Discorso del Santo Padre
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Alle ore 10.30 di questa mattina, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.
Dopo le parole introduttive del Decano del Corpo Diplomatico, S.E. il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambasciatore in Angola, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Eccellenze, Signore e Signori,
è una bella consuetudine questo incontro che, custodendo ancora viva nel cuore la gioia che promana dal Natale, mi dà l’occasione di formularvi personalmente gli auguri per l’anno da poco iniziato e di manifestare la mia vicinanza e il mio affetto ai popoli che rappresentate. Ringrazio il Decano del Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambasciatore di Angola, per le deferenti parole che mi ha poc’anzi indirizzato a nome dell’intero Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Un particolare benvenuto rivolgo agli Ambasciatori giunti da fuori Roma per l’occasione, il cui numero si è accresciuto in seguito all’allacciamento delle relazioni diplomatiche con la Repubblica dell’Unione del Myanmar avvenuto nel maggio scorso. Parimenti saluto i sempre più numerosi Ambasciatori residenti a Roma, nel cui novero vi è ora anche l'Ambasciatore della Repubblica del Sudafrica, mentre un pensiero particolare vorrei dedicare al compianto Ambasciatore della Colombia, Guillermo León Escobar-Herrán, deceduto pochi giorni prima di Natale. Vi ringrazio per le proficue e costanti relazioni che intrattenete con la Segreteria di Stato e con gli altri Dicasteri della Curia Romana, a testimonianza dell’interesse della Comunità internazionale per la missione della Santa Sede e per l’impegno della Chiesa Cattolica nei vostri rispettivi Paesi. In tale prospettiva si colloca pure l’attività pattizia della Santa Sede, che lo scorso anno ha visto la firma, nel mese di febbraio, dell’Accordo Quadro con la Repubblica del Congo e, nel mese di agosto, dell’Accordo tra la Segreteria di Stato e il Governo della Federazione Russa sui viaggi senza visto dei titolari di passaporti diplomatici.
Nel rapporto con le Autorità civili, la Santa Sede non mira ad altro che a favorire il benessere spirituale e materiale della persona umana e la promozione del bene comune. I viaggi apostolici che ho compiuto nel corso dell’anno passato in Egitto, Portogallo, Colombia, Myanmar e Bangladesh sono stati espressione di tale sollecitudine. In Portogallo mi sono recato pellegrino, nel centenario delle apparizioni della Madonna a Fatima, per celebrare la canonizzazione dei pastorelli Giacinta e Francisco Marto. Lì ho potuto constatare la fede piena di entusiasmo e di gioia che la Vergine Maria ha suscitato nei molti pellegrini convenuti per l’occasione. Anche in Egitto, Myanmar e Bangladesh ho potuto incontrare le comunità cristiane locali che, sebbene numericamente esigue, sono apprezzate per il contributo che offrono allo sviluppo e alla convivenza civile dei rispettivi Paesi. Non sono mancati gli incontri con i rappresentanti di altre religioni, a testimonianza di come le peculiarità di ciascuna non siano un ostacolo al dialogo, bensì la linfa che lo alimenta nel comune desiderio di conoscere la verità e praticare la giustizia. Infine, in Colombia ho voluto benedire gli sforzi e il coraggio di quell’amato popolo, segnato da un vivo desiderio di pace dopo oltre mezzo secolo di conflitto interno.
Cari Ambasciatori,
nel corso di quest’anno ricorre il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale: un conflitto che ridisegnò il volto dell’Europa e del mondo intero, con l’emergere di nuovi Stati che presero il posto degli antichi Imperi. Dalle ceneri della Grande Guerra si possono ricavare due moniti, che purtroppo l’umanità non seppe comprendere immediatamente, giungendo nell’arco di un ventennio a combattere un nuovo conflitto ancor più devastante del precedente. Il primo monito è che vincere non significa mai umiliare l’avversario sconfitto. La pace non si costruisce come affermazione del potere del vincitore sul vinto. Non è la legge del timore che dissuade da future aggressioni, bensì la forza della ragionevolezza mite che sprona al dialogo e alla reciproca comprensione per sanare le differenze[1]. Da ciò deriva il secondo monito: la pace si consolida quando le Nazioni possono confrontarsi in un clima di parità. Lo intuì un secolo fa – proprio in questa data – l’allora Presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, allorché propose l’istituzione di una associazione generale delle Nazioni intesa a promuovere per tutti gli Stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale. Si gettarono così idealmente le basi di quella diplomazia multilaterale, che è andata acquisendo nel corso degli anni un ruolo e un’influenza crescente in seno all’intera Comunità internazionale.
Anche i rapporti fra le Nazioni, come i rapporti umani, «vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà»[2]. Ciò comporta «il principio che tutte le comunità politiche sono uguali per dignità di natura»[3], come pure il riconoscimento dei vicendevoli diritti, unitamente all’adempimento dei rispettivi doveri[4]. Premessa fondamentale di tale atteggiamento è l’affermazione della dignità di ogni persona umana, il cui disprezzo e disconoscimento portano ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità[5]. D’altra parte, «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo»[6], come afferma la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
A tale importante documento, a settant’anni dalla sua adozione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, avvenuta il 10 dicembre 1948, vorrei dedicare il nostro incontro odierno. Per la Santa Sede, infatti, parlare di diritti umani significa anzitutto riproporre la centralità della dignità della persona, in quanto voluta e creata da Dio a sua immagine e somiglianza. Lo stesso Signore Gesù, guarendo il lebbroso, ridonando la vista al cieco, intrattenendosi con il pubblicano, risparmiando la vita dell’adultera e invitando a curare il viandante ferito, ha fatto comprendere come ciascun essere umano, indipendentemente dalla sua condizione fisica, spirituale o sociale, sia meritevole di rispetto e considerazione. Da una prospettiva cristiana vi è dunque una significativa relazione fra il messaggio evangelico e il riconoscimento dei diritti umani, nello spirito degli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Tali diritti traggono il loro presupposto dalla natura che oggettivamente accomuna il genere umano. Essi sono stati enunciati per rimuovere i muri di separazione che dividono la famiglia umana e favorire quello che la dottrina sociale della Chiesa chiama sviluppo umano integrale, poiché riguarda la «promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo […] fino a comprendere l’umanità intera»[7]. Una visione riduttiva della persona umana apre invece la strada alla diffusione dell’ingiustizia, dell’ineguaglianza sociale e della corruzione.
Occorre tuttavia constatare che, nel corso degli anni, soprattutto in seguito ai sommovimenti sociali del “Sessantotto”, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di “nuovi diritti”, non di rado in contrapposizione tra loro. Ciò non ha sempre favorito la promozione di rapporti amichevoli tra le Nazioni[8], poiché si sono affermate nozioni controverse dei diritti umani che contrastano con la cultura di molti Paesi, i quali non si sentono perciò rispettati nelle proprie tradizioni socio-culturali, ma piuttosto trascurati di fronte alle necessità reali che devono affrontare. Vi può essere quindi il rischio – per certi versi paradossale – che, in nome degli stessi diritti umani, si vengano ad instaurare moderne forme di colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli. In pari tempo, è bene tenere presente che le tradizioni dei singoli popoli non possono essere invocate come un pretesto per tralasciare il doveroso rispetto dei diritti fondamentali enunciati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
A settant’anni di distanza, duole rilevare come molti diritti fondamentali siano ancor oggi violati. Primo fra tutti quello alla vita, alla libertà e alla inviolabilità di ogni persona umana[9]. Non sono solo la guerra o la violenza che li ledono. Nel nostro tempo ci sono forme più sottili: penso anzitutto ai bambini innocenti, scartati ancor prima di nascere; non voluti talvolta solo perché malati o malformati o per l’egoismo degli adulti. Penso agli anziani, anch’essi tante volte scartati, soprattutto se malati, perché ritenuti un peso. Penso alle donne, che spesso subiscono violenze e sopraffazioni anche in seno alle proprie famiglie. Penso poi a quanti sono vittime della tratta delle persone che viola la proibizione di ogni forma di schiavitù. Quante persone, specialmente in fuga dalla povertà e dalla guerra, sono fatte oggetto di tale mercimonio perpetrato da soggetti senza scrupoli?
Difendere il diritto alla vita e all’integrità fisica, significa poi tutelare il diritto alla salute della persona e dei suoi familiari. Oggi tale diritto ha assunto implicazioni che superano gli intendimenti originari della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la quale mirava ad affermare il diritto di ciascuno ad avere le cure mediche e i servizi sociali necessari[10]. In tale prospettiva, auspico che, nei fori internazionali competenti, ci si adoperi per favorire anzitutto un facile accesso per tutti alle cure e ai trattamenti sanitari. È importante unire gli sforzi affinché si possano adottare politiche in grado di garantire, a prezzi accessibili, la fornitura di medicinali essenziali per la sopravvivenza delle persone indigenti, senza tralasciare la ricerca e lo sviluppo di trattamenti che, sebbene non siano economicamente rilevanti per il mercato, sono determinanti per salvare vite umane.
Difendere il diritto alla vita implica pure adoperarsi attivamente per la pace, universalmente riconosciuta come uno dei valori più alti da ricercare e difendere. Eppure gravi conflitti locali continuano ad infiammare varie Regioni della terra. Gli sforzi collettivi della Comunità internazionale, l’azione umanitaria delle organizzazioni internazionali e le incessanti implorazioni di pace che si innalzano dalle terre insanguinate dai combattimenti sembrano essere sempre meno efficaci di fronte alla logica aberrante della guerra. Tale scenario non può far diminuire il nostro desiderio e il nostro impegno per la pace, consapevoli che senza di essa lo sviluppo integrale dell’uomo diventa irraggiungibile.
Il disarmo integrale e lo sviluppo integrale sono strettamente correlati fra loro. D’altra parte, la ricerca della pace come precondizione per lo sviluppo implica combattere l’ingiustizia e sradicare, in modo non violento, le cause della discordia che portano alle guerre. La proliferazione di armi aggrava chiaramente le situazioni di conflitto e comporta enormi costi umani e materiali che minano lo sviluppo e la ricerca di una pace duratura. Il risultato storico raggiunto lo scorso anno con l’adozione del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, al termine della Conferenza delle Nazioni Unite finalizzata a negoziare uno strumento giuridicamente vincolante per proibire le armi nucleari, mostra come il desiderio di pace sia sempre vivo. La promozione della cultura della pace per uno sviluppo integrale richiede sforzi perseveranti verso il disarmo e la riduzione del ricorso alla forza armata nella gestione degli affari internazionali. Desidero pertanto incoraggiare un dibattito sereno e il più ampio possibile sul tema, che eviti polarizzazioni della Comunità internazionale su una questione così delicata. Ogni sforzo in tale direzione, per quanto modesto, rappresenta un risultato importante per l’umanità.
Da parte sua la Santa Sede ha firmato e ratificato, anche a nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano, il Trattato sulla proibizioni delle armi nucleari, nella prospettiva formulata da San Giovanni XXIII nella Pacem in terris, secondo la quale «giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari»[11]. Infatti, anche «se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico»[12].
La Santa Sede ribadisce dunque la ferma «persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato»[13]. D’altra parte, proprio la continua produzione di armi sempre più avanzate e “perfezionate” e il protrarsi di numerosi focolai di conflitto – di quella che più volte ho chiamato “terza guerra mondiale a pezzi” – non può che farci ripetere con forza le parole del mio santo Predecessore: «Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia. […] È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni»[14].
In tale prospettiva, è di primaria importanza che si possa sostenere ogni tentativo di dialogo nella penisola coreana, al fine di trovare nuove strade per superare le attuali contrapposizioni, accrescere la fiducia reciproca e assicurare un futuro di pace al popolo coreano e al mondo intero.
Parimenti è importante che possano proseguire, in un clima propositivo di accresciuta fiducia tra le parti, le varie iniziative di pace in corso in favore della Siria, perché si possa finalmente mettere fine al lungo conflitto che ha coinvolto il Paese e causato immani sofferenze. Il comune auspicio è che, dopo tanta distruzione, sia giunto il tempo di ricostruire. Ma più ancora che costruire edifici, è necessario ricostruire i cuori, ritessere la tela della fiducia reciproca, premessa imprescindibile per il fiorire di qualunque società. Occorre dunque adoperarsi per favorire le condizioni giuridiche, politiche e di sicurezza, per una ripresa della vita sociale, dove ciascun cittadino, indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa, possa partecipare allo sviluppo del Paese. In tal senso è vitale che siano tutelate le minoranze religiose, tra le quali vi sono i cristiani, che da secoli contribuiscono attivamente alla storia della Siria.
È altrettanto importante che possano far ritorno in patria i numerosi profughi che hanno trovato accoglienza e rifugio nelle Nazioni limitrofe, specialmente in Giordania, in Libano e in Turchia. L’impegno e lo sforzo compiuto da questi Paesi in tale difficile circostanza merita l’apprezzamento e il sostegno di tutta la Comunità internazionale, la quale nel contempo è chiamata ad adoperarsi a creare le condizioni per il rimpatrio dei rifugiati provenienti dalla Siria. È un impegno che essa deve concretamente assumersi a cominciare dal Libano, affinché quell’amato Paese continui ad essere un “messaggio” di rispetto e convivenza e un modello da imitare per tutta la Regione e per il mondo intero.
La volontà di dialogo è necessaria anche nell’amato Iraq, perché le varie componenti etniche e religiose possano ritrovare la strada della riconciliazione e della pacifica convivenza e collaborazione, come pure nello Yemen e in altre parti della Regione, nonché in Afghanistan.
Un pensiero particolare rivolgo a Israeliani e Palestinesi, in seguito alle tensioni delle ultime settimane. La Santa Sede, nell’esprimere dolore per quanti hanno perso la vita nei recenti scontri, rinnova il suo pressante appello a ponderare ogni iniziativa affinché si eviti di esacerbare le contrapposizioni, e invita ad un comune impegno a rispettare, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite, lo status quo di Gerusalemme, città sacra a cristiani, ebrei e musulmani. Settant’anni di scontri rendono quanto mai urgente trovare una soluzione politica che consenta la presenza nella Regione di due Stati indipendenti entro confini internazionalmente riconosciuti. Pur tra le difficoltà, la volontà di dialogare e di riprendere i negoziati rimane la strada maestra per giungere finalmente ad una coesistenza pacifica dei due popoli.
Anche all’interno di contesti nazionali, l’apertura e la disponibilità all’incontro sono essenziali. Penso specialmente al caro Venezuela, che sta attraversando una crisi politica ed umanitaria sempre più drammatica e senza precedenti. La Santa Sede, mentre esorta a rispondere senza indugio alle necessità primarie della popolazione, auspica che si creino le condizioni affinché le elezioni previste per l’anno in corso siano in grado di avviare a soluzione i conflitti esistenti, e si possa guardare con ritrovata serenità al futuro.
La Comunità internazionale non dimentichi neppure le sofferenze di tante parti del Continente africano, specialmente in Sud Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, in Nigeria e nella Repubblica Centroafricana, dove il diritto alla vita è minacciato dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse, dal terrorismo, dal proliferare di gruppi armati e da perduranti conflitti. Non basta indignarsi dinanzi a tanta violenza. Occorre piuttosto che ciascuno nel proprio ambito si adoperi attivamente per rimuovere le cause della miseria e costruire ponti di fraternità, premessa fondamentale per un autentico sviluppo umano.
Un impegno comune a ricostruire i ponti è urgente pure in Ucraina. L’anno appena conclusosi ha mietuto nuove vittime nel conflitto che affligge il Paese, continuando a recare grandi sofferenze alla popolazione, in particolare alle famiglie che risiedono nelle zone interessate dalla guerra e che hanno perso i loro cari, non di rado anziani e bambini.
Proprio alla famiglia vorrei dedicare un pensiero speciale. Il diritto a formare una famiglia, quale «nucleo naturale e fondamentale della società [che] ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato»[15], è infatti riconosciuto dalla stessa Dichiarazione del 1948. Purtroppo è noto come, specialmente in Occidente, la famiglia sia ritenuta un istituto superato. Alla stabilità di un progetto definitivo, si preferiscono oggi legami fugaci. Ma non sta in piedi una casa costruita sulla sabbia di rapporti fragili e volubili. Occorre piuttosto la roccia, sulla quale ancorare fondamenta solide. E la roccia è proprio quella comunione di amore, fedele e indissolubile, che unisce l’uomo e la donna, una comunione che ha una bellezza austera e semplice, un carattere sacro e inviolabile e una funzione naturale nell’ordine sociale[16]. Ritengo pertanto urgente che si intraprendano reali politiche a sostegno delle famiglia, dalla quale peraltro dipende l’avvenire e lo sviluppo degli Stati. Senza di essa non si possono infatti costruire società in grado di affrontare le sfide del futuro. Il disinteresse per le famiglie porta poi con sé un’altra conseguenza drammatica – e particolarmente attuale in alcune Regioni – che è il calo della natalità. Si vive un vero inverno demografico! Esso è il segno di società che faticano ad affrontare le sfide del presente e che divengono dunque sempre più timorose dell’avvenire, finendo per chiudersi in se stesse.
In pari tempo, non si può dimenticare la situazione di famiglie spezzate a causa della povertà, delle guerre e delle migrazioni. Abbiamo fin troppo spesso dinanzi ai nostri occhi il dramma di bambini che da soli varcano i confini che separano il sud dal nord del mondo, sovente vittime del traffico di esseri umani.
Oggi si parla molto di migranti e migrazioni, talvolta solo per suscitare paure ancestrali. Non bisogna dimenticare che le migrazioni sono sempre esistite. Nella tradizione giudeo-cristiana, la storia della salvezza è essenzialmente storia di migrazioni. Né bisogna dimenticare che la libertà di movimento, come quella di lasciare il proprio Paese e di farvi ritorno appartiene ai diritti fondamentali dell’uomo[17]. Occorre dunque uscire da una diffusa retorica sull’argomento e partire dalla considerazione essenziale che davanti a noi ci sono innanzitutto persone.
È quanto ho inteso ribadire con il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, celebratasi il 1° gennaio scorso, dedicato a “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”. Pur riconoscendo che non sempre tutti sono animati dalle migliori intenzioni, non si può dimenticare che la maggior parte dei migranti preferirebbe stare nella propria terra, mentre si trova costretta a lasciarla «a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale. […] Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, “nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento” (Pacem in terris, 57). Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare (cfr Lc 14, 28-30)»[18].
Desidero nuovamente ringraziare le Autorità di quegli Stati che si sono prodigati in questi anni per fornire assistenza ai numerosi migranti giunti ai loro confini. Penso anzitutto all’impegno di non pochi Paesi in Asia, in Africa e nelle Americhe, che accolgono e assistono numerose persone. Conservo ancora vivo nel cuore l’incontro che ho avuto a Dacca con alcuni appartenenti al popolo Rohingya e desidero rinnovare i sentimenti di gratitudine alle autorità del Bangladesh per l’assistenza che prestano loro sul proprio territorio.
Desidero poi esprimere particolare gratitudine all’Italia che in questi anni ha mostrato un cuore aperto e generoso e ha saputo offrire anche dei positivi esempi di integrazione. Il mio auspicio è che le difficoltà che il Paese ha attraversato in questi anni, le cui conseguenze permangono, non portino a chiusure e preclusioni, ma anzi ad una riscoperta di quelle radici e tradizioni che hanno nutrito la ricca storia della Nazione e che costituiscono un inestimabile tesoro da offrire al mondo intero. Parimenti, esprimo apprezzamento per gli sforzi compiuti da altri Stati europei, particolarmente la Grecia e la Germania. Non bisogna dimenticare che numerosi rifugiati e migranti cercano di raggiungere l’Europa perché sanno di potervi trovare pace e sicurezza, che sono peraltro il frutto di un lungo cammino nato dagli ideali dei Padri fondatori del progetto europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’Europa deve essere fiera di questo suo patrimonio, basato su certi principi e su una visione dell’uomo che affonda le basi sulla sua storia millenaria, ispirata dalla concezione cristiana della persona umana. L’arrivo dei migranti deve spronarla a riscoprire il proprio patrimonio culturale e religioso, così che, riprendendo coscienza dei valori sui quali si è edificata, possa allo stesso tempo mantenere viva la propria tradizione e continuare ad essere un luogo accogliente, foriero di pace e di sviluppo.
Nell’anno passato i governi, le organizzazioni internazionali e la società civile si sono interpellati reciprocamente sui principi di base, sulle priorità e sulle modalità più opportune per rispondere ai movimenti migratori ed alle situazioni protratte che riguardano i rifugiati. Le Nazioni Unite, a seguito della Dichiarazione di New York per i Rifugiati e i Migranti del 2016, hanno avviato importanti processi di preparazione in vista dell’adozione di due Patti Mondiali (Global Compacts), rispettivamente, sui rifugiati e per una migrazione sicura, ordinata e regolare.
La Santa Sede auspica che tali sforzi, con i negoziati che si apriranno a breve, portino risultati degni di una comunità mondiale sempre più interdipendente, fondata sui principi di solidarietà e di mutuo aiuto. Nell’attuale contesto internazionale non mancano le possibilità e i mezzi per assicurare ad ogni uomo e ogni donna che vive sulla Terra condizioni di vita degne della persona umana.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno, ho suggerito quattro “pietre miliari” per l’azione: accogliere, proteggere, promuovere e integrare[19]. Vorrei soffermarmi in particolare su quest’ultima, sulla quale si confrontano posizioni diverse alla luce di altrettante valutazioni, esperienze, preoccupazioni e convincimenti. L’integrazione è “un processo bidirezionale”, con diritti e doveri reciproci. Chi accoglie è infatti chiamato a promuovere lo sviluppo umano integrale, mentre a chi è accolto si chiede l’indispensabile conformazione alle norme del Paese che lo ospita, nonché il rispetto dei principi identitari dello stesso. Ogni processo di integrazione deve mantenere sempre la tutela e la promozione delle persone, specialmente di coloro che si trovano in situazioni di vulnerabilità, al centro delle norme che riguardano i vari aspetti della vita politica e sociale.
La Santa Sede non intende interferire nelle decisioni che spettano agli Stati, i quali, alla luce delle rispettive situazioni politiche, sociali ed economiche, nonché delle proprie capacità e possibilità di ricezione e di integrazione, hanno la prima responsabilità dell’accoglienza. Tuttavia, essa ritiene di dover svolgere un ruolo di “richiamo” dei principi di umanità e di fraternità, che fondano ogni società coesa ed armonica. In tale prospettiva, è importante non dimenticare l’interazione con le comunità religiose, sia istituzionali che a livello associativo, le quali possono svolgere un ruolo prezioso di rinforzo nell’assistenza e nella protezione, di mediazione sociale e culturale, di pacificazione e di integrazione.
Tra i diritti umani che vorrei richiamare quest’oggi vi è anche il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, che include la libertà di cambiare religione[20]. Purtroppo è noto come il diritto alla libertà di religione sia sovente disatteso e non di rado la religione divenga o l’occasione per giustificare ideologicamente nuove forme di estremismo o un pretesto per l’emarginazione sociale, se non addirittura per forme di persecuzione dei credenti. La costruzione di società inclusive esige come sua condizione una comprensione integrale della persona umana, che può sentirsi davvero accolta quando è riconosciuta e accettata in tutte le dimensioni che costituiscono la sua identità, compresa quella religiosa.
Infine, desidero richiamare l’importanza del diritto al lavoro. Non vi è pace né sviluppo se l’uomo è privato della possibilità di contribuire personalmente tramite la propria opera all’edificazione del bene comune. Rincresce constatare invece come il lavoro sia in molte parti del mondo un bene scarsamente disponibile. Poche sono talvolta le opportunità, specialmente per i giovani, di trovare lavoro. Spesso è facile perderlo non solo a causa delle conseguenze dell’alternarsi dei cicli economici, ma anche per il progressivo ricorso a tecnologie e macchinari sempre più perfetti e precisi in grado di sostituire l’uomo. E se da un lato si constata un’iniqua distribuzione delle opportunità di lavoro, dall’altro si rileva la tendenza a pretendere da chi lavora ritmi sempre più pressanti. Le esigenze del profitto, dettate della globalizzazione, hanno portato ad una progressiva riduzione dei tempi e dei giorni di riposo, con il risultato che si è persa una dimensione fondamentale della vita – quella del riposo – che serve a rigenerare la persona non solo fisicamente, ma anche spiritualmente. Dio stesso si è riposato il settimo giorno: lo benedisse e lo consacrò, «perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (Gen 2,3). Nell’alternarsi di fatica e riposo, l’uomo partecipa alla “santificazione del tempo” operata da Dio e nobilita il proprio lavoro, sottraendolo alle ripetitive dinamiche di una quotidianità arida che non conosce sosta.
Sono poi motivo di particolare preoccupazione i dati pubblicati recentemente dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro circa l’incremento del numero dei bambini impiegati in attività lavorative e delle vittime delle nuove forme di schiavitù. La piaga del lavoro minorile continua a compromettere seriamente lo sviluppo psico-fisico dei fanciulli, privandoli delle gioie dell’infanzia, mietendo vittime innocenti. Non si può pensare di progettare un futuro migliore, né auspicare di costruire società più inclusive, se si continuano a mantenere modelli economici orientati al mero profitto e allo sfruttamento dei più deboli, come i bambini. Eliminare le cause strutturali di tale piaga dovrebbe essere una priorità di governi e organizzazioni internazionali, chiamati ad intensificare gli sforzi per adottare strategie integrate e politiche coordinate finalizzate a far cessare il lavoro minorile in tutte le sue forme.
Eccellenze, Signore e Signori,
nel richiamare alcuni dei diritti contenuti nella Dichiarazione Universale del 1948, non intendo tralasciare un aspetto strettamente connesso ad essa: ogni individuo ha pure dei doveri verso la comunità, volti a «soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica»[21]. Il giusto richiamo ai diritti di ogni essere umano, deve tener conto che ciascuno è parte di un corpo più grande. Anche le nostre società, come ogni corpo umano, godono di buona salute se ciascun membro compie la propria opera, nella consapevolezza che essa è al servizio del bene comune.
Tra i doveri particolarmente impellenti vi è oggi quello di prendersi cura della nostra Terra. Sappiamo che la natura può essere di per sé cruenta anche quando ciò non è responsabilità dell’uomo. L’abbiamo visto in quest'ultimo anno con i terremoti che hanno colpito diverse parti della terra, particolarmente negli ultimi mesi in Messico e in Iran mietendo numerose vittime, come pure con la forza degli uragani che hanno interessato diversi Paesi caraibici fino a giungere sulle coste statunitensi e che, più recentemente, hanno investito le Filippine. Tuttavia, non bisogna dimenticare che c’è anche una precipua responsabilità dell’uomo nell'interazione con la natura. I cambiamenti climatici, con l’innalzamento globale delle temperature e gli effetti devastanti che esse comportano, sono anche conseguenza dell’azione dell’uomo. Occorre dunque affrontare, in uno sforzo congiunto, la responsabilità di lasciare alle generazioni che seguiranno una Terra più bella e vivibile, adoperandosi, alla luce degli impegni concordati a Parigi nel 2015, per ridurre le emissioni di gas nocivi all’atmosfera e dannosi per la salute umana.
Lo spirito che deve animare i singoli e le Nazioni in quest’opera è assimilabile a quello dei costruttori delle cattedrali medievali che costellano l’Europa. Tali imponenti edifici raccontano l’importanza della partecipazione di ciascuno ad un’opera capace di travalicare i confini del tempo. Il costruttore di cattedrali sapeva che non avrebbe visto il compimento del proprio lavoro. Nondimeno si è adoperato attivamente, comprendendo di essere parte di un progetto, di cui avrebbero goduto i suoi figli, i quali – a loro volta – lo avrebbero abbellito ed ampliato per i loro figli. Ciascun uomo e donna di questo mondo – e particolarmente chi ha responsabilità di governo – è chiamato a coltivare lo stesso spirito di servizio e di solidarietà intergenerazionale, ed essere così un segno di speranza per il nostro travagliato mondo.
Con queste considerazioni rinnovo a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e ai vostri popoli l’augurio di un anno ricco di gioia, di speranza e di pace. Grazie.
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[1] Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 67.
[2] Ibid., 47.
[3] Ibid., 49.
[4] Cfr ibid., 51.
[5] Cfr Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948).
[6] Ibid., Preambolo.
[7] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 14.
[8] Cfr Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Preambolo.
[9] Cfr ibid, art. 3.
[10] Cfr ibid., art. 25.
[11] N. 60.
[12] Ibid.
[13] Ibid, 67.
[14] Ibid.
[15] Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 16.
[16] Cfr Paolo VI, Discorso in occasione della visita alla Basilica dell’Annunciazione, Nazareth, 5 gennaio 1964.
[17] Cfr Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 13.
[18] Messaggio per la LI Giornata Mondiale della Pace (13 novembre 2017), 1.
[19] Ibid., 4.
[20] Cfr Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 18.
[21] Art. 29.
[00023-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Excellences, Mesdames et Messieurs,
Elle constitue une belle coutume, cette rencontre qui, en conservant encore vive dans les cœurs la joie de Noël, m’offre l’occasion de vous présenter personnellement les vœux pour l’année commencée depuis peu et de manifester ma proximité ainsi que mon affection aux peuples que vous représentez. Je remercie le Doyen du Corps Diplomatique, Son Excellence Monsieur Armindo Fernandes do Espiríto Santo Vieira, Ambassadeur de l’Angola, pour les paroles déférentes qu’il vient de m’adresser au nom de tout le Corps Diplomatique accrédité près le Saint-Siège. J’adresse une spéciale bienvenue aux Ambassadeurs venus de l’extérieur de Rome pour l’occasion, dont le nombre s’est accru suite aux relations diplomatiques nouées avec la République de l’Union du Myanmar, en mai dernier. De même, je salue les Ambassadeurs résidents à Rome toujours plus nombreux, parmi lesquels se trouve, à présent, l’Ambassadeur de la République de l’Afrique du Sud, tandis je voudrais dédier une pensée particulière à feu l’Ambassadeur de la Colombie, Guillermo León Escobar-Herran, décédé quelques jours avant Noël. Je vous remercie pour les relations fructueuses et constantes que vous entretenez avec la Secrétairerie d’État et avec les autres Dicastères de la Curie Romaine, en témoignage de l’intérêt de la communauté internationale pour la mission du Saint-Siège et pour l’engagement de l’Église catholique dans vos pays respectifs. Dans cette perspective se situe aussi l’activité du Saint-Siège concernant les Conventions, qui l’an dernier a vu la signature, au mois de février, de l’Accord Cadre avec la République du Congo et, au mois d’août, de l’Accord entre la Secrétairerie d’État et le Gouvernement de la Fédération Russe sur les voyages sans visa des titulaires de passeports diplomatiques.
Dans les relations avec les Autorités civiles, le Saint-Siège ne vise rien d’autre que de favoriser le bien-être spirituel et matériel de la personne humaine et la promotion du bien commun. Les voyages apostoliques que j’ai effectués au cours de l’année passée en Égypte, au Portugal, en Colombie, au Myanmar et au Bangladesh ont été une expression de cette sollicitude. Je me suis rendu au Portugal, en pèlerin, lors du centenaire des apparitions de la Vierge à Fatima, pour célébrer la canonisation des pastoureaux Jacinthe et François Marto. J’ai pu y constater la foi remplie d’enthousiasme et de joie que la Vierge Marie a suscitée chez les nombreux pèlerins venus pour l’occasion. De même en Égypte, au Myanmar et au Bangladesh, j’ai pu rencontrer les communautés chrétiennes locales qui, bien que numériquement réduites, sont appréciées pour la contribution qu’elles offrent au développement et à la convivialité civile de leurs pays respectifs. Des rencontres avec les représentants des autres religions n’ont pas manqué, témoignant combien les spécificités de chacune ne sont pas un obstacle au dialogue, mais plutôt la sève qui l’alimente dans le désir commun de connaître la vérité et de pratiquer la justice. Enfin, en Colombie, j’ai voulu bénir les efforts et le courage de ce peuple bien-aimé, marqué par un ardent désir de paix après plus d’un demi-siècle de conflit interne.
Chers Ambassadeurs,
Au cours de cette année, aura lieu le centenaire de la fin de la première Guerre Mondiale: un conflit qui a remodelé le visage de l’Europe et du monde entier, avec la naissance de nouveaux États qui ont pris la place des anciens empires. Des cendres de la Grande Guerre, on peut tirer deux avertissements, que malheureusement l’humanité n’a pas su comprendre immédiatement, arrivant dans le laps d’une vingtaine d’années à affronter un nouveau conflit encore plus dévastateur que le précédent. Le premier avertissement, c’est que vaincre ne signifie jamais humilier l’adversaire défait. La paix ne se construit pas comme une affirmation du pouvoir du vainqueur sur le vaincu. Ce n’est pas la loi de la peur qui dissuade de futures agressions, mais plutôt la force de la raison douce qui encourage au dialogue et à la compréhension réciproque pour aplanir les différences (Cf. Jean XXIII, Lettre encyclique, Pacem in terris, 11 avril 1963, nn. 126-129). De cela découle le second avertissement : la paix se consolide lorsque les Nations peuvent traiter entre elles dans un climat de parité. Il y a un siècle – tout juste aujourd’hui –, le Président américain d’alors, Thomas Woodrow Wilson, l’a compris lorsqu’il a proposé la création d’une association générale des Nations destinée à promouvoir pour tous les États, indistinctement grands et petits, des garanties mutuelles d’indépendance et d’intégrité territoriale. Ainsi ont été jetées les bases de cette diplomatie multilatérale, qui a acquis progressivement au cours des années un rôle et une influence croissante au sein de la Communauté internationale tout entière.
Aussi bien les relations entre les Nations que les relations humaines «doivent […] [s’]harmoniser […] selon la vérité et la justice, en esprit d'active solidarité et dans la liberté» (Ibid., n. 80). Cela comporte «l'égalité naturelle de toutes les communautés politiques en dignité » (Ibid., n. 86), ainsi que la reconnaissance des droits mutuels, avec l’accomplissement des devoirs correspondants (cf. Ibid., n. 91). La condition fondamentale de cette attitude est l’affirmation de la dignité de chaque personne humaine, dont le mépris et la méconnaissance portent à des actes de barbarie qui offensent la conscience de l’humanité (cf. Déclaration universelle des droits de l’homme, 10 décembre 1948). D’autre part, «la reconnaissance de la dignité inhérente à tous les membres de la famille humaine et de leurs droits égaux et inaliénables constitue le fondement de la liberté, de la justice et de la paix dans le monde » (Ibid., Préambule), comme l’affirme la Déclaration universelle des droits de l’homme.
C’est à cet important document que, soixante ans après son adoption de la part de l’Assemblée Générale des Nations Unis, advenue le 10 décembre 1948, je voudrais consacrer notre rencontre d’aujourd’hui. Pour le Saint-Siège, en effet, parler des droits humains signifie, avant tout, proposer de nouveau la centralité de la dignité de la personne, en tant qu’elle est voulue et créée par Dieu à son image et à sa ressemblance. Le Seigneur Jésus lui-même, en guérissant le lépreux, en redonnant la vue à l’aveugle, en s’entretenant avec le publicain, en sauvant la vie à la femme adultère et en invitant à prendre soin du voyageur blessé, a fait comprendre combien chaque être humain, indépendamment de sa condition physique, spirituelle ou sociale, mérite respect et considération. Du point de vue chrétien, il y a donc une relation significative entre le message évangélique et la reconnaissance des droits humains, dans l’esprit des rédacteurs de la Déclaration universelle des droits de l’homme.
Ces droits trouvent leur fondement dans la nature qui objectivement unit le genre humain. Ils ont été proclamés pour faire tomber les murs de séparation qui divisent la famille humaine et favoriser ce que la doctrine sociale de l’Église appelle le développement humain intégral, puisqu’il concerne la promotion de chaque homme et de tout l’homme, jusqu’à comprendre l’humanité tout entière (cf. Paul VI, Lettre encyclique, Populorum progressio, 26 mars 1967, n. 14). Une vision réductrice de la personne humaine ouvre au contraire la voie à la propagation de l’injustice, de l’inégalité sociale et de la corruption.
Il faut, toutefois, constater qu’au cours des années passées, surtout suite aux bouleversements sociaux de ‘1968’, l’interprétation de certains droits s’est progressivement modifiée, de façon à inclure une multiplicité de ‘‘nouveaux droits’’, souvent en contradiction entre eux. Cela n’a pas toujours favorisé la promotion de relations amicales entre les Nations (cf. Déclaration universelle des droits de l’homme, Préambule), car des conceptions controversées des droits humains ont été exprimées, en contraste avec la culture de nombreux pays, qui ne se sentent pas par conséquent respectés dans leurs traditions socio-culturelles propres, mais plutôt négligés quant aux nécessités réelles qu’ils doivent affronter. Il peut donc y avoir le risque – paradoxal par certains côtés – que, au nom des mêmes droits humains, on en vienne à instaurer des formes modernes de colonisation idéologique des plus forts et des plus riches au détriment des plus pauvres et des plus faibles. En même temps, il convient d’avoir présent à l’esprit que les traditions de chaque peuple ne peuvent être évoquées comme un prétexte pour manquer au respect dû aux droits fondamentaux énoncés par la Déclaration universelle des droits humains.
Après soixante ans, il est regrettable de relever comment de nombreux droits fondamentaux sont aujourd’hui encore violés. Le premier d’entre tous ces droits est celui à la vie, à la liberté et à l’inviolabilité de chaque personne humaine (cf. Ibid., art. 3). Ce ne sont pas seulement la guerre ou la violence qui les compromettent. En notre temps, il y a des formes plus subtiles: je pense d’abord aux enfants innocents, rejetés avant même de naître; non voulus parfois uniquement parce qu’ils sont malades ou malformés, ou à cause de l’égoïsme des adultes. Je pense aux personnes âgées, elles aussi bien des fois rejetées, surtout si elles sont malades, car considérées comme un poids. Je pense aux femmes, qui souvent subissent des violences et des abus y compris au sein de leurs propres familles. Je pense, ensuite, à ceux qui sont victimes de la traite des personnes qui viole la prohibition de toute forme d’esclavage. Que de personnes, surtout fuyant la pauvreté et la guerre, sont objet de ce commerce illicite perpétré par des sujets sans scrupules?
Défendre le droit à la vie et à l’intégrité physique signifie, ensuite, promouvoir le droit à la santé de la personne et de ses proches. Aujourd’hui, ce droit à la santé a adopté des implications qui dépassent les intentions d’origine de la Déclaration universelle des droits de l’homme, qui visait à affirmer le droit de chacun à bénéficier des soins médicaux et des services sociaux nécessaires (cf. ibid., art. 25). Dans cette perspective, je souhaite que, au niveau des instances internationales compétentes, on œuvre pour favoriser surtout un accès facile de tous aux soins et aux traitements sanitaires. Il est important d’unir les efforts afin qu’on puisse adopter des politiques en mesure de garantir, à des prix accessibles, la fourniture des médicaments essentiels pour la survie des personnes démunies, sans négliger la recherche et le développement des traitements qui, bien que n’étant pas économiquement importants pour le marché, sont déterminants pour sauver des vies humaines.
Défendre le droit à la vie implique également d’œuvrer activement pour la paix, universellement reconnue comme l’une des valeurs les plus hautes à rechercher et à défendre. Cependant de graves conflits locaux continent à embraser diverses régions de la terre. Les efforts collectifs de la communauté internationale, l’action humanitaire des organisations internationales et les demandes incessantes de paix, qui s’élèvent des terres ensanglantées par des combats, semblent toujours moins efficaces face à la logique aberrante de la guerre. Cette situation n’entame pas notre désir et notre engagement pour la paix, conscients que sans elle le développement intégral de l’homme est hors de portée.
Le désarmement intégral et le développement intégral sont étroitement liés entre eux. D’autre part, la recherche de la paix comme condition préalable au développement implique de combattre l’injustice et d’éradiquer, de manière non violente, les causes de désaccord qui conduisent aux guerres. La prolifération des armes aggrave clairement les situations de conflit et comporte des coûts humains et matériels considérables qui minent le développement ainsi que la recherche d’une paix durable. Le résultat historique atteint l’année dernière avec l’adoption du Traité sur l’interdiction des armes nucléaires, au terme de la Conférence des Nations Unies, visant à négocier un instrument juridiquement contraignant pour prohiber les armes nucléaires, montre combien le désir de paix est toujours vif. La promotion de la culture de paix en vue d’un développement intégral demande des efforts persévérants pour le désarmement et la limitation du recours à la force armée dans la gestion des affaires internationales. Je voudrais, par conséquent, encourager un débat serein et le plus ample possible sur la question, qui évite des polarisations de la communauté internationale sur un sujet aussi délicat. Tout effort dans ce sens, si modeste soit-il, représente un résultat important pour l’humanité.
Pour sa part, le Saint-Siège a signé et ratifié, également au nom et pour le compte de l’État de la Cité du Vatican, le Traité sur l’interdiction des armes nucléaires, dans la perspective exprimée par saint Jean XXIII dans Pacem in terris, selon laquelle «La justice, la sagesse, le sens de l'humanité réclament par conséquent, qu'on arrête la course aux armements ; elles réclament la réduction parallèle et simultanée de l'armement existant dans les divers pays, la proscription de l’arme atomique» (n. 112). En effet, «qu'il y ait des hommes au monde pour prendre la responsabilité des massacres et des ruines sans nombre d'une guerre, cela peut paraître incroyable ; pourtant, on est contraint de l'avouer, une surprise, un accident suffiraient à provoquer la conflagration» ( Ibid. n. 111).
Le Saint-Siège réaffirme donc la ferme conviction «que les éventuels conflits entre les peuples ne doivent pas être réglés par le recours aux armes, mais par la négociation» (Ibid., n. 126). D’autre part, précisément la fabrication ininterrompue d’armes toujours plus sophistiquées et plus ‘‘perfectionnées’’ ainsi que la persistance de nombreux foyers de conflit – de ce que j’ai, plus d’une fois, qualifié de ‘‘troisième guerre mondiale par morceaux’’ – ne peut que nous faire répéter avec force les paroles de mon saint Prédécesseur: «Il devient humainement impossible de penser que la guerre soit, en notre ère atomique, le moyen adéquat pour obtenir justice […] Néanmoins, il est permis d'espérer que les peuples, intensifiant entre eux les relations et les échanges, découvriront mieux les liens d'unité qui découlent de leur nature commune ; ils comprendront plus parfaitement que l'un des devoirs primordiaux issus de leur communauté de nature, c'est de fonder les relations des hommes et des peuples sur l'amour et non sur la crainte. C'est, en effet, le propre de l'amour d'amener les hommes à une loyale collaboration, susceptible de formes multiples et porteuse d'innombrables bienfaits» (Ibid., nn. 127-129).
Dans cette perspective, il est d’une importance primordiale qu’on puisse soutenir toute tentative de dialogue dans la péninsule coréenne, afin de trouver de nouvelles voies pour surmonter les oppositions actuelles, d’accroître la confiance réciproque et d’assurer un avenir de paix au peuple coréen et au monde entier.
De même, il est important qu’on puisse poursuivre, dans un climat constructif de confiance accrue entre les parties, les diverses initiatives de paix en cours en faveur de la Syrie, pour qu’on puisse finalement mettre fin au long conflit qui a affecté le pays et causé d’effroyables souffrances. Le souhait général est que, après tant de destructions, arrive le temps de la reconstruction. Mais plus encore que la reconstruction des édifices, s’avèrent nécessaires la reconstruction des cœurs, le retissage de la toile de la confiance réciproque, préalables indispensables pour l’épanouissement de toute société. Il faut donc travailler à favoriser les conditions juridiques, politiques et sécuritaires, pour une reprise de la vie sociale, où chaque citoyen, indépendamment de son appartenance ethnique et religieuse, puisse participer au développement du pays. En ce sens, il est vital que soient protégées les minorités religieuses, parmi lesquelles se trouvent les chrétiens, qui depuis des siècles contribuent activement à l’histoire de la Syrie.
Il est aussi important que puissent retourner dans leur patrie les nombreux réfugiés qui ont trouvé accueil et refuge dans les nations limitrophes, surtout en Jordanie, au Liban et en Turquie. L’engagement et les efforts accomplis par ces pays dans cette situation difficile mérite l’appréciation et le soutien de toute la communauté internationale, qui est en même temps appelée à œuvrer pour créer les conditions en vue du rapatriement des réfugiés provenant de la Syrie. C’est un engagement qu’elle doit concrètement prendre en commençant par le Liban, afin que ce pays bien-aimé continue à être un ‘‘message’’ de respect et de cohabitation ainsi qu’un modèle à imiter pour toute la région et pour le monde entier.
La volonté de dialogue est nécessaire également dans le bien-aimé Irak, pour que les diverses composantes ethniques et religieuses puissent retrouver le chemin de la réconciliation et de la cohabitation et collaboration pacifiques, tout comme au Yémen et dans d’autres parties de la région, ainsi qu’en Afghanistan.
J’adresse une pensée particulière aux Israéliens et aux Palestiniens, suite aux tensions des dernières semaines. Le Saint-Siège, en exprimant sa douleur pour ceux qui ont perdu la vie dans les récents affrontements, renouvelle son appel pressant à pondérer toute initiative afin qu’on évite d’exacerber les oppositions, et il invite à un engagement commun à respecter, en conformité avec les Résolutions pertinentes des Nations Unies, le status quo de Jérusalem, ville sacrée pour les chrétiens, les juifs et les musulmans. Soixante-dix ans d’affrontements rendent plus que jamais urgent de trouver une solution politique qui permette la présence dans la région de deux États indépendants dans des frontières internationalement reconnues. Même au sein des difficultés, la volonté de dialoguer et de reprendre les négociations reste le principal chemin pour arriver finalement à une cohabitation pacifique des deux peuples.
De même dans des contextes nationaux, l’ouverture et la disponibilité à la rencontre sont essentielles. Je pense surtout au bien-aimé Venezuela, qui traverse une crise politique et humanitaire toujours plus dramatique et sans précédent. Le Saint-Siège, alors qu’il exhorte à répondre sans tarder aux besoins primaires de la population, souhaite que soient créées les conditions afin que les élections prévues pour l’année en cours soient en mesure d’apporter une solution aux conflits existants, et qu’on puisse envisager l’avenir avec une sérénité retrouvée.
Que la communauté internationale n’oublie pas non plus les souffrances de nombreuses parties du Continent africain, spécialement au Sud-Soudan, en République Démocratique du Congo, en Somalie, au Nigéria et en République Centrafricaine, où le droit à la vie est menacé par l’exploitation abusive des ressources, par le terrorisme, par la prolifération de groupes armés et par des conflits persistants. Il ne suffit pas de s’indigner face à tant de violence. Il faut plutôt que chacun, dans son domaine propre, œuvre activement pour éradiquer les causes de la misère et pour construire des ponts de fraternité, condition fondamentale d’un développement humain authentique.
Un engagement commun pour reconstruire les ponts est urgent également en Ukraine. L’année qui vient de s’achever a connu de nouvelles victimes dans le conflit qui affecte le pays, en continuant à infliger de grandes souffrances à la population, en particulier aux familles qui résident dans les zones touchées par la guerre et qui ont perdu des proches, souvent des personnes âgées et des enfants.
Je voudrais précisément dédier à la famille une pensée spéciale. Le droit de former une famille, en tant qu’«élément naturel et fondamental de la société [qui] a le droit à la protection de la société et de l’État» (Déclaration universelle des droits de l’homme), est en effet reconnu par la Déclaration de 1948 elle-même. Malheureusement, on sait comment, surtout en Occident, la famille est considérée comme une institution dépassée. À la stabilité d’un projet définitif, on préfère de nos jours des liens fugaces. Mais une maison construite sur le sable des relations fragiles et instables ne tient pas. Il faut plutôt une roche, sur laquelle ancrer des bases solides. Et la roche est précisément cette communion d’amour, fidèle et indissoluble, qui unit l’homme et la femme, une communion qui a une beauté austère et simple, un caractère sacré et inviolable et une fonction naturelle dans l’ordre social (cf. Paul VI, Discours à l’occasion de la visite à la Basilique de l’Annonciation, Nazareth, 5 janvier 1964). Je juge, par conséquent, urgent qu’on entreprenne de réelles politiques de soutien aux familles, dont par ailleurs dépendent l’avenir et le développement des États. Sans cette politique, en effet, on ne peut pas construire des sociétés en mesure d’affronter les défis de l’avenir. Le désintérêt pour les familles entraîne, en outre, une autre conséquence dramatique – et particulièrement actuelle dans certaines régions – qui est la baisse de la natalité. On vit un véritable hiver démographique! C’est le signe de sociétés qui ont du mal à affronter les défis du présent et qui deviennent donc toujours plus craintives face à l’avenir, en finissant par se replier sur elles-mêmes.
En même temps, on ne peut oublier la situation de familles brisées à cause de la pauvreté, des guerres et des migrations. Nous avons trop souvent sous nos yeux le drame des enfants qui, seuls, traversent les frontières séparant le sud du nord du monde, souvent victimes du trafic d’êtres humains.
Aujourd’hui, on parle beaucoup de migrants et de migrations, parfois juste pour susciter des peurs ancestrales. Il ne faut pas oublier que les migrations ont toujours existé. Dans la tradition judéo-chrétienne, l’histoire du salut est essentiellement une histoire de migrations. Il ne faut pas non plus oublier que la liberté de mouvement, tout comme celle de quitter son propre pays et d’y retourner, fait partie des droits fondamentaux de l’homme (cf. Déclaration universelle des droits de l’homme, art. 13). Il faut donc sortir d’une rhétorique répandue sur la question et aller au fait essentiel que devant nous, il y a d’abord et avant tout des personnes.
C’est ce que j’ai voulu réaffirmer par le Message pour la Journée Mondiale de la Paix, célébrée le 1er janvier dernier, consacré aux: ‘‘[Les] migrants et [les] réfugiés: des hommes et des femmes en quête de paix’’. Tout en reconnaissant qu’ils ne sont pas toujours tous animés des meilleures intentions, on ne peut pas oublier que la majorité des migrants préfèrerait rester dans leur propre pays, alors qu’elle se trouve contrainte à le quitter « à cause des discriminations, des persécutions, de la pauvreté et de la dégradation environnementale. […] Accueillir l’autre exige un engagement concret, une chaîne d’entraide et de bienveillance, une attention vigilante et compréhensive, la gestion responsable de nouvelles situations complexes qui, parfois, s’ajoutent aux autres problèmes innombrables déjà existants, ainsi que des ressources qui sont toujours limitées. En pratiquant la vertu de prudence, les gouvernants sauront accueillir, promouvoir, protéger et intégrer, en établissant des dispositions pratiques, « dans la mesure compatible avec le bien réel de leur peuple, …[pour] s’intégrer » (Pacem in terris, n. 106). Ils ont une responsabilité précise envers leurs communautés, dont ils doivent assurer les justes droits et le développement harmonieux, pour ne pas être comme le constructeur imprévoyant qui fit mal ses calculs et ne parvint pas à achever la tour qu’il avait commencé à bâtir (cf. Lc 14, 28-30)» (François, Message pour la 51ème Journée Mondiale de la Paix, 13 novembre 2017, n. 1).
Je voudrais de nouveau remercier les Autorités de ces États qui se sont prodigués au cours de ces années pour fournir une assistance aux nombreux migrants parvenus à leurs frontières. Je pense d’abord à l’engagement de nombreux pays en Asie, en Afrique et dans les Amériques, qui accueillent et assistent un grand nombre de personnes. Je garde encore vivante dans le cœur la rencontre que j’ai eue à Dacca avec quelques membres du peuple Rohingya et j’aimerais renouveler aux autorités du Bangladesh mes sentiments de gratitude pour l’assistance qu’elles offrent, sur leur propre territoire, à ces personnes.
Je voudrais ensuite exprimer une gratitude spéciale à l’Italie qui, ces années, a montré un cœur ouvert et généreux et a su aussi donner des exemples positifs d’intégration. Mon souhait est que les difficultés que le pays a traversées ces dernières années, et dont les conséquences persistent, ne conduisent pas à des fermetures et à des verrouillages, mais au contraire à une redécouverte de ces racines et de ces traditions qui ont nourri la riche histoire de la Nation et qui constituent un inestimable trésor à offrir au monde entier. De même, j’exprime mon appréciation pour les efforts accomplis par d’autres États européens, en particulier la Grèce et l’Allemagne. Il ne faut pas oublier que de nombreux réfugiés et migrants cherchent à rejoindre l’Europe parce qu’ils savent qu’ils pourront y trouver paix et sécurité, qui sont d’ailleurs le fruit d’un long cheminement né des idéaux des Pères fondateurs du projet européen après la seconde guerre mondiale. L’Europe doit être fière de ce patrimoine, fondé sur certains principes et sur une vision de l’homme qui plonge ses bases dans son histoire millénaire, inspirée par la conception chrétienne de la personne humaine. L’arrivée des migrants doit la pousser à redécouvrir son patrimoine culturel et religieux propre, de sorte que, reprenant conscience de ses valeurs sur lesquelles elle s’est édifiée, elle puisse en même temps maintenir vivante sa tradition et continuer à être un lieu accueillant, annonciateur de paix et de développement.
L’an passé, les gouvernements, les organisations internationales et la société civile se sont consultés réciproquement sur les principes de base, sur les priorités et sur les modalités les plus opportunes pour répondre aux mouvements migratoires et aux situations persistantes qui concernent les réfugiés. Les Nations Unies, suite à la Déclaration de New York pour les Réfugiés et les Migrants de 2016, ont initié d’importants processus de préparation en vue de l’adoption de deux Pactes Mondiaux (Global Compacts), respectivement sur les réfugiés et pour une migration sûre, ordonnée et régulière.
Le Saint Siège souhaite que ces efforts, grâce aux négociations qui s’ouvriront bientôt, conduisent à des résultats dignes d’une communauté mondiale toujours plus interdépendante, fondée sur les principes de solidarité et d’aide mutuelle. Dans le contexte international actuel, les possibilités et les moyens d’assurer à tout homme et à toute femme qui vit sur terre des conditions de vie dignes de la personne humaine ne manquent pas.
Dans le Message pour la Journée Mondiale de la Paix de cette année j’ai suggéré quatre ‘‘jalons’’ pour l’action : accueillir, protéger, promouvoir et intégrer (Ibid., n. 4). Je voudrais m’arrêter en particulier sur ce dernier, sur lequel s’affrontent différentes positions à la lumière d’autant d’évaluations, d’expériences, de préoccupations et de convictions. L’intégration est un “processus bidirectionnel”, avec des droits et des devoirs réciproques. Celui qui accueille est en effet appelé à promouvoir le développement humain intégral, alors qu’on demande à celui qui est accueilli de se conformer immanquablement aux normes du pays qui l’accueille, ainsi qu’au respect de ses principes identitaires. Tout processus d’intégration doit toujours maintenir au centre des normes qui concernent les divers aspects de la vie politique et sociale, la défense et la promotion des personnes, surtout de celles qui se trouvent dans des situations de vulnérabilité.
Le Saint Siège n’a pas l’intention d’interférer dans les décisions qui reviennent aux Etats, lesquels, à la lumière de leurs situations politiques, sociales et économiques respectives, et aussi des capacités propres et des possibilités d’hospitalité et d’intégration, ont la première responsabilité de l’accueil. Cependant, il estime nécessaire de jouer un rôle pour le “rappel” des principes d’humanité et de fraternité qui fondent toute société unie et harmonieuse. Dans cette perspective, il est important de ne pas oublier l’interaction avec les communautés religieuses, tant institutionnelles qu’au niveau associatif, qui peuvent jouer un rôle précieux de renfort dans l’assistance et la protection, de médiation sociale et culturelle, de pacification et d’intégration.
Parmi les droits humains que je voudrais rappeler aujourd’hui, il y a aussi le droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion, qui inclut le droit à la liberté de changer de religion (cf. Déclaration universelle des droits de l’homme, art. 18). On sait malheureusement combien le droit à la liberté de religion est souvent violé et la religion devient souvent ou l’occasion pour justifier idéologiquement de nouvelles formes d’extrémisme ou bien un prétexte à l’exclusion sociale, voire à des formes de persécutions des croyants. La construction de sociétés inclusives exige comme condition une compréhension intégrale de la personne humaine, qui peut se sentir vraiment accueillie quand elle est reconnue et acceptée dans toutes les dimensions qui constituent son identité, y compris religieuse.
Enfin, je souhaite rappeler l’importance du droit au travail. Il n’y a pas de paix ni de développement si l’homme est privé de la possibilité de contribuer personnellement, par son travail, à l’édification du bien commun. Il est regrettable de constater, au contraire, combien le travail est, en de nombreuses régions du monde, un bien rare. Peu nombreuses sont parfois les opportunités, surtout pour les jeunes, de trouver du travail. Il est souvent facile de le perdre non seulement à cause des conséquences de l’alternance des cycles économiques, mais aussi en raison du recours progressif à des technologies et à des machines toujours plus perfectionnées et plus précises, capables de remplacer l’homme. Et si, d’un côté, on constate une répartition inéquitable des offres de travail, de l’autre on relève la tendance à demander à celui qui travaille des rythmes toujours plus pressants. Les exigences du profit, dictées par la globalisation, ont conduit à une réduction progressive des temps et des jours de repos, avec comme résultat la perte d’une dimension fondamentale de la vie – celle du repos – qui permet à la personne de se refaire non seulement physiquement mais aussi spirituellement. Dieu lui-même s’est reposé le septième jour. Il l’a béni et l’a consacré « car il avait chômé après tout son ouvrage de création » (Gn 2, 3). Dans l’alternance du travail et du repos, l’homme participe à la “sanctification du temps” accomplie par Dieu et il ennoblit son travail, le soustrayant aux dynamiques répétitives d’un quotidien aride qui ne connaît pas d’arrêt.
En outre, les données publiées récemment par l’Organisation Mondiale du Travail sur l’augmentation du nombre d’enfants employés dans des activités de travail et du nombre des victimes des nouvelles formes d’esclavage sont un motif de particulière préoccupation. Le fléau du travail des mineurs continue de compromettre sérieusement le développement psycho-physique des enfants, les privant des joies de l’enfance, fauchant des victimes innocentes. On ne peut penser projeter un avenir meilleur, ni souhaiter construire des sociétés plus inclusives si l’on continue à maintenir des modèles économiques orientés vers le simple profit et l’exploitation des plus faibles, tels que les enfants. Eliminer les causes structurelles de ce fléau devrait être une priorité des gouvernements et des organisations internationales, appelés à intensifier leurs efforts pour adopter des stratégies intégrées et des politiques coordonnées visant à faire cesser le travail des mineurs sous toutes ses formes.
Excellences, Mesdames et Messieurs,
En rappelant certains des droits contenus dans la Déclaration Universelle de 1948, je n’entends pas omettre un aspect qui lui est strictement connexe : tout individu a aussi des devoirs envers la communauté, visant à « satisfaire aux justes exigences de la morale, de l’ordre public et du bien-être général dans une société démocratique » (Ibid., n. 29). Le juste rappel des droits de tout être humain doit tenir compte du fait que chacun fait partie d’un corps plus grand. Nos sociétés aussi, comme tout corps humain, jouissent d’une bonne santé si chaque membre accomplit sa tâche, conscient que celle-ci est au service du bien commun.
Parmi les devoirs particulièrement impérieux, il y a aujourd’hui celui de prendre soin de notre terre. Nous savons que la nature peut être en elle-même meurtrière même quand il n’y a pas de responsabilité de l’homme. Nous l’avons vu cette dernière année avec les tremblements de terre qui ont touché diverses régions, particulièrement ces derniers mois au Mexique et en Iran, causant de nombreuses victimes, tout comme avec la force des ouragans qui ont touché plusieurs pays des Caraïbes jusqu’à atteindre les côtes des États-Unis et qui, plus récemment, ont investi les Philippines. Cependant, il ne faut pas oublier qu’il y a aussi une importante responsabilité de l’homme dans l’interaction avec la nature. Les changements climatiques, avec la hausse générale des températures et les effets dévastateurs qu’elle entraîne sont aussi une conséquence de l’action de l’homme. Il convient donc de faire face, dans un effort commun, à la responsabilité de laisser aux générations qui suivront une terre plus belle et plus vivable, en œuvrant, à la lumière des engagements pris à Paris en 2015, pour réduire les émissions de gaz nocifs pour l’atmosphère et dangereux pour la santé humaine.
L’esprit qui doit animer chaque personne comme les nations dans ce travail, est comparable à celui des constructeurs des cathédrales médiévales qui constellent l’Europe. Ces édifices imposants racontent l’importance de la participation de chacun à une œuvre capable de franchir les limites du temps. Le constructeur de cathédrales savait qu’il ne verrait pas l’achèvement de son travail. Néanmoins, il se prodiguait activement, comprenant qu’il faisait partie d’un projet dont jouiraient ses enfants, qui – à leur tour – l’embelliraient et l’agrandiraient pour leurs enfants. Chaque homme et chaque femme de ce monde – et en particulier celui qui a la responsabilité de gouverner – est appelé à cultiver le même esprit de service et de solidarité intergénérationnel, et être ainsi un signe d’espérance pour notre monde tourmenté.
C’est avec ces considérations que je renouvelle à chacun de vous, à vos familles et à vos peuples les vœux d’une année riche de joie, d’espérance et de paix.
Merci.
[00023-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Your Excellencies, Ladies and Gentlemen,
Our meeting today is a welcome tradition that allows me, in the enduring joy of the Christmas season, to offer you my personal best wishes for the New Year just begun, and to express my closeness and affection to the peoples you represent. I thank the Dean of the Diplomatic Corps, His Excellency Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambassador of Angola, for his respectful greeting on behalf of the entire Diplomatic Corps accredited to the Holy See. I offer a particular welcome to the non-resident Ambassadors, whose numbers have increased following the establishment last May of diplomatic relations with the Republic of the Union of Myanmar. I likewise greet the growing number of Ambassadors resident in Rome, which now includes the Ambassador of the Republic of South Africa. I would like in a special way to remember the late Ambassador of Colombia, Guillermo León Escobar-Herrán, who passed away just a few days before Christmas. I thank all of you for your continuing helpful contacts with the Secretariat of State and the other Dicasteries of the Roman Curia, which testify to the interest of the international community in the Holy See’s mission and the work of the Catholic Church in your respective countries. This is also the context for the Holy See’s pactional activities, which last year saw the signing, in February, of the Framework Agreement with the Republic of the Congo, and, in August, of the Agreement between the Secretariat of State and the Government of the Russian Federation enabling the holders of diplomatic passports to travel without a visa.
In its relations with civil authorities, the Holy See seeks only to promote the spiritual and material well-being of the human person and to pursue the common good. The Apostolic Journeys that I made during the course of the past year to Egypt, Portugal, Colombia, Myanmar and Bangladesh were expressions of this concern. I travelled as a pilgrim to Portugal on the centenary of the apparitions of Our Lady of Fatima, to celebrate the canonization of the shepherd children Jacinta and Francisco Marto. There I witnessed the enthusiastic and joyful faith that the Virgin Mary roused in the many pilgrims assembled for the occasion. In Egypt, Myanmar and Bangladesh too, I was able to meet the local Christian communities that, though small in number, are appreciated for their contribution to development and fraternal coexistence in those countries. Naturally, I also had meetings with representatives of other religions, as a sign that our differences are not an obstacle to dialogue, but rather a vital source of encouragement in our common desire to know the truth and to practise justice. Finally, in Colombia I wished to bless the efforts and the courage of that beloved people, marked by a lively desire for peace after more than half a century of internal conflict.
Dear Ambassadors,
This year marks the centenary of the end of the First World War, a conflict that reconfigured the face of Europe and the entire world with the emergence of new states in place of ancient empires. From the ashes of the Great War, we can learn two lessons that, sad to say, humanity did not immediately grasp, leading within the space of twenty years to a new and even more devastating conflict. The first lesson is that victory never means humiliating a defeated foe. Peace is not built by vaunting the power of the victor over the vanquished. Future acts of aggression are not deterred by the law of fear, but rather by the power of calm reason that encourages dialogue and mutual understanding as a means of resolving differences.[1] This leads to a second lesson: peace is consolidated when nations can discuss matters on equal terms. This was grasped a hundred years ago – on this very date – by the then President of the United States, Woodrow Wilson, who proposed the establishment of a general league of nations with the aim of promoting for all states, great and small alike, mutual guarantees of independence and territorial integrity. This laid the theoretical basis for that multilateral diplomacy, which has gradually acquired over time an increased role and influence in the international community as a whole.
Relations between nations, like all human relationships, “must likewise be harmonized in accordance with the dictates of truth, justice, willing cooperation, and freedom”.[2] This entails “the principle that all states are by nature equal in dignity”,[3] as well as the acknowledgment of one another’s rights and the fulfilment of their respective duties.[4] The basic premise of this approach is the recognition of the dignity of the human person, since disregard and contempt for that dignity resulted in barbarous acts that have outraged the conscience of mankind.[5] Indeed, as the Universal Declaration of Human Rights affirms, “recognition of the inherent dignity and of the equal and inalienable rights of all members of the human family is the foundation of freedom, justice and peace in the world”.[6]
I would like to devote our meeting today to this important document, seventy years after its adoption on 10 December 1948 by the General Assembly of the United Nations. For the Holy See, to speak of human rights means above all to restate the centrality of the human person, willed and created by God in his image and likeness. The Lord Jesus himself, by healing the leper, restoring sight to the blind man, speaking with the publican, saving the life of the woman caught in adultery and demanding that the injured wayfarer be cared for, makes us understand that every human being, independent of his or her physical, spiritual or social condition, is worthy of respect and consideration. From a Christian perspective, there is a significant relation between the Gospel message and the recognition of human rights in the spirit of those who drafted the Universal Declaration of Human Rights.
Those rights are premised on the nature objectively shared by the human race. They were proclaimed in order to remove the barriers that divide the human family and to favour what the Church’s social doctrine calls integral human development, since it entails fostering “the development of each man and of the whole man… and humanity as a whole”.[7] A reductive vision of the human person, on the other hand, opens the way to the growth of injustice, social inequality and corruption.
It should be noted, however, that over the years, particularly in the wake of the social upheaval of the 1960’s, the interpretation of some rights has progressively changed, with the inclusion of a number of “new rights” that not infrequently conflict with one another. This has not always helped the promotion of friendly relations between nations,[8] since debatable notions of human rights have been advanced that are at odds with the culture of many countries; the latter feel that they are not respected in their social and cultural traditions, and instead neglected with regard to the real needs they have to face. Somewhat paradoxically, there is a risk that, in the very name of human rights, we will see the rise of modern forms of ideological colonization by the stronger and the wealthier, to the detriment of the poorer and the most vulnerable. At the same time, it should be recalled that the traditions of individual peoples cannot be invoked as a pretext for disregarding the due respect for the fundamental rights proclaimed by the Universal Declaration of Human Rights.
At a distance of seventy years, it is painful to see how many fundamental rights continue to be violated today. First among all of these is the right of every human person to life, liberty and personal security.[9] It is not only war or violence that infringes these rights. In our day, there are more subtle means: I think primarily of innocent children discarded even before they are born, unwanted at times simply because they are ill or malformed, or as a result of the selfishness of adults. I think of the elderly, who are often cast aside, especially when infirm and viewed as a burden. I think of women who repeatedly suffer from violence and oppression, even within their own families. I think too of the victims of human trafficking, which violates the prohibition of every form of slavery. How many persons, especially those fleeing from poverty and war, have fallen prey to such commerce perpetrated by unscrupulous individuals?
Defending the right to life and physical integrity also means safeguarding the right to health on the part of individuals and their families. Today this right has assumed implications beyond the original intentions of the Universal Declaration of Human Rights, which sought to affirm the right of every individual to receive medical care and necessary social services.[10] In this regard, it is my hope that efforts will be made within the appropriate international forums to facilitate, in the first place, ready access to medical care and treatment on the part of all. It is important to join forces in order to implement policies that ensure, at affordable costs, the provision of medicines essential for the survival of those in need, without neglecting the area of research and the development of treatments that, albeit not financially profitable, are essential for saving human lives.
Defending the right to life also entails actively striving for peace, universally recognized as one of the supreme values to be sought and defended. Yet serious local conflicts continue to flare up in various parts of the world. The collective efforts of the international community, the humanitarian activities of international organizations and the constant pleas for peace rising from lands rent by violence seem to be less and less effective in the face of war’s perverse logic. This scenario cannot be allowed to diminish our desire and our efforts for peace. For without peace, integral human development becomes unattainable.
Integral disarmament and integral development are intertwined. Indeed, the quest for peace as a precondition for development requires battling injustice and eliminating, in a non-violent way, the causes of discord that lead to wars. The proliferation of weapons clearly aggravates situations of conflict and entails enormous human and material costs that undermine development and the search for lasting peace. The historic result achieved last year with the adoption of the Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons at the conclusion of the United Nations Conference for negotiating a legally binding instrument to ban nuclear arms, shows how lively the desire for peace continues to be. The promotion of a culture of peace for integral development calls for unremitting efforts in favour of disarmament and the reduction of recourse to the use of armed force in the handling of international affairs. I would therefore like to encourage a serene and wide-ranging debate on the subject, one that avoids polarizing the international community on such a sensitive issue. Every effort in this direction, however modest, represents an important step for mankind.
For its part, the Holy See signed and ratified, also in the name of and on behalf of Vatican City State, the Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons. It did so in the belief, expressed by Saint John XXIII in Pacem in Terris, that “justice, right reason, and the recognition of man’s dignity cry out insistently for a cessation to the arms race. The stockpiles of armaments which have been built up in various countries must be reduced all round and simultaneously by the parties concerned. Nuclear weapons must be banned”.[11] Indeed, even if “it is difficult to believe that anyone would dare to assume responsibility for initiating the appalling slaughter and destruction that war would bring in its wake, there is no denying that the conflagration could be started by some chance and unforeseen circumstance”.[12]
The Holy See therefore reiterates the firm conviction “that any disputes which may arise between nations must be resolved by negotiation and agreement, not by recourse to arms”.[13] The constant production of ever more advanced and “refined” weaponry, and dragging on of numerous conflicts – what I have referred to as “a third world war fought piecemeal” – lead us to reaffirm Pope John’s statement that “in this age which boasts of its atomic power, it no longer makes sense to maintain that war is a fit instrument with which to repair the violation of justice… Nevertheless, we are hopeful that, by establishing contact with one another and by a policy of negotiation, nations will come to a better recognition of the natural ties that bind them together as men. We are hopeful, too, that they will come to a fairer realization of one of the cardinal duties deriving from our common nature: namely, that love, not fear, must dominate the relationships between individuals and between nations. It is principally characteristic of love that it draws men together in all sorts of ways, sincerely united in the bonds of mind and matter; and this is a union from which countless blessings can flow”.[14]
In this regard, it is of paramount importance to support every effort at dialogue on the Korean peninsula, in order to find new ways of overcoming the current disputes, increasing mutual trust and ensuring a peaceful future for the Korean people and the entire world.
It is also important for the various peace initiatives aimed at helping Syria to continue, in a constructive climate of growing trust between the parties, so that the lengthy conflict that has caused such immense suffering can finally come to an end. Our shared hope is that, after so much destruction, the time for rebuilding has now come. Yet even more than rebuilding material structures, it is necessary to rebuild hearts, to re-establish the fabric of mutual trust, which is the essential prerequisite for the flourishing of any society. There is a need, then, to promote the legal, political and security conditions that restore a social life where every citizen, regardless of ethnic and religious affiliation, can take part in the development of the country. In this regard, it is vital that religious minorities be protected, including Christians, who for centuries have made an active contribution to Syria’s history.
It is likewise important that the many refugees who have found shelter and refuge in neighbouring countries, especially in Jordan, Lebanon and Turkey, be able to return home. The commitment and efforts made by these countries in this difficult situation deserve the appreciation and support of the entire international community, which is also called upon to create the conditions for the repatriation of Syrian refugees. This effort must concretely start with Lebanon, so that that beloved country can continue to be a “message” of respect and coexistence, and a model to imitate, for the whole region and for the entire world.
The desire for dialogue is also necessary in beloved Iraq, to enable its various ethnic and religious groups to rediscover the path of reconciliation and peaceful coexistence and cooperation. Such is the case too in Yemen and other parts of the region, and in Afghanistan.
I think in particular of Israelis and Palestinians, in the wake of the tensions of recent weeks. The Holy See, while expressing sorrow for the loss of life in recent clashes, renews its pressing appeal that every initiative be carefully weighed so as to avoid exacerbating hostilities, and calls for a common commitment to respect, in conformity with the relevant United Nations Resolutions, the status quo of Jerusalem, a city sacred to Christians, Jews and Muslims. Seventy years of confrontation make more urgent than ever the need for a political solution that allows the presence in the region of two independent states within internationally recognized borders. Despite the difficulties, a willingness to engage in dialogue and to resume negotiations remains the clearest way to achieving at last a peaceful coexistence between the two peoples.
In national contexts, too, openness and availability to encounter are essential. I think especially of Venezuela, which is experiencing an increasingly dramatic and unprecedented political and humanitarian crisis. The Holy See, while urging an immediate response to the primary needs of the population, expresses the hope that conditions will be created so that the elections scheduled for this year can resolve the existing conflicts, and enable people to look to the future with newfound serenity.
Nor can the international community overlook the suffering of many parts of the African continent, especially in South Sudan, the Democratic Republic of the Congo, Somalia, Nigeria and the Central African Republic, where the right to life is threatened by the indiscriminate exploitation of resources, terrorism, the proliferation of armed groups and protracted conflicts. It is not enough to be appalled at such violence. Rather, everyone, in his or her own situation, should work actively to eliminate the causes of misery and build bridges of fraternity, the fundamental premise for authentic human development.
A shared commitment to rebuilding bridges is also urgent in Ukraine. The year just ended reaped new victims in the conflict that afflicts the country, continuing to bring great suffering to the population, particularly to families who live in areas affected by the war and have lost their loved ones, not infrequently the elderly and children.
I would like to devote a special thought to families. The right to form a family, as a “natural and fundamental group unit of society… is entitled to protection by society and the state”,[15] and is recognized by the 1948 Universal Declaration of Human Rights. Unfortunately, it is a fact that, especially in the West, the family is considered an obsolete institution. Today fleeting relationships are preferred to the stability of a definitive life project. But a house built on the sand of frail and fickle relationships cannot stand. What is needed instead is a rock on which to build solid foundations. And this rock is precisely that faithful and indissoluble communion of love that joins man and woman, a communion that has an austere and simple beauty, a sacred and inviolable character and a natural role in the social order.[16] I consider it urgent, then, that genuine policies be adopted to support the family, on which the future and the development of states depend. Without this, it is not possible to create societies capable of meeting the challenges of the future. Disregard for families has another dramatic effect – particularly present in some parts of the world – namely, a decline in the birth rate. We are experiencing a true demographic winter! This is a sign of societies that struggle to face the challenges of the present, and thus become ever more fearful of the future, with the result that they close in on themselves.
At the same time, we cannot forget the situation of families torn apart by poverty, war and migration. All too often, we see with our own eyes the tragedy of children who, unaccompanied, cross the borders between the south and the north of our world, and often fall victim to human trafficking.
Today there is much talk about migrants and migration, at times only for the sake of stirring up primal fears. It must not be forgotten that migration has always existed. In the Judeo-Christian tradition, the history of salvation is essentially a history of migration. Nor should we forget that freedom of movement, for example, the ability to leave one’s own country and to return there, is a fundamental human right.[17] There is a need, then, to abandon the familiar rhetoric and start from the essential consideration that we are dealing, above all, with persons.
This is what I sought to reiterate in my Message for the World Day of Peace celebrated on 1 January last, whose theme this year is: “Migrants and Refugees: Men and Women in Search of Peace”. While acknowledging that not everyone is always guided by the best of intentions, we must not forget that the majority of migrants would prefer to remain in their homeland. Instead, they find themselves “forced by discrimination, persecution, poverty and environmental degradation” to leave it behind… “Welcoming others requires concrete commitment, a network of assistance and good will, vigilant and sympathetic attention, the responsible management of new and complex situations that at times compound numerous existing problems, to say nothing of resources, which are always limited. By practising the virtue of prudence, government leaders should take practical measures to welcome, promote, protect, integrate and, ‘within the limits allowed by a correct understanding of the common good, to permit [them] to become part of a new society’ (Pacem in Terris, 57). Leaders have a clear responsibility towards their own communities, whose legitimate rights and harmonious development they must ensure, lest they become like the rash builder who miscalculated and failed to complete the tower he had begun to construct” (cf. Lk 14:28-30).[18]
I would like once more to thank the authorities of those states who have spared no effort in recent years to assist the many migrants arriving at their borders. I think above all of the efforts made by more than a few countries in Asia, Africa and the Americas that welcome and assist numerous persons. I cherish vivid memories of my meeting in Dhaka with some members of the Rohingya people, and I renew my sentiments of gratitude to the Bangladeshi authorities for the assistance provided to them on their own territory.
I would also like to express particular gratitude to Italy, which in these years has shown an open and generous heart and offered positive examples of integration. It is my hope that the difficulties that the country has experienced in these years, and whose effects are still felt, will not lead to forms of refusal and obstruction, but instead to a rediscovery of those roots and traditions that have nourished the rich history of the nation and constitute a priceless treasure offered to the whole world. I likewise express my appreciation for the efforts made by other European states, particularly Greece and Germany. Nor must it be forgotten that many refugees and migrants seek to reach Europe because they know that there they will find peace and security, which for that matter are the fruit of a lengthy process born of the ideals of the Founding Fathers of the European project in the aftermath of the Second World War. Europe should be proud of this legacy, grounded on certain principles and a vision of man rooted in its millenary history, inspired by the Christian conception of the human person. The arrival of migrants should spur Europe to recover its cultural and religious heritage, so that, with a renewed consciousness of the values on which the continent was built, it can keep alive her own tradition while continuing to be a place of welcome, a herald of peace and of development.
In the past year, governments, international organizations and civil society have engaged in discussions about the basic principles, priorities and most suitable means for responding to movements of migration and the enduring situations involving refugees. The United Nations, following the 2016 New York Declaration for Refugees and Migrants, has initiated important preparations for the adoption of the two Global Compacts for refugees and for safe, orderly and regular migration respectively.
The Holy See trusts that these efforts, with the negotiations soon to begin, will lead to results worthy of a world community growing ever more independent and grounded in the principles of solidarity and mutual assistance. In the current international situation, ways and means are not lacking to ensure that every man and every woman on earth can enjoy living conditions worthy of the human person.
In the Message for this year’s World Day of Peace, I suggested four “mileposts” for action: welcoming, protecting, promoting and integrating.[19] I would like to dwell particularly on the last of these, which has given rise to various opposed positions in the light of varying evaluations, experiences, concerns and convictions. Integration is a “two-way process”, entailing reciprocal rights and duties. Those who welcome are called to promote integral human development, while those who are welcomed must necessarily conform to the rules of the country offering them hospitality, with respect for its identity and values. Processes of integration must always keep the protection and advancement of persons, especially those in situations of vulnerability, at the centre of the rules governing various aspects of political and social life.
The Holy See has no intention of interfering in decisions that fall to states, which, in the light of their respective political, social and economic situations, and their capacities and possibilities for receiving and integrating, have the primary responsibility for accepting newcomers. Nonetheless, the Holy See does consider it its role to appeal to the principles of humanity and fraternity at the basis of every cohesive and harmonious society. In this regard, its interaction with religious communities, on the level of institutions and associations, should not be forgotten, since these can play a valuable supportive role in assisting and protecting, in social and cultural mediation, and in pacification and integration.
Among the human rights that I would also like to mention today is the right to freedom of thought, conscience and of religion, including the freedom to change religion.[20] Sad to say, it is well-known that the right to religious freedom is often disregarded, and not infrequently religion becomes either an occasion for the ideological justification of new forms of extremism or a pretext for the social marginalization of believers, if not their downright persecution. The condition for building inclusive societies is the integral comprehension of the human person, who can feel himself or herself truly accepted when recognized and accepted in all the dimensions that constitute his or her identity, including the religious dimension.
Finally, I wish to recall the importance of the right to employment. There can be no peace or development if individuals are not given the chance to contribute personally by their own labour to the growth of the common good. Regrettably, in many parts of the world, employment is scarcely available. At times, few opportunities exist, especially for young people, to find work. Often it is easily lost not only due to the effects of alternating economic cycles, but to the increasing use of ever more perfect and precise technologies and tools that can replace human beings. On the one hand, we note an inequitable distribution of the work opportunities, while on the other, a tendency to demand of labourers an ever more pressing pace. The demands of profit, dictated by globalization, have led to a progressive reduction of times and days of rest, with the result that a fundamental dimension of life has been lost – that of rest – which serves to regenerate persons not only physically but also spiritually. God himself rested on the seventh day; he blessed and consecrated that day “because on it he rested from all the work that he had done in creation” (Gen 2:3). In the alternation of exertion and repose, human beings share in the “sanctification of time” laid down by God and ennoble their work, saving it from constant repetition and dull daily routine.
A cause for particular concern are the data recently published by the International Labour Organization regarding the increase of child labourers and victims of the new forms of slavery. The scourge of juvenile employment continues to compromise gravely the physical and psychological development of young people, depriving them of the joys of childhood and reaping innocent victims. We cannot think of planning a better future, or hope to build more inclusive societies, if we continue to maintain economic models directed to profit alone and the exploitation of those who are most vulnerable, such as children. Eliminating the structural causes of this scourge should be a priority of governments and international organizations, which are called to intensify efforts to adopt integrated strategies and coordinated policies aimed at putting an end to child labour in all its forms.
Your Excellencies, Ladies and Gentlemen,
In recalling some of the rights contained in the 1948 Universal Declaration, I do not mean to overlook one of its important aspects, namely, the recognition that every individual also has duties towards the community, for the sake of “meeting the just requirements of morality, public order and the general welfare in a democratic society”.[21] The just appeal to the rights of each human being must take into account the fact that every individual is part of a greater body. Our societies too, like every human body, enjoy good health if each member makes his or her own contribution in the awareness that it is at the service of the common good.
Among today’s particularly pressing duties is that of caring for our earth. We know that nature can itself be cruel, even apart from human responsibility. We saw this in the past year with the earthquakes that struck different parts of our world, especially those of recent months in Mexico and in Iran, with their high toll of victims, and with the powerful hurricanes that struck different countries of the Caribbean, also reaching the coast of the United States, and, more recently, the Philippines. Even so, one must not downplay the importance of our own responsibility in interaction with nature. Climate changes, with the global rise in temperatures and their devastating effects, are also a consequence of human activity. Hence there is a need to take up, in a united effort, the responsibility of leaving to coming generations a more beautiful and livable world, and to work, in the light of the commitments agreed upon in Paris in 2015, for the reduction of gas emissions that harm the atmosphere and human health.
The spirit that must guide individuals and nations in this effort can be compared to that of the builders of the medieval cathedrals that dot the landscape of Europe. These impressive buildings show the importance of each individual taking part in a work that transcends the limits of time. The builders of the cathedrals knew that they would not see the completion of their work. Yet they worked diligently, in the knowledge that they were part of a project that would be left to their children to enjoy. These, in turn, would embellish and expand it for their own children. Each man and woman in this world – particularly those with governmental responsibilities – is called to cultivate the same spirit of service and intergenerational solidarity, and in this way to be a sign of hope for our troubled world.
With these thoughts, I renew to each of you, to your families and to your peoples, my prayerful good wishes for a year filled with joy, hope and peace. Thank you.
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[1] Cf. JOHN XXIII, Encyclical Letter Pacem in Terris, 11 April 1963, 90.
[2] Ibid., 80.
[3] Ibid., 86.
[4] Ibid., 91.
[5] Cf. Universal Declaration of Human Rights, 10 December 1948.
[6] Ibid. Preamble.
[7] PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio, 26 March 1967, 14.
[8] Cf. Universal Declaration of Human Rights, Preamble.
[9] Cf. ibid., Art.3.
[10] Cf. ibid., Art. 25.
[11] Pacem in Terris, 112.
[12] Ibid., 111.
[13] Ibid., 126.
[14] Ibid., 127 and 129.
[15] Universal Declaration of Human Rights, Art. 16.
[16] Cf. PAUL VI, Address in the Basilica of the Annunciation in Nazareth, 5 January 1964.
[17] Cf. Universal Declaration of Human Rights, Art. 13.
[18] FRANCIS, Message for the 2018 World Day of Peace, 13 November 2017, 1.
[19] Ibid., 4.
[20] Cf. Universal Declaration of Human Rights, Art. 18.
[21] Ibid., Art. 29.
[00023-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Exzellenzen, meine Damen und Herren,
diese Begegnung ist ein schöner Brauch, denn sie gibt mir die Gelegenheit, während im Herzen die weihnachtliche Freude noch lebendig ist, Ihnen persönlich meine guten Wünsche für das vor kurzem begonnene Jahr zu übermitteln und meine Nähe und Verbundenheit mit den Völkern, die Sie vertreten, zum Ausdruck zu bringen. Ich danke dem Dekan des Diplomatischen Korps, Seiner Exzellenz Herrn Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Botschafter Angolas, für die ehrerbietigen Worte, die er eben im Namen des gesamten beim Heiligen Stuhl akkreditierten Diplomatischen Korps an mich gerichtet hat. Besonders heiße ich die die Botschafter willkommen, die für diesen Anlass von außerhalb Roms gekommen sind. Ihre Zahl ist infolge der im vergangenen Mai stattgefundenen Aufnahme der diplomatischen Beziehungen mit der Republik der Union Myanmar gewachsen. Ebenso begrüße ich die immer zahlreicheren in Rom residierenden Botschafter, unter denen sich jetzt auch der Botschafter der Republik Südafrika befindet. Zugleich möchte ich besonders des Botschafters Kolumbiens, Guillermo León Escobar-Herrán, gedenken, der wenige Tage vor Weihnachten verstorben ist. Ich danke Ihnen für den ergiebigen und beständigen Austausch, den Sie mit dem Staatssekretariat und den anderen Dikasterien der Römischen Kurie pflegen; er ist ein Zeugnis für das Interesse der internationalen Gemeinschaft an der Sendung des Heiligen Stuhles und am Einsatz der katholischen Kirche in Ihren jeweiligen Ländern. In diesem Zusammenhang ist auch die Vertragstätigkeit des Heiligen Stuhls zu sehen, die im Februar des vergangenen Jahres zur Unterzeichnung der Rahmenvereinbarung mit der Republik Kongo geführt hat und im August zur Vereinbarung zwischen dem Staatssekretariat und der Regierung der Russischen Föderation über die Reisen ohne Visum der Inhaber diplomatischer Reisepässe.
In seiner Beziehung mit den zivilen Autoritäten strebt der Heilige Stuhl nur danach, das geistliche und materielle Wohl der menschlichen Person sowie das Gemeinwohl zu fördern. Die apostolischen Reisen, die ich im Laufe des vergangenen Jahres nach Ägypten, Portugal, Kolumbien, Myanmar und Bangladesch unternommen habe, waren Ausdruck dieses Anliegens. Anlässlich der Hundertjahrfeier der Erscheinungen der Muttergottes von Fatima habe ich mich als Pilger nach Portugal begeben, um die Heiligsprechung der Hirtenkinder Jacinta und Francisco Marto abzuhalten. Dort konnte ich den Glauben voll Begeisterung und Freude erleben, den die Jungfrau Maria in den vielen zu diesem Anlass zusammengekommenen Pilgern erweckt hat. Auch in Ägypten, Myanmar und Bangladesch konnte ich den örtlichen christlichen Gemeinschaften begegnen, die – obgleich zahlenmäßig sehr klein – aufgrund ihres Beitrags geschätzt werden, den sie für die Entwicklung und das zivile Zusammenleben der jeweiligen Länder leisten. Auch Treffen mit den Vertretern anderer Religionen haben nicht gefehlt, was bezeugt, wie die jeweiligen Besonderheiten nicht ein Hindernis für den Dialog sind, sondern der Lebenssaft, der das gemeinsame Streben nährt, die Wahrheit zu erkennen und die Gerechtigkeit zu üben. In Kolumbien habe ich schließlich die Bemühungen und den Mut dieses geliebten Volkes gelobt, das nach über einem halben Jahrhundert des inneren Konflikts von einer großen Sehnsucht nach Frieden durchdrungen ist.
Liebe Botschafter,
dieses Jahr ist der hundertste Jahrestag des Endes des Ersten Weltkriegs, eines Konflikts, der das Angesicht Europas und der ganzen Welt mit dem Entstehen neuer Staaten an der Stelle der alten Reiche neu gezeichnet hat. Aus dem Trümmerhaufen des Weltkriegs kann man zwei Mahnungen ziehen, die die Menschheit leider nicht unmittelbar verstand, so dass nach zwanzig Jahren zu einem neuen Konflikt kam, der noch zerstörerischer als der vorherige sein sollte. Die erste Mahnung ist, dass Siegen niemals bedeutet, den bezwungenen Gegner zu demütigen. Der Friede wird nicht als Machtbestätigung des Siegers über den Besiegten aufgebaut. Es ist nicht das Gesetz der Angst, das von künftigen Angriffen abhält, sondern vielmehr die Kraft der ruhigen Vernünftigkeit, die zum Dialog anregt und zum gegenseitigen Verständnis, um die Kontraste zu versöhnen[1]. Daraus leitet sich die zweite Mahnung ab: Der Friede wird gefestigt, wenn sich die Nationen in einem Klima der Gleichheit gegenübertreten können. Der damalige US-amerikanische Präsident Thomas Woodrow Wilson erkannte dies – genau wie heute – vor einem Jahrhundert, als er die Einrichtung eines allgemeinen Bundes der Nationen vorschlug, der zum Ziel haben sollte, für alle Staaten, egal ob groß oder klein, gegenseitige Garantien für Unabhängigkeit und territoriale Integrität zu erreichen. Es wurden so die ideellen Grundlagen jener multilateralen Diplomatie gelegt, die im Laufe der Jahre eine wachsende Rolle gespielt hat und zunehmend Einfluss auf die gesamte internationale Gemeinschaft gewonnen hat.
Auch die Beziehungen unter den Nationen werden – so wie die zwischenmenschlichen Beziehungen – »von der Norm der Wahrheit, der Gerechtigkeit, der tatkräftigen Solidarität und der Freiheit bestimmt«[2]. Dies bringt das Prinzip mit sich, »dass alle Staaten, was ihre natürliche Würde angeht, untereinander gleichgestellt sind«[3], wie auch die Anerkennung der beiderseitigen Rechte verbunden mit den jeweiligen Pflichten[4]. Grundlegende Voraussetzung dieser Haltung ist die Bejahung der Würde jeder menschlichen Person; deren Verachtung oder Nichtanerkennung führt zu Akten der Barbarei, die das Gewissen der Menschheit mit Empörung erfüllen[5]. Andererseits bildet »die Anerkennung der angeborenen Würde und der gleichen und unveräußerlichen Rechte aller Mitglieder der Gemeinschaft der Menschen die Grundlage von Freiheit, Gerechtigkeit und Frieden in der Welt«[6], wie die Allgemeine Erklärung der Menschenrechte unterstreicht.
Unser heutiges Treffen möchte ich diesem wichtigen Dokument widmen, das vor siebzig Jahren von die Generalversammlung der Vereinten Nationen am 10. Dezember 1948 angenommen wurde. Von den Menschenrechten zu sprechen bedeutet nämlich für den Heiligen Stuhl vor allem, immer wieder auf die zentrale Stellung der Würde des Menschen, der von Gott gewollt und als sein Abbild ihm ähnlich geschaffen ist, hinzuweisen. Wenn der Herr Jesus Christus Aussätzige heilte, Blinde sehend machte, mit Zöllnern verkehrte, das Leben der Ehebrecherin verschonte und dazu einlud, den verwundeten Reisenden zu pflegen, hat er damit selbst zu verstehen gegeben, dass jeder Mensch unabhängig von seiner körperlichen, geistigen und gesellschaftlichen Lage Respekt und Beachtung verdient. Aus christlicher Sicht besteht also eine bedeutende Beziehung zwischen der Botschaft des Evangeliums und der Anerkennung der Menschenrechte gemäß dem Geist der Verfasser der Allgemeinen Erklärung der Menschenrechte.
Diese Rechte ziehen ihre Voraussetzung aus der Natur, die das Menschengeschlecht objektiv vereint. Sie sind formuliert worden, um die Mauern niederzureißen, welche die Menschheitsfamilie trennen, und das zu fördern, was die Soziallehre der Kirche ganzheitliche menschliche Entwicklung nennt, da sie »jeden Menschen und den ganzen Menschen im Auge hat […] bis hin zur gesamten Menschheit«[7]. Eine reduktionistische Sicht der menschlichen Person öffnet hingegen den Weg für die Verbreitung von Ungerechtigkeit, sozialer Ungleichheit und Korruption.
Wir müssen jedoch feststellen, dass im Laufe der Zeit, vor allem im Anschluss an die sozialen Unruhen der 68er-Jahre die Interpretation einiger Rechte fortschreitend derart abgeändert wurde, dass diese eine Vielzahl „neuer Rechte“ einschließt, die oft im Widerspruch zueinander stehen. Dies hat nicht immer die Förderung von freundschaftlichen Beziehungen zwischen den Nationen begünstigt[8], weil strittige Auffassungen der Menschenrechte entstanden sind, die zu der Kultur vieler Länder im Gegensatz stehen. Diese fühlen sich in ihren gesellschaftlich-kulturellen Traditionen nicht respektiert, sondern angesichts der real zu bewältigenden Erfordernisse alleingelassen. Es kann deshalb die auf gewisse Weise paradoxe Gefahr bestehen, dass im Namen der Menschenrechte moderne Formen von ideologischer Kolonisierung der Starken und Reichen zum Schaden der Armen und Schwachen entstehen. Zugleich ist es angebracht, sich vor Augen zu halten, dass die Traditionen einzelner Völker nicht als Vorwand benutzt werden dürfen, um die gebührende Beachtung der von der Allgemeinen Erklärung der Menschenrechte formulierten Grundrechte zu unterlassen.
Siebzig Jahre später schmerzt es festzustellen, wie viele Grundrechte noch heute verletzt werden – als erstes vor allen anderen das Recht auf Leben, auf Freiheit und Unantastbarkeit jeder menschlichen Person[9]. Nicht nur Krieg oder Gewalt verletzen sie. In unserer Zeit gibt es subtilere Formen: Ich denke vor allem an die unschuldigen Kinder, die noch vor ihrer Geburt „weggeworfen“ werden; man will sie zuweilen nicht, nur weil sie krank oder missgebildet sind oder aufgrund des Egoismus der Erwachsenen. Ich denke an die alten Menschen, die oftmals ebenso „weggeworfen“ werden, vor allem wenn sie krank sind und als Last betrachtet werden. Ich denke an die Frauen, die oft Gewalt und Unterdrückung auch im Kreis ihrer eigenen Familien erleiden müssen. Ich denke dann an die Opfer des Menschenhandels, der das Verbot jeder Form von Sklaverei verletzt. Wie viele Menschen, insbesondere auf der Flucht vor Armut und Krieg, werden zum Gegenstand dieses von skrupellosen Leuten betriebenen schmutzigen Handels?
Das Recht auf Leben und körperliche Unversehrtheit zu verteidigen bedeutet auch, das Recht auf die Gesundheit der Person und ihrer Familienangehörigen zu schützen. Heute besitzt dieses Recht Implikationen, die die ursprüngliche Absicht der Allgemeinen Erklärung der Menschenrechte überschreiten, die darauf abzielte, das Recht eines jeden auf die notwendigen medizinischen Behandlungen und sozialen Dienstleistungen zu gewährleisten[10]. In dieser Hinsicht hoffe ich, dass man sich in den international zuständigen Plattformen dafür einsetzt, dass vor allem ein einfacher Zugang zu den Behandlungen und Gesundheitsdiensten für alle gefördert wird. Es ist wichtig, die Bemühungen für eine Politik zu bündeln, welche die Bereitstellung von überlebensnotwendigen Medikamenten für Notleidende zu erschwinglichen Preisen gewährleistet. Dabei darf jedoch nicht die Forschung und Weiterentwicklung von Behandlungen vernachlässigt werden, die, auch wenn sie für den Markt wirtschaftlich gesehen unbedeutend sind, für die Rettung von menschlichem Leben aber entscheidend sind.
Das Recht auf Leben zu verteidigen bedeutet auch, sich aktiv für den Frieden einzusetzen, der allgemein als einer der höchsten und wichtigsten Werte angesehen wird, den es zu wahren gilt. Und dennoch stecken schwerwiegende lokale Konflikte verschiedene Regionen der Welt in Brand. Die gemeinsamen Bemühungen der internationalen Gemeinschaft, der humanitäre Einsatz von internationalen Organisationen und die unablässigen Rufe nach Frieden aus den blutgetränkten Kampfgebieten scheinen angesichts der schrecklichen Logik des Krieges immer wirkungsloser zu bleiben. Dieses Szenario darf unseren Wunsch nach Frieden und unsere Bemühungen dafür nicht schwächen, denn wir wissen, dass ohne ihn die ganzheitliche Entwicklung des Menschen nicht zu erreichen ist.
Die vollständige Abrüstung und die ganzheitliche Entwicklung stehen in einer engen Wechselbeziehung. Die Suche nach Frieden als Voraussetzung für Entwicklung schließt wiederum mit ein, Ungerechtigkeit zu bekämpfen und gewaltlos die Konfliktgründe auszumerzen, die zu Kriegen führen. Die Verbreitung von Waffen verschlimmert dagegen eindeutig die Konfliktsituationen und verursacht enorme Kosten auf menschlicher und materieller Ebene, die dann die Entwicklung und die Suche nach einem dauerhaften Frieden bedrohen. Ein historische Ergebnis wurde letztes Jahr mit der Annahme des Atomwaffenverbotsvertrags am Ende der Konferenz der Vereinten Nationen zur Verhandlung eines rechtlich bindenden Instruments für das Verbot von Atomwaffen erreicht. Es zeigt, wie die Sehnsucht nach Frieden stets lebendig ist. Die Förderung einer Friedenskultur für eine ganzheitliche Entwicklung erfordert beharrliche Bemühungen im Hinblick auf die Abrüstung und die Begrenzung des Einsatzes von Waffengewalt bei der Lösung internationaler Angelegenheiten. Ich möchte daher eine ruhige und möglichst breit angelegte Debatte über das Thema anregen, welche Polarisierungen der internationalen Gemeinschaft bezüglich einer so empfindlichen Frage vermeidet. Jedes auch noch so geringe Bemühen in diese Richtung stellt schon einen wichtigen Erfolg für die Menschheit dar.
Der Heilige Stuhl hat auch im Namen und seitens des Staates der Vatikanstadt den Atomwaffenverbotsvertrag unterzeichnet und ratifiziert, gemäß der vom heiligen Johannes XXIII. in Pacem in terris formulierten Sichtweise, nach der »Gerechtigkeit, gesunde Vernunft und Rücksicht auf die Menschenwürde dringend [fordern], dass der allgemeine Rüstungswettlauf aufhört; dass ferner die in verschiedenen Staaten bereits zur Verfügung stehenden Waffen auf beiden Seiten und gleichzeitig vermindert werden; dass Atomwaffen verboten werden«[11]. Wenn es in der Tat »auch kaum glaublich ist, dass es Menschen gibt, die es wagen möchten, die Verantwortung für die Vernichtung und das Leid auf sich zu nehmen, die ein Krieg im Gefolge hat, so kann man doch nicht leugnen, dass unversehens und unerwartet ein Kriegsbrand entstehen kann«[12].
Der Heilige Stuhl bekräftigt daher die feste Überzeugung, »dass die Streitigkeiten, die unter Umständen zwischen den Völkern entstehen, nicht durch Waffengewalt, sondern durch Verträge und Verhandlungen beizulegen sind«[13]. Andererseits kann ich angesichts der beständigen Herstellung von immer fortschrittlicheren und „verbesserten“ Waffen und des Andauerns zahlreicher Konfliktherde – was ich mehrfach „dritter Weltkrieg in Stücken“ genannt habe – die Worte meines heiligen Vorgängers nur mit Nachdruck wiederholen: »Darum widerstrebt es in unserem Zeitalter, das sich rühmt, Atomzeitalter zu sein, der Vernunft, den Krieg noch als das geeignete Mittel zur Wiederherstellung verletzter Rechte zu betrachten. […] Trotz allem ist zu hoffen, die Völker werden durch freundschaftliche wechselseitige Beziehungen und Verhandlungen die Bande der menschlichen Natur besser anerkennen, durch die sie aneinandergeknüpft sind; sie werden ferner deutlicher einsehen, dass es zu den hauptsächlichen Pflichten der menschlichen Natur gehört, darauf hinzuwirken, dass die Beziehungen zwischen den einzelnen Menschen und den Völkern nicht der Furcht, sondern der Liebe gehorchen sollen, denn der Liebe ist es vor allem eigen, die Menschen zu jener aufrichtigen, äußeren und inneren Verbundenheit zu führen, aus der für sie so viel Gutes hervorzusprießen vermag.«[14]
In dieser Hinsicht ist es von besonderer Dringlichkeit, jeden Versuch des Dialogs auf der koreanischen Halbinsel zu unterstützen, um neue Wege zur Überwindung der aktuellen Gegensätze zu finden, das gegenseitige Vertrauen zu stärken und dem koreanischen Volk und der ganzen Welt eine Zukunft des Friedens zu sichern.
Ebenso wichtig ist es, dass die verschiedenen laufenden Friedensinitiativen für Syrien in einem konstruktiven Klima gestärkten Vertrauens unter den Kontrahenten fortgesetzt werden können, um dem langen Konflikt endlich ein Ende zu setzen, der das Land in Mitleidenschaft gezogen hat und entsetzliche Leiden verursacht hat. Es ist der allgemeine Wunsch, dass nach so viel Zerstörung die Zeit des Wiederaufbaus gekommen ist. Aber noch mehr als Gebäude ist es notwendig, die Herzen wieder aufzubauen und das Netz des gegenseitigen Vertrauens neu zu knüpfen, das für das Florieren einer jeglichen Gesellschaft eine unverzichtbare Voraussetzung darstellt. Man muss sich also darum bemühen, die rechtlichen und politischen Bedingungen wie auch die Sicherheitslage zu fördern, damit das gesellschaftlichen Leben wiederaufgenommen wird, in dem jeder Bürger unabhängig von seiner Volks- oder Religionszugehörigkeit an der Entwicklung des Landes teilnehmen kann. In diesem Sinne ist es lebensnotwendig, dass die religiösen Minderheiten geschützt werden; darunter sind die Christen, die seit Jahrhunderten aktiv zur Geschichte Syriens beitragen.
Es ist ebenso von Bedeutung, dass die zahlreichen Flüchtlinge, die in den Nachbarländern – vor allem in Jordanien, im Libanon und in der Türkei – Aufnahme und Zuflucht gefunden haben, in ihre Heimat zurückkehren können. Der Einsatz dieser Länder und ihre Anstrengungen in dieser schwierigen Situation verdienen die Anerkennung und die Unterstützung der ganzen internationalen Gemeinschaft. Diese ist zugleich aufgerufen, sich darum zu bemühen, die Voraussetzungen für die Heimkehr der aus Syrien stammenden Flüchtlinge zu schaffen. Diese Verpflichtung muss sie konkret auf sich nehmen, beginnend vom Libanon, damit dieses werte Land weiterhin eine „Botschaft“ des Respekts und des Zusammenlebens bleibt wie auch ein für die gesamte Region und die ganze Welt nachzuahmendes Beispiel.
Der Wille zum Dialog ist auch im geschätzten Irak vonnöten, damit seine verschiedenen Volksgruppen und Religionsgemeinschaften den Weg der Versöhnung und des friedlichen Zusammenlebens und der Zusammenarbeit wiederfinden können, desgleichen im Jemen und in anderen Teilen der Region sowie in Afghanistan.
Im Anschluss an die Spannungen der letzten Wochen denke ich besonders an die Israeli und Palästinenser. Der Heilige Stuhl bekundet seine Trauer um alle, die in den kürzlich stattgefundenen Gefechten ihr Leben verloren haben. Indessen erneuert er seinen eindringlichen Aufruf, jede Initiative zu erwägen, um eine Zuspitzung der Gegensätze zu vermeiden, und lädt dazu ein, die gemeinsame Verpflichtung zur Achtung des Status quo von Jerusalem, der Christen, Juden und Moslems heiligen Stadt, in Übereinstimmung mit den entsprechenden Resolutionen der Vereinten Nationen einzuhalten. Siebzig Jahre Auseinandersetzungen machen es dringender denn je, eine politische Lösung zu finden, die es ermöglicht, dass in der Region zwei unabhängige Staaten innerhalb von international anerkannten Grenzen bestehen. Selbst unter Schwierigkeiten bleibt der Wille zum Dialog und zur Wiederaufnahme der Verhandlungen der Königsweg, um endlich zu einer friedlichen Koexistenz der beiden Völker zu gelangen.
Auch in den innerstaatlichen Bereichen sind Offenheit und Bereitschaft zur Begegnung wesentlich. Ich denke vor allem an das geschätzte Venezuela, das eine immer dramatischere und noch nie dagewesene politische und humanitäre Krise durchmacht. Während der Heilige Stuhl dazu auffordert, unverzüglich die dringendsten Bedürfnisse der Bevölkerung abzudecken, hofft er, dass die Voraussetzungen dafür geschaffen werden, damit die für dieses Jahr geplanten Wahlen zu einer Lösung der bestehenden Konflikte führen können. Möge man so mit wiedererlangter Gelassenheit in die Zukunft blicken können.
Die internationale Gemeinschaft darf auch das Leid in vielen Teilen Afrikas nicht vergessen, besonders im Südsudan, in der Demokratischen Republik Kongo, in Somalia, in Niger und in der Zentralafrikanischen Republik, wo das Recht auf Leben von einer wahllosen Ausbeutung der Rohstoffe, von Terrorismus und von dem Anwachsen bewaffneter Gruppierungen sowie von andauernden Konflikten bedroht ist. Es genügt nicht, sich über solche Gewalt zu entrüsten. Stattdessen muss jeder in seiner eigenen Umgebung bemüht sein, die Ursachen von Armut zu beseitigen und Brücken der Brüderlichkeit zu bauen, die eine Grundvoraussetzung für einen wahrhaft menschlichen Fortschritt sind.
Auch in der Ukraine muss man sich gemeinsam darum bemühen, die Brücken wieder aufzubauen. Im soeben zu Ende gegangenen Jahr hat der Konflikt, der das Land heimsucht, zahlreiche neue Opfer gefordert und der Bevölkerung großes Leid zugefügt, vor allem den Familien, die in den Kriegsgebieten wohnen und Angehörige, darunter oft Kinder und Alte, verloren haben.
Gerade über die Familie will ich besonders sprechen. Das Recht, eine Familie zu gründen – sie ist »die natürliche Grundeinheit der Gesellschaft und hat Anspruch auf Schutz durch Gesellschaft und Staat«[15] –, ist denn auch von der Erklärung von 1948 anerkannt. Leider wissen wir, dass die Familie besonders im Westen als eine veraltete Institution betrachtet wird. Der Stabilität eines endgültigen Projektes zieht man heute flüchtige Bindungen vor. Aber ein Haus, das auf brüchige und unbeständige Bindungen gebaut wird, ist wackelig. Man braucht dazu einen Felsen, in den man feste Grundmauern verankern kann. Dieser Felsen ist die Gemeinschaft der treuen und unauflöslichen Liebe, die Mann und Frau eint. Eine Gemeinschaft von schlichter, einfacher Schönheit mit heiligem und unzerstörbaren Charakter und mit einer naturgegebenen Aufgabe für die Gesellschaftsordnung[16]. Ich halte es deshalb für dringlich, wirkliche politische Fördermaßnahmen zugunsten der Familie, von der unter anderem die Zukunft und der Fortschritt der Staaten abhängt, zu ergreifen. Ohne die Familie wird es keine Gesellschaft geben, die den Herausforderungen der Zukunft gewachsen ist. Die Vernachlässigung der Familie hat eine weitere dramatische Konsequenz, die in einigen Gegenden besonders ausgeprägt ist: das Sinken der Geburtenraten. Wir leben in einem wahren demographischen Winter! Das ist das Kennzeichen einer Gesellschaft, die die Herausforderungen der Gegenwart nur mit Mühe angeht und deshalb immer mehr die Zukunft fürchtet und sich dann in sich selbst verschließt.
Gleichzeitig dürfen wir die Familien nicht vergessen, die aufgrund von Armut, Krieg und Migration zerrissen sind. Viel zu häufig sehen wir das Drama von Kindern, die alleine die Grenzen von Süd nach Nord überschreiten, oft als Opfer des Menschenhandels.
Heute wird viel über Flüchtlinge und Migration gesprochen, manchmal nur, um alteingesessene Ängste zu schüren. Wir dürfen nicht vergessen, dass es immer schon Migrationen gegeben hat. In der jüdisch-christlichen Tradition ist die Heilsgeschichte wesentlich eine Geschichte von Wanderungen. Außerdem gehört die Bewegungsfreiheit, also auch die Freiheit, das eigene Land zu verlassen und wieder zurückzukehren, zu den Grundrechten des Menschen[17]. Wir müssen darum auf eine falsche Rhetorik auf diesem Gebiet verzichten und von der grundliegenden Tatsache ausgehen, dass es sich hier vor allem um Menschen handelt.
Das wollte ich in meiner Botschaft zum Weltfriedenstag am vergangenen 1. Januar unter dem Titel „Migranten und Flüchtlinge: Menschen auf der Suche nach Frieden“ unterstreichen. Auch wenn man zugestehen muss, dass nicht immer alle von den besten Absichten geleitet werden, darf man nicht vergessen, dass der Großteil der Migranten lieber im eigenen Land bleiben würde. Sie sind jedoch »aufgrund von Diskriminierung, Verfolgung, Armut und Umweltzerstörung gezwungen […] ihr Land zu verlassen. […] Die Aufnahme des Anderen erfordert konkretes Engagement, eine Kette von Unterstützung und Wohlwollen, eine wache und verständnisvolle Aufmerksamkeit. Ebenso verlangt sie einen verantwortlichen Umgang mit neuen komplexen Situationen, die manchmal zu den zahlreichen bereits bestehenden Problemen hinzukommen, und mit den Ressourcen, die stets begrenzt sind. Wenn die Regierenden mit Besonnenheit vorgehen, sind sie imstande, praktische Maßnahmen zu ergreifen, um aufzunehmen, zu fördern, zu schützen und zu integrieren, und auf diese Weise, „soweit es das wahre Wohl ihrer Gemeinschaft zulässt, dem Vorhaben derer entgegenzukommen, die sich einer neuen Gemeinschaft anschließen wollen“ (Pacem in terris, 57). Sie haben eine klare Verantwortung gegenüber der Bevölkerung in ihren Ländern, deren ordentliche Rechte und harmonische Entwicklung sie gewährleisten müssen, damit sie nicht wie der törichte Bauherr erscheinen, der falsche Berechnungen angestellt hat und nicht in der Lage war, den Turm fertigzustellen, dessen Bau er begonnen hatte (Vgl. Lk 14, 28-30).«[18]
Ich möchte nochmals den Verantwortlichen jener Staaten danken, die sich in diesen Jahren bemüht haben, den zahlreichen Flüchtlingen an ihren Grenzen Unterstützung zu gewähren. Ich denke vor allem an nicht wenige Länder in Asien, Afrika und in Amerika, die viele Menschen aufnehmen und unterstützen. In lebendiger Erinnerung habe ich die Begegnung mit einigen Angehörigen des Volkes der Rohingya in Dakka. Ich möchte noch einmal den Autoritäten von Bangladesch für ihre Hilfsleistungen auf ihrem Gebiet danken.
Ferner möchte ich Italien besonderen Dank aussprechen, das in den vergangenen Jahren ein offenes und großmütiges Herz gezeigt hat und auch positive Beispiele von Integration aufzeigen konnte. Mein Wunsch ist, dass die Schwierigkeiten des Landes in den vergangenen Jahren, dessen Folgen noch andauern, nicht zur Abschottung oder zur Ausschließung führen mögen, sondern vielmehr zu einer Wiederentdeckung der Wurzeln und Traditionen, welche die reiche Geschichte der Nation gespeist haben und von unschätzbarem Wert für die ganze Welt sind. Ebenso danke ich weiteren europäischen Staaten für ihren Einsatz, besonders Griechenland und Deutschland. Wir dürfen nicht vergessen, dass viele Flüchtlinge und Migranten nach Europa wollen, weil sie wissen, dass sie dort Frieden und Sicherheit finden können. Frieden und Sicherheit sind übrigens die Früchte eines langen Weges, der mit den Idealen der Gründerväter des europäischen Projektes nach dem Zweiten Weltkrieg seinen Anfang genommen hat. Europa muss auf dieses Erbe stolz sein, das auf bestimmten Prinzipien und einer Sicht des Menschen gründet, das von seiner zweitausendjährigen, von der christlichen Auffassung der menschlichen Person inspirierten Geschichte herrührt. Die Ankunft der Flüchtlinge sollte Europa dazu anspornen, das eigene kulturelle und religiöse Erbe wiederzuentdecken. Wenn es sich der Werte bewusst wird, auf die es erbaut wurde, dann mag es sowohl die eigenen Traditionen wachhalten als auch weiterhin ein gastfreundlicher Ort sein, der Frieden und Entwicklung verspricht.
Im vergangenen Jahr haben sich Regierungen, internationale Organisationen und die Zivilgesellschaft gegenseitig beraten bezüglich der Grundprinzipien, der Prioritäten und der geeigneten Maßnahmen angesichts der Migrationsströme und der anhaltenden Lage der Flüchtlinge. Im Anschluss an die Erklärung von New York zu Flüchtlingen und Migranten 2016 haben die Vereinten Nationen wichtige Vorbereitungsprozesse zur Umsetzung von zwei Internationale Pakte (Global Compacts) hinsichtlich der Flüchtlinge bzw. einer sicheren, geordneten und geregelten Migration in die Wege geleitet.
Der Heilige Stuhl hofft, dass diese Initiativen mit den bald beginnenden Verhandlungen die Früchte bringen mögen, die einer immer stärker miteinander verflochtenen Weltgemeinschaft, die auf dem Prinzip der Solidarität und gegenseitigen Hilfe gründet, entsprechen. Im heutigen internationalen Kontext fehlen weder die Möglichkeiten noch die Mittel, um jedem Mann und jeder Frau dieser Erde die Lebensbedingungen zu garantieren, die der Würde der menschlichen Person entsprechen.
In der Botschaft zum diesjährigen Weltfriedenstag habe ich vier „Eckpfeiler“ für das Handeln vorgeschlagen: »aufnehmen, schützen, fördern und integrieren«[19]. Ich möchte mich besonders mit dem letzten beschäftigen, bezüglich dessen es verschiedene gegensätzlichen Einstellungen gibt, die sich aus ebenso verschiedenen Bewertungen, Erfahrungen, Ängsten und Überzeugungen speisen. „Integration“ ist „ein zweiseitig ausgerichteter Prozess“ mit gegenseitigen Rechten und Pflichten. Wer jemanden aufnimmt, muss dessen ganzheitliche menschliche Entwicklung fördern. Wer aufgenommen wird, muss sich den Regeln des Landes, das ihn beherbergt, unbedingt anpassen und dessen Identitätsprinzipien respektieren. Jeder Integrationsprozess muss ins Zentrum der Normen, die die verschiedenen Aspekte des politischen und sozialen Lebens betreffen, immer den Schutz und die Förderung der Person stellen, besonders wenn ihre Lage verletzlich ist.
Der Heilige Stuhl wird nicht in Entscheidungen eingreifen, die den Staaten zustehen. Sie tragen nämlich die erste Verantwortung zur Aufnahme, die sie im Licht der jeweiligen politischen, gesellschaftlichen und wirtschaftlichen Situation und ihrer je eigenen Aufnahme- und Integrationskapazitäten wahrnehmen. Dennoch fühlt sich der Heilige Stuhl verpflichtet, auf die Prinzipien Menschlichkeit und Brüderlichkeit „hinzuweisen“, denn diese begründen jede Gesellschaft, die sich durch Zusammenhalt und Harmonie auszeichnet. In dieser Hinsicht darf man die Zusammenarbeit mit den Religionsgemeinschaften als Institutionen wie auch auf der Ebene der Verbände nicht vergessen, da sie eine wertvolle Rolle spielen können: zur Unterstützung der Betreuung und Förderung, im Bereich der sozialen und kulturellen Vermittlung sowie der Versöhnung und Integration.
Zu den Menschenrechten, an die ich heute erinnern will, gehört auch das Recht auf Gedanken-, Gewissens- und Religionsfreiheit, welches die Freiheit einschließt, die Religion zu wechseln.[20] Bekanntlich ist die Religionsfreiheit leider oft nicht gewährleistet und nicht selten wird die Religion zum Anlass genommen, neue Formen von Extremismus ideologisch zu rechtfertigen, oder zu einem Vorwand, um sozial auszugrenzen, wenn nicht gar die Gläubigen in gewisser Form zu verfolgen. Die Heranbildung einer inklusiven Gesellschaft benötigt als ihre Voraussetzung eine ganzheitliche Betrachtung der menschlichen Person. Diese wird sich wirklich angenommen fühlen, wenn sie in allen Dimensionen ihrer Identität, auch ihrer religiösen, anerkannt und akzeptiert wird.
Schließlich möchte ich die Wichtigkeit des Rechtes auf Arbeit wieder in Erinnerung rufen. Es gibt weder Frieden noch Entwicklung, wenn der Mensch daran gehindert wird, persönlich mit seiner eigenen Arbeit zum Gemeinwohl beizutragen. Es ist schmerzlich zu sehen, wie in vielen Teilen der Welt die Arbeit ein seltenes Gut ist. Mitunter gibt es – gerade für die Jugendlichen – geringe Möglichkeiten, Arbeit zu finden. Oft ist es einfach, sie zu verlieren, und zwar nicht nur wegen der Auswirkungen wechselnder Wirtschaftszyklen, sondern auch wegen des zunehmenden Einsatzes von immer perfekteren und genaueren Technologien und Maschinen, die in der Lage sind, den Menschen zu ersetzen. Wenn man also einerseits eine ungerechte Verteilung der Arbeitsmöglichkeiten feststellen kann, ist andererseits die Tendenz vorhanden, von den Werktätigen immer drückendere Arbeitsrhythmen zu verlangen. Die von der Globalisierung diktierte Forderung nach Profit hat zu einer schrittweisen Reduzierung der Ruhezeiten und -tage geführt. Damit haben wir eine grundlegende Dimension des Lebens verloren, nämlich die Ruhe, die es dem Menschen erlaubt, sich nicht nur körperlich, sondern auch geistig zu erholen. Gott selbst hat am siebten Tag geruht: Er segnete ihn und heiligte ihn, »denn an ihm ruhte Gott, nachdem er das ganze Werk erschaffen hatte« (Gen 2,3). Im Wechsel von Mühe und Erholung hat der Mensch Teil an der „Heiligung der Zeit“, die Gottes Werk ist, und adelt so die eigene Arbeit, weil er sie aus dem Einerlei eines sich immer wiederholenden rastlosen Alltags herausholt.
Ein besonderer Grund zur Sorge sind sodann die von der Internationalen Arbeitsorganisation veröffentlichen Daten bezüglich der wachsenden Zahl an arbeitenden Kindern und an Opfern neuer Formen von Sklaverei. Die Plage der Kinderarbeit beeinträchtigt weiter ernsthaft die körperliche und geistige Entwicklung der Kinder, nimmt ihnen die Freuden der Kindheit und fordert unschuldige Opfer. Wir können nicht meinen, eine bessere Zukunft zu planen, oder wünschen, inklusivere Gesellschaften zu schaffen, solange wir Wirtschaftsmodelle weiterführen, die bloß auf reinen Profit ausgerichtet sind und die Ausbeutung Schwächerer, wie zum Beispiel Kinder, beinhalten. Die strukturellen Ursachen dieser Plage zu beseitigen sollte für Regierungen und internationale Organisationen eine Priorität darstellen. Sie sind aufgerufen, ihre Anstrengungen zu verstärken, um integrierte Strategien und aufeinander abgestimmte Politiken durchzuführen, damit die Kinderarbeit in all ihren Formen ein Ende findet.
Exzellenzen, meine Damen und Herren,
wenn ich einige der Rechte der Allgemeinen Erklärung von 1948 in Erinnerung gerufen habe, soll will ich doch nicht einen damit eng verbundenen Gesichtspunkt weglassen: Jedes Individuum hat auch Pflichten gegenüber der Gesellschaft, um »den gerechten Anforderungen der Moral, der öffentlichen Ordnung und des allgemeinen Wohles in einer demokratischen Gesellschaft zu genügen«[21]. Beim angemessenen Hinweis auf die Rechte jedes Menschen muss in Betracht gezogen werden, dass jeder von uns Teil eines größeren Leibes ist. Wie bei jedem menschlichen Leib, so geht es auch unserer Gesellschaft gut, wenn jedes Mitglied seine Aufgabe erfüllt und sich bewusst ist, dass es dem Gemeinwohl dient.
Eine besonders dringende Pflicht ist heute die Sorge um unsere Erde. Wir wissen, dass die Natur auch von sich aus grausam sein kann, ohne dass der Mensch dafür verantwortlich ist. Das haben wir im vergangenen Jahr bei den Erdbeben gesehen, die verschiedene Regionen der Welt getroffen haben, insbesondere in den letzten Monaten in Mexiko und im Iran mit zahlreichen Opfern; oder auch bei der Gewalt der Wirbelstürme, die verschiedene Länder der Karibik heimgesucht haben und bis an die US-amerikanische Küste gelangt sind oder die erst vor kurzem über die Philippinen hinweggezogen sind. Aber wir dürfen nicht vergessen, dass es auch eine hauptsächliche Verantwortung des Menschen im Zusammenspiel mit der Natur gibt. Der Klimawandel mit dem globalen Temperaturanstieg und die damit verbundenen zerstörerischen Auswirkungen sind auch Folgen des menschlichen Handelns. Wir müssen daher gemeinsam die Verantwortung dafür übernehmen, den kommenden Generationen eine schönere und lebenswertere Welt zu hinterlassen. Dafür müssen wir daran arbeiten, im Licht der 2015 in Paris getroffenen Verpflichtungen die Abgasemissionen, die für die Atmosphäre schädlich sind als auch der menschlichen Gesundheit schaden, zu reduzieren.
Der Geist, der die Einzelnen und die Staaten bei dieser Aufgabe beseelen muss, kann mit dem der Erbauer der mittelalterlichen Kathedralen in ganz Europa verglichen werden. Diese gewaltigen Bauten erzählen, wie wichtig die Teilnahme eines jeden an einem Werk ist, dass die Grenzen der Zeit überdauert. Der Baumeister an einer Kathedrale wusste, dass er die Vollendung seines Werkes nicht erleben würde. Trotzdem hat er kräftig mitgeholfen, denn er verstand sich als Teil eines Projektes, das seinen Kindern zu Gute kommen sollte und die es dann ihrerseits für ihre Kinder verschönern und erweitert würden. Jeder Mann und jede Frau dieser Erde – und besonders wer Regierungsverantwortung trägt – soll diesen Geist des Dienens und der generationsübergreifenden Solidarität pflegen und so ein Zeichen der Hoffnung für unsere zerrissene Welt sein.
Mit diesen Überlegungen verbinde ich erneut meinen Wunsch für jeden von Ihnen, für Ihre Familien und Ihre Völker, dass das neue Jahr voll Freude, Hoffnung und Frieden sei. Danke.
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[1] Vgl. Johannes XXIII., Enzyklika Pacem in terris (11. April 1963), 67.
[2] Ebd., 47.
[3] Ebd., 49.
[4] Vgl. ebd., 51.
[5] Vgl. Allgemeine Erklärung der Menschenrechte (10. Dezember 1948), Präambel.
[6] Ebd.
[7] Paul VI., Enzyklika Populorum progressio (26. März 1967), 14.
[8] Vgl. Allgemeine Erklärung der Menschenrechte, Präambel.
[9] Vgl. ebd., Art. 3.
[10] Vgl. ebd., Art. 25.
[11] Pacem in terris, 60.
[12] Ebd.
[13] Ebd., 67.
[14] Ebd.
[15] Allgemeine Erklärung der Menschenrechte, Art. 16.
[16] Vgl. Paul VI., Ansprache beim Besuch der Verkündigungsbasilika in Nazareth (5. Januar 1964).
[17] Vgl. Allgemeine Erklärung der Menschenrechte, Art. 13.
[18] Franziskus, Botschaft zur Feier des 51. Weltfriedenstages 2018 (13. November 2017), 1.
[19] Ebd., 4.
[20] Allgemeine Erklärung der Menschenrechte, Art. 18.
[21] Ebd., Art. 29.
[00023-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Excelencias, señoras y señores:
Es una hermosa costumbre este encuentro que, conservando la alegría que brota de la Navidad todavía viva en el corazón, me da la oportunidad de expresaros personalmente los mejores deseos para el año que acaba de comenzar y manifestar mi cercanía y mi afecto a los pueblos que representáis. Agradezco al Decano del Cuerpo Diplomático, el Excelentísimo señor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Embajador de Angola, las cordiales palabras que me ha dirigido en nombre de todo el Cuerpo Diplomático acreditado ante la Santa Sede. Doy mi especial bienvenida a los Embajadores llegados de fuera de Roma para esta ocasión, cuyo número ha aumentado tras el establecimiento de las relaciones diplomáticas con la República de la Unión de Myanmar en mayo pasado. También saludo a los embajadores residentes en Roma, cada vez más numerosos, entre los cuales está también ahora el Embajador de la República de Sudáfrica. Deseo dedicar un pensamiento particular al difunto Embajador de Colombia, Guillermo León Escobar-Herrán, que falleció pocos días antes de Navidad. Os agradezco las relaciones fructíferas y constantes que mantenéis con la Secretaría de Estado y con los demás Dicasterios de la Curia Romana, como muestra del interés de la Comunidad Internacional por la misión de la Santa Sede y por el compromiso de la Iglesia Católica en vuestros respectivos países. En esta perspectiva se sitúan también los acuerdos que la Santa Sede firmó el año pasado: en el mes de febrero, el Acuerdo marco con la República del Congo; y en agosto, el acuerdo entre la Secretaría de Estado y el Gobierno de la Federación Rusa sobre los viajes sin visado para los titulares de pasaportes diplomáticos.
En relación con las Autoridades civiles, la Santa Sede no pretende otra cosa que favorecer el bienestar espiritual y material de la persona humana y la promoción del bien común. Son expresión de esta solicitud los viajes apostólicos que realicé el año pasado en Egipto, Portugal, Colombia, Myanmar y Bangladesh. A Portugal fui como peregrino, cuando se cumplía el centenario de las apariciones de la Virgen en Fátima, para celebrar la canonización de los pastorcitos Jacinta y Francisco Marto. Allí pude constatar la fe llena de entusiasmo y alegría que la Virgen María suscitó en muchos de los peregrinos venidos para dicha ocasión. También en Egipto, Myanmar y Bangladesh pude reunirme con las comunidades cristianas locales que, aunque numéricamente escasas, son dignas de aprecio por su contribución al desarrollo y a la convivencia civil de sus respectivos países. No faltaron los encuentros con los representantes de otras religiones, demostrando cómo las particularidades de cada una no son un obstáculo para el diálogo, sino la savia que lo alimenta con el deseo común de conocer la verdad y practicar la justicia. Por último, en Colombia deseé bendecir los esfuerzos y la valentía de ese amado pueblo, marcado por un vivo anhelo de paz tras más de medio siglo de conflicto interno.
Queridos Embajadores:
Durante este año se celebra el centenario del final de la Primera Guerra Mundial: un conflicto que redibujó el rostro de Europa y del mundo entero, con la aparición de nuevos Estados al puesto de los antiguos Imperios. De las cenizas de la Gran Guerra se pueden sacar dos advertencias, que lamentablemente la humanidad no supo comprender inmediatamente, llegando en el arco de veinte años a combatir un nuevo conflicto aún más devastador que el anterior. La primera advertencia es que ganar no significa nunca humillar al rival derrotado. La paz no se construye como la afirmación del poder del vencedor sobre el vencido. Lo que disuade de futuras agresiones no es la ley del temor, sino la fuerza de la serena sensatez que estimula el diálogo y la comprensión mutua para sanar las diferencias.[1] De aquí se deriva la segunda advertencia: la paz se consolida cuando las naciones se confrontan en un clima de igualdad. Lo intuyó hace un siglo —un día como hoy— el Presidente estadounidense Thomas Woodrow Wilson, cuando propuso la creación de una Asociación general de las naciones destinada a promover para todos los Estados indistintamente, grandes y pequeños, mutuas garantías de independencia e integridad territorial. Así se pusieron las bases de la diplomacia multilateral, que a lo largo de los años ha ido adquiriendo un papel y una influencia cada vez mayor en toda la comunidad internacional.
También las relaciones entre las naciones, como las relaciones humanas, «comprenden la esencia de la verdad, de la justicia, de la caridad, de la libertad».[2] Esto conlleva «como principio sagrado e inmutable que todas las comunidades políticas son iguales en dignidad natural»,[3] así como el reconocimiento de los mutuos derechos, junto al cumplimiento de los respectivos deberes.[4] La premisa fundamental de esta actitud es la afirmación de la dignidad de cada persona humana, cuyo desprecio y desconocimiento conducen a actos de barbarie que ofenden la conciencia de la humanidad.[5] Por otro lado, «la libertad, la justicia y la paz en el mundo tienen por base el reconocimiento de la dignidad intrínseca y de los derechos iguales e inalienables de todos los miembros de la familia humana»,[6] como afirma la Declaración Universal de los Derechos Humanos.
Quisiera dedicar nuestro encuentro de hoy a este documento importante, cuando se cumplen setenta años desde su adopción por parte de la Asamblea General de las Naciones Unidas, que tuvo lugar el 10 de diciembre de 1948. Para la Santa Sede hablar de derechos humanos significa, ante todo, proponer la centralidad de la dignidad de la persona, en cuanto que ha sido querida y creada por Dios a su imagen y semejanza. El mismo Señor Jesús, curando al leproso, devolviendo la vista al ciego, deteniéndose con el publicano, perdonando la vida a la adúltera e invitando a preocuparse del caminante herido, nos ha hecho comprender que todo ser humano, independientemente de su condición física, espiritual o social, merece respeto y consideración. Desde una perspectiva cristiana hay una significativa relación entre el mensaje evangélico y el reconocimiento de los derechos humanos, según el espíritu de los redactores de la Declaración Universal de los Derechos Humanos.
Estos derechos tienen su fundamento en la naturaleza que aúna objetivamente al género humano. Ellos fueron enunciados para eliminar los muros de separación que dividen a la familia humana y para favorecer lo que la doctrina social de la Iglesia llama al desarrollo humano integral, puesto que se refiere a «promover a todos los hombres y a todo el hombre […] hasta la humanidad entera».[7] En cambio, una visión reduccionista de la persona humana abre el camino a la propagación de la injusticia, de la desigualdad social y de la corrupción.
Sin embargo, conviene constatar que, a lo largo de los años, sobre todo a raíz de las agitaciones sociales del «sesenta y ocho», la interpretación de algunos derechos ha ido progresivamente cambiando, incluyendo una multiplicidad de «nuevos derechos», no pocas veces en contraposición entre ellos. Esto no siempre ha contribuido a la promoción de las relaciones de amistad entre las naciones,[8] puesto que se han afirmado nociones controvertidas de los derechos humanos que contrastan con la cultura de muchos países, los cuales no se sienten por este motivo respetados en sus propias tradiciones socio-culturales, sino más bien desatendidos frente a las necesidades reales que deben afrontar. Está también el peligro —en cierto sentido paradójico— de que, en nombre de los mismos derechos humanos, se vengan a instaurar formas modernas de colonización ideológica de los más fuertes y los más ricos en detrimento de los más pobres y los más débiles. Al mismo tiempo, es bueno tener presente que las tradiciones de cada pueblo no pueden ser invocadas como un pretexto para dejar de respetar los derechos fundamentales enunciados por la Declaración Universal de los Derechos Humanos.
Después de setenta años, duele constatar cómo muchos derechos fundamentales están siendo todavía hoy pisoteados. El primero entre todos el derecho a la vida, a la libertad y a la inviolabilidad de toda persona humana.[9] No son menoscabados sólo por la guerra o la violencia. En nuestro tiempo, hay formas más sutiles: pienso sobre todo en los niños inocentes, descartados antes de nacer; no deseados, a veces sólo porque están enfermos o con malformaciones o por el egoísmo de los adultos. Pienso en los ancianos, también ellos tantas veces descartados, sobre todo si están enfermos, porque se les considera un peso. Pienso en las mujeres, que a menudo sufren violencias y vejaciones también en el seno de las propias familias. Pienso también en los que son víctimas de la trata de personas, que viola la prohibición de cualquier forma de esclavitud. ¿Cuántas personas, que huyen especialmente de la pobreza y de la guerra, son objeto de este comercio perpetrado por sujetos sin escrúpulos?
Defender el derecho a la vida y a la integridad física significa además proteger el derecho a la salud de la persona y de sus familias. Hoy, este derecho ha asumido implicaciones que superan los propósitos originarios de la Declaración Universal de los Derechos Humanos, que pretendía afirmar el derecho de cada uno a tener los cuidados médicos y los servicios sociales necesarios.[10] En esta perspectiva, deseo que, en los foros internacionales competentes, se trabaje también para favorecer en primer lugar un acceso fácil a todos los cuidados y tratamientos sanitarios. Es importante unir los esfuerzos para que se adopten políticas que garanticen, a precios accesibles, el suministro de medicamentos esenciales para la supervivencia de las personas más necesitadas, sin descuidar la investigación y el desarrollo de tratamientos que, aunque no sean económicamente relevantes para el mercado, son determinantes para salvar vidas humanas.
Defender el derecho a la vida implica también trabajar activamente por la paz, reconocida universalmente como uno de los valores más altos que hay que buscar y defender. Sin embargo, existen graves conflictos locales que siguen incendiando distintas regiones de la tierra. Los esfuerzos colectivos de la comunidad internacional, la acción humanitaria de las organizaciones internacionales y las incesantes peticiones de paz que provienen de las tierras ensangrentadas por los combates parecen ser cada vez menos eficaces ante la lógica aberrante de la guerra. Este escenario no puede lograr que disminuya nuestro deseo y nuestro compromiso por la paz, pues somos conscientes de que sin ella el desarrollo integral del hombre se convierte en algo inalcanzable.
El desarme completo y el desarrollo integral están estrechamente relacionados entre sí. Por otra parte, la búsqueda de la paz como condición previa para el desarrollo implica combatir la injusticia y erradicar, de manera no violenta, la causa de las discordias que conducen a las guerras. La proliferación de armas agrava ciertamente las situaciones de conflicto y supone grandes costes en términos materiales y de vidas humanas que socavan el desarrollo y la búsqueda de una paz duradera. El deseo de paz está siempre presente y lo manifiesta el resultado histórico alcanzado el año pasado con la aprobación del Tratado sobre la prohibición de armas nucleares, al término de la Conferencia de las Naciones Unidas, cuya finalidad era negociar un instrumento jurídicamente vinculante para prohibir las armas nucleares. La promoción de la cultura de la paz para un desarrollo integral requiere esfuerzos perseverantes hacia el desarme y la reducción del uso de la fuerza armada en la gestión de los asuntos internacionales. Deseo invitar a todos a un debate sereno y lo más amplio posible sobre el tema, que evite la polarización de la comunidad internacional sobre una cuestión tan delicada. Cualquier esfuerzo en esta dirección, aun cuando sea modesto, representa un logro importante para la humanidad.
Por su parte la Santa Sede ha firmado y ratificado, también en nombre y por cuenta del Estado de la Ciudad del Vaticano, el Tratado sobre la prohibición de armas nucleares, en la idea expresada por san Juan XXIII en la Pacem in terris, según la cual «la justicia, la recta razón y el sentido de la dignidad humana exigen urgentemente que cese ya la carrera de armamentos; que, de un lado y de otro, las naciones que los poseen los reduzcan simultáneamente; que se prohíban las armas atómicas».[11] De hecho, «si bien parece difícilmente creíble que haya hombres con suficiente osadía para tomar sobre sí la responsabilidad de las muertes y de la asoladora destrucción que acarrearía una guerra, resulta innegable, en cambio, que un hecho cualquiera imprevisible puede de improviso e inesperadamente provocar el incendio bélico».[12]
La Santa Sede reitera la profunda «convicción de que las diferencias que eventualmente surjan entre los pueblos deben resolverse no con las armas, sino por medio de negociaciones».[13] Por otra parte, precisamente la continua producción de armas cada vez más sofisticadas y «perfeccionadas», y la persistencia de numerosos focos de conflicto —que en varias ocasiones he calificado como la «tercera guerra mundial a trozos»— nos lleva a repetir con fuerza las palabras de mi santo predecesor: «En nuestra época, que se jacta de poseer la energía atómica, resulta un absurdo sostener que la guerra es un medio apto para resarcir el derecho violado. […] Cabe esperar que los pueblos, por medio de relaciones y contactos institucionalizados, lleguen a conocer mejor los vínculos sociales con que la naturaleza humana los une entre sí y a comprender con claridad creciente que entre los principales deberes de la común naturaleza humana hay que colocar el de las relaciones individuales e internacionales que obedezcan al amor y no al temor, porque ante todo es propio del amor llevar a los hombres a una sincera y múltiple colaboración material y espiritual, de la que tantos bienes pueden derivarse para ellos».[14]
En esta perspectiva, es primordial que se pueda sostener todo esfuerzo de diálogo en la península coreana, con el fin de encontrar nuevas vías para que se superen las actuales confrontaciones, aumente la confianza mutua y se asegure un futuro de paz al pueblo coreano y al mundo entero.
También es importante que continúen las distintas iniciativas de paz a favor de Siria en un clima propositivo de creciente confianza entre las partes, para que se logre poner fin, de una vez para siempre, al largo conflicto que ha afectado a todo el país y que ha causado enormes sufrimientos. El deseo de todos es que, después de tanta destrucción, llegue el tiempo de la reconstrucción. Pero más que construir edificios es necesario reconstruir los corazones, volver a tejer la tela de la confianza mutua, premisa imprescindible para el crecimiento de cualquier sociedad. Es fundamental esforzarse en favorecer las condiciones jurídicas, políticas y de seguridad, para una recuperación de la vida social, donde cada ciudadano, independientemente de su condición étnica y religiosa, pueda participar en el desarrollo del país. En este sentido, es vital que se protejan a las minorías religiosas, entre las cuales se encuentran los cristianos, que desde hace siglos contribuyen activamente a realizar la historia de Siria.
Es igualmente importante que puedan regresar a su patria los numerosos refugiados que han encontrado acogida y protección en las naciones vecinas, especialmente en Jordania, Líbano y Turquía. El compromiso y el esfuerzo realizado por estos países en esta difícil circunstancia merece el reconocimiento y el apoyo de toda la comunidad internacional, la cual al mismo tiempo está llamada a trabajar para que se creen las condiciones que permitan el regreso de los refugiados procedentes de Siria. Es un compromiso que esta debe asumir concretamente, y empezando por el Líbano, para que ese amado país siga siendo un «mensaje» de respeto y convivencia, y un modelo a imitar para toda la región y para el mundo entero.
La voluntad de diálogo es necesaria también en el amado Irak, para que los distintos elementos étnicos y religiosos vuelvan a encontrar el camino de la reconciliación, la convivencia y la colaboración pacífica, así también en el Yemen y en otras partes de la región, igual que en Afganistán.
Un pensamiento particular dirijo a israelíes y palestinos, tras las tensiones de las últimas semanas. La Santa Sede expresa su dolor por los que han perdido la vida en los recientes enfrentamientos y renueva su llamamiento a ponderar toda iniciativa para que se evite exacerbar las contradicciones, e invita a un compromiso por parte de todos para que se respete, en conformidad con las resoluciones pertinentes de las Naciones Unidas, el status quo de Jerusalén, ciudad sagrada para cristianos, judíos y musulmanes. Setenta años de enfrentamientos obliga a que se encuentre una solución política que permita la presencia en la región de dos Estados independientes dentro de las fronteras internacionalmente reconocidas. A pesar de las dificultades, la voluntad de dialogar y de reanudar las negociaciones sigue siendo la vía maestra para llegar finalmente a una coexistencia pacífica de los dos pueblos.
También dentro de contextos nacionales, la apertura y la disponibilidad del encuentro son esenciales. Pienso especialmente en la querida Venezuela, que está atravesando una crisis política y humanitaria cada vez más dramática y sin precedentes. La Santa Sede, mientras que exhorta a responder sin demora a las necesidades primarias de la población, desea que se creen las condiciones para que las elecciones previstas durante el año en curso logren dar inicio a la solución de los conflictos existentes, y se pueda mirar al futuro con renovada serenidad.
Que la Comunidad internacional no olvide tampoco el sufrimiento en tantas partes del Continente africano, especialmente en Sudán del Sur, en la República Democrática del Congo, en Somalia, en Nigeria y en la República Centroafricana, en las que el derecho a la vida está amenazado por el abuso indiscriminado de los recursos, por el terrorismo, la proliferación de grupos armados y por los conflictos que perduran. No basta con indignarse ante tanta violencia. Es necesario más bien que cada uno en su ámbito propio se esfuerce activamente por remover las causas de la miseria y construir puentes de fraternidad, premisa fundamental para un auténtico desarrollo humano.
También en Ucrania es urgente que haya un compromiso común para reconstruir puentes. El año apenas terminado ha cosechado nuevas víctimas en el conflicto que aflige al país, y sigue produciendo gran sufrimiento a la población, en particular a las familias que habitan en las zonas afectadas por la guerra y que han perdido a sus seres queridos, con frecuencia ancianos y niños.
Quisiera dedicar un recuerdo especial precisamente a las familias. El derecho a formar una familia, en cuanto «elemento natural y fundamental de la sociedad y [que] tiene derecho a la protección de la sociedad y del Estado»,[15] está reconocido efectivamente por la misma Declaración de 1948. Por desgracia, se sabe que la familia, especialmente en Occidente, está considerada como una institución superada. Frente a la estabilidad de un proyecto definitivo, hoy se prefieren vínculos fugaces. Pero una casa construida sobre la arena de los vínculos frágiles e inconstantes no se mantiene en pie. Se necesita más bien la roca, sobre la que se establecen cimientos sólidos. Y la roca es precisamente esa comunión de amor, fiel e indisoluble, que une al hombre y a la mujer, una comunión que tiene una belleza austera y sencilla, un carácter sagrado e inviolable y una función natural en el orden social.[16] Considero por eso urgente que se lleven a cabo políticas concretas que ayuden a las familias, de las que por otra parte depende el futuro y el desarrollo de los Estados. Sin ellas, de hecho, no se pueden construir sociedades que sean capaces de hacer frente a los desafíos del futuro. El desinterés por las familias trae además otra dramática consecuencia —especialmente actual en algunas regiones— como es la caída de la natalidad. Estamos ante un verdadero invierno demográfico. Esto es un signo de sociedades que tienen dificultad para afrontar los desafíos del presente y que, volviéndose cada vez más temerosas con respecto al futuro, terminan por encerrarse en sí mismas.
Al mismo tiempo, no podemos olvidar la situación de las familias rotas a causa de la pobreza, de las guerras y las migraciones. Con demasiada frecuencia, tenemos ante nuestros ojos el drama de niños que cruzan solos los confines que separan al norte del sur del mundo, muchas veces víctimas del tráfico de seres humanos.
Hoy se habla mucho de migrantes y migraciones, en ocasiones sólo para suscitar miedos ancestrales. No hay que olvidar que las migraciones han existido siempre. En la tradición judeo-cristiana, la historia de la salvación es esencialmente una historia de migraciones. Tampoco hay que olvidar que la libertad de movimiento, como la de dejar el propio país y de volver a él, pertenece a los derechos humanos fundamentales.[17] Es necesario por tanto salir de una extendida retórica sobre el tema y partir de la consideración esencial de que ante nosotros se encuentran sobre todo personas.
Esto ha sido lo que he querido reafirmar con el Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz, celebrado el pasado 1 de enero, dedicado a: «Migrantes y refugiados: hombres y mujeres que buscan la paz». Aun reconociendo que no todos están siempre animados por buenas intenciones, no se puede olvidar que la mayor parte de los emigrantes preferiría estar en su propia tierra, mientras que se encuentran obligados a dejarla «a causa de la discriminación, la persecución, la pobreza y la degradación ambiental. […] Acoger al otro exige un compromiso concreto, una cadena de ayuda y de generosidad, una atención vigilante y comprensiva, la gestión responsable de nuevas y complejas situaciones que, en ocasiones, se añaden a los numerosos problemas ya existentes, así como a unos recursos que siempre son limitados. El ejercicio de la virtud de la prudencia es necesaria para que los gobernantes sepan acoger, promover, proteger e integrar, estableciendo medidas prácticas que, “respetando el recto orden de los valores, ofrezcan al ciudadano la prosperidad material y al mismo tiempo los bienes del espíritu” (Pacem in terris, 57). Tienen una responsabilidad concreta con respecto a sus comunidades, a las que deben garantizar los derechos que les corresponden en justicia y un desarrollo armónico, para no ser como el constructor necio que hizo mal sus cálculos y no consiguió terminar la torre que había comenzado a construir (cf. Lc 14, 28-30)».[18]
Deseo una vez más agradecer a las autoridades de aquellos Estados que se han prodigado en estos años en ofrecer ayuda a los numerosos emigrantes llegados a sus fronteras. Pienso sobre todo en el esfuerzo de no pocos países en Asia, África y en América, que acogen y ayudan a numerosas personas. Conservo todavía vivo en el corazón el recuerdo del encuentro que tuve en Dacca con algunos miembros del pueblo Rohingya y deseo renovar mis sentimientos de gratitud a las autoridades de Bangladesh por la ayuda que les dan en su propio territorio.
Deseo además dar las gracias de modo especial a Italia que en estos años ha mostrado un corazón abierto y generoso, y ha sabido ofrecer también ejemplos positivos de integración. Espero que las dificultades que el país ha atravesado en estos años, y cuyas consecuencias todavía perduran, no conduzcan a clausuras y preclusiones, sino más bien a descubrir de nuevo esas raíces y tradiciones que han alimentado la rica historia de la nación y que constituyen un tesoro inestimable para ofrecer a todo el mundo. Igualmente, expreso mi aprecio por los esfuerzos realizados por otros Estados europeos, especialmente Grecia y Alemania. No hay que olvidar que muchos refugiados y emigrantes buscan alcanzar Europa porque saben que allí pueden encontrar paz y seguridad, las cuales son por otra parte fruto de un largo camino alumbrado por los ideales de los Padres fundadores del proyecto europeo después de la Segunda Guerra Mundial. Europa debe sentirse orgullosa de este patrimonio, basado en principios firmes y en una visión del hombre que ahonda sus raíces en su historia milenaria, inspirada en la concepción cristiana de la persona humana. La llegada de los inmigrantes debe estimularla a redescubrir su propio patrimonio cultural y religioso, de tal manera que, adquiriendo nueva conciencia de los valores sobre los que está edificada, pueda mantener viva al mismo tiempo su propia tradición y seguir siendo un lugar de acogida, heraldo de paz y desarrollo.
Durante el año pasado, los gobiernos, las organizaciones internacionales y la sociedad civil se han planteado recíprocamente los principios básicos, las prioridades y el modo más conveniente de responder al movimiento migratorio y a las situaciones que todavía afectan a los refugiados. Las Naciones Unidas, después de la Declaración de Nueva York para los Refugiados y los Migrantes de 2016, ha puesto en marcha importantes procesos de preparación en vistas a la adopción de dos Pactos Mundiales (Global Compacts), sobre los refugiados y por una migración segura, ordenada y regulada, respectivamente.
La Santa Sede espera que estos esfuerzos, con las negociaciones que pronto comenzarán, darán unos resultados que sean dignos de una comunidad mundial cada vez más interdependiente, fundada en los principios de la solidaridad y la ayuda mutua. En el actual contexto internacional no faltan las posibilidades y los medios para que se aseguren unas condiciones de vida digna del ser humano a cada hombre y mujer que viven en la tierra.
En el Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz de este año, sugerí cuatro «piedras angulares» para la acción: acoger, proteger, promover e integrar.[19] Me gustaría centrarme en particular en esta última, sobre la que existen posiciones contrapuestas en virtud de diferentes evaluaciones, experiencias, preocupaciones y convicciones. La integración es «un proceso bidireccional», con derechos y deberes recíprocos. De hecho, quien acoge está llamado a promover el desarrollo humano integral, mientras que al que es acogido se le pide la conformación indispensable a las normas del país que lo recibe, así como el respeto a los principios de identidad del mismo. Todo proceso de integración debe mantener siempre, como aspecto central de la regulación de los diversos aspectos de la vida política y social, la protección y la promoción de las personas, especialmente de aquellas que se encuentran en situación de vulnerabilidad.
La Santa Sede no tiene la intención de interferir en las decisiones que corresponden a los Estados, que a la luz de sus respectivas situaciones políticas, sociales y económicas, así como de sus propias capacidades y posibilidades de recepción e integración, tienen la responsabilidad principal de la acogida. Sin embargo, cree que debe desempeñar un papel de «llamada» del principio de humanidad y de fraternidad, que son fundamento de toda sociedad cohesionada y armónica. En esta perspectiva, es importante no olvidar la interacción con las comunidades religiosas, tanto a nivel institucional como asociativo, que pueden desempeñar un papel valioso reforzando la asistencia y la protección, la mediación social y cultural, la pacificación y la integración.
Uno de los derechos humanos sobre el que me gustaría hoy llamar la atención es el derecho a la libertad de pensamiento, de conciencia y de religión, que incluye la libertad de cambiar de religión.[20] Se sabe por desgracia que el derecho a la libertad religiosa, a menudo, no se respeta y la religión con frecuencia se convierte en un motivo para justificar ideológicamente nuevas formas de extremismo o un pretexto para la exclusión social, e incluso para la persecución en diversas formas de los creyentes. La condición para construir sociedades inclusivas está en una comprensión integral de la persona humana, que se siente verdaderamente acogida cuando se le reconocen y aceptan todas las dimensiones que conforman su identidad, incluida la religiosa.
Por último, me gustaría recordar la importancia del derecho al trabajo. No hay paz ni desarrollo si el hombre se ve privado de la posibilidad de contribuir personalmente, a través de su trabajo, en la construcción del bien común. En cambio, es triste ver cómo el trabajo en muchas partes del mundo es un bien escaso. Hay pocas oportunidades para encontrar trabajo, especialmente para los jóvenes. Con frecuencia resulta fácil perderlo, no sólo por las consecuencias de la alternancia de los ciclos económicos, sino también por el recurso progresivo a tecnologías y maquinarias cada vez más perfectas y precisas que reemplazan al hombre. Y aunque, por un lado, hay una distribución desigual de las oportunidades de trabajo, por el otro, existe una tendencia a exigir a los trabajadores ritmos cada vez más estresantes. Las exigencias del beneficio, dictadas por la globalización, han llevado a una reducción progresiva de los tiempos y días de descanso, perdiéndose así una dimensión fundamental de la vida —el descanso—, que sirve para regenerar a la persona tanto física como espiritualmente. Dios mismo reposó el séptimo día: lo bendijo y lo consagró, «porque en él descansó de toda la obra que Dios había hecho cuando creó» (Gn 2,3). En el sucederse de fatiga y sosiego, el hombre participa en la «santificación del tiempo» realizada por Dios y ennoblece su trabajo, liberándolo de la dinámica repetitiva de una vida cotidiana árida que no conoce descanso.
Los datos publicados recientemente por la Organización Mundial del Trabajo, sobre el aumento del número de niños empleados en actividades laborales y sobre las víctimas de nuevas formas de esclavitud, son también un motivo de especial preocupación. El flagelo del trabajo infantil pone en peligro seriamente el desarrollo psicofísico de los niños, privándolos de la alegría de la infancia, cosechando víctimas inocentes. No podemos pretender que se plantee un futuro mejor, ni esperar que se construyan sociedades más inclusivas, si seguimos manteniendo modelos económicos orientados a la mera ganancia y a la explotación de los más débiles, como son los niños. La eliminación de las causas estructurales de este flagelo debería ser una prioridad para los gobiernos y las organizaciones internacionales, que están llamados a intensificar sus esfuerzos para adoptar estrategias integradas y políticas coordinadas, destinadas a acabar con el trabajo infantil en todas sus formas.
Excelencias, señoras y señores:
Al recordar algunos de los derechos contenidos en la Declaración Universal de 1948, no pretendo ignorar un aspecto estrechamente relacionado con ella: todo individuo tiene también deberes hacia la comunidad, dirigidos a «satisfacer las justas exigencias de la moral, del orden público y del bienestar general en una sociedad democrática».[21] El reclamo a los derechos de todo ser humano debe tener en cuenta que cada uno es parte de un cuerpo más grande. Al igual que el cuerpo humano, también nuestras sociedades gozan de buena salud si cada miembro cumple su tarea, sabiendo que la misma está al servicio del bien común.
Entre los deberes particularmente urgentes en la actualidad se encuentra el cuidado de nuestra Tierra. Sabemos que la naturaleza puede ser cruenta, incluso cuando no es responsabilidad del hombre. Lo hemos visto el año pasado con los terremotos que han golpeado en distintos lugares de la tierra, especialmente en los últimos meses en México e Irán, provocando numerosas víctimas, así como con la fuerza de los huracanes que han afectado a varios países del Caribe alcanzando las costas estadounidenses, y que, aún más recientemente, han golpeado Filipinas. Sin embargo, no debemos olvidar que hay también una responsabilidad primaria del hombre en la interacción con la naturaleza. El cambio climático, con el aumento global de las temperaturas y los efectos devastadores que conllevan, son también una consecuencia de la acción del hombre. Por lo tanto, es necesario afrontar, con un esfuerzo colectivo, la responsabilidad de dejar a las generaciones siguientes una Tierra más bella y habitable, trabajando a la luz de los compromisos acordados en París en 2015, para reducir las emisiones a la atmósfera de gases nocivos y perjudiciales para la salud humana.
El espíritu que debe animar a cada persona y a las naciones en esta obra se asemeja al de los constructores de catedrales medievales repartidas por toda Europa. Estos edificios impresionantes muestran la importancia de la participación de todos en un trabajo capaz de ir más allá de los límites del tiempo. El constructor de catedrales sabía que no vería la terminación de su trabajo. Sin embargo, trabajó activamente, entendiendo que era parte de un proyecto que sus hijos disfrutarían y que ellos, a su vez, embellecerían y ampliarían para sus hijos. Todos los hombres y mujeres de este mundo, y en particular los que tienen responsabilidades de gobierno, están llamados a cultivar el mismo espíritu de servicio y solidaridad intergeneracional, y así ser un signo de esperanza para nuestro mundo atribulado.
Con estas consideraciones, les renuevo a cada uno de ustedes, a sus familias y a sus pueblos, mi deseo de un año lleno de alegría, esperanza y paz. Gracias.
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[1] Cf. Juan XXIII, Carta enc. Pacem in terris (11 abril 1963), 126-129.
[2] Ibíd., 45.
[3] Ibíd., 86.
[4] Cf. ibíd., 91.
[5] Cf. Declaración Universal de los Derechos Humanos (10 diciembre 1948).
[6] Ibíd., Preámbulo.
[7] Pablo VI, Carta enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967), 14.
[8] Cf. Declaración Universal de los Derechos Humanos, Preámbulo.
[9] Cf. ibíd., art. 3.
[10] Cf. ibíd., art. 25.
[11] Cf. Juan XXIII, Carta enc. Pacem in terris, 112.
[12] Ibíd., 111.
[13] Ibíd., 126.
[14] Ibíd., 127, 129.
[15] Declaración Universal de los Derechos Humanos, art. 16.
[16] Cf. Pablo VI, Discurso con motivo de la visita a la Basílica de la Anunciación, Nazaret (5 enero 1964).
[17] Cf. Declaración Universal de los Derechos Humanos, art. 13.
[18] Mensaje para la LI Jornada Mundial de la Paz (13 noviembre 2017), 1.
[19] Ibíd., 4.
[20] Cf. Declaración Universal de los Derechos Humanos, art. 18.
[21] Ibíd., art. 29.
[00023-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Excelências, Senhoras e Senhores!
Segundo um belo costume, tenho hoje ocasião de vos encontrar, guardando ainda viva no coração a alegria que dimana do Natal, para vos formular, pessoalmente, bons votos para o ano há pouco iniciado e testemunhar a minha proximidade e estima aos povos que representais. Agradeço ao Decano do Corpo Diplomático, Senhor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Embaixador de Angola, as deferentes palavras que há pouco me dirigiu em nome de todo o Corpo Diplomático acreditado junto da Santa Sé. Dou as boas-vindas aos Embaixadores que vieram, de fora de Roma, para esta ocasião e cujo número aumentou depois do estabelecimento das relações diplomáticas com a República da União do Myanmar, em maio passado. Saúdo igualmente os Embaixadores residentes em Roma, em número sempre maior, em cujo elenco se conta agora também o Embaixador da República da África do Sul. Dedico um pensamento particular ao falecido Embaixador da Colômbia, Guillermo León Escobar-Herrán, falecido poucos dias antes do Natal. Agradeço as relações frutuosas e constantes que mantendes com a Secretaria de Estado e restantes Dicastérios da Cúria Romana, testemunhando assim o interesse da comunidade internacional pela missão da Santa Sé e pelo serviço da Igreja Católica nos respetivos países. Nesta perspetiva, coloca-se também a atividade pactuante da Santa Sé, que, no ano passado, registou a assinatura, em fevereiro, do Acordo-Quadro com a República do Congo e, no mês de agosto, do Acordo entre a Secretaria de Estado e o Governo da Federação Russa relativo às viagens sem visto dos titulares de passaportes diplomáticos.
Na relação com as autoridades civis, a Santa Sé nada mais pretende senão favorecer o bem-estar espiritual e material da pessoa humana e a promoção do bem comum. As viagens apostólicas que realizei, no ano passado, ao Egito, a Portugal, à Colômbia, ao Myanmar e ao Bangladesh foram expressão desta solicitude. A Portugal, desloquei-me como peregrino, no centenário das aparições de Nossa Senhora em Fátima, para celebrar a canonização dos pastorinhos Jacinta e Francisco Marto. Pude constatar a fé, cheia de entusiasmo e alegria, que a Virgem Maria suscitou na multidão de peregrinos que então lá se reuniu. Também no Egito, Myanmar e Bangladesh, pude encontrar as comunidades cristãs locais que, apesar de numericamente exíguas, são apreciadas pelo contributo que oferecem para o desenvolvimento e a convivência civil dos respetivos países. Não faltaram os encontros com os representantes doutras religiões, testemunhando como as peculiaridades de cada uma não são obstáculo ao diálogo, mas a seiva que o nutre no desejo comum de conhecer a verdade e praticar a justiça. No caso da Colômbia, quis abençoar os esforços e a coragem daquele amado povo, inflamado por um vivo anélito de paz após mais de meio século de conflito interno.
Queridos Embaixadores!
No decurso deste ano, tem lugar o centenário do fim da I Guerra Mundial: um conflito que deu nova forma ao rosto da Europa e do mundo inteiro, com a aparição de novos Estados que tomaram o lugar dos antigos Impérios. Das cinzas da Grande Guerra, podemos retirar duas advertências, que a humanidade, infelizmente, não soube compreender de imediato, encontrando-se vinte anos depois a combater um novo conflito, ainda mais devastador que o precedente. A primeira advertência: vencer nunca significa humilhar o adversário derrotado. A paz não se constrói como afirmação do poder do vencedor sobre o vencido. Não é a lei do medo que dissuade de futuras agressões, mas a força serena duma razoabilidade que incita ao diálogo e à mútua compreensão para sanar as diferenças.[1] Daqui deriva a segunda advertência: a paz consolida-se quando as nações se podem confrontar num clima de igualdade. Intuiu-o há um século – completa-se precisamente hoje – o então presidente dos Estados Unidos da América, Thomas Woodrow Wilson, quando propôs a instituição duma associação geral das nações visando promover – para todos os Estados, grandes e pequenos, indistintamente – mútuas garantias de independência e integridade territorial. Deste modo se lançaram, idealmente, as bases daquela diplomacia multilateral que, no decurso dos anos, foi adquirindo um papel e uma influência crescentes no seio da comunidade internacional.
As próprias relações entre as nações, tal como as relações humanas, devem ser reguladas «segundo as normas da verdade, da justiça, da solidariedade operante e da liberdade».[2] Isto supõe que «se tenha como princípio inviolável a igualdade de todos os povos, pela sua dignidade de natureza»,[3] bem como o reconhecimento dos direitos mútuos, juntamente com o cumprimento dos respetivos deveres.[4] Premissa fundamental desta atitude é a afirmação da dignidade de toda a pessoa humana, cujo desprezo e desrespeito levam a atos de barbárie que ofendem a consciência da humanidade.[5] Por outro lado, «o reconhecimento da dignidade inerente a todos os membros da família humana e dos seus direitos iguais e inalienáveis constitui o fundamento da liberdade, da justiça e da paz no mundo»,[6] como afirma a Declaração Universal dos Direitos do Homem.
A este documento importante – setenta anos após a sua adoção pela Assembleia Geral das Nações Unidas, que teve lugar em 10 de dezembro de 1948 –, desejo dedicar o nosso encontro de hoje. Na verdade, para a Santa Sé, falar de direitos humanos significa, antes de mais nada, repropor a centralidade da dignidade da pessoa, enquanto querida e criada por Deus à sua imagem e semelhança. O próprio Senhor Jesus, ao curar o leproso, restituir a vista ao cego, sentar-se à mesa com o publicano, poupar a vida da adúltera e convidar a tratar do viandante ferido, fez-nos compreender como cada ser humano, independentemente da sua condição física, espiritual ou social, seja merecedor de respeito e consideração. Segundo a perspetiva cristã, há uma significativa relação entre a mensagem evangélica e o reconhecimento dos direitos humanos, lidos no espírito dos compiladores da Declaração Universal dos Direitos do Homem.
O pressuposto de tais direitos deriva da natureza que acomuna objetivamente o género humano. E foram enunciados para remover os muros de separação que dividem a família humana e favorecer o que a doutrina social da Igreja designa como desenvolvimento humano integral, porque deve «promover todos os homens e o homem todo (...) até se chegar à humanidade inteira».[7] Pelo contrário, uma visão redutiva da pessoa humana abre o caminho à difusão da injustiça, da desigualdade social e da corrupção.
Todavia deve notar-se que, ao longo dos anos – sobretudo depois das agitações sociais de 1968 –, se foi progressivamente modificando a interpretação de alguns direitos, a ponto de se incluir uma multiplicidade de «novos direitos», não raro contrapondo-se entre si. Isto nem sempre favoreceu a promoção de relações amigas entre as nações,[8] porque se afirmaram noções controversas dos direitos humanos que contrastam com a cultura de muitos países, que, por isso mesmo, não se sentem respeitados nas suas próprias tradições socioculturais, antes veem-se transcurados nas necessidades reais que têm de enfrentar. Consequentemente pode haver o risco – de certa forma paradoxal – de que, em nome dos próprios direitos humanos, se venham a instaurar formas modernas de colonização ideológica dos mais fortes e dos mais ricos em detrimento dos mais pobres e dos mais fracos. Ao mesmo tempo, é bom ter presente que as tradições dos diversos povos não podem ser invocadas como pretexto para descurar o devido respeito dos direitos fundamentais enunciados pela Declaração Universal dos Direitos do Homem.
Setenta anos depois, faz pena assinalar como muitos direitos fundamentais são violados ainda hoje. E, primeiro dentre eles, o direito à vida, à liberdade e à inviolabilidade de cada pessoa humana.[9] A lesá-los, não são apenas a guerra ou a violência. No nosso tempo, há formas mais sutis: penso antes de mais nada nas crianças inocentes, descartadas ainda antes de nascer; às vezes não queridas, apenas porque doentes ou malformadas ou pelo egoísmo dos adultos. Penso nos idosos, também eles muitas vezes descartados, sobretudo se estão doentes, porque considerados um peso. Penso nas mulheres, que muitas vezes sofrem violências e prepotências, mesmo no seio das suas famílias. Penso depois em todos aqueles que são vítimas do tráfico de pessoas, que viola a proibição de toda e qualquer forma de escravatura. Quantas pessoas, especialmente em fuga da pobreza e da guerra, acabam objeto de tal traficância perpetrada por sujeitos sem escrúpulos!
Defender o direito à vida e à integridade física significa também tutelar o direito à saúde da pessoa e dos seus familiares. Hoje, este direito assumiu implicações que excedem as intenções originárias da Declaração Universal dos Direitos do Homem, a qual visava afirmar o direito de cada um a ter os cuidados médicos e os serviços sociais necessários.[10] Nesta linha, espero que se trabalhe, nos fóruns internacionais competentes, por favorecer, antes de tudo, um fácil acesso para todos aos cuidados e tratamentos sanitários. É importante unir esforços para que se possam adotar políticas capazes de garantir, a preços acessíveis, o fornecimento de medicamentos essenciais para a sobrevivência das pessoas indigentes, sem transcurar a pesquisa e o desenvolvimento de tratamentos que, embora não relevantes economicamente para o mercado, são cruciais para salvar vidas humanas.
Defender o direito à vida implica também trabalhar ativamente pela paz, reconhecida universalmente como um dos valores mais altos que se deve procurar e defender. E todavia graves conflitos locais continuam a abrasar várias regiões da terra. Os esforços coletivos da comunidade internacional, a ação humanitária das organizações internacionais e as súplicas incessantes de paz que se elevam das terras ensanguentadas pelos combates parecem ser cada vez menos eficazes perante a lógica aberrante da guerra. Um tal panorama não pode fazer diminuir o nosso desejo e o nosso compromisso em prol da paz, cientes de que, sem ela, o desenvolvimento integral do homem se torna inatingível.
O desarmamento integral e o desenvolvimento integral estão intimamente relacionados entre si. Entretanto a busca da paz como condição prévia para o desenvolvimento supõe combater a injustiça e erradicar, de forma não violenta, as causas da discórdia que levam às guerras. A proliferação de armas agrava claramente as situações de conflito e implica enormes custos humanos e materiais, deteriorando assim o desenvolvimento e a busca duma paz duradoura. O resultado histórico alcançado no ano passado com a adoção do Tratado sobre a Proibição das Armas Nucleares, no termo da Conferência das Nações Unidas cuja finalidade era precisamente negociar um instrumento juridicamente vinculativo para proibir as armas nucleares, mostra como permanece vivo o desejo de paz. A promoção da cultura da paz para um desenvolvimento integral exige esforços perseverantes em ordem ao desarmamento e à redução do recurso à força armada na gestão dos assuntos internacionais. Por isso desejo encorajar, sobre o tema, um debate sereno e o mais amplo possível, que evite polarizações da comunidade internacional numa questão tão delicada. Todo o esforço nesta direção, por mais modesto que seja, constitui um resultado importante para a humanidade.
Por sua vez, a Santa Sé assinou e ratificou, também em nome e por incumbência do Estado da Cidade do Vaticano, o Tratado sobre a Proibição das Armas Nucleares, na perspetiva expressa por São João XXIII na encíclica Pacem in terris, segundo a qual «a justiça, a reta razão e o sentido da dignidade humana terminantemente exigem que se pare com essa corrida ao poderio militar; que o material de guerra, instalado em várias nações, se vá reduzindo duma parte e doutra, simultaneamente; que sejam banidas as armas atómicas».[11] Na verdade, mesmo «se parece difícil que haja pessoas capazes de assumir a responsabilidade das mortes e incomensuráveis destruições que a guerra provocaria, não é impossível que um facto imprevisível e incontrolável possa inesperadamente atear esse incêndio [duma guerra nuclear]».[12]
Por conseguinte, a Santa Sé reitera a firme «persuasão de que com negociações, e não com armas, devem ser dirimidas as eventuais controvérsias entre os povos».[13] Aliás a incessante produção de armas cada vez mais sofisticadas e “aperfeiçoadas” e o prolongamento de numerosos surtos de conflito – daquela que várias vezes designei por «terceira guerra mundial aos pedaços» – não pode senão fazer-nos repetir vigorosamente estas palavras do meu santo Predecessor: «Não é mais possível pensar que, nesta nossa era atómica, a guerra seja um meio apto par ressarcir direitos violados. (...) Contudo, é lícito esperar que os homens, por meio de encontros e negociações, venham a conhecer melhor os laços comuns de natureza que os unem e assim possam compreender a beleza de uma das mais profundas exigências da natureza humana, a de que reine entre eles e as suas respetivas nações, não o temor, mas o amor, um amor que antes de tudo leve os homens a uma colaboração leal, multiforme, portadora de inúmeros bens».[14]
Nesta perspetiva, é de suma importância que se sustente toda a tentativa de diálogo na península coreana, a fim de se encontrar novos caminhos para superar as contraposições atuais, aumentar a confiança mútua e garantir um futuro de paz ao povo coreano e ao mundo inteiro.
De igual modo, é importante que possam continuar, num clima propugnador de maior confiança entre as partes, as várias iniciativas de paz em curso a favor da Síria, para que se consiga finalmente encerrar o longo conflito que envolveu o país e provocou imensos sofrimentos. Os votos de todos nós são que, depois de tanta destruição, tenha chegado o tempo de reconstruir. Mas, ainda mais que a construção de edifícios, é necessário reconstruir os corações, voltar a tecer a tapeçaria da mútua confiança, premissa imprescindível para o florescimento de qualquer sociedade. Por isso, é preciso trabalhar para promover as condições jurídicas, políticas e de segurança, em ordem a uma retomada da vida social, onde cada cidadão, independentemente da sua pertença étnica e religiosa, possa participar no desenvolvimento do país. Neste sentido, é vital tutelar as minorias religiosas, entre as quais se contam os cristãos, que há séculos contribuem ativamente para a história da Síria.
É igualmente importante que possam regressar à pátria os numerosos refugiados que encontraram acolhimento e refúgio nas nações vizinhas, especialmente na Jordânia, Líbano e Turquia. O empenho e o esforço, realizados por tais países nesta circunstância difícil, merecem o apreço e o apoio de toda a comunidade internacional, que ao mesmo tempo é chamada a trabalhar em ordem a criar as condições para o repatriamento dos refugiados originários da Síria. É um compromisso que aquela deve assumir concretamente a começar pelo Líbano, para que este amado país continue a ser uma «mensagem» de respeito e convivência e um modelo a imitar por toda a região e pelo mundo inteiro.
A vontade de diálogo é necessária também no amado Iraque, para que as várias componentes étnicas e religiosas possam reencontrar o caminho da reconciliação, convivência pacífica e colaboração, bem como no Iémen e noutras partes da região, e ainda no Afeganistão.
Uma palavra particular, dirijo aos israelitas e palestinenses, na sequência das tensões das últimas semanas. A Santa Sé, ao exprimir o seu pesar por quantos perderam a vida nos recentes confrontos, renova o seu premente apelo a ponderar bem cada iniciativa para que se evite de exacerbar as contraposições e convida a um esforço comum por respeitar, em conformidade com as pertinentes Resoluções das Nações Unidas, o status quo de Jerusalém, cidade santa para cristãos, judeus e muçulmanos. Setenta anos de confrontos tornam extremamente urgente encontrar uma solução política que consinta a presença na região de dois Estados independentes dentro de fronteiras internacionalmente reconhecidas. Apesar das dificuldades, a vontade de dialogar e retomar as negociações permanece a via-mestra para se chegar finalmente a uma coexistência pacífica dos dois povos.
Também no seio de contextos nacionais, são essenciais a abertura e a disponibilidade a encontrar-se. Penso especialmente na querida Venezuela, que está atravessando uma crise política e humanitária cada vez mais dramática e sem precedentes. A Santa Sé, ao mesmo tempo que exorta a responder sem demora às necessidades primárias da população, almeja que se criem as condições para que as eleições, agendadas para o ano em curso, sejam capazes de dar solução aos conflitos existentes, e se possa olhar de novo com serenidade para o futuro.
A comunidade internacional não esqueça também o sofrimento em muitas partes do continente africano, especialmente no Sudão do Sul, República Democrática do Congo, Somália, Nigéria e República Centro-Africana, onde o direito à vida está ameaçado pela exploração indiscriminada dos recursos, pelo terrorismo, pela proliferação de grupos armados e por prolongados conflitos. Não basta indignar-se perante tanta violência! É preciso que cada um, no seu próprio âmbito, trabalhe ativamente por remover as causas da miséria e construir pontes de fraternidade, premissa fundamental para um desenvolvimento humano autêntico.
Um esforço comum por reconstruir pontes é urgente também na Ucrânia. O ano, que findou, ceifou novas vítimas no conflito que atormenta o país, continuando a infligir grandes sofrimentos à população, particularmente às famílias que moram nas áreas afetadas pela guerra e que perderam os seus entes queridos, não raro idosos e crianças.
E, precisamente à família, quereria dedicar uma especial reflexão. Efetivamente, o direito de formar uma família está reconhecido na própria Declaração de 1948, apresentando-a como «elemento natural e fundamental da sociedade, [que] tem direito à proteção desta e do Estado».[15] É sabido como a família, sobretudo no Ocidente, seja considerada, infelizmente, uma instituição superada. Em vez da estabilidade dum projeto definitivo, preferem-se hoje ligações fugazes. Ora não se mantém de pé uma casa construída sobre a areia de relacionamentos frágeis e volúveis; mas é preciso a rocha, sobre a qual assentar bases sólidas. E a rocha é precisamente aquela comunhão de amor, fiel e indissolúvel, que une o homem e a mulher, comunhão essa que tem uma beleza austera e simples, um caráter sacro e inviolável e uma função natural na ordem social.[16] Por isso considero urgente que se adotem políticas efetivas em apoio da família, da qual aliás depende o futuro e o desenvolvimento dos Estados. Sem ela, de facto, não se podem construir sociedades capazes de enfrentar os desafios do futuro. E a falta de interesse pela família traz consigo outra consequência dramática – particularmente atual nalgumas regiões – que é a queda da natalidade. Vive-se um verdadeiro inverno demográfico! Isto é sinal de sociedades que sentem dificuldade em enfrentar os desafios do presente, tornando-se, por conseguinte, cada vez mais temerosas do futuro e acabando por se fechar em si mesmas.
Ao mesmo tempo, não se pode esquecer a situação de famílias dilaceradas por causa da pobreza, das guerras e das migrações. Aos nossos olhos, depara-se demasiadas vezes o drama de crianças cruzando sozinhas os confins que separam o sul do norte do mundo, frequentemente vítimas do tráfico de seres humanos.
Hoje fala-se muito de migrantes e migrações, por vezes só para suscitar temores ancestrais. Não devemos esquecer que sempre existiram as migrações. Na tradição judaico-cristã, a história da salvação é, essencialmente, uma história de migrações. Nem devemos esquecer que a liberdade de movimento, como a de deixar o país próprio e a ele regressar, pertence aos direitos humanos fundamentais.[17] Por isso é necessário sair duma generalizada retórica sobre o assunto e partir da consideração essencial de que se encontram diante de nós, antes de mais nada, pessoas.
Isto mesmo pretendi reiterar, com a Mensagem «Migrantes e refugiados: homens e mulheres em busca de paz», escrita para o Dia Mundial da Paz que se celebrou no passado dia 1 de janeiro. Embora reconhecendo que nem todos estão sempre animados pelas melhores intenções, não se pode esquecer que a maior parte dos migrantes preferiria permanecer na sua própria terra, mas é forçada a deixá-la «por causa de discriminações, perseguições, pobreza e degradação ambiental. (...) Acolher o outro requer um compromisso concreto, uma corrente de apoios e beneficência, uma atenção vigilante e abrangente, a gestão responsável de novas situações complexas que às vezes se vêm juntar a outros problemas já existentes em grande número, bem como recursos que são sempre limitados. Praticando a virtude da prudência, os governantes saberão acolher, promover, proteger e integrar, estabelecendo medidas práticas, “nos limites consentidos pelo bem da própria comunidade retamente entendido, [para] lhes favorecer a integração” (Pacem in terris, 57). Os governantes têm uma responsabilidade precisa para com as próprias comunidades, devendo assegurar os seus justos direitos e desenvolvimento harmónico, para não serem como o construtor insensato que fez mal os cálculos e não conseguiu completar a torre que começara a construir (cf. Lc 14, 28-30)».[18]
Desejo agradecer de novo às Autoridades dos Estados que se prodigalizaram, durante estes anos, para prestar assistência aos numerosos migrantes que chegaram às suas fronteiras. Penso, antes de mais nada, no empenho de não poucos países na Ásia, na África e nas Américas, que acolhem e assistem inúmeras pessoas. Conservo ainda vivo no coração o encontro que tive em Daca com alguns membros do povo rohingya e quero renovar os sentimentos de gratidão às Autoridades do Bangladesh pela assistência que lhes prestam no seu território.
Desejo ainda expressar particular gratidão à Itália, que, nestes anos, mostrou um coração aberto e generoso e soube oferecer também exemplos positivos de integração. A minha esperança é que as dificuldades, que o país atravessou nestes anos e cujas consequências permanecem, não levem a fechamentos e preclusões, mas antes a uma redescoberta daquelas raízes e tradições que nutriram a rica história da nação e constituem um tesouro inestimável para oferecer ao mundo inteiro. De igual modo, exprimo apreço pelos esforços desenvolvidos por outros Estados europeus, particularmente a Grécia e a Alemanha. Não devemos esquecer que numerosos refugiados e migrantes procuram alcançar a Europa, porque sabem que nela podem encontrar paz e segurança, fruto aliás dum longo caminho que nasceu dos ideais dos Pais fundadores do projeto europeu depois da II Guerra Mundial. A Europa deve sentir-se orgulhosa deste seu património, baseado sobre determinados princípios e numa visão do homem cujas bases assentam na sua história milenária, inspirada pela conceção cristã da pessoa humana. A chegada dos migrantes deve incitá-la a redescobrir o seu património cultural e religioso, de modo que, recuperando a consciência dos valores sobre os quais está edificada, possa ao mesmo tempo manter viva a sua tradição e continuar a ser um lugar hospitaleiro, promissor de paz e desenvolvimento.
No ano passado, os governos, as organizações internacionais e a sociedade civil interrogaram-se mutuamente sobre os princípios basilares, as prioridades e as modalidades mais apropriadas para dar resposta aos movimentos migratórios e às situações prolongadas que afetam os refugiados. As Nações Unidas, na sequência da Declaração de Nova Iorque sobre Refugiados e Migrantes de 2016, aviaram importantes processos de preparação tendo em vista a adoção de dois Pactos Mundiais (Global Compacts), respetivamente sobre os refugiados e para uma migração segura, ordenada e regular.
A Santa Sé espera que tais esforços, com as negociações que brevemente se abrirão, deem resultados dignos duma comunidade mundial sempre mais interdependente, fundada nos princípios de solidariedade e mútua ajuda. No atual contexto internacional, não faltam as possibilidades e os meios para garantir, a todo o homem e mulher que vive sobre a terra, condições de vida dignas da pessoa humana.
Na Mensagem para o Dia Mundial da Paz deste ano, sugeri quatro «pedras miliárias» para a ação: acolher, proteger, promover e integrar.[19] Gostaria de me deter de modo particular nesta última, a propósito da qual se confrontam diferentes posições, cada uma delas derivada das respetivas avaliações, experiências, preocupações e convicções. A integração é «um processo bidirecional», com direitos e deveres recíprocos. De facto, quem acolhe é chamado a promover o desenvolvimento humano integral, enquanto se pede, a quem é acolhido, a indispensável conformação às normas do país que o hospeda, bem como o respeito pelos princípios identificadores do mesmo. Todo o processo de integração deve manter sempre, no centro das normas respeitantes aos vários aspetos da vida política e social, a tutela e a promoção das pessoas, especialmente daquelas que se encontram em situações de vulnerabilidade.
A Santa Sé não pretende interferir nas decisões que competem aos Estados: a eles cabe – à luz das respetivas situações políticas, sociais e económicas, bem como das próprias capacidades e possibilidades de receção e integração – a responsabilidade primeira do acolhimento. Mas ela considera que deve desempenhar um papel de «recordação» dos princípios de humanidade e fraternidade, que fundamentam toda a sociedade coesa e harmoniosa. Nesta perspetiva, é importante não esquecer a interação com as comunidades religiosas, tanto institucionais como associativas, que podem desempenhar um papel valioso de reforço na assistência e proteção, de mediação social e cultural, de pacificação e de integração.
Entre os direitos humanos que gostaria de lembrar hoje, está também o direito à liberdade de pensamento, de consciência e de religião, que inclui a liberdade de mudar de religião.[20] É sabido como, infelizmente, o direito à liberdade religiosa seja muitas vezes menosprezado não sendo raro que a religião se torne quer ocasião para justificar ideologicamente novas formas de extremismo quer pretexto para a marginalização social, senão mesmo perseguição, dos crentes. A construção de sociedades inclusivas requer como condição uma compreensão integral da pessoa humana, que pode sentir-se verdadeiramente acolhida quando é reconhecida e aceite em todas as dimensões que constituem a sua identidade, incluindo a dimensão religiosa.
Por fim, desejo recordar a importância do direito ao trabalho. Não há paz nem desenvolvimento, se o homem está privado da possibilidade de contribuir pessoalmente, através da sua atividade, para a edificação do bem comum. É doloroso, porém, constatar como o trabalho constitua, em muitas partes do mundo, um bem escassamente disponível. Poucas são as oportunidades, especialmente para os jovens, de encontrar trabalho. Muitas vezes é fácil perdê-lo não só em consequência da alternância dos ciclos económicos, mas também pelo progressivo recurso a tecnologia e maquinaria cada vez mais perfeitas e precisas capazes de substituir o homem. Se, por um lado, se constata uma distribuição desigual das oportunidades de trabalho, por outro verifica-se a tendência a pretender, de quem trabalha, ritmos sempre mais oprimentes. As exigências de lucro, ditadas pela globalização, levaram a uma progressiva redução dos tempos e dos dias de repouso, pelo que se perdeu uma dimensão fundamental da vida – a do descanso – que serve para regenerar, física e espiritualmente, a pessoa. O próprio Deus descansou no sétimo dia: abençoou-o e santificou-o, «visto ter sido nesse dia que Ele repousou de toda a obra da criação» (Gn 2, 3). Na alternância de fadiga e repouso, o homem participa na «santificação do tempo» realizada por Deus e enobrece o seu trabalho, subtraindo-o às dinâmicas repetitivas duma quotidianidade árida que não conhece pausa.
Motivo de particular preocupação são ainda os dados publicados recentemente pela Organização Mundial do Trabalho sobre o aumento do número de crianças empregadas em atividades laborais e das vítimas das novas formas de escravidão. O flagelo do trabalho infantil continua a afetar seriamente o desenvolvimento psicofísico das crianças, privando-as das alegrias da infância, ceifando vítimas inocentes. Não se pode pensar em projetar um futuro melhor, nem esperar construir sociedades mais inclusivas, se se continua a manter modelos económicos orientados meramente para o lucro e a exploração dos mais fracos, como as crianças. Eliminar as causas estruturais de tal flagelo deveria ser uma prioridade de Governos e organizações internacionais, chamados a intensificar os esforços para adotar estratégias integradas e políticas coordenadas, tendentes a acabar com o trabalho infantil em todas as suas formas.
Excelências, Senhoras e Senhores!
Ao lembrar alguns dos direitos contidos na Declaração Universal de 1948, não pretendo transcurar um aspeto estritamente conexo com a mesma: cada indivíduo tem também deveres relativamente à comunidade, visando «satisfazer as justas exigências da moral, da ordem pública e do bem-estar numa sociedade democrática».[21] O justo apelo aos direitos de todo o ser humano deve ter em conta que cada um é parte dum corpo maior. Também as nossas sociedades, como cada corpo humano, gozam de boa saúde se cada membro cumprir a própria tarefa, ciente de que a mesma está ao serviço do bem comum.
Entre os deveres particularmente imperiosos, conta-se hoje o de cuidar da nossa terra. Sabemos que a natureza pode ela mesma ser cruenta, mesmo quando isso não é responsabilidade do homem. Vimo-lo no ano passado com os terremotos que atingiram várias partes da terra, particularmente nos últimos meses no México e no Irão ceifando numerosas vítimas, bem como a violência dos furacões que afetaram vários países do Caribe até chegar às costas dos Estados Unidos da América e, mais recentemente, investiram as Filipinas. Todavia não devemos esquecer que há também uma particular responsabilidade do homem na sua interação com a natureza. As alterações climáticas, com a subida global das temperaturas e os efeitos devastadores que isso comporta, são também consequência da ação do homem. Por conseguinte, é preciso enfrentar, com um esforço conjunto, a responsabilidade de deixar às gerações seguintes uma terra mais bela e habitável, esforçando-se, à luz dos compromissos concordados em Paris no ano de 2015, por reduzir as emissões de gás nocivas à atmosfera e prejudiciais para a saúde humana.
O espírito que deve animar os indivíduos e as nações nesta obra é comparável ao dos construtores das catedrais medievais que constelam a Europa. Estes edifícios imponentes contam como é importante a participação de cada qual para uma obra capaz de ultrapassar os confins do tempo. O construtor de catedrais sabia que não veria a conclusão do seu trabalho. E contudo trabalhou ativamente, entendendo que fazia parte dum projeto de que gozariam os seus filhos, que – por sua vez – o haviam de embelezar e ampliar para os respetivos filhos. Cada homem e mulher deste mundo – particularmente quem tem a responsabilidade de governar – é chamado a cultivar o mesmo espírito de serviço e solidariedade intergeracional, sendo assim um sinal de esperança para o nosso mundo atribulado.
Com estas considerações, renovo a cada um de vós, às vossas famílias e aos vossos povos os votos de um ano rico de alegria, esperança e paz. Obrigado!
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[1] Cf. João XXIII, Carta encíclica Pacem in terris (11/IV/1963), 67 [129].
[2] Ibid., 47 [80].
[3] Ibid., 49 [86].
[4] Cf. ibid., 51 [91]
[5] Cf. Declaração Universal dos Direitos do Homem (10/XII/1948).
[6] Ibid., Preâmbulo.
[7] Paulo VI, Carta encíclica Populorum progressio (26/III/1967), 14.
[8] Cf. Declaração Universal dos Direitos do Homem, Preâmbulo.
[9] Cf. ibid., art. 3.
[10] Cf. ibid., art. 25.
[11] Pacem in terris, 60 [112].
[12] Ibid., 60 [112].
[13] Ibid., 67 [126].
[14] Ibid., 67 [128 e 129].
[15] Declaração Universal dos Direitos do Homem, art. 16.
[16] Cf. Paulo VI, Discurso por ocasião da visita à Basílica da Anunciação (Nazaré, 5/I/1964).
[17] Cf. Declaração Universal dos Direitos do Homem, art. 13.
[18] Francisco, Mensagem para o LI Dia Mundial da Paz (13/XI/2017), 1.
[19] Ibid., 4.
[20] Cf. Declaração Universal dos Direitos do Homem, art. 18.
[21] Ibid., art. 29.
[00023-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Ekscelencje, Panie i Panowie,
Pięknym zwyczajem jest to spotkanie, które – zachowując żywą jeszcze w naszych sercach radość wypływającą z Bożego Narodzenia – stwarza mi okazję osobistego złożenia wam życzeń na niedawno rozpoczęty rok i wyrażenia mojej bliskości i miłości dla reprezentowanych przez was narodów. Dziękuję dziekanowi Korpusu Dyplomatycznego, Jego Ekscelencji panu Armindo Fernandes do Espirito Santo Vieira, ambasadorowi Angoli, za uprzejme słowa skierowane do mnie w imieniu całego Korpusu Dyplomatycznego akredytowanego przy Stolicy Apostolskiej. Szczególne pozdrowienia kieruję do tych ambasadorów, którzy przybyli z tej okazji spoza Rzymu, a których liczba wzrosła w związku z nawiązaniem stosunków dyplomatycznych z Republiką Związku Mjanmy, w maju ubiegłego roku. Pozdrawiam również rosnącą liczbę ambasadorów rezydujących w Rzymie, wśród których jest teraz także ambasador Republiki Południowej Afryki. Jednocześnie szczególną myśl chciałbym dedykować świętej pamięci ambasadorowi Kolumbii Guillermo Leon Escobar-Herránowi, który zmarł kilka dni przed Bożym Narodzeniem. Dziękuję wam za stałe i owocne relacje, jakie utrzymujecie z Sekretariatem Stanu oraz innymi dykasteriami Kurii Rzymskiej. Świadczy to o zainteresowaniu wspólnoty międzynarodowej misją Stolicy Apostolskiej oraz zaangażowaniem Kościoła katolickiego w waszych poszczególnych krajach. W tej perspektywie ma miejsce działalność Stolicy Apostolskiej na rzecz nawiązywania relacji, która w lutym minionego roku przyniosła zawarcie umowy podstawowej z Republiką Konga, a w sierpniu umowy pomiędzy Sekretariatem Stanu i rządem Federacji Rosyjskiej o ruchu bezwizowym posiadaczy paszportów dyplomatycznych.
W relacjach z władzami cywilnymi Stolica Apostolska nie dąży do niczego innego, jak tylko do sprzyjania dobrobytowi duchowemu i materialnemu osoby ludzkiej oraz promocji dobra wspólnego. Podróże apostolskie, które odbyłem w ubiegłym roku do Egiptu, Portugalii, Kolumbii, Mjanmy i Bangladeszu były wyrazem tej troski. Do Portugalii udałem się jako pielgrzym w setną rocznicę objawień Matki Bożej w Fatimie, aby dokonać kanonizacji pastuszków Hiacynty i Franciszka Marto. Mogłem tam zobaczyć wiarę pełną entuzjazmu i radości, jaką Maryja Dziewica wzbudziła w wielu zgromadzonych z tej okazji pielgrzymach. Również w Egipcie, Mjanmie i Bangladeszu mogłem spotkać się z lokalnymi wspólnotami chrześcijańskimi, które choć liczebnie małe, są doceniane za wkład, jaki wnoszą w rozwój i współżycie obywatelskie w swoich krajach. Nie zabrakło spotkań z przedstawicielami innych religii, świadcząc o tym, że specyficzne cechy każdej z nich nie są przeszkodą dla dialogu, ale tym, co go ożywia we wspólnym pragnieniu poznania prawdy i czynienia sprawiedliwości. Wreszcie w Kolumbii chciałem pobłogosławić wysiłki i odwagę tego umiłowanego narodu, naznaczonego żywym pragnieniem pokoju, po trwającym ponad pół wieku konflikcie wewnętrznym.
Drodzy Ambasadorowie,
W tym roku przypada setna rocznica zakończenia I wojny światowej – konfliktu, który nakreślił na nowo oblicze Europy i całego świata, wraz z pojawieniem się nowych państw, które zajęły miejsce dawnych imperiów. Z popiołów Wielkiej Wojny można wydobyć dwa ostrzeżenia, których ludzkość nie potrafiła niestety natychmiast zrozumieć, doprowadzając na przestrzeni dwudziestu lat do stoczenia nowej wojny, jeszcze bardziej niszczącej niż poprzednia. Pierwszym ostrzeżeniem jest to, że zwycięstwo nigdy nie może oznaczać upokorzenia pokonanego przeciwnika. Pokoju nie buduje się przez narzucenie zwyciężonym władzy zwycięzcy. To nie prawo strachu odwodzi od przyszłych agresji, ale siła łagodnej racjonalności pobudza do dialogu i wzajemnego zrozumienia, by usunąć różnice[1]. Stąd wypływa drugie ostrzeżenie: pokój umacnia się wtedy, gdy państwa mogą konkurować ze sobą w klimacie równości. Wiedział o tym sto lat temu – zupełnie tak, jak wiemy obecnie – ówczesny prezydent USA Thomas Woodrow Wilson, gdy proponował utworzenie ogólnego stowarzyszenia narodów, mającego na celu promocję dla wszystkich państw, zarówno dużych jak i małych, wzajemnych gwarancji niezależności i integralności terytorialnej. W ten sposób teoretycznie powstały podstawy tej dyplomacji wielostronnej, która na przestrzeni lat uzyskała coraz większą rolę i wpływ we wspólnocie międzynarodowej.
Także relacje między państwami, podobnie jak relacje międzyludzkie, „winny się układać wedle zasad prawdy, sprawiedliwości, żywej solidarności duchowej i wolności”[2]. Oznacza to „zasadę, że wszystkie państwa są sobie z natury równe co do godności”[3], jak również uznanie wzajemnych praw, wraz z wypełnianiem należnych obowiązków[4]. Podstawową przesłanką tego podejścia jest afirmacja godności każdej osoby ludzkiej, której pogarda i brak uznania prowadzą do aktów barbarzyństwa, jakie wstrząsnęły sumieniem ludzkości[5]. Z drugiej strony, „uznanie przyrodzonej godności oraz równych i niezbywalnych praw wszystkich członków wspólnoty ludzkiej jest podstawą wolności, sprawiedliwości i pokoju świata”[6], jak stwierdza Powszechna Deklaracja Praw Człowieka.
Temu ważnemu dokumentowi, w siedemdziesiątą rocznicę jego przyjęcia przez Zgromadzenie Ogólne Narodów Zjednoczonych, które miało miejsce 10 grudnia 1948 r., chciałbym poświęcić nasze dzisiejsze spotkanie. Dla Stolicy Apostolskiej mówienie o prawach człowieka oznacza bowiem przede wszystkim zaproponowanie na nowo centralnego miejsca godności osoby ludzkiej jako chcianej i stworzonej przez Boga na Jego obraz i podobieństwo. Sam Pan Jezus uzdrawiając trędowatego, przywracając wzrok niewidomemu, spotykając się z poborcą podatkowym, ocalając życie kobiecie cudzołożnej i zachęcając do leczenia poranionego podróżnego, dał do zrozumienia, że każda istota ludzka, niezależnie od swego stanu fizycznego, duchowego lub społecznego zasługuje na szacunek i uwagę. Z perspektywy chrześcijańskiej istnieje zatem istotna zależność między orędziem ewangelicznym a uznaniem praw człowieka, w duchu redaktorów Powszechnej Deklaracji Praw Człowieka.
Prawa te wywodzą swoje założenie z natury obiektywnie łączącej rodzaj ludzki. Zostały one określone, żeby usunąć mury oddzielające rodzinę ludzką i sprzyjać temu, co nauka społeczna Kościoła nazywa integralnym rozwojem ludzkim, ponieważ dotyczy „rozwoju każdego człowieka i całego człowieka (...) aż po objęcie całej ludzkości”[7]. Redukcyjna wizja osoby ludzkiej otwiera natomiast drogę do szerzenia się niesprawiedliwości, nierówności społecznych i korupcji.
Należy jednak zauważyć, że na przestrzeni lat, zwłaszcza w następstwie wstrząsów społecznych roku 1968 interpretacja niektórych praw uległa stopniowo modyfikacji, aby objąć różnorodne „nowe prawa”, nierzadko sprzeczne między sobą. Nie zawsze sprzyjało to promocji przyjaznych stosunków między państwami[8], ponieważ pojawiły się kontrowersyjne pojęcia praw człowieka, sprzeczne z kulturą wielu krajów, które z tego powodu nie odczuwają poszanowania dla swoich tradycji społeczno- kulturowych, a czują się raczej pominięte w obliczu rzeczywistych potrzeb, jakim muszą stawić czoło. Może w związku z tym zrodzić się niebezpieczeństwo – w pewnym sensie paradoksalne – że w imię praw człowieka dochodzi do ustanowienia nowoczesnych form kolonizacji ideologicznej silniejszych i bogatszych kosztem najbiedniejszych i najsłabszych. Jednocześnie należy pamiętać, że tradycje poszczególnych narodów nie mogą być uznane za pretekst do zaniedbywania niezbędnego poszanowania podstawowych praw zawartych w Powszechnej Deklaracji Praw Człowieka.
Po siedemdziesięciu latach z żalem stwierdzamy, że wciąż łamane są prawa podstawowe. Przede wszystkim prawo do życia, wolności i nienaruszalności każdej osoby ludzkiej[9]. Nasze prawa naruszają nie tylko wojny, czy przemoc. W naszych czasach pojawiają się formy bardziej subtelne: myślę przede wszystkim o niewinnych dzieciach, odrzuconych jeszcze zanim się urodzą; czasem niechcianych, tylko dlatego, że są chore, czy zdeformowane, albo z powodu egoizmu dorosłych. Myślę o osobach starszych, również często odrzucanych, zwłaszcza gdy są chore, ponieważ uważane są za ciężar. Myślę o kobietach, które często doznają przemocy i upokorzeń nawet w swoich rodzinach. Myślę następnie o tych, którzy są ofiarami handlu ludźmi gwałcącego zakaz wszelkich form niewolnictwa. Ileż osób, szczególnie uciekających przed ubóstwem i wojną staje się przedmiotem takiego kupczenia popełnianego przez osobników pozbawionych skrupułów?
Obrona prawa do życia i integralności cielesnej oznacza również ochronę prawa do zdrowia osoby i jej rodziny. Dziś prawo to nabrało znaczeń wykraczających poza pierwotne intencje Powszechnej Deklaracji Praw Człowieka, która miała na celu potwierdzenie prawa każdej osoby do posiadania niezbędnej opieki medycznej i pomocy społecznej[10]. Mając to na uwadze, chciałbym, aby na właściwych forach międzynarodowych dołożono starań na rzecz sprzyjania przede wszystkim łatwemu dostępowi wszystkich do opieki zdrowotnej i leczenia. Ważne jest łączenie wysiłków, aby można było przyjąć formy polityki mogące zapewnić po przystępnych cenach zaopatrzenie w leki niezbędne do przetrwania osób najbardziej potrzebujących, nie zaniedbując badań i rozwoju metod leczenia, które – choć nie są ekonomicznie istotne dla rynku – mają kluczowe znaczenie dla ratowania życia ludzkiego.
Obrona prawa do życia oznacza także aktywne starania o pokój, powszechnie uznawany za jedną z najwznioślejszych wartości, do których należy dążyć i których trzeba bronić. Tymczasem poważne konflikty lokalne wciąż rozpalają różne regiony ziemi. Zbiorowe wysiłki społeczności międzynarodowej, akcje humanitarne organizacji międzynarodowych i nieprzerwane modlitwy o pokój, wznoszone z krajów skrwawionych walkami, wydają się być coraz mniej skuteczne w obliczu nieodrzecznej logiki wojny. Taki scenariusz nie może umniejszyć naszego pragnienia i naszego zaangażowania na rzecz pokoju, ze świadomością, że bez niego integralny rozwój człowieka staje się nieosiągalny.
Integralne rozbrojenie i integralny rozwój są ściśle ze sobą powiązane. Z drugiej strony, dążenie do pokoju jako wstępnego warunku rozwoju wymaga walki z niesprawiedliwością i eliminowania bez użycia przemocy przyczyn niezgody prowadzących do wojen. Rozprzestrzenianie broni wyraźnie pogarsza sytuacje konfliktowe i pociąga za sobą ogromne koszty ludzkie i materialne, które podważają rozwój i poszukiwanie trwałego pokoju. Historyczny rezultat osiągnięty w ubiegłym roku wraz z przyjęciem traktatu o zakazie broni jądrowej, na zakończenie konferencji Organizacji Narodów Zjednoczonych mającej na celu wynegocjowanie prawnie wiążącego instrumentu zakazującego broni jądrowej ukazuje, że pragnienie pokoju jest zawsze żywe. Promowanie kultury pokoju na rzecz integralnego rozwoju wymaga wytrwałych wysiłków prowadzących do rozbrojenia i ograniczenia odwoływania się do siły zbrojnej w zarządzaniu sprawami międzynarodowymi. Chciałabym zatem zachęcić do spokojnej i jak najszerszej debaty na ten temat, unikając polaryzacji wspólnoty międzynarodowej w tak delikatnej kwestii. Każdy wysiłek w tym kierunku, nawet bardzo niewielki, stanowi ważny rezultat dla ludzkości.
Ze swojej strony Stolica Apostolska podpisała i ratyfikowała, również w imieniu i na rzecz Państwa Watykańskiego traktat o zakazie broni jądrowej, w perspektywie sformułowanej przez św. Jana XXIII w Pacem in terris, zgodnie z którą „sprawiedliwość, rozum i poczucie ludzkiej godności domagają się usilnie zaprzestania współzawodnictwa w rozbudowie potencjału wojennego, równoczesnej redukcji uzbrojenia poszczególnych państw, zakazu używania broni atomowej”[11]. Istotnie, „jest rzeczą niemal nie do wiary, żeby istnieli ludzie, którzy mieliby odwagę wziąć na siebie odpowiedzialność za mordy i nieopisane zniszczenia, jakie pociąga za sobą wojna. Nie można jednak zaprzeczyć, że jakieś jedno nieprzewidziane i przypadkowe wydarzenie może rozpalić pożogę wojenną”[12].
Stolica Apostolska podkreśla zatem stanowcze przekonanie, że „spory, jakie mogą powstawać między narodami, należy rozwiązywać nie siłą zbrojną, lecz na drodze układów i porozumień”[13]. Z drugiej strony, nieustanne wytwarzanie coraz bardziej zaawansowanych i „udoskonalonych” broni oraz trwanie licznych ognisk konfliktów – tego, co nazwałem „trzecią wojną światową w kawałkach” – może tylko zmusić nas do powtórzenia z mocą słów mojego świętego poprzednika: „w naszej epoce potęgi atomowej byłoby nonsensem uważać wojnę za odpowiedni środek przywrócenia naruszonych praw. (...) Mimo wszystko wolno jednak żywić nadzieję, że narody poprzez ustalanie wzajemnych kontaktów i porozumień dojdą do lepszego poznania łączących je więzów ludzkiej natury. Zrozumieją dokładniej, że do podstawowych obowiązków, wypływających ze wspólnej im natury, należy również liczenie się ze zwyczajami poszczególnych ludzi i narodów w oparciu nie o strach, lecz o miłość. Przecież zadaniem miłości jest doprowadzenie ludzi do szczerej i wielorakiej jedności serc i dzieł, z której może spłynąć na nich bardzo wiele dobra”[14].
W tej perspektywie ogromne znaczenie ma wspieranie każdej próby dialogu na Półwyspie Koreańskim, aby znaleźć nowe drogi przezwyciężenia obecnych napięć, umocnić wzajemne zaufanie i zapewnić pokojową przyszłość Koreańczykom i całemu światu.
Równie ważne jest to, aby można było rozwijać w konstruktywnym klimacie coraz większego zaufania między stronami różne inicjatywy pokojowe na rzeczy Syrii, ażeby wreszcie położyć kres długiemu konfliktowi, który dotknął ten kraj i spowodował ogromne cierpienia. Wspólnym pragnieniem jest to, aby po tak wielkim zniszczeniu przyszedł czas na odbudowę. Ale bardziej nawet niż wznoszenie budynków, konieczne jest odbudowywanie serc, aby ponownie nawiązać sieć wzajemnego zaufania, będącego nieodzowną przesłanką do rozkwitu każdego społeczeństwa. Trzeba zatem starać się o krzewienie warunków prawnych, politycznych i bezpieczeństwa potrzebnych dla odrodzenia życia społecznego, w którym każdy obywatel, niezależnie od przynależności etnicznej i religijnej, mógłby uczestniczyć w rozwoju kraju. W tym względzie ważne jest, aby chronione były mniejszości religijne, wśród których są chrześcijanie od wieków aktywnie wnoszący swój wkład w historię Syrii.
Jest równie ważne, aby mogło powrócić do ojczyzny wielu uchodźców, którzy znaleźli gościnność i schronienie w krajach sąsiednich, zwłaszcza w Jordanii, Libanie i Turcji. Zaangażowanie i wysiłek włożony przez te kraje w tych trudnych okolicznościach zasługuje na uznanie i wsparcie całej wspólnoty międzynarodowej, która jest równocześnie powołana by starać się o stworzenie warunków do repatriacji uchodźców przybyłych z Syrii. Jest to zaangażowanie, które musi ona konkretnie podjąć, począwszy od Libanu, aby ten umiłowany kraj był nadal „orędziem” poszanowania i współistnienia, a także wzorem do naśladowania dla całego regionu i dla całego świata.
Wola dialogu jest także potrzebna w umiłowanym Iraku, aby różne grupy etniczne i religijne mogły odnaleźć drogę pojednania i pokojowego współistnienia oraz współpracy, a także w Jemenie i innych częściach regionu, jak również w Afganistanie.
Szczególną myśl kieruję do Izraelczyków i Palestyńczyków, po napięciach ostatnich tygodni. Stolica Apostolska, wyrażając ból z powodu tych, którzy stracili życie w ostatnich starciach, ponawia swój natarczywy apel, by rozważyć wszelkie inicjatywy, aby uniknąć zaostrzenia konfliktów, i wzywa do wspólnego zobowiązania, aby przestrzegać, zgodnie z odpowiednimi rezolucjami Narodów Zjednoczonych, status quo Jerozolimy, miasta świętego dla chrześcijan, żydów i muzułmanów. Siedemdziesiąt lat starć sprawia, że niezwykle pilnie potrzebne jest znalezienie rozwiązania politycznego, które pozwoli na obecność w regionie dwóch niezależnych państw w granicach uznanych przez społeczność międzynarodową. Pomimo istniejących trudności wola dialogu i wznowienia negocjacji pozostaje najlepszą drogą do ostatecznego osiągnięcia pokojowego współistnienia obydwu narodów.
Także w kontekście narodowym istotna jest otwartość i gotowość na spotkanie. Mam na myśli szczególnie drogą Wenezuelę, która przeżywa coraz bardziej dramatyczny i bezprecedensowy kryzys polityczny i humanitarny. Stolica Apostolska, zachęcając do niezwłocznego zaspokojenia podstawowych potrzeb ludności, ma nadzieję, że powstaną warunki, aby wybory zaplanowane na bieżący rok mogły doprowadzić do rozwiązania istniejących konfliktów i aby można było spojrzeć na przyszłość z nowo odnalezioną pogodą ducha.
Niech wspólnota międzynarodowa nie zapomina także o cierpieniach znacznych części kontynentu afrykańskiego, zwłaszcza w Południowym Sudanie, Demokratycznej Republice Konga, Somalii, Nigerii i Republice Środkowoafrykańskiej, gdzie prawo do życia jest zagrożone przez niekontrolowane wykorzystywanie zasobów, terroryzm, rozprzestrzenianie się bojówek i przedłużające się konflikty. Nie wystarczy być oburzonym w obliczu tak wielkiej przemocy. Chodzi raczej o to, aby każdy w swojej własnej dziedzinie czynnie przyczyniał się do usunięcia przyczyn nędzy i budowania mostów braterstwa, będących fundamentalną przesłanką autentycznego rozwoju ludzkiego.
Wspólne zaangażowanie w odbudowę mostów jest również pilnie potrzebne na Ukrainie. Dopiero co zakończony rok pochłonął nowe ofiary w konflikcie rozgrywającym się w tym kraju, nadal przynosząc wielkie cierpienia dla ludności, zwłaszcza dla rodzin, które mieszkają na obszarach dotkniętych wojną i które straciły swych bliskich, nierzadko starców i dzieci.
Szczególną myśl chciałbym właśnie poświęcić rodzinie. Prawo do utworzenia rodziny jako „naturalnej i podstawowej komórki społeczeństwa, uprawnionej do ochrony ze strony społeczeństwa i państwa”[15], jest rzeczywiście uznane w Deklaracji z 1948 roku. Niestety, wiadomo, że zwłaszcza na Zachodzie rodzina jest uważana za instytucję przestarzałą. Zamiast stabilności projektu definitywnego preferowane są dzisiaj więzi przelotne. Ale nie ma mocnego oparcia dom zbudowany na piasku relacji kruchej i niestałej. Trzeba raczej skały, na której można zakotwiczyć solidne fundamenty. A skałą jest właśnie ta komunia miłości, wierna i nierozerwalna, który łączy mężczyznę i kobietę, komunia, która ma surowe i proste piękno, charakter święty oraz nienaruszalną i naturalną funkcję w porządku społecznym[16]. Dlatego uważam, że pilnie trzeba podjąć prawdziwą politykę wspierającą rodzinę, od której ponadto zależy przyszłość i rozwój państw. Bez niej nie można budować społeczeństw zdolnych do sprostania wyzwaniom przyszłości. Brak zainteresowania rodzinami niesie ze sobą kolejną dramatyczną konsekwencję – która jest szczególnie obecna w niektórych regionach – jaką jest spadek liczby urodzeń. Przeżywamy prawdziwą zimę demograficzną! Jest ona znakiem społeczeństw, które z trudem zmagają się z wyzwaniami teraźniejszości, a tym samym coraz bardziej obawiają się przyszłości, dochodząc w końcu do zamknięcia się w sobie.
Jednocześnie nie możemy zapominać o sytuacji rodzin, które są rozdarte przez ubóstwo, wojny i migracje. Zbyt często stajemy w obliczu tragedii dzieci samotnie przekraczających granice oddzielające południe od północy świata, często będące ofiarami handlu ludźmi.
Dzisiaj wiele mówi się o migrantach i migracjach, czasami tylko po to, aby wzbudzić najbardziej skryte obawy. Nie wolno nam zapominać, że migracje istniały zawsze. W tradycji judeochrześcijańskiej historia zbawienia jest w istocie historią migracji. Nie powinniśmy też zapominać, że swoboda przemieszczania się, taka jak opuszczenie własnego kraju i powrotu do niego, należy do podstawowych praw człowieka[17]. Trzeba zatem porzucić rozpowszechnioną retorykę na ten temat i zacząć od podstawowego założenia, że są przed nami przede wszystkim ludzie.
To chciałem podkreślić w Orędziu na Światowy Dzień Pokoju, obchodzony 1 stycznia bieżącego roku, poświęcony tematowi: „Migranci i uchodźcy: mężczyźni i kobiety w poszukiwaniu pokoju”. Chociaż uznając, że nie każdy zawsze ma najlepsze intencje, nie można zapominać, że większość imigrantów wolałoby pozostać w swoim własnym kraju, podczas gdy zmuszona jest do opuszczenia go „z powodu dyskryminacji, prześladowań, ubóstwa i degradacji środowiska. (...) Przyjęcie drugiego wymaga konkretnego zaangażowania, łańcucha pomocy i życzliwości, czujnej i wyrozumiałej uwagi, odpowiedzialnego zarządzania nowymi, złożonymi sytuacjami – które czasami łączą się z innymi, licznymi problemami już istniejącymi – a także zawsze ograniczonymi środkami. Postępując zgodnie z cnotą roztropności, rządzący będą umieli przyjmować, wspierać, chronić oraz integrować, podejmując praktyczne działania, «jeśli to jest zgodne z nieprzesadnie pojmowanym dobrem społeczności (...), [aby] włączyć ich w nową społeczność» (Pacem w terris, 57). Na rządzących spoczywa konkretna odpowiedzialność wobec własnych społeczeństw, którym muszą zapewnić sprawiedliwe prawa oraz harmonijny rozwój, a nie mogą postępować jak nierozsądny budowniczy, który źle obliczył wydatki i nie zdołał dokończyć wieży, którą zaczął budować (por. Łk 14, 28-30)”[18].
Chciałbym jeszcze raz podziękować władzom tych państw, które w minionych latach postarały się, aby udzielić pomocy licznym imigrantom, którzy przybyli na ich granice. Myślę przede wszystkim o zaangażowaniu wielu krajów w Azji, Afryce i obu Amerykach, które przyjmują i pomagają wielu ludziom. Wciąż żywe jest w moim sercu spotkanie w Dhace z niektórymi członkami ludu Rohindża i pragnę ponowić uczucia wdzięczności do władz Bangladeszu za pomoc, jaką im zapewniają na swoim terytorium.
Chciałbym również wyrazić szczególną wdzięczność Włochom, które w ostatnich latach okazały serce otwarte i szczodre, a także potrafiły dać pozytywne przykłady integracji. Pragnę, aby trudności, jakie ten kraj przeszedł w ostatnich latach, a których skutki trwają nadal, nie prowadziły do zamknięć i utrudnienia dostępu, ale raczej do odkrycia tych korzeni i tradycji, które kształtowały bogatą historię narodu i które stanowią bezcenny skarb, jaki trzeba zaoferować całemu światu. Wyrażam również uznanie dla wysiłków innych krajów europejskich, w szczególności Grecji i Niemiec. Nie wolno zapominać, że wielu uchodźców i imigrantów stara się dotrzeć do Europy, bo wiedzą, że mogą tutaj znaleźć pokój i bezpieczeństwo, które są również owocem długiej drogi zrodzonej z ideałów ojców założycieli projektu europejskiego po II wojnie światowej. Europa powinna być dumna z tego swojego dziedzictwa, opartego na pewnych zasadach i wizji człowieka, która opiera się na jej liczonej w tysiącleciach historii, inspirowanej chrześcijańską koncepcją osoby ludzkiej. Przybycie imigrantów powinno zachęcać ją do ponownego odkrywania swojego dziedzictwa kulturowego i religijnego, aby odzyskując świadomość wartości, na których jest zbudowana, mogła jednocześnie utrzymać swoją tradycję i nadal być miejscem gościnnym, zwiastunem pokoju i rozwoju.
W minionym roku rządy, organizacje międzynarodowe i społeczeństwa obywatelskie zastanawiały się nawzajem na temat podstawowych zasad, priorytetów i najbardziej odpowiednich sposobów reagowania na ruchy migracyjne i przedłużające się sytuacje dotyczące uchodźców. Narody Zjednoczone, po Deklaracji Nowojorskiej w sprawie migrantów i uchodźców z roku 2016 zainicjowały ważne procesy przygotowawcze w oczekiwaniu na przyjęcie dwóch paktów światowych (Global Compacts), odpowiednio, dotyczącego uchodźców oraz na rzecz bezpiecznej, uporządkowanej i uregulowanej migracji.
Stolica Apostolska wyraża życzenie, aby te wysiłki wraz z negocjacjami, które niebawem zostaną rozpoczęte, przyniosły rezultaty godne wspólnoty światowej coraz bardziej współzależnej, opartej na zasadach solidarności i wzajemnej pomocy. W obecnym kontekście międzynarodowym nie brakuje możliwości i środków zapewniających każdemu mężczyźnie i każdej kobiecie żyjącym na ziemi warunków życia godnych osoby ludzkiej.
W orędziu na tegoroczny Światowy Dzień Pokoju zaproponowałem cztery „kamienie milowe” działania: przyjmowanie, chronienie, promowanie i integrowanie[19]. Chciałbym skupić się szczególnie na tym ostatnim, w którym ścierają się różne stanowiska w świetle wielu ocen, doświadczeń, obaw i przekonań. Integracja jest „procesem dwukierunkowym”, z wzajemnymi prawami i obowiązkami. Ten, kto przyjmuje, jest bowiem wezwany do promowania integralnego rozwoju człowieka, podczas gdy od osób przyjmowanych wymaga się niezbędnego dostosowania się do norm kraju przyjmującego, a także poszanowania jego zasad tożsamości. Każdy proces integracji musi zawsze zachować ochronę i promocję osoby, zwłaszcza tych, którzy znajdują się w trudnej sytuacji, w centrum norm dotyczących różnych aspektów życia politycznego i społecznego.
Stolica Apostolska nie zamierza ingerować w decyzje, przysługujące państwom, które w świetle swojej sytuacji politycznej, społecznej i gospodarczej, a także własnych zdolności i możliwości oraz integracji ponoszą główną odpowiedzialność za przyjęcie. Uważa jednak, że musi odgrywać rolę „przywoływania” zasad humanitaryzmu i braterstwa, które tkwią u podstaw każdego społeczeństwa spoistego i harmonijnego. W tej perspektywie ważne jest, aby nie zapominać o współdziałaniu ze wspólnotami religijnymi, zarówno instytucjonalnymi, jak i na poziomie stowarzyszeniowym, które mogą odgrywać cenną rolę, udzielając wsparcia w pomocy i ochronie, mediacji społecznej i kulturowej, pojednaniu i integracji.
Wśród praw człowieka, które chciałbym dzisiaj przypomnieć, jest także prawo do wolności myśli, sumienia i wyznania, obejmujące także swobodę zmiany religii[20]. Niestety, wiadomo, że prawo do wolności religii jest często lekceważone i nierzadko religia staje się okazją do ideologicznego usprawiedliwienia nowych form ekstremizmu lub pretekstem do wykluczenia społecznego, jeśli nie wręcz dla form prześladowania wierzących. Warunkiem koniecznym do budowania społeczeństwa otwartego jest integralne rozumienie osoby ludzkiej, która może czuć się prawdziwie akceptowana, gdy jest uznana i zaakceptowana we wszystkich wymiarach stanowiących jej tożsamość, również w wymiarze religijnym.
Na koniec chciałbym przypomnieć znaczenie prawa do pracy. Nie ma pokoju ani rozwoju, jeśli człowiek pozbawiony jest możliwości wniesienia osobistego wkładu poprzez swoją pracę w budowanie dobra wspólnego. Z przykrością natomiast stwierdzam, że praca w wielu częściach świata jest dobrem trudno dostępnym. Niekiedy istnieje niewiele możliwości znalezienia pracy, zwłaszcza dla ludzi młodych. Często łatwo ją utracić nie tylko ze względu na konsekwencje zmieniania się cyklów koniunkturalnych, ale także ze względu na stopniowe odwoływanie się do coraz doskonalszych i precyzyjniejszych technologii i maszyn, które mogą zastąpić człowieka. I choć z jednej strony istnieje nierównomierny rozkład możliwości pracy, to z drugiej strony istnieje tendencja, by domagać się od osób pracujących coraz bardziej uciążliwych rytmów. Wymagania zysku, podyktowane przez globalizację, doprowadziły do stopniowej redukcji czasu i dni odpoczynku, w wyniku czego utracono podstawowy wymiar życia – właśnie odpoczynku – który służy regeneracji człowieka nie tylko fizycznej, ale także duchowej. Sam Bóg odpoczął siódmego dnia: pobłogosławił go i ustanowił go świętym, „w tym bowiem dniu odpoczął po całej swej pracy, którą wykonał stwarzając” (Rdz 2, 3). W przemienności trudu i odpoczynku człowiek uczestniczy w „uświęceniu czasu” dokonanym przez Boga i nobilituje swoją pracę, wyrywając ją z powtarzającej się dynamiki jałowej codzienności, która nie zna przerwy.
Ponadto motywem szczególnego niepokoju są dane opublikowane przez Światową Organizację Pracy dotyczące wzrostu liczby dzieci zaangażowanych w działalność zawodową, stających się ofiarami nowych form niewolnictwa. Plaga pracy nieletnich nadal poważnie szkodzi rozwojowi psychofizycznemu dzieci, pozbawiając je radości dzieciństwa, zbierając niewinne ofiary. Nie możemy myśleć o projektowaniu lepszej przyszłości ani życzyć sobie budowania społeczeństw bardziej integrujących, jeśli będziemy nadal utrzymywać modele gospodarcze zorientowane wyłącznie na zysk i na wyzyskiwanie najsłabszych, takich jak dzieci. Wyeliminowanie strukturalnych przyczyn tej plagi powinno stać się priorytetem dla rządów i organizacji międzynarodowych, powołanych do zintensyfikowania wysiłków na rzecz przyjęcia zintegrowanych strategii i skoordynowanych działań politycznych mających na celu położenie kresu pracy nieletnich we wszystkich jej formach.
Ekscelencje, Panie i Panowie,
Przypominając niektóre z praw zawartych w Powszechnej Deklaracji z 1948 r., nie zamierzam ignorować aspektu ściśle z nią związanego: każda osoba ma również obowiązki wobec wspólnoty, której celem jest „uczynienie zadość słusznym wymogom moralności, porządku publicznego i powszechnego dobrobytu demokratycznego społeczeństwa”[21]. Słuszne powołanie się na prawa każdej istoty ludzkiej musi uwzględniać fakt, że każdy jest częścią większego organizmu. Także nasze społeczeństwa, jak każde ludzkie ciało cieszą się dobrym zdrowiem, jeśli każdy członek wykonuje swoją pracę wiedząc, że służy ona dobru wspólnemu.
Do zadań szczególnie pilnych należy dziś troska o naszą Ziemię. Wiemy, że natura może być sama w sobie okrutna, nawet jeśli nie jest to związane z odpowiedzialnością człowieka. Widzieliśmy to w minionym roku poprzez trzęsienia ziemi, które nawiedziły różne części ziemi, szczególnie w ostatnich miesiącach w Meksyku i Iranie, pochłaniając wiele ofiar, a także w sile huraganów, które objęły różne kraje karaibskie, docierając aż do wybrzeży Stanów Zjednoczonych, a niedawno ogarnęły Filipiny. Nie wolno nam jednak zapominać, że istnieje także szczególna odpowiedzialność człowieka w interakcji z przyrodą. Zmiany klimatyczne, wraz z globalnym wzrostem temperatur i niszczycielskimi skutkami, jakie pociągają one za sobą, są również konsekwencją działania człowieka. Trzeba zatem stawić czoło we wspólnym wysiłku i odpowiedzialności, aby pozostawić następnym pokoleniom Ziemię piękniejszą, w której da się żyć, starając się, w świetle zobowiązań uzgodnionych w Paryżu w 2015 r. o zmniejszenie emisji gazów szkodliwych dla atmosfery i toksycznych dla zdrowia ludzkiego.
Duch, który winien ożywiać jednostki i narody w tym dziele, jest podobny do budowniczych średniowiecznych katedr, które pokrywają Europę. Te imponujące budynki mówią o tym, jak ważne jest uczestnictwo każdego w dziele, które może wykroczyć poza granice czasu. Budowniczy katedr wiedział, że nie zobaczy zwieńczenia swojej pracy. Tym niemniej czynnie działał, rozumiejąc, że jest częścią projektu, którym cieszyć się będą jego dzieci, a który z kolei będzie upiększony i poszerzony dla ich dzieci. Każdy mężczyzna i kobieta na tym świecie – a szczególnie ci, którzy są odpowiedzialni za rządzenie – są powołani, by kultywować tego samego ducha służby i solidarności międzypokoleniowej, a tym samym by byli znakiem nadziei dla naszego niespokojnego świata.
Z tymi rozważaniami ponawiam dla każdego z was, dla waszych rodzin i narodów życzenia roku pełnego radości, nadziei i pokoju. Dziękuję.
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[1] Por. JAN XXIII, Enc. Pacem in terris, 11 kwietnia 1963, 67.
[2] Tamże, 47.
[3] Tamże, 49.
[4] Por. tamże, 51.
[5] Por. Powszechna Deklaracja Praw Człowieka, 10 grudnia 1948.
[6] Tamże, Preambuła.
[7] PAWEŁ VI, Enc. Populorum progressio, 26 marca 1967, 14.
[8] Por. Powszechna Deklaracja Praw Człowieka, Preambuła.
[9] Tamże, art. 3.
[10] Por. tamże, art. 25.
[11] Pacem in terris, 60.
[12] Tamże.
[13] Tamże, 67.
[14] Tamże.
[15] Powszechna Deklaracja Praw Człowieka, art. 16.
[16] Por. PAWEŁ VI, Homilia w Bazylice Zwiastowania, Nazaret, 5 stycznia 1964 roku
[17] Por. Powszechna Deklaracja Praw Człowieka, art. 13.
[18] FRANCISZEK, Orędzie na 51 Światowy Dzień Pokoju, 13 listopada 2017,1.
[19] Tamże, 4.
[20] Por. Powszechna Deklaracja Praw Człowieka, art. 18.
[21] Tamże, art. 29.
[00023-PL.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
كلمة قداسة البابا فرنسيس
إلى الدبلوماسيّين المُعتَمدين لدى الكرسي الرسولي
بمناسبة اللقاء السنوي لتبادل التهاني بالعام الجديد
8يناير / كانون الثاني 2018
في القصر البابوي
أصحاب السعادة، سيداتي وسادتي،
إنه لتقليدٌ جميلٌ لقائُنا هذا الذي يسمح لي أن أعبّر لكم شخصيًّا، في حين ما زال الفرحُ الآتي من عيد الميلاد حيًّا في القلب، عن أمنياتي للعام الذي بدأ للتوّ وأن أُظهر قُربي ومحبّتي للشعوبِ التي تمثّلونها. أشكر عميد السلك الدبلوماسي، صاحب السعادة السيّد أرميندو فرنانديز دو إسبيريتو سانتو فييرا، سفير أنغولا، على الكلمات الموقّرة التي وجّهها إليّ منذ قليل باسم كلّ السلك الدبلوماسي المُعتمد لدى الكرسي الرسولي. أوجّه تحيّة خاصّة للسفراء القادمين من خارج روما للمناسبة، الذين ازداد عددهم نتيجة إقامة العلاقات الدبلوماسيّة مع جمهوريّة اتّحاد الميانمار في شهر مايو/أيار الماضي. أحيّي أيضًا السفراء المقيمين في روما الذين يزداد عددهم باستمرار، ونرى في صفوفهم الآن أيضًا سفيرَ جمهوريّة جنوب أفريقيا. كما أودّ أن أخصّ بالذكر سفير كولومبيا الراحل، غيليرمو ليون إسكوبار-هيران، الذي توفّاه الله قبلَ أيّام قليلةٍ من عيدِ الميلاد. أشكركم على العلاقات المثمرة والثابتة القائمة مع أمانة سرّ دولة الفاتيكان ومع باقي دوائر الكوريا الرومانيّة، شهادةً للاهتمام الذي يوليه المُجتمع الدولي لمهمّة الكرسي الرسولي ولالتزام الكنيسة الكاثوليكية في بلدانكم. ففي هذا المنظور، يقيم الكرسي الرسولي علاقاته الدبلوماسية، وقد شهد خلال العام الماضي التوقيع على الاتفاق الإطاري مع جمهوريّة الكونغو، في شهر فبراير/شباط، وعلى الاتفاق بين أمانة سرّ دولة الفاتيكان وحكومة الاتّحاد الروسيّ، في شهر أغسطس/آب، حول السفر بدون تأشيرة لحاملي جوازات سفر ديبلوماسيّة.
إن الكرسي الرسولي، من خلال العلاقات مع السلطات المدنيّة، لا يهدف إلّا إلى دعم رفعة الأشخاص الروحيّة والمادّية، كما وتعزيز الخير العام. وقد كانت الزيارات الرسوليّة التي قمتُ بها خلال العام الماضي في مصر، والبرتغال، وكولومبيا، والميانمار، والبنغلاديش، تعبيرًا عن هذا الاهتمام. ذهبت كحاجٍّ إلى البرتغال، في الذكرى المئويّة لظهورات السيّدة العذراء في فاطمة، للاحتفال بإعلان قداسة الراعيان الصغيران جاسنتا وفرانسيسكو مارتو. واستطعتُ هناك أن أرى الإيمانَ المملوءَ حماسًا وفرحًا الذي أذكته العذراءُ مريم في الكثير من الحجّاج الذين أتوا للمناسبة. استطعتُ في مصرَ أيضًا، والميانمار والبنغلاديش، أن التقيَ الجماعات المسيحيّة فيها التي تُقدَّرُ محلّيًا، بالرغم من قلّة عددها، على المساهمةِ التي تقدّمها في نموّ بلدانها والتعايش المدنيّ فيها. كان هناك أيضًا اللقاءات مع ممثّلي أديان أخرى، شهادَةً لكيفَ أنّ خصوصيّات كلّ منها لا تشكّلُ عائقًا للحوار، إنما اللمفاويّة التي تغذّيه، مع الرغبة المشتركة في معرفة الحقيقة وممارسة العدالة. وفي النهاية، أردتُ في كولومبيا أن أباركَ جهودَ الشعب الحبيب وشجاعتَه، هذا الشعب المطبوع برغبة حيّة في السلام، بعد أكثر من نصف قرن من الصراع الداخليّ.
أيها السفراء الأعزاء،
يصادفُ هذا العام الذكرى المئويّة لنهاية الحرب العالميّة الأولى: صراعٌ أعادَ تشكيل وجه أوروبا والعالم بأسره، مع ظهور دول جديدة حلّت مكان الإمبراطوريّات القديمة. يمكننا، من رماد الحرب الكبيرة، استخراج إنذارين لم تفهمهما البشريّة فورًا للأسف، فتوصّلت في غضون عشرين عامًا، إلى خوضِ صراع جديد أكثر تدميرًا من سابقه. الإنذار الأوّل هو أن الانتصار لا يعني أبدًا إهانة الخصم المهزوم. والسلام لا يُبنى كتثبيتٍ لسلطةِ الظافِر على المهزوم. ليست شريعة الخوف التي تردع عن العدوان في المستقبل، إنّما قوّة التفهّم العقلاني الوديع، التي تدفع إلى الحوار والتفهّم المتبادل لرأب الخلافات[1]. ومن هنا ينبثق الإنذار الثاني: السلام يتشدّد عندما يكون باستطاعة الدول أن تتواجه بجوّ من المساواة. وقد استنتجه ببداهة، قبل قرن –تمامًا مثل اليوم- رئيسُ الولايات المتّحدة آنذاك توماس وودرو ويلسن، حين اقترح تأسيس جمعيّة عامّة للأمم تهدف إلى دعم ضمانات متبادلة، لجميع الدول، الكبيرة والصغيرة دون تمييز، للحرّية وللسلامة الإقليمية. فوُضِعَت هكذا أسسُ الدبلوماسيّة المتعدّدة الأطراف، التي اكتسبت على مرّ السنين دورًا وتأثيرًا متزايدًا وسط المجتمع الدولي بأسره.
إن العلاقات بين الدول أيضًا، على غرار العلاقات بين البشر، "يجب تنظيمها ضمن الحقيقة، والعدل، والتضامن الفاعل، والحرّية"[2]. وهذا يتضمّن "المبدأ أن كلّ الجماعات السياسيّة هي متساوية بحكم طبيعتها"[3]، كما والاعتراف أيضًا بالحقوق المتبادلة، بالإضافة إلى الوفاء بواجبات كلّ منها[4]. والتمهيد الأساسيّ لمثلِ هذا التصرّف هو التأكيد على كرامة كلّ إنسان، التي إن تمّ احتقارها تقود إلى أعمال بربريّة تسيء إلى ضمير الإنسانية[5]. من جهة أخرى، "إن الاعتراف بالكرامة المتأصّلة في جميع أفراد الأسرة البشريّة وفي حقوقهم المتساوية وغير القابلة للتصرّف، يشكّلُ أساسَ الحرّية والعدالة والسلام في العالم"[6]، كما يؤكّده الإعلان العالمي لحقوق الإنسان.
أودّ أن أكرّس لقاءنا اليوم لوثيقةٍ مهمّة كهذه، بعد سبعين عامًا من اعتمادها من قِبَلِ الجمعيّة العامّة للأمم المتّحدة يوم 10 ديسمبر/كانون الأوّل 1948. في الواقع، التكلّم عن حقوق الإنسان، بالنسبة للكرسي الرسولي، يعني قبل كلّ شيء إعادة اقتراح محوريّة كرامة الإنسان، لأنّ الله أراده وخلقه على صورته ومثاله. فالربّ يسوع نفسه، حين شفى الأبرص، وأعاد النظر للأعمى، وجلس مع العشّار، وأنقذ حياة الزانية، ودعا إلى الاعتناء بالمسافر المجروح، جعلنا نفهم كم أنّ كلّ إنسان، بغضّ النظر عن وضعه الجسديّ أو الروحيّ أو الاجتماعي، يستحقّ الاحترام والاعتبار. هناك بالتالي، من منظور مسيحيّ، علاقة مهمّة بين رسالة الإنجيل والاعتراف بحقوق الإنسان، في روح الذين عمّموا الإعلان العالمي لحقوق الإنسان.
حقوق كهذه، تستمدّ شروطها المسبقة من الطبيعة التي توحّد الجنس البشريّ بكلّ موضوعيّة. وقد تمّ إعلانها كي تُنزَع جدران الفصل التي تفرّق الأسرة البشريّة، وكي تدعم ما تسمّيه العقيدة الاجتماعيّة للكنيسة الكاثوليكيّة التنمية البشريّة المتكاملة، لأنها تعتني "بتعزيز كلّ إنسان، وكلّ الإنسان (...) إلى أن تشملَ البشريّة جمعاء"[7]. أمّا النظرة الاختزاليّة للإنسان فإنها تفتح الطريق لنشر الظلم، وعدم المساواة الاجتماعية، والفساد.
ومع ذلك، تجدر الإشارة إلى أن تفسير بعض الحقوق، مع مرور السنين، ولا سيما بعد الاضطرابات الاجتماعية التي حدثت عام "ثمانية وستين"، تغيّر تدريجيًّا فتمّ إدراج العديد من "الحقوق الجديدة"، التي غالبًا ما تتناقض مع بعضها. ولم يساعد هذا الأمر على تعزيز علاقات الصداقة بين الدول[8]، لأنه تمّ تثبيت بعض المفاهيم المثيرة للجدل حول حقوق الإنسان التي تتناقض مع ثقافات العديد من البلدان، الذين لا يشعرون بالتالي أنهم مُحتَرمون في تقاليدهم الخاصة الاجتماعية-الثقافية، إنما مُهملون إزاء الاحتياجات الواقعيّة التي عليهم مواجهتها. هناك بالتالي خطرُ –متناقض بمعنى ما- إنشاءِ، باسم حقوق الإنسان نفسها، أشكال جديدة من الاستعمار الإيديولوجي من قِبَلِ الأقوياء والأغنياء على حسابِ الفقراء والضعفاء. وفي الوقت عينه، من المستَحسَن الإبقاء حاضرًا في الذاكرة، أنّه ليس من الممكن الاستشهاد بتقاليد الشعوب الفرديّة كذريعة لإهمال الاحترام الواجب للحقوق الأساسيّة المنصوص عليها في الإعلان العالمي لحقوق الإنسان.
من المؤسف أيضًا الاستنتاج كيف أن -بعد سبعين عامًا- الكثيرَ من الحقوق الأساسيّة ما زالت تُنتَهَك اليوم. وأوّلها الحقّ، لكلّ إنسان، في الحياة والحرّية والحرمة[9]. وليست الحرب وحدها أو العنف الذي يلحق بها الأذى. فهناك، في أيّامنا هذه، أشكالٌ أكثر حذاقة: أفكّر أوّلًا في الأطفال الأبرياء، الذين يتمّ التخلّص منهم قبل أن يولدوا؛ غير مرغوب فيهم أحيانًا لأنّهم مرضى أو معاقون، بسبب أنانيّة الكبار. أفكّر بالمسنين، وغالبًا ما يكونوا هم أيضًا مُستبعَدين، ولا سيّما إن كانوا مرضى، لأنهم يُعتَبرون عبئًا. أفكّر بالنساء، اللواتي غالبًا ما تعانين من العنف وسوء المعاملة أيضًا داخل أسرهنّ. أفكّر ثمّ في جميع ضحايا الاتّجار بالبشر الذي ينتهك حَظرَ جميع أشكال الاستعباد. كم من الأشخاص، ولا سيّما الهاربين من الفقر والحرب، هم ضحايا تجارة كهذه يقوم بها أشخاص عديمي الضمير؟
إن الدفاع عن الحقّ بالحياة والسلامة الجسديّة، يعني من ثمّ حماية الحقّ بالصحّة للشخص ولأعضاء عائلته. ومفعول هذا الحقّ اليوم، قد تجاوز مفهومه الأصليّ في الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، الذي كان يهدف إلى تثبيت حقّ كلّ شخص بالحصول على الرعاية الطبّية والخدمات الاجتماعيّة اللازمة[10]. وأتمنّى، في هذا المنظور، أن يتمّ اتّخاذ الاجراءات، في المحافل الدولية المختصّة، أوّلًا وقبل كلّ شيء، لتسهيل حصول الجميع على الرعاية والعلاجات الصحّية. من المهمّ توحيد الجهود كيما يتمّ تبنّي سياسات قادرة على ضمان توفير الأدوية الأساسيّة للمعوزين، بأسعار معقولة، دون إهمال البحث عن علاجات، على الرغم من كونها غير مهمّة اقتصاديًّا بالنسبة للسوق، لكنّها حاسمة لإنقاذ الأرواح، كما وتنمية هذه العلاجات.
الدفاع عن الحقّ بالحياة يعني أيضًا العمل بفعاليّة من أجل السلام، المُعترف به عالميًّا على أنّه إحدى القيم الأسمى التي يجب البحث والدفاع عنها. ومع ذلك فما تزال الصراعات المحليّة الخطيرة تُشعل مناطق مختلفة من الأرض. وتبدو الجهودُ الجماعيّة للمجتمع الدولي، والعملُ الإنساني الذي تضطلع به المنظّمات الدولية، والنداءاتُ المستمرّة من أجل السلام التي ترتفع من الأراضي الملطّخة بالدمّ، وكأنها تفقد فعاليّتها أكثر فأكثر إزاء منطق الحرب المنحرف.
إن مشهدًا كهذا لا يقدر أن يقلّل من رغبتنا بالسلام ومن عملنا من أجله، مدركين أنّ التنمية المتكاملة للإنسان، من دون هذه الرغبة، تصبح غير قابلة للتحقيق.
إن النزعَ الكامل للسلاح يرتبط ارتباطًا وثيقًا بالتنمية المتكاملة للإنسان. والبحثُ عن السلام كشرط مسبق للتنمية، من جهة أخرى، يعني محاربة الظلم والقضاء، بشكل غير عنيف، على أسباب الخلاف التي تقود إلى الحروب. فانتشار الأسلحة يؤدّي بوضوح إلى تفاقم حالات الصراع، ويتضمّن تكاليف بشريّة ومادّية ضخمة تزعزع التنمية والبحث عن سلامٍ دائم. والنتيجة التاريخية التي تمّ التوصّل إليها العام الماضي، باعتماد معاهدة حظر الأسلحة النووية، في نهاية مؤتمر الأمم المتّحدة الذي يهدف إلى التفاوض حول صكّ يُلزم قانونيًّا بحظر الأسلحة النوويّة، تبيّن كم أنّ الرغبة بالسلام ما زالت حيّة. وتعزيز ثقافة السلام من أجل تنمية متكاملة يتطلّب مثابرة الجهود باتّجاه نزعِ السلاح والحدّ من استخدام القوّة المسلّحة في إدارة الشؤون الدوليّة. لذا أودّ أن أشجّع على حوار سلميّ حول الموضوع، وعلى أوسع نطاق ممكن، يتفادى استقطابات المجتمع الدولي حول مسألة حسّاسة للغاية كهذه. إن كلّ جهد في هذا الاتّجاه، مهما كان متواضعًا، يمثل نتيجة مهمّة للبشريّة.
لقد وقّع الكرسي الرسولي من جهته وصدّق، باسم دولة حاضرة الفاتيكان ونيابة عنها، معاهدةَ حظرِ الأسلحة النوويّة، وفق المنظور الذي صاغه القدّيس يوحنا الثالث والعشرون في السلام في الأرض، والذي ينصّ على أن "العدل، والحكمة، والإنسانية، تطالب بوقف سباق التسلّح، وبالحدّ من الأسلحة الموجودة بتزامنٍ وعلى نحوٍ متبادل؛ وبحظر الأسلحة النوويّة"[11]. في الواقع، حتى "لو كان من الصعب الاقتناع بوجود أشخاص قادرين على تحمّل مسؤوليّة الدمار والآلام التي يمكن أن تسبّبها الحرب، فليس من المستبعد أن يقدر أمرٌ، لا يمكن التنبّؤ به ولا يمكن السيطرة عليه، أن يؤدّي إلى الشرارة التي تحرّك جهاز الحرب"[12].
إن الكرسي الرسولي يؤكّد بالتالي مجدّدًا "اقتناعه بأنه لا ينبغي حلّ أيّ نزاعات بين الشعوب باللجوء إلى الأسلحة؛ إنما من خلال التفاوض"[13]. ومن جهة أخرى، أن التصنيع المستمرّ للأسلحة المتقدّمة والمتقنة، وامتداد العديد من محاور الصراع –التي سمّيتها أكثر من مرّة "حرب عالميّة ثالثة على أجزاء"-، لا يمكنه إلّا أن يجعلنا نكرّر كلمات سلفي القدّيس: "من المستحيل، إنسانيا، الاعتقاد أن الحرب، في عصرنا الذرّي، هي الوسيلة المناسبة لتحقيق العدالة. (...) ومع ذلك يمكننا أن نرجو بأن يكتشف البشرُ، على نحو أفضل، عبر اللقاء والتفاوض، الروابطَ التي تربطهم ببعضهم، التي تنبع من طبيعتهم الإنسانية المشتركة، وأن يكتشفوا أيضًا أن إحدى أهمّ متطلّبات إنسانيّتهم المشتركة هي أن يسود بينهم وبين شعوبهم، لا الخوف، إنما الحبّ: الذي يتجسّد من خلال التعاون الودّي، والمتعدّد الأوجه، والذي يحمل الكثير من الخيرات"[14].
ومن الأهمية بمكان، في هذا المنظور، دعم أي محاولة للحوار في الشبه الجزيرة الكوريّة، بهدف إيجاد طرق جديدة لتخطّي الخلافات الحاليّة، وزيادة الثقة المتبادلة، وضمان مستقبل من السلام للشعب الكوري وللعالم بأسره.
من المهمّ أيضًا متابعة مختلف مبادرات السلام الحاليّة من أجل سوريا، في مناخ استباقيّ من ثقة أكبر بين الأطراف، كي يتمّ أخيرًا وضع نهاية للصراع الطويل الذي أغرق البلد وتسبّب في معاناة هائلة. على أمل أن يكون قد حان وقت البناء، بعد الكثير من الدمار. لكن، أكثر من بناء الحجر، من الضروريّ بناء القلوب، وإعادة نسج شبكة الثقة المتبادلة التي تشكّل الشرط الأساسيّ لازدهار أيّ مجتمع. من الضروري بالتالي العمل على تعزيز الشروط القانونيّة، والسياسيّة، والأمنيّة، لاستئناف الحياة الاجتماعيّة، حيث يكون باستطاعة كلّ مواطن، بغضّ النظر عن انتمائه العرقيّ والدينيّ، أن يشارك في تنمية البلد. من الأهمية بمكان، في هذا النحو، أن يتمّ حماية الأقلّيات الدينيّة، ومن بينهم المسيحيّين، الذين يساهمون بنشاط، ومنذ قرون، في تاريخ سوريا.
من المهمّ أيضًا أن يعود العديد من اللاجئين الذين وجدوا ضيافة وملجأ في البلدان المجاورة، ولا سيما الأردن، ولبنان، وتركيا. إن العمل الذي قامت به هذه البلدان، والجهود التي بذلتها في أوضاع صعبة كهذه، يستحقّ تقدير المجتمع الدولي بأسره ودعمه، الذي هو مدعوّ في الوقت عينه إلى العمل على خلق الظروف اللازمة لعودة اللاجئين القادمين من سوريا. وهو التزام عليه أن يحمل مسؤوليّته فعليًّا انطلاقًا من لبنان، كيما يبقى هذا البلد الحبيب "رسالة" الاحترام والتعايش، ونموذجًا ينبغي التمثّل به، للمنطقة وللعالم بأسره.
من الضروريّ أيضًا وجود الرغبة بالحوار في العراق الحبيب، كيما تقدر مختلف العناصر العرقيّة والدينيّة أن تجد مجدّدًا طريق المصالحة والتعايش السلميّ والتعاون، كما وفي اليمن أيضًا وفي أجزاء أخرى من المنطقة، وأيضًا في أفغانستان.
أفكّر بشكل خاص بالإسرائيليّين والفلسطينيّين، عقب توتّرات الأسابيع الأخيرة. إن الكرسي الرسولي، إذ يعبّر عن أسفه على الذين ماتوا في الاشتباكات الأخيرة، يجدّد نداءه الملحّ إلى التفكير في أيّة مبادرة كيما يتم تجنّب تفاقم الخلافات، ويدعو إلى التزام مشترك باحترام الوضع الراهن، وفقًا لقرارات الأمم المتّحدة ذات الصلة، في أورشليم القدس، المدينة المقدّسة للمسيحيّين واليهود والمسلمين. سبعون سنة من الاشتباكات تجعلُ من العاجل إيجادَ حلّ سياسيّ يسمحُ بوجود دولتين مستقلّتين في المنطقة، ضمن حدود مُعترف بها دوليًّا. وعلى الرغم من الصعوبات، تبقى الرغبة بالحوار وبإعادة استئناف المفاوضات الطريق الرئيسيّة للتوصّل أخيرًا إلى تعايشٍ سلميّ بين الشعبين.
ضمن الأطر الوطنية أيضًا، ضروريّ هو الانفتاح والاستعداد على اللقاء. أفكّر لا سيّما بفنزويلا العزيز، الذي يمرّ حاليًّا بأزمة سياسيّة وإنسانيّة مأساويّة وغير مسبوقة. ويتمنّى الكرسي الرسولي، فيما يحثّ على تلبية حاجات الشعب الأساسيّة دون تأخير، أن تُهَيّئ الظروف حتى تتمكّن الانتخابات المقرّرة للسنة الحاليّة، من حلّ الصراعات القائمة، ويصبح من الممكن النظر إلى المستقبل بصفاء من جديد.
لا يجب أن ينسى المجتمع الدولي أيضًا معاناة الكثير من أجزاء القارّة الأفريقيّة، ولا سيّما جنوب السودان، وجمهوريّة كونغو الديمقراطيّة، والصومال، ونيجيريا، وجمهوريّة أفريقيا الوسطى، حيث الحقّ بالحياة هو مهدّد بسبب الاستغلال العشوائي للموارد، والارهاب، وانتشار الجماعات المسلّحة والصراعات الدائمة. لا يكفي إظهار الاستياء إزاء الكثير من العنف. إنما على كلّ فرد أن يعمل بمجاله الخاصّ، وبنشاط، على إزالة أسباب البؤس وبناء جسور الأخوّة، التي هي الشرط الأساسيّ لتنمية إنسانيّة أصيلة.
من المُلحّ أيضًا العمل المشترك على بناء جسور في أوكرانيا. فقد حصد العام الذي انطوى للتوّ ضحايا جديدة في الصراع الذي يعاني منه البلد، والذي ما زال يسبّب معاناة كبيرة للشعب، ولاسيّما للأسر المقيمة في المناطق المتضرّرة من الحرب، والتي فقدت أحبّاءها، ومنهم الكثير من الأطفال.
أودّ أن أذكر الأسرة بالتحديد بشكل خاص. إن الحقّ بتأسيس أسرة، التي هي "نواة المجتمع الطبيعيّة والأساسيّة، [والتي] لها الحقّ في أن يحميها المجتمع والدولة"[15]، يعترف به في الواقع إعلان الـ 1948 نفسه. وللأسف، من المعروف كيف أن، لا سيّما في الغرب، الأسرة تُعتَبَر مؤسّسة قد تمّ تخطّيها. فاليوم، عوًضا عن الاستقرار في مشروع نهائيّ، يتمّ تفضيل العلاقات العابرة. لكنّ البيت المبنيّ على رمل العلاقات الهشّة والمتقلّبة لا يثبت. من الضروريّ وجود صخرة توضَعُ عليها أسسٌ متينة. والصخرة هي شركة الحبّ تلك، الأمينة والدائمة، التي تجمع الرجل والمرأة؛ شركة لها جمال جدّي وبسيط، ولها طابع مقدّس لا يمكن انتهاكه، ودور طبيعي في النظام الاجتماعي[16]. لذا فأعتبر أنّه من المُلحّ تطبيق سياسات حقيقيّة لدعم الأسرة، التي يتعلّق بها، علاوة على ذلك، مستقبل الدول وتنميتها. فمن دونها لا يمكن بناء مجتمع قادر على مواجهة تحدّيات المستقبل. وعدم الاهتمام بالأسر يحمل في طيّاته عاقبة مأساويّة أخرى –حاليّة بشكل خاص في بعض المناطق- ألا وهي انخفاض معدّل المواليد. إنّنا نعيش شتاءً ديموغرافيا حقيقيا! وهو علامة لمجتمعات تتعب في مكافحة التحدّيات الحالّية وتخاف أكثر فأكثر من المستقبل، وتنتهي بالانغلاق على أنفسها.
في الوقت عينه، لا يمكننا أن ننسى أوضاع أسر مفكّكة بسبب الفقر، والحروب والهجرة. فكثيرًا ما نرى أمامنا مأساة الأطفال الذين يعبرون الحدود التي تفصل جنوب العالم عن شماله، وغالبًا ما يكونون ضحايا الاتّجار بالبشر.
نتحدّث اليوم كثيرًا عن المهجّرين والهجرة، وأحيانًا فقط بهدفِ خلق مخاوف موروثة. لا يجب أن ننسى أنه لطالما وجدت الهجرة. وتاريخ الخلاص، في التقليد اليهودي-المسيحي، هو بشكل أساسيّ تاريخ هجرة. لا يجب أن ننسى أيضًا أن حرّية التنقّل، مثل حرّية ترك البلد والعودة إليه، هي من حقوق الإنسان الأساسية[17]. ينبغي بالتالي الابتعاد عن الكلام الشائع حول هذا الموضوع والانطلاق من الاعتبار الأساسيّ أن أمامنا يوجد، قبل كلّ شيء، أشخاص.
إن هذا ما أردت أن أؤكّده عبر رسالة اليوم العالمي للسلام، الذي احتفلنا به الأوّل من يناير/كانون الثاني الماضي، والذي حمل عنوان: "مهجّرون ولاجئون: رجال ونساء يبحثون عن السلام". علمًا أنه ليس لدى جميع المهجّرين على الدوام نوايا حسنة، لا يمكننا أن ننسى أن أغلبيّتهم يفضلون البقاء في أرضهم، فيما يجدون أنفسهم مُجبرين على تركها "بسبب التمييز، والاضطهاد، والفقر والتدهور البيئي. (...) إن استقبال الآخر يتطلّب التزامًا ملموسًا، وسلسلة مساعدات ورفق، وانتباه ساهر ومتفهّم، وتدبير مسؤول لأوضاع جديدة معقّدة، تضاف أحيانًا على أوضاع أُخَر ومشاكل عديدة موجودة، فضلًا عن أن الموارد هي محدودة على الدوام. باستطاعة الحكّام، عبر ممارسة فضيلة الفطنة، أن يستقبلوا ويعزّزوا ويحموا ويدمجوا هؤلاء، واضعين تدابير عمليّة، ”ضمن الحدود التي يرسمها الخير العام بمفهومه الصحيح، كي يسمح بهذا الدمج“ (السلام في الأرض، 57). فلهؤلاء مسؤوليّة محدّدة تجاه مجتمعاتهم الخاصة، التي ينبغي عليهم ضمان حقوقها وتنميتها المتناغمة، كي لا يكونوا مثل الباني الجاهل الذي أخطأ بالحسابات ولم يستطع أن يكمل البرج الذي شرع ببنائه (را. لو 14، 28- 30)"[18].
أودّ أن أشكر مجدّدا سلطات هذه البلدان التي عملت قصارى جهدها خلال هذه السنوات لتقديم المساعدة للمهجّرين العديدين الذين قدِموا أراضيهم. أفكّر قبل كلّ شيء في عمل الكثير من البلدان، في آسيا وأفريقيا والأميركتين، الذين يستقبلون ويساعدون الكثير من الأشخاص. وما زال حيًّا في قلبي اللقاء الذي عشته في دكّا مع بعض الأشخاص المنتمين إلى الشعب الروهنجي، وأرغب في تجديد مشاعر الامتنان للسلطات البنغلادشية على المساعدة التي تقدّمها لهم على أراضيها.
أرغب من ثمّ أن أعبّر عن امتنان خاص لإيطاليا التي أظهرت عن قلبٍ منفتح وسخيّ، وعرفت كيف تقدّم أيضًا أمثلة إدماج إيجابيّة. أمنيتي هي ألّا تقودُ الصعوباتُ التي مرّ بها البلد في السنين الأخيرة والتي لا تزال تبعاتها حاليّة، إلى الانغلاق، بل إلى اكتشاف جديد لتلك الجذور والتقاليد التي غذّت تاريخ البلد الغنيّ، والتي تشكّل كنزًا لا يُقدّر بثمن، يجبُ تقديمه للعالم بأسره. كذلك، أعبّر عن تقديري للجهود التي قامت بها بلدان أوروبية أخرى، ولا سيّما اليونان وألمانيا. لا يجب أن ننسى أن الكثير من اللاجئين والمهجّرين يحاولون الوصول إلى أوروبا لأنّهم يعلمون أنه بإمكانهم أن يجدوا فيها السلام والأمان، اللذين هما ثمرة مسيرة طويلة نتجت عن المُثُل العليا للآباء المؤسّسين للمشروع الأوروبي بعد الحرب العالميّة الثانية. ينبغي أن تفتخر أوروبا بهذا التراث الذي يقوم على مبادئ معيّنة وعلى رؤية للإنسان تقوم على أساس تاريخه الألفيّ، مستوحاة من المفهوم المسيحيّ للإنسان. إن وصول المهجّرين يجب أن يشجّعها على إعادة اكتشاف تراثها الخاصّ الثقافيّ والدينيّ، فتقدر في الوقت عينه، إذ تعي من جديد على القِيم التي تأسّست عليها، أن تحافظ على تقاليدها، وتبقى مكانًا مضيافًا، يبشّر بالسلام والتنمية.
لقد تباحثت السلطات والمنظّمات الدوليّة والمجتمعات المدنيّة خلال العام الماضي حول المبادئ الأساسيّة، والأولويّات، وأنسب الطرق لمعالجة حركة الهجرة والأوضاع التي طال أمدها والتي تتعلّق باللاجئين. وقد أطلقت الأمم المتّحدة، بعد إعلان نيويورك بشأن اللاجئين والمهجّرين سنة 2016، عمليّات إعداد بهدف اعتماد ميثاقين عالميّين، أحدهما بشأن اللاجئين والآخر من أجل هجرة آمنة ومنظّمة ومنتظمة.
يتمنّى الكرسي الرسولي أن تتوصّل هذه الجهود، عبر المفاوضات التي ستفتتح قريبا، إلى نتائج تليق بمجتمع دوليّ يزداد ترابطًا بعضه ببعضه، ويقوم على مبادئ التضامن والمساعدة المتبادلة. ففي الإطار الدولي الحالي، لا تنقص الإمكانيات والوسائل الكفيلة بأن تضمن لكلّ رجل وكلّ امرأة تعيش على الأرض ظروفًا معيشيّة تليق بالإنسان.
وقد اقترحت، في رسالة اليوم العالمي للسلام لهذا العام، أربعة "مراحل أساسية" للعمل: استقبال، حماية، تعزيز وإدماج[19]. أودّ أن أتوقّف بالأخصّ عند هذه الأخيرة، التي تواجه مواقف مختلفة على ضوء تقييمات وخبرات وانشغالات وقناعات عديدة. إن الادماج هو "عمليّة مزدوجة الاتّجاه"، ذات حقوق وواجبات متبادلة. فالذي يستضيف هو في الواقع مدعوّ إلى تعزيز التنمية البشريّة المتكاملة، فيما أنه يُطلب من الذي يتمّ ضيافته التوافقَ، الذي لا غنى عنه، مع قوانين البلد المُضيف، كما واحترام المبادئ المحدّدة لهويّته. على كلّ عمليّة إدماج أن تضع دومًا حمايةَ الأشخاص وتعزيزَهم، ولا سيّما الذين يمرّون بأوضاع هشّة، في محور القوانين التي تتعلّق بمختلف جوانب الحياة السياسيّة والاجتماعيّة.
إن الكرسي الرسولي لا ينوي التدخّل بالقرارات التي تعود إلى الدول التي تحملُ مسؤوليّة الضيافة الأولى، على ضوء أوضاعها الخاصة السياسيّة والاجتماعيّة والاقتصاديّة، كما وإمكانيّاتها وقدراتها الخاصّة على الضيافة والإدماج. لكنّه يعتبر أنه من واجبه أن يلعب دور "المُذكِّر" بالمبادئ الإنسانيّة والأخويّة، التي عليها يقوم كلّ مجتمع متماسك ومتناغم. وفي هذا المنظور، من المهمّ ألّا ننسى التفاعل بين الجماعات الدينية، سواء كانت مؤسّسية أو على مستوى الجمعيّات، التي باستطاعتها أن تلعب دورا قيّمًا في تعزيز الرعاية والحماية، وفي الوساطة الاجتماعيّة والثقافيّة، وفي التهدئة والإدماج.
ومن بين حقوق الإنسان التي أودّ أن أذكّر بها اليوم هناك الحقّ في حرّية التفكير، والضمير، والدين، الذي يشمل حرّية اعتناق دين آخر[20]. معروف من المؤسف كم أنه غالبًا ما يتمّ تجاهل الحقّ في الحرّية الدينية، وكثيرًا ما يصبح الدين مناسبةً لتبريرٍ إيديولوجيّ لأشكالٍ جديدة من التطرّف، أو ذريعة للتهميش الاجتماعي، هذا إن لم يكن لأشكالِ اضطهادٍ للمؤمنين. إن بناء مجتمعات شاملة للجميع يتطلّبُ كشرط له فهمًا كاملًا للإنسان الذي يمكنه أن يشعر بأنه مقبول بالفعل عندما يُعترف بِه ويُقبل بجميعِ الأبعادِ التي تكوّن هويّته، بما في ذلك الدينية.
في النهاية، أودّ التذكير بأهمّية الحقّ في العمل. فليس هناك من سلام ولا من تنمية إذا حُرِم الإنسانُ من إمكانيّة المساهمة شخصيّا في بناء الخير العام، عبر عمله الشخصيّ. ومن المؤلم أن نستنتج كيف أن العمل هو، في أجزاء كثيرة من العالم، خيرٌ من الصعب أن يتوفّر. وقليلة هي أحيانًا فرصُ وجودِ عمل، ولا سيما للشباب. وغالبًا ما يكون من السهل فقدانه، ليس فقط بسبب عواقب تناوب الدورات الاقتصادية، إنما أيضًا بسبب الاستخدام التدريجي لتكنولوجيّات وآلات متقنة ودقيقة قادرة على أن تحلّ مكان الانسان. وإذا كان هناك، من جهة، توزيع غير متكافئ لفرص العمل، فمن جهة أخرى، هناك الميل إلى مطالبة العامل بوتيرة عملٍ متزايدة على الدوام. فقد قادت متطلّبات الربح التي تُمليها العولمة، إلى تخفيضٍ تدريجيّ لساعات وأيام الراحة، ونتج عن ذلك أنّنا قد خسرنا بُعدًا أساسيًّا للحياة –بُعد الراحة- وهو الذي يعيد إلى الشخص قواه ليس فقط الجسديّة، إنما أيضًا الروحيّة. اللهُ نفسُه استراح في اليوم السابع: وباركه وقدّسه "لأَنَّه فيه اَستَراحَ مِن كُلِّ عَمَلِه الَّذي عَمِلَه خالِقًا" (تك 2، 3). والإنسانُ، عبر تناوب التعب والراحة، يشاركُ في "تقديس الوقت" الذي قام به الله ويُنبِل عملَه، إذ يخرجه من ديناميّات متكرّرة في حياة يوميّة قاحلة لا تعرف الراحة.
هناك من ثمّ مصدر قلق خاصّ وهي البيانات التي نشرتها منظّمة العمل العالميّة مؤخّرًا بشأن زيادة عدد الأطفال العمّال وعدد ضحايا أشكال جديدة من العبودية. وما زالت آفة عمالة الأطفال تهدّد جدّيًا التنمية النفسيّة-الجسديّة لدى الأطفال، وتحرمهم من أفراح الطفولة، حاصدة ضحايا أبرياء. ليس من الممكن التفكير في تصميم مستقبل أفضل، ولا التمنّي ببناء مجتمع أكثر شمولًا، إذا ما استمرّت نماذج اقتصادية تتطلّع إلى الربح وإلى استغلال الضعفاء: الأطفال على سبيل المثال. يجب أن تكون إزالةُ الأسباب الهيكليّة لآفة كهذه، أولويّةَ الحكومات والمنظّمات الدولية، المدعوّة لتكثيف الجهود من أجل تبنّي استراتيجيّات متكاملة وسياسات منسّقة تهدف لإنهاء عمالة الأطفال بجميع أشكالها.
أصحاب السعادة، سيّداتي، سادتي،
إذ أذكّر بِبَعضِ الحقوق المنصوص عليها في الإعلان العالمي لسنة 1948، لا أقصد أن أهملَ ناحيةً وثيقةَ الصِلةِ بها: أنّه على كلّ فردٍ واجبات نحو المجتمع، تهدف إلى "الوفاء بالعادل من مقتضيات الفضيلة والنظام العام ورفاه الجميع في مجتمع ديمقراطي"[21]. إن التذكير العادل بحقوق كلّ إنسان، عليه أن يأخذ بعين الاعتبار أن كلّ فرد هو جزء من هيئة أكبر منه. فمجتمعاتنا أيضًا تتمتّع بصحّة جيّدة، مثلَ أيّ جسم بشريّ، إذا قام كلّ عضوٍ بعمله الخاص، مدركًا أنّه في خدمة الخير العام.
ومن الواجبات الملحّة بصفة خاصّة اليوم، هو الاهتمام بأرضنا. نعرف أن الطبيعة تقدر أن تكون هي نفسها دامية حتى عندما لا يكون هذا من مسؤوليّة الإنسان. وقد رأينا هذا في السنة الأخيرة عبر الهزّات الأرضيّة التي ضربت مناطق مختلفة من الأرض، لا سيّما المكسيك في الأشهر الأخيرة، وإيران، حاصدة ضحايا عديدة، كما وعبر الأعاصير التي أضرّت بالعديدَ من بلدان منطقة البحر الكاريبي وحتى سواحل الولايات المتّحدة، والتي ضربت مؤخّرا الفلبّين. لكن، يجب ألّا ننسى أن هناك أيضًا مسؤوليّة رئيسيّة للإنسان في التفاعل مع الطبيعة. فالتغيّر المناخي، مع الارتفاع العام في درجات الحرارة، والتأثيرات المدمّرة التي تتضمّنها، هي أيضًا نتيجة العمل البشريّ. من الواجب بالتالي، وفي جهد مشترك، مواجهة مسؤوليّة ترك أرض أكثر جمالًا وصالحة للعيش، للأجيال الصاعدة، عبر العمل، على ضوء الالتزامات المتّفق عليها في باريس في عام 2015، للحدّ من انبعاثات الغاز الضارّة بالغلاف الجوّي، والمضرّة بصحّة الإنسان.
يمكننا تشبيهه الروح الذي يجب أن يحرّك الأفراد والأمم في هذا العمل، بروح بنّائي كاتدرائيات العصور الوسطى التي تملأ أوروبا. هذه المباني الرائعة تروي أهمّية مشاركة كلّ فرد في عمل قادر أن يتخطّى حدودَ الزمن. كان يعلم باني الكاتدرائيات أنّه لن يرى نهاية عمله. ومع ذلك عمل بنشاط، مدركًا أنّه جزء من مشروع، سوف يتمتّع به الأبناء، الذين -بدورهم- قد يقومون بتجميله وتوسيعه من أجل أبنائهم. إن كلّ امرأة وكلّ رجل في هذا العالم –ولاسيّما مَن له مسؤوليّة السلطة- هو مدعوّ لتنمية الروح نفسه، روح الخدمة والتضامن بين الأجيل، ولأن يكون هكذا علامة رجاء لعالمنا المضطرب.
مع هذه الاعتبارات، أجدّد أمنيتي لكلّ منكم، ولأسركم ولشعوبكم، بعامٍ جديد غنيّ بالفرح والرجاء والسلام. شكرًا.
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[1] را. يوحنا الثالث والعشرون، الرسالة العامة "السلام في الأرض"، 11 أبريل/نيسان 1963، 67.
[2] نفس المرجع، 47.
[3] نفس المرجع، 49.
[4] را. نفس المرجع، 51.
[5] را. الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، 10 ديسمبر/كانون الأوّل 1948.
[6] نفس المرجع، تمهيد.
[7] بولس السادس، الرسالة العامة "ترقي الشعوب"، 26 مارس/آذار 1967، 14.
[8] را. الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، تمهيد.
[9] را. نفس المرجع، مادة 3.
[10] را. نفس المرجع، مادة 25.
[11] السلام في الأرض، 60.
[12] نفس المرجع.
[13] نفس المرجع، 67.
[14] نفس المرجع.
[15] الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، مادة 16.
[16] را. بولس السادس، كلمة البابا بمناسبة زيارة بازليك سيدة البشارة، الناصرة، 5 يناير/كانون الثاني 1964.
[17] را. الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، مادة 13.
[18] فرنسيس، رسالة البابا بمناسبة اليوم العالمي للسلام الواحد والخمسين، 13 نوفمبر/تشرين الثاني 2017، 1.
[19] نفس المرجع، 4.
[20] را. الإعلان العالمي لحقوق الإنسان، مادة 18.
[21] نفس المرجع، مادة 29.
[00023-AR.01] [Testo originale: Italiano]
[B0013-XX.02]