Messaggio del Santo Padre
Traduzione in lingua inglese
Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Mons. Vincenzo Paglia, e a tutti i partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, organizzato presso l’Aula Vecchia del Sinodo in Vaticano il 16 e 17 novembre 2017:
Messaggio del Santo Padre
Al Venerato Fratello
Mons. Vincenzo Paglia
Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
Invio il mio cordiale saluto a Lei e a tutti i partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la Vita.
Il vostro incontro si concentrerà sulle domande che riguardano la fine della vita terrena. Sono domande che hanno sempre interpellato l’umanità, ma oggi assumono forme nuove per l’evoluzione delle conoscenze e degli strumenti tecnici resi disponibili dall’ingegno umano. La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona.
Il Papa Pio XII, in un memorabile discorso rivolto 60 anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],1027-1033). È dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure” (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, IV: Acta Apostolicae Sedis LXXII [1980], 542-552). L’aspetto peculiare di tale criterio è che prende in considerazione «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali» (ibid.). Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”.
È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.
Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo.
Va poi notato il fatto che questi processi valutativi sono sottoposti al condizionamento del crescente divario di opportunità, favorito dall’azione combinata della potenza tecnoscientifica e degli interessi economici. Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura.
Nella complessità determinata dall’incidenza di questi diversi fattori sulla pratica clinica, ma anche sulla cultura della medicina in generale, occorre dunque tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile, come chiaramente appare nella pagina evangelica del Samaritano (cfr Luca 10,25-37). Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. Ciascuno dia amore nel modo che gli è proprio: come padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, medico o infermiere. Ma lo dia! E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine.
In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società. Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede questa ampia visione e uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete.
Nella speranza che queste riflessioni possano esservi di aiuto, vi auguro di cuore che il vostro incontro si svolga in un clima sereno e costruttivo; che possiate individuare le vie più adeguate per affrontare queste delicate questioni, in vista del bene di tutti coloro che incontrate e con cui collaborate nella vostra esigente professione.
Il Signore vi benedica e la Madonna vi protegga.
Dal Vaticano, 7 novembre 2017
FRANCESCO
[01721-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
To My Venerable Brother
Archbishop Vincenzo Paglia
President of the Pontifical Academy for Life
I extend my cordial greetings to you and to all the participants in the European Regional Meeting of the World Medical Association on end-of-life issues, held in the Vatican in conjunction with the Pontifical Academy for Life.
Your meeting will address questions dealing with the end of earthly life. They are questions that have always challenged humanity, but that today take on new forms by reason of increased knowledge and the development of new technical tools. The growing therapeutic capabilities of medical science have made it possible to eliminate many diseases, to improve health and to prolong people’s life span. While these developments have proved quite positive, it has also become possible nowadays to extend life by means that were inconceivable in the past. Surgery and other medical interventions have become ever more effective, but they are not always beneficial: they can sustain, or even replace, failing vital functions, but that is not the same as promoting health. Greater wisdom is called for today, because of the temptation to insist on treatments that have powerful effects on the body, yet at times do not serve the integral good of the person.
Some sixty years ago, Pope Pius XII, in a memorable address to anaesthesiologists and intensive care specialists, stated that there is no obligation to have recourse in all circumstances to every possible remedy and that, in some specific cases, it is permissible to refrain from their use (cf. AAS XLIX [1957], 1027-1033). Consequently, it is morally licit to decide not to adopt therapeutic measures, or to discontinue them, when their use does not meet that ethical and humanistic standard that would later be called “due proportion in the use of remedies” (cf. CONGREGATION FOR THE DOCTRINE OF THE FAITH, Declaration on Euthanasia, 5 May 1980, IV: AAS LXXII [1980], 542-552). The specific element of this criterion is that it considers “the result that can be expected, taking into account the state of the sick person and his or her physical and moral resources” (ibid.). It thus makes possible a decision that is morally qualified as withdrawal of “overzealous treatment”.
Such a decision responsibly acknowledges the limitations of our mortality, once it becomes clear that opposition to it is futile. “Here one does not will to cause death; one’s inability to impede it is merely accepted” (Catechism of the Catholic Church, No. 2278). This difference of perspective restores humanity to the accompaniment of the dying, while not attempting to justify the suppression of the living. It is clear that not adopting, or else suspending, disproportionate measures, means avoiding overzealous treatment; from an ethical standpoint, it is completely different from euthanasia, which is always wrong, in that the intent of euthanasia is to end life and cause death.
Needless to say, in the face of critical situations and in clinical practice, the factors that come into play are often difficult to evaluate. To determine whether a clinically appropriate medical intervention is actually proportionate, the mechanical application of a general rule is not sufficient. There needs to be a careful discernment of the moral object, the attending circumstances, and the intentions of those involved. In caring for and accompanying a given patient, the personal and relational elements in his or her life and death – which is after all the last moment in life – must be given a consideration befitting human dignity. In this process, the patient has the primary role. The Catechism of the Catholic Church makes this clear: “The decisions should be made by the patient if he is competent and able” (loc. cit.). The patient, first and foremost, has the right, obviously in dialogue with medical professionals, to evaluate a proposed treatment and to judge its actual proportionality in his or her concrete case, and necessarily refusing it if such proportionality is judged lacking. That evaluation is not easy to make in today's medical context, where the doctor-patient relationship has become increasingly fragmented and medical care involves any number of technological and organizational aspects.
It should also be noted that these processes of evaluation are conditioned by the growing gap in healthcare possibilities resulting from the combination of technical and scientific capability and economic interests. Increasingly sophisticated and costly treatments are available to ever more limited and privileged segments of the population, and this raises questions about the sustainability of healthcare delivery and about what might be called a systemic tendency toward growing inequality in health care. This tendency is clearly visible at a global level, particularly when different continents are compared. But it is also present within the more wealthy countries, where access to healthcare risks being more dependent on individuals’ economic resources than on their actual need for treatment.
In the complexity resulting from the influence of these various factors on clinical practice, but also on medical culture in general, the supreme commandment of responsible closeness, must be kept uppermost in mind, as we see clearly from the Gospel story of the Good Samaritan (cf. Lk 10:25-37). It could be said that the categorical imperative is to never abandon the sick. The anguish associated with conditions that bring us to the threshold of human mortality, and the difficulty of the decision we have to make, may tempt us to step back from the patient. Yet this is where, more than anything else, we are called to show love and closeness, recognizing the limit that we all share and showing our solidarity. Let each of us give love in his or her own way—as a father, a mother, a son, a daughter, a brother or sister, a doctor or a nurse. But give it! And even if we know that we cannot always guarantee healing or a cure, we can and must always care for the living, without ourselves shortening their life, but also without futilely resisting their death. This approach is reflected in palliative care, which is proving most important in our culture, as it opposes what makes death most terrifying and unwelcome—pain and loneliness.
Within democratic societies, these sensitive issues must be addressed calmly, seriously and thoughtfully, in a way open to finding, to the extent possible, agreed solutions, also on the legal level. On the one hand, there is a need to take into account differing world views, ethical convictions and religious affiliations, in a climate of openness and dialogue. On the other hand, the state cannot renounce its duty to protect all those involved, defending the fundamental equality whereby everyone is recognized under law as a human being living with others in society. Particular attention must be paid to the most vulnerable, who need help in defending their own interests. If this core of values essential to coexistence is weakened, the possibility of agreeing on that recognition of the other which is the condition for all dialogue and the very life of society will also be lost. Legislation on health care also needs this broad vision and a comprehensive view of what most effectively promotes the common good in each concrete situation.
In the hope that these reflections may prove helpful, I offer you my cordial good wishes for a serene and constructive meeting. I also trust that you will find the most appropriate ways of addressing these delicate issues with a view to the good of all those whom you meet and those with whom you work in your demanding profession.
May the Lord bless you and the Virgin Mary protect you.
From the Vatican, 7 November 2017
FRANCIS
[01721-EN.01] [Original text: Italian]