. Para experimentar el amor hay que pasar por allí: dejarse perdonar. Dejarse perdonar. Me pregunto a mí, y a cada uno de vosotros: ¿Me dejo perdonar? Para experimentar ese amor, se necesita pasar por esto: ¿Me dejo perdonar? “Pero, Padre, ir a confesarse parece difícil…”, porque nos viene la tentación ante Dios de hacer como los discípulos en el Evangelio: atrincherarnos con las puertas cerradas. Ellos lo hacían por miedo y nosotros también tenemos miedo, vergüenza de abrirnos y decir los pecados. Que el Señor nos conceda la gracia de comprender la vergüenza, de no considerarla como una puerta cerrada, sino como el primer paso del encuentro. Cuando sentimos vergüenza, debemos estar agradecidos: quiere decir que no aceptamos el mal, y esto es bueno. La vergüenza es una invitación secreta del alma que necesita del Señor para vencer el mal. El drama está cuando no nos avergonzamos ya de nada. No tengamos miedo de sentir vergüenza. Pasemos de la vergüenza al perdón. No tengáis miedo de sentir vergüenza. No tengáis miedo.

Existe, en cambio, una puerta cerrada ante el perdón del Señor, la de la resignación. La resignación es siempre una puerta cerrada. La experimentaron los discípulos, que en la Pascua constataban amargamente que todo había vuelto a ser como antes. Estaban todavía allí, en Jerusalén, desalentados; el “capítulo Jesús” parecía terminado y después de tanto tiempo con él nada había cambiado, se resignaron. También nosotros podemos pensar: “Soy cristiano desde hace mucho tiempo y, sin embargo, en mí no cambia nada, cometo siempre los mismos pecados”. Entonces, desalentados, renunciamos a la misericordia. Pero el Señor nos interpela: “¿No crees que mi misericordia es más grande que tu miseria? ¿Eres reincidente en pecar? Sé reincidente en pedir misericordia, y veremos quién gana”. Además —quien conoce el sacramento del perdón lo sabe—, no es cierto que todo sigue como antes. En cada perdón somos renovados, animados, porque nos sentimos cada vez más amados, más abrazados por el Padre. Y cuando siendo amados caemos, sentimos más dolor que antes. Es un dolor benéfico, que lentamente nos separa del pecado. Descubrimos entonces que la fuerza de la vida es recibir el perdón de Dios y seguir adelante, de perdón en perdón. Así es la vida: de vergüenza en vergüenza, de perdón en perdón. Esta es la vida cristiana.

Además de la vergüenza y la resignación, hay otra puerta cerrada, a veces blindada: nuestro pecado, el mismo pecado. Cuando cometo un pecado grande, si yo —con toda honestidad— no quiero perdonarme, ¿por qué debe hacerlo Dios? Esta puerta, sin embargo, está cerrada solo de una parte, la nuestra; que para Dios nunca es infranqueable. A él, como enseña el Evangelio, le gusta entrar precisamente “con las puertas cerradas” —lo hemos escuchado—, cuando todo acceso parece bloqueado. Allí Dios obra maravillas. Él no decide jamás separarse de nosotros, somos nosotros los que le dejamos fuera. Pero cuando nos confesamos acontece lo inaudito: descubrimos que precisamente ese pecado, que nos mantenía alejados del Señor, se convierte en el lugar del encuentro con él. Allí, el Dios herido de amor sale al encuentro de nuestras heridas. Y hace que nuestras llagas miserables sean similares a sus llagas gloriosas. Existe una transformación: mi llaga miserable se parece a sus llagas gloriosas. Porque él es misericordia y obra maravillas en nuestras miserias. Pidamos hoy como Tomás la gracia de reconocer a nuestro Dios, de encontrar en su perdón nuestra alegría, de encontrar en su misericordia nuestra esperanza.

[00556-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

No Evangelho de Hoje, o verbo ver aparece várias vezes «Os discípulos se alegraram por verem o Senhor» (Jo 20,20); depois disseram a Tomé: «Vimos o Senhor» (v. 25). Mas o Evangelho não descreve como o viram, não descreve o Ressuscitado, apenas destaca um detalhe: «Mostrou-lhes as mãos e o lado» (v. 20). Parece significar que os discípulos reconheceram Jesus desse modo: através das suas chagas. O mesmo acontece com Tomé: ele também queria ver «a marca dos pregos em suas mãos » (v. 25) e, depois de ter visto, acreditou (cf. v. 27).

A pesar da sua incredulidade, temos de agradecer a Tomé, pois a ele não bastou ouvir dizer dos outros que Jesus estava vivo, e nem sequer com poder vê-Lo em carne e osso, mas quis ver dentro, tocar com a mão nas suas chagas, os sinais do seu amor. O Evangelho chama Tomé de «Dídimo» (v. 24), ou seja, gêmeo; e nisso ele é verdadeiramente nosso irmão gêmeo. Pois também a nós não basta saber que Deus existe: um Deus ressuscitado, mas longínquo, não nos preenche a nossa vida; não nos atrai um Deus distante, por mais que seja justo e santo. Não: Nós também precisamos “ver a Deus”, de “tocar com a mão” que Ele tenha ressuscitado, e ressuscitado por nós.

Como podemos vê-Lo? Como os discípulos: por meio das suas chagas. Olhando por ali, compreenderam que Ele não os amava de brincadeira e que os perdoava, embora entre eles houvesse quem O tivesse negado e O tivesse abandonado. Entrar nas suas chagas significa contemplar o amor sem medidas que brota do seu coração. Esse é o caminho. Significa entender que o seu coração bate por mim, por ti, por cada um de nós. Queridos irmãos e irmãs, podemos nos considerar e chamar-nos cristãos, e falar sobre muitos belos valores da fé, mas, como os discípulos, precisamos ver Jesus tocando o seu amor. Só assim podemos ir ao coração da fé e, como os discípulos, encontrar uma paz e uma alegria mais fortes que qualquer dúvida (cf. vv. 19-20).

Tomé, depois de ter visto as chagas do Senhor, exclamou: «Meu Senhor e meu Deus!» (v. 28). Queria chamar a atenção para esse pronome que Tomé repete: meu. Trata-se de um pronome possessivo e, se refletimos sobre isso, podia parecer fora do lugar referi-lo a Deus: como Deus pode ser meu? Como posso fazer que o Todo-poderoso seja meu? Na realidade, dizendo meu, não profanamos a Deus, mas honramos a sua misericórdia, pois foi Ele que quis “fazer-se nosso”. E, como numa história de amor, dizemos-Lhe: “Fizestes-vos homem por mim, morrestes e ressuscitastes por mim e agora não sois somente Deus; sois o meu Deus, sois a minha vida. Em vós encontrei o amor que eu procurava e muito mais, como nunca teria imaginado”.

Deus não se ofende de ser “nosso”, pois o amor exige familiaridade, a misericórdia requer confiança. Já no início dos dez mandamentos, Deus dizia: «Eu sou o Senhor, teu Deus» (Ex 20,2) e reiterava: «pois eu sou o Senhor teu Deus, um Deus zeloso» (v.5). Aqui está a proposta de Deus, amante zeloso, que se apresenta como teu Deus; e do coração comovido de Tomé brota a resposta: «Meu Senhor e meu Deus!». Entrando hoje, através das chagas, no mistério de Deus, entendemos que a misericórdia não é mais uma de suas qualidades entre outras, mas o palpitar do seu coração. E então, como Tomé, não vivemos mais como discípulos vacilantes; devotos, mas hesitantes; nós também nos tornamos verdadeiros enamorados do Senhor! Não devemos ter medo desta palavra: enamorados do Senhor!

Como saborear este amor, como tocar hoje com a mão a misericórdia de Jesus? O Evangelho também nos sugere isso, quando aponta que na tarde mesma da Páscoa (cf. Jo 20, 19), ou seja, logo depois de ressuscitar, Jesus, em primeiro lugar, dá o Espírito para perdoar os pecados. Para experimentar o amor, é preciso passar por ali: deixar-se perdoar. Deixar-se perdoar: pergunto a mim mesmo e a cada um de vós: “deixo-me perdoar?”. “- Mas, Padre, ir confessar-se parece difícil...”. Diante de Deus, somos tentados a fazer como os discípulos no Evangelho: trancarmo-nos por detrás de portas fechadas. Eles faziam isso por temor e nós também temos medo, vergonha de abrir-nos e contar os nossos pecados. Que o Senhor nos dê a graça de compreender a vergonha: de vê-la não como uma porta fechada, mas como o primeiro passo do encontro. Quando nos sentimos envergonhados, devemos ser agradecidos: quer dizer que não aceitamos o mal, e isso é bom. A vergonha é um convite secreto da alma que precisa do Senhor para vencer o mal. O drama está quando não se sente vergonha por coisa alguma. Não devemos ter medo de sentir vergonha! E assim passemos da vergonha ao perdão! Não tenhais medo de vos envergonhar! Não tenhais medo.

Contudo, há uma porta fechada diante do perdão do Senhor: é a resignação. A resignação é sempre uma porta fechada. Os discípulos a experimentaram quando, na Páscoa, constatavam que tudo tivesse voltado a ser como antes: ainda estavam lá, em Jerusalém, desalentados; o “capítulo Jesus” parecia terminado e, depois de tanto tempo com Ele, nada tinha mudado: “-Resignemo-nos”. Também nós podemos pensar: “Sou cristão há muito tempo, porém nada muda em mim, cometo sempre os mesmos pecados”. Então, desalentados, renunciamos à misericórdia. Entretanto, o Senhor nos interpela: “Não acreditas que a misericórdia é maior do que a tua miséria? Estás reincidente no pecado? Sê reincidente em clamar por misericórdia, e veremos quem leva a melhor!”. E depois – quem conhece o sacramento do perdão o sabe – não é verdade que tudo permaneça como antes. Em cada perdão recebemos novo alento, somos encorajados, pois nos sentimos cada vez mais amados, mais abraçados pelo Pai. E quando, sentindo-nos amados, caímos mais uma vez, sentimos mais dor do que antes. É uma dor benéfica, que lentamente nos separa do pecado. Descobrimos então que a força da vida é receber o perdão de Deus, e seguir em frente, de perdão em perdão. Assim segue a vida: de vergonha em vergonha, de perdão em perdão; Esta é a vida cristã.

Depois da vergonha e da resignação, existe outra porta fechada, às vezes blindada: o nosso pecado; o próprio pecado. Quando cometo um grande pecado, se eu, com toda a honestidade, não quero me perdoar, por que o faria Deus? Esta porta, no entanto, está fechada só de um lado: o nosso; para Deus nunca é intransponível. Ele, como nos ensina o Evangelho, adora entrar justamente através “das portas fechadas” – como escutamos -, quando todas as passagens parecem bloqueadas. Lá Deus faz maravilhas. Ele nunca decide separar-se de nós, somos nós que o deixamos do lado de fora. Mas quando nos confessamos, tem lugar o inaudito: descobrimos que precisamente aquele pecado, que nos mantinha distantes do Senhor, converte-se no lugar do encontro com Ele. Ali o Deus ferido de amor vem ao encontro das nossas feridas. E torna as nossas chagas miseráveis semelhantes às suas chagas gloriosas. Trata-se de uma transformação: a minha chaga miserável torna-se semelhante às suas chagas gloriosas. Pois Ele é misericórdia e faz maravilhas nas nossas misérias. Como Tomé, pedimos hoje a graça de reconhecer o nosso Deus: de encontrar no seu perdão a nossa alegria; de encontrar na sua misericórdia a nossa esperança.

[00556-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

W dzisiejszej Ewangelii wiele razy powtarza się czasownik „widzieć”: „Uradowali się uczniowie, ujrzawszy Pana” (J 20,20); następnie powiedzieli Tomaszowi: „Widzieliśmy Pana” (w. 25). Lecz Ewangelia nie opisuje, jak Go widzieli, nie opisuje Zmartwychwstałego, uwydatnia tylko jeden szczegół: „Pokazał im ręce i bok” (w. 20). Zdaje się, jakby nam chciała powiedzieć, że uczniowie rozpoznali Jezusa poprzez Jego rany. To samo stało się z Tomaszem: on także chciał zobaczyć „na rękach Jego ślad gwoździ” (w. 25), a gdy zobaczył – uwierzył (w. 27).

Musimy podziękować Tomaszowi, mimo jego niewiary, bo nie zadowolił się usłyszeniem od innych, że Jezus żyje, ani też zobaczeniem Go w ludzkiej postaci, ale chciał wejść do wnętrza, dotknąć jego ran, znaków Jego miłości. Ewangelia nazywa Tomasza „Didymos” (w.24), czyli bliźniakiem, i jest on w tym  naprawdę naszym bratem bliźniakiem. Bo i nam nie wystarcza wiedzieć, że Bóg istnieje: nie wypełnia naszego życia Bóg zmartwychwstały, lecz odległy; nie pociąga nas Bóg daleki, chociaż sprawiedliwy i święty. Nie, także i my musimy „zobaczyć Boga”, dotknąć własnymi rękami, że zmartwychwstał, i zmartwychwstał dla nas.

Jak to możemy zobaczyć? Podobnie jak uczniowie: przez Jego rany. Patrząc tam, uświadomili sobie, że nie kochał ich na niby i że im przebaczył, mimo że wśród nich byli tacy, którzy się Go zaparli i którzy Go opuścili. Wejście w Jego rany to kontemplowanie bezgranicznej miłości, wypływającej z Jego serca. To jest droga. To zrozumieć, że Jego serce bije dla mnie, dla ciebie, dla każdego z nas. Drodzy bracia i siostry, możemy uważać się i określać za chrześcijan i mówić o wielu pięknych wartościach wiary, ale podobnie jak uczniowie potrzebujemy widzenia Jezusa dotykając Jego miłości. Tylko w ten sposób możemy dotrzeć do istoty wiary i, podobnie jak uczniowie, znaleźć pokój i radość (por. ww. 19-20) silniejsze niż wszelkie wątpliwości.

Tomasz, widząc rany Pana, zawołał: „Pan mój i Bóg mój!” (w. 28). Chciałbym zwrócić uwagę na przymiotnik powtarzany przez Tomasza: mój. Jest to przymiotnik dzierżawczy i, jeśli się zastanowimy, mogłoby zdawać się nie na miejscu odnoszenie go do Boga: jakże Bóg może być mój? Jakże mogę czynić Wszechmogącego moim? Tak naprawdę, mówiąc „mój”, nie dopuszczamy się bezczeszczenia Boga, ale oddajemy cześć Jego miłosierdziu, ponieważ to On chciał „stać się naszym”. I tak jak w historii miłosnej, mówimy Jemu: „Dla mnie stałeś się człowiekiem, dla mnie umarłeś i zmartwychwstałeś, a zatem jesteś nie tylko Bogiem; jesteś moim Bogiem, jesteś moim życiem. W Tobie znalazłem miłość, której szukałem i o wiele więcej niż kiedykolwiek myślałem”.

Bóg nie jest urażony, by być „naszym”, ponieważ miłość wymaga zaufania, miłosierdzie wymaga zaufania. Już na początku dziesięciu przykazań Bóg powiedział: „Ja jestem Pan, twój Bóg” (Wj 20, 2) i powtórzył: „ Ja Pan, twój Bóg, jestem Bogiem zazdrosnym” (w.5). Oto propozycja Boga, zazdrosnego miłującego, który przedstawia się jako twój Bóg. A ze wzruszonego serca Tomasza płynie odpowiedź: „Pan mój i Bóg mój!”. Wchodząc dzisiaj poprzez rany w tajemnicę Boga, rozumiemy, że miłosierdzie nie jest jedną z Jego cech między innymi, lecz pulsem Jego serca. A zatem, podobnie jak Tomasz, nie żyjemy już, jako uczniowie wątpiący, pobożni, lecz niezdecydowani; my także stajemy się prawdziwie rozmiłowanymi w Panu! Nie powinniśmy bać się tego słowa: zakochani w Panu.

Jak możemy zakosztować tej miłości, jak możemy dzisiaj dotknąć miłosierdzia Jezusa? Wskazuje to stale Ewangelia, gdy podkreśla, że ​​w ten sam wieczór Wielkanocy (por. w. 19), to znaczy dopiero co zmartwychwstały Jezus, jako pierwszy dar, daje Ducha Świętego na odpuszczenie grzechów. Aby doświadczyć miłości trzeba przez to przejść: pozwolić, by nam przebaczono. Pozwolić, by nam przebaczono. Pytam siebie i każdego z was: czy ja pozwalam przebaczyć sobie? Aby doświadczyć tej miłości, trzeba przez to przejść. Czy pozwalam przebaczyć sobie? „Lecz, Ojcze, pójście do spowiedzi wydaje się trudne…”.  Jesteśmy kuszeni, aby wobec Boga postępować tak, jak uczniowie w Ewangelii: zabarykadować się za zamkniętymi drzwiami. Uczynili to ze strachu, a my też się boimy wstydząc się otworzyć się i wyznać grzechy. Niech Pan obdarzy nas łaską zrozumienia wstydu, postrzegania go nie jako zamknięte drzwi, lecz jako pierwszy krok spotkania. Gdy doświadczamy wstydu, winniśmy być wdzięczni: oznacza to, że nie godzimy się na zło, i to jest dobre. Wstyd jest tajemnym zaproszeniem duszy, która potrzebuje Pana, by przezwyciężyć zło. Dramat pojawia się wtedy, gdy już nie wstydzimy się niczego. Nie lękajmy się doświadczenia wstydu! I przejdźmy od wstydu do przebaczenia! Nie lękajcie się poczucia wstydu! Nie lękajcie się!

Są natomiast takie drzwi zamknięte przed przebaczeniem Pana, jakimi jest rezygnacja. Rezygnacja to drzwi zawsze zamknięte. Doświadczyli tego uczniowie, którzy w dzień Paschy z goryczą zauważyli, że wszystko powróciło do stanu poprzedniego: nadal byli w Jerozolimie, zniechęceni; „rozdział Jezusa” wydawał się skończony i po długim czasie przebywania z Nim nic się nie zmieniło, zrezygnowani. Także i my możemy pomyśleć: „Od tak dawna jestem chrześcijaninem, ale nic się we mnie nie zmienia, zawsze popełniam te same grzechy”. Zatem zniechęceni, wyrzekamy się miłosierdzia. Ale Pan nas wzywa: „Czy nie wierzysz, że moje miłosierdzie jest większe od twojej nędzy? Czy powracasz do grzechu? Stale powracaj do proszenia o miłosierdzie a zobaczymy, kto wygra!”. Poza tym, kto zna sakrament przebaczenia wie, że to nieprawda, że wszystko pozostaje tak jak było. Za każdym razem otrzymując przebaczenie jesteśmy pokrzepieni, doznajemy otuchy, bo za każdym razem czujemy się bardziej miłowani, mocniej objęci przez Ojca. A kiedy, będąc miłowanymi upadamy ponownie, doświadczamy więcej bólu niż wcześniej. Jest to ból dobroczynny, który powoli oddziela nas od grzechu. Odkrywamy wtedy, że siłą życia jest otrzymanie Bożego przebaczenia i pójście naprzód, od przebaczenia do przebaczenia. Tak przebiega życie: od poczucia wstydu do poczucia wstydu, od przebaczenia do przebaczenia. Takie jest życie chrześcijańskie.

Obok wstydu i rezygnacji są jeszcze inne drzwi zamknięte, czasami opancerzone: nasz grzech, ten sam grzech. Kiedy popełniam wielki grzech, jeśli szczerze mówiąc, ja nie chcę sobie wybaczyć, dlaczego to miałby czynić Bóg? Te drzwi są jednak zaryglowane tylko z jednej strony, naszej; dla Boga nigdy nie są nieprzekraczalne. On, jak naucza Ewangelia lubi wchodzić - jak słyszeliśmy - właśnie „przez drzwi zamknięte”, gdy wszelki dostęp zdaje się zaryglowany. Bóg dokonuje tam cudów. Nigdy nie postanawia, by się od nas oddzielić, to my go zostawiamy na zewnątrz. Ale kiedy wyznajemy nasze grzechy, ma miejsce coś niesłychanego:  odkrywamy, że właśnie ten grzech, który trzymał nas z dala od Pana, staje się miejscem spotkania z Nim. Tam Bóg zraniony w swej miłości wychodzi naprzeciw naszym ranom. I czyni nasze nędzne rany podobnymi do swoich chwalebnych ran. Jest pewna przemiana: moja nędzna rana jest podobna Jego chwalebnych ran. Ponieważ On jest miłosierdziem i dokonuje cudów w naszych nędzach. Podobnie jak Tomasz, prośmy dzisiaj o łaskę rozpoznania naszego Boga: znalezienia w Jego przebaczeniu naszej radości, znalezienia w Jego miłosierdziu naszej nadziei.

[00556-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0257-XX.02]