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Udienza ai partecipanti al Dialogo “(Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo” (Roma, 27-29 ottobre 2017), 28.10.2017


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua polacca

Questo pomeriggio, alle ore 17.30, presso l’Aula del Sinodo, il Santo Padre Francesco ha incontrato i partecipanti al Dialogo (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo, organizzato in Vaticano, dal 27 al 29 ottobre 2017, dalla Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea (COMECE), in collaborazione con la Segreteria di Stato.

Al Dialogo partecipano rappresentanti della Chiesa e leader politici europei di alto livello per contribuire ad una riflessione costruttiva sulle sfide fondamentali del progetto europeo.

Prima dell’udienza ai partecipanti al Dialogo, il Papa ha incontrato nello Studio dell’Aula del Sinodo l’On. Franz Timmermans, Primo Vice Presidente della Commissione Europea, l’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, e la Signora Mairead McGuinness, Primo Vice Presidente del Parlamento Europeo.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha rivolto ai presenti all’Udienza:

Discorso del Santo Padre

Eminenze, Eccellenze,

Distinte Autorità,

Signore e Signori,

Sono lieto di prendere parte a questo momento conclusivo del Dialogo (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del progetto europeo, promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE). Saluto particolarmente il Presidente, Sua Eminenza il Cardinale Reinhard Marx, come pure l’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, e li ringrazio per le deferenti parole che poc’anzi mi hanno rivolto. A ciascuno di voi desidero esprimere vivo apprezzamento per essere intervenuti numerosi a questo importante ambito di discussione. Grazie!

Il Dialogo di questi giorni ha fornito l’opportunità di riflettere in modo ampio sul futuro dell’Europa da una molteplicità di angolature, grazie alla presenza tra voi di diverse personalità ecclesiali, politiche, accademiche o semplicemente provenienti dalla società civile. I giovani hanno potuto proporre le loro attese e speranze, confrontandosi con i più anziani, i quali, a loro volta, hanno avuto l’occasione di offrire il loro bagaglio carico di riflessioni ed esperienze. È significativo che questo incontro abbia voluto essere anzitutto un dialogo nello spirito di un confronto libero e aperto, attraverso il quale arricchirsi vicendevolmente e illuminare la via del futuro dell’Europa, ovvero il cammino che tutti insieme siamo chiamati a percorrere per superare le crisi che attraversiamo e affrontare le sfide che ci attendono.

Parlare di un contributo cristiano al futuro del continente significa anzitutto interrogarsi sul nostro compito come cristiani oggi, in queste terre così riccamente plasmate nel corso dei secoli dalla fede. Qual è la nostra responsabilità in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed estraneo?

Persona e comunità

Nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: «Chi è l'uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?».1 Nel proporre questo interrogativo nel Prologo della Regola, san Benedetto pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.

San Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente.

Il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone. Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone hanno volti, ci obbligano ad una responsabilità reale, fattiva, “personale”; le cifre ci occupano con ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno sempre senz’anima. Ci offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano mai nella carne.

Riconoscere che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità. Dunque il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità. Non a caso i Padri fondatori del progetto europeo scelsero proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico che andava costituendosi. La comunità è il più grande antidoto agli individualismi che caratterizzano il nostro tempo, a quella tendenza diffusa oggi in Occidente a concepirsi e a vivere in solitudine. Si fraintende il concetto di libertà, interpretandolo quasi fosse il dovere di essere soli, sciolti da qualunque legame, e di conseguenza si è costruita una società sradicata priva di senso di appartenenza e di eredità. E per me questo è grave.

I cristiani riconoscono che la loro identità è innanzitutto relazionale. Essi sono inseriti come membra di un corpo, la Chiesa (cfr 1 Cor 12,12), nel quale ciascuno con la propria identità e peculiarità partecipa liberamente all’edificazione comune. Analogamente tale relazione si dà anche nell’ambito dei rapporti interpersonali e della società civile. Dinanzi all’altro, ciascuno scopre i suoi pregi e i difetti; i suoi punti di forza e le sue debolezze: in altre parole scopre il suo volto, comprende la sua identità.

La famiglia, come prima comunità, rimane il più fondamentale luogo di tale scoperta. In essa, la diversità è esaltata e nello stesso tempo è ricompresa nell’unità. La famiglia è l’unione armonica delle differenze tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera e profonda quanto più è generativa, capace di aprirsi alla vita e agli altri. Parimenti, una comunità civile è viva se sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e nello stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro, innovazione e cultura.

Persona e comunità sono dunque le fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace.

Un luogo di dialogo

Oggi tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, dal Polo Nord al Mare Mediterraneo, non può permettersi di mancare l’opportunità di essere anzitutto un luogo di dialogo, sincero e costruttivo allo stesso tempo, in cui tutti i protagonisti hanno pari dignità. Siamo chiamati a edificare un’Europa nella quale ci si possa incontrare e confrontare a tutti i livelli, in un certo senso come lo era l’agorà antica. Tale era infatti la piazza della polis. Non solo spazio di scambio economico, ma anche cuore nevralgico della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per il benessere di tutti; luogo in cui si affacciava il tempio così che alla dimensione orizzontale della vita quotidiana non mancasse mai il respiro trascendente che fa guardare oltre l’effimero, il passeggero e il provvisorio.

Ciò ci spinge a considerare il ruolo positivo e costruttivo che in generale la religione possiede nell’edificazione della società. Penso ad esempio al contributo del dialogo interreligioso nel favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani in Europa. Purtroppo, un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un certo pensiero unico,2 assai diffuso nei consessi internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali. C’è un divorzio fra loro.

Favorire il dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità basilare della politica, e, purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla delle rivendicazioni. Da più parti si ha la sensazione che il bene comune non sia più l’obiettivo primario perseguito e tale disinteresse è percepito da molti cittadini. Trovano così terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico. Al dialogo si sostituisce, o una contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera vita democratica. In un caso si distruggono i ponti e nell’altro si costruiscono muri. E oggi l’Europa conosce ambedue.

I cristiani sono chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove esso è minacciato e sembra prevalere lo scontro. I cristiani sono chiamati a ridare dignità alla politica, intesa come massimo servizio al bene comune e non come un’occupazione di potere. Ciò richiede anche un’adeguata formazione, perché la politica non è “l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione alta di abnegazione e dedizione personale a vantaggio della comunità. Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza.

Un ambito inclusivo

Responsabilità comune dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva, libera da un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di appiattimento indifferenziato. Al contrario, si è autenticamente inclusivi allorché si sanno valorizzare le differenze, assumendole come patrimonio comune e arricchente. In questa prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un peso. I cristiani sono chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Soprattutto davanti al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può dimenticare il fatto di essere di fronte a delle persone, le quali non possono essere scelte o scartate a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino religiose.

Tuttavia, ciò non è in contrasto con il dovere di ogni autorità di governo di gestire la questione migratoria «con la virtù propria del governante, cioè la prudenza»,3 che deve tener conto tanto della necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico. Non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura. Da parte loro, gli stessi migranti non devono tralasciare l’onere grave di conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie.

Uno spazio di solidarietà

Adoperarsi per una comunità inclusiva significa edificare uno spazio di solidarietà. Essere comunità implica infatti che ci si sostenga a vicenda e dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e compiere sacrifici straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di posizioni privilegiate. Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi, non riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta – e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi opportunità per il suo avvenire.

La solidarietà, quella parola che tante volte sembra che si voglia cacciare via dal dizionario. La solidarietà, che nella prospettiva cristiana trova la sua ragion d’essere nel precetto dell’amore (cfr Mt 22,37-40), non può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura. Insieme all’altro principio cardine della sussidiarietà, essa riguarda non solo i rapporti fra gli Stati e le Regioni d’Europa. Essere una comunità solidale significa avere premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati. Ma la solidarietà esige anche che si recuperi la collaborazione e il sostegno reciproco fra le generazioni.

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità. Non solo perché in Europa si fanno pochi figli – il nostro inverno demografico -, e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere, ma anche perché ci si è scoperti incapaci di consegnare ai giovani gli strumenti materiali e culturali per affrontare il futuro. L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare ad essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza.

Tanti giovani si trovano invece smarriti davanti all’assenza di radici e di prospettive, sono sradicati, «in balia delle onde e trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14); talvolta anche “prigionieri” di adulti possessivi, che faticano a sostenere il compito che spetta loro. Grave è l’onere di educare, non solo offrendo un insieme di conoscenze tecniche e scientifiche, ma soprattutto adoperandosi «per promuovere la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della società terrena e per la edificazione di un mondo più umano».4 Ciò esige il coinvolgimento di tutta la società. L’educazione è un compito comune, che richiede l’attiva partecipazione allo stesso tempo dei genitori, della scuola e delle università, delle istituzioni religiose e della società civile. Senza educazione, non si genera cultura e s’inaridisce il tessuto vitale delle comunità.

Una sorgente di sviluppo

L’Europa che si riscopre comunità sarà sicuramente una sorgente di sviluppo per sé e per tutto il mondo. Sviluppo è da intendersi nell’accezione che il Beato Paolo VI diede a tale parola. «Per essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”».5

Certamente allo sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, che è un fattore essenziale per la dignità e la maturazione della persona. Serve lavoro e servono condizioni adeguate di lavoro. Nel secolo scorso non sono mancati esempi eloquenti di imprenditori cristiani che hanno compreso come il successo delle loro iniziative dipendeva anzitutto dalla possibilità di offrire opportunità di impiego e condizioni degne di occupazione. Occorre ripartire dallo spirito di quelle iniziative, che sono anche il miglior antidoto agli scompensi provocati da una globalizzazione senz’anima, una globalizzazione “sferica”, che, più attenta al profitto che alle persone, ha creato diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di malessere sociale.

Sarebbe opportuno anche riscoprire la necessità di una concretezza del lavoro, soprattutto per i giovani. Oggi molti tendono a rifuggire lavori in settori un tempo cruciali, perché ritenuti faticosi e poco remunerativi, dimenticando quanto essi siano indispensabili per lo sviluppo umano. Che ne sarebbe di noi, senza l’impegno delle persone che con il lavoro contribuiscono al nostro nutrimento quotidiano? Che ne sarebbe di noi senza il lavoro paziente e ingegnoso di chi tesse i vestiti che indossiamo o costruisce le case che abitiamo? Molte professioni oggi ritenute di second’ordine sono fondamentali. Lo sono dal punto di vista sociale, ma soprattutto lo sono per la soddisfazione che i lavoratori ricevono dal poter essere utili per sé e per gli altri attraverso il loro impegno quotidiano.

Spetta parimenti ai governi creare le condizioni economiche che favoriscano una sana imprenditoria e livelli adeguati di impiego. Alla politica compete specialmente riattivare un circolo virtuoso che, a partire da investimenti a favore della famiglia e dell’educazione, consenta lo sviluppo armonioso e pacifico dell’intera comunità civile.

Una promessa di pace

Infine, l’impegno dei cristiani in Europa deve costituire una promessa di pace. Fu questo il pensiero principale che animò i firmatari dei Trattati di Roma. Dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli contro popoli, era giunto il tempo di affermare il diritto alla pace.6 E’ un diritto. Ancora oggi però vediamo come la pace sia un bene fragile e le logiche particolari e nazionali rischiano di vanificare i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa.7

Tuttavia, essere operatori di pace (cfr Mt 5,9) non significa solamente adoperarsi per evitare le tensioni interne, lavorare per porre fine a numerosi conflitti che insanguinano il mondo o recare sollievo a chi soffre. Essere operatori di pace significa farsi promotori di una cultura della pace. Ciò esige amore alla verità, senza la quale non possono esistere rapporti umani autentici, e ricerca della giustizia, senza la quale la sopraffazione è la norma imperante di qualunque comunità.

La pace esige pure creatività. L’Unione Europea manterrà fede alla suo impegno di pace nella misura in cui non perderà la speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle necessità e alle attese dei propri cittadini. Cent’anni fa, proprio in questi giorni iniziava la battaglia di Caporetto, una delle più drammatiche della Grande Guerra. Essa fu l’apice di una guerra di logoramento, quale fu il primo conflitto mondiale, che ebbe il triste primato di mietere innumerevoli vittime a fronte di risibili conquiste. Da quell’evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.

Essere anima dell’Europa

Eminenze, Eccellenze,

Illustri Ospiti,

L’autore della Lettera a Diogneto afferma che «come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani».8 In questo tempo, essi sono chiamati a ridare anima all’Europa a ridestarne la coscienza, non per occupare degli spazi – questo sarebbe proselitismo -, ma per animare processi9 che generino nuovi dinamismi nella società. È proprio quanto fece san Benedetto, non a caso da Paolo VI proclamato patrono d’Europa: egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad una movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa. Egli, che fu «messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà»,10 mostri anche a noi cristiani di oggi come dalla fede sgorga sempre una speranza lieta, capace di cambiare il mondo. Grazie.

Che il Signore benedica tutti noi, benedica il nostro lavoro, benedica i nostri popoli, le nostre famiglie, i nostri giovani, i nostri anziani, benedica l’Europa.

Vi benedica Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.

Grazie tante. Grazie.

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1 Benedetto, Regola, Prologo, 14. Cfr Sal 33,13.

2 La dittatura del pensiero unico. Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctæ Marthæ, 10 aprile 2014.

3 Conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla Colombia, 10 settembre 2017.

4 Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich. Gravissimum educationis, 28 ottobre 1965, 3.

5 Paolo VI, Lett. enc. Popolorum progressio, 26 marzo 1967, 14.

6 Cfr Discorso agli studenti e al mondo accademico, Bologna, 1° ottobre 2017, n. 3.

7 Cfr ibid.

8 Lettera a Diogneto, VI.

9 Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223.

10 Paolo VI, Lett. ap. Pacis Nuntius, 24 ottobre 1964.

[01623-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Eminences, Excellences

Distinguées Autorités,

Mesdames et Messieurs,

Je suis heureux de prendre part à ce moment qui conclut le Dialogue (Re)Thinking Europe. Une contribution chrétienne à l’avenir du projet européen, promu par la Commission des Épiscopats de la Communauté Européenne (COMECE). Je salue particulièrement le Président, Son Éminence le Cardinal Reinhard Marx, ainsi que l’Honorable Antonio Tajani, Président du Parlement Européen, et je les remercie pour les paroles déférentes qu’ils viennent de m’adresser. Je voudrais exprimer à chacun d’entre vous une vive appréciation pour avoir été nombreux à intervenir au cours de cet important cercle de discussion. Merci!

Le Dialogue de ces jours-ci a offert l’occasion de réfléchir largement sur l’avenir de l’Europe sous plusieurs angles, grâce à la présence parmi vous de diverses personnalités ecclésiales, politiques, académiques ou simplement provenant de la société civile. Les jeunes ont pu proposer leurs attentes et leurs espérances, en se confrontant avec leurs aînés, qui, à leur tour, ont eu l’occasion d’offrir leur bagage riche de réflexions et d’expériences. Il est significatif que cette rencontre ait voulu être d’abord et avant tout un dialogue dans l’esprit d’une discussion libre et ouverte, permettant de s’enrichir réciproquement et d’éclairer la voie de l’avenir de l’Europe, c’est-à-dire le chemin que tous ensemble, nous sommes appelés à parcourir pour surmonter la crise que nous traversons et pour affronter les défis qui nous attendent.

Parler d’une contribution chrétienne à l’avenir du continent signifie d’abord et avant tout s’interroger sur notre rôle en tant que chrétiens aujourd’hui, sur ces terres si magnifiquement modelées au cours des siècles par la foi. Quelle est notre responsabilité à un moment où le visage de l’Europe est toujours davantage caractérisé par une pluralité de cultures et de religions, tandis que pour beaucoup, le christianisme est perçu comme un élément du passé, lointain et étranger?

Personne et communauté

Au déclin de la civilisation antique, tandis que la splendeur de Rome devenait ces ruines que nous pouvons admirer aujourd’hui encore dans la ville, tandis que de nouveaux peuples exerçaient une pression aux frontières de l’antique Empire, un jeune a fait résonner la voix du Psalmiste: «Qui donc aime la vie et désire les jours où il verra le bonheur?» (Benoît, Règle, Prologue, 14. Cf. Ps 33, 13). En proposant cette interrogation dans le Prologue de sa Règle, saint Benoît a soumis à l’attention de ses contemporains, et aussi à la nôtre, une conception de l’homme radicalement différente de celle qui avait caractérisé le classicisme gréco-romain, et plus différente encore de celle, violente, qui avait caractérisé les invasions barbares. L’homme n’est plus simplement un civis, un citoyen doté de privilèges à consommer dans l’oisiveté; il n’est plus un miles, serviteur combattant du pouvoir régnant; surtout, il n’est plus un servus, objet d’échange dépourvu de liberté destiné uniquement au travail et au labeur.

Saint Benoît ne regarde pas la condition sociale, ni la richesse, ni le pouvoir qu’on a. Il fait appel à la nature commune de chaque être humain, qui, quelle que soit sa condition, aime certainement la vie et désire des jours heureux. Pour Benoît il n’y a pas de rôles, il y a des personnes: il n’y a pas d’adjectifs, il y a des substantifs. Voilà l’une des valeurs fondamentales que le christianisme a apportées: le sens de la personne, créée à l’image de Dieu. À partir de ce principe, se construiront les monastères, qui deviendront en même temps un berceau de la renaissance humaine, culturelle, religieuse et aussi économique du continent.

La première, et peut-être la plus grande contribution que les chrétiens puissent offrir à l’Europe d’aujourd’hui, c’est de lui rappeler qu’elle n’est pas un ensemble de nombres ou d’institutions, mais qu’elle est faite de personnes. Malheureusement, on remarque comment souvent tout débat se réduit facilement à une discussion de chiffres. Il n’y a pas les citoyens, il y a les suffrages. Il n’y a pas les migrants, il y a les quotas. Il n’y a pas les travailleurs, il y a les indicateurs économiques. Il n’y a pas les pauvres, il y a les seuils de pauvreté. Le caractère concret de la personne humaine est ainsi réduit à un principe abstrait, plus commode et plus apaisant. On en saisit la raison: les personnes ont des visages, elles nous obligent à une responsabilité réelle, active ‘‘personnelle’’; les chiffres nous occupent avec des raisonnements, certes utiles et importants, mais ils resteront toujours sans âme. Ils nous offrent l’alibi d’un désengagement, parce qu’ils ne nous touchent jamais dans la chair.

Reconnaître que l’autre est surtout une personne signifie valoriser ce qui m’unit à lui. Le fait d’être des personnes nous lie aux autres, nous fait être communauté. Donc, la deuxième contribution que les chrétiens peuvent offrir à l’avenir de l’Europe est la redécouverte du sens d’appartenance à une communauté. Ce n’est pas un hasard si les Pères fondateurs du projet européen ont choisi précisément ce mot pour identifier le nouveau sujet politique que se constituait. La communauté est le plus grand antidote contre les individualismes qui caractérisent notre temps, contre cette tendance, aujourd’hui répandue en Occident, à se considérer et à vivre dans la solitude. On comprend mal le concept de liberté, en l’interprétant presque comme s’il s’agissait du devoir d’être seuls, affranchis de tout lien, et par conséquent on a construit une société déracinée, privée du sens d’appartenance et d’héritage. Et pour moi cela est grave.

Les chrétiens reconnaissent que leur identité est de prime abord relationnelle. Ils sont insérés comme membres d’un corps, l’Église (cf. 1 Co 12, 12), dans lequel chacun, avec sa propre identité et particularité, participe librement à l’édification commune. De manière analogue, ce lien se retrouve aussi dans le domaine des relations interpersonnelles et de la société civile. Devant l’autre, chacun découvre ses qualités et ses défauts; ses points forts et ses faiblesses: en d’autres termes, il découvre son visage, comprend son identité.

La famille, en tant que première communauté, demeure le lieu le plus fondamental de cette découverte. La diversité y est exaltée et en même temps est comprise dans l’unité. La famille est l’union harmonieuse des différences entre l’homme et la femme, qui est d’autant plus authentique et profonde qu’elle est procréatrice, capable de s’ouvrir à la vie et aux autres. De même, une communauté civile est vivante si elle sait être ouverte, si elle sait accueillir la diversité et les talents de chacun et en même temps si elle sait engendrer de nouvelles vies, ainsi que du développement, du travail, de l’innovation et de la culture.

Personne et communauté sont donc les fondements de l’Europe que, en tant que chrétiens, nous voulons et pouvons contribuer à construire. Les pierres de cet édifice s’appellent: dialogue, inclusion, solidarité, développement et paix.

Un lieu de dialogue

Aujourd’hui toute l’Europe, depuis l’Atlantique jusqu’à l’Oural, du Pôle Nord à la Mer Méditerranée, ne peut se permettre de manquer l’opportunité d’être d’abord et avant tout un lieu de dialogue, à la fois sincère et constructif, dans lequel tous les protagonistes ont une dignité égale. Nous sommes appelés à édifier une Europe dans laquelle on peut se rencontrer et échanger à tous les niveaux, dans un certain sens comme l’était l’agorà antique. En effet, telle était la place de la polis. Pas uniquement un espace d’échange économique, mais aussi le cœur névralgique de la politique, siège où étaient élaborées les lois pour le bien-être de tous; endroit où l’on faisait face au temple en sorte que la dimension horizontale de la vie quotidienne ne manquait jamais de la respiration transcendante qui fait regarder au-delà de ce qui est éphémère, passager et provisoire.

Cela pousse à prendre en compte le rôle positif et constructif de la religion en général dans l’édification de la société. Je pense par exemple à la contribution du dialogue interreligieux pour favoriser la connaissance réciproque entre chrétiens et musulmans en Europe. Malheureusement, un certain préjugé laïciste, encore en vogue, n’est pas en mesure de percevoir la valeur positive pour la société du rôle public et objectif de la religion, préférant la reléguer à une sphère purement privée et sentimentale. On instaure ainsi la prédominance d’une certaine pensée unique (La dittatura del pensiero unico. Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, 10 avril 2014), assez répandue dans les réunions internationales, qui voit dans l’affirmation d’une identité religieuse un danger pour elle et pour sa propre hégémonie, en finissant ainsi par favoriser une opposition artificielle entre le droit à la liberté religieuse et d’autres droits fondamentaux. Il y a un divorce entre eux.

Favoriser le dialogue – tout dialogue -, c’est une responsabilité fondamentale de la politique, et, malheureusement, on observe trop souvent comment elle se transforme plutôt en lieu d’affrontement entre des forces opposées. La voix du dialogue est remplacée par les hurlements des revendications. À bien des endroits on a le sentiment que le bien commun n’est plus l’objectif primaire poursuivi et ce désintérêt est perçu par de nombreux citoyens. Ainsi trouvent un terrain fertile, dans beaucoup de pays, les formations extrémistes et populistes qui font de la protestation le cœur de leur message politique, sans toutefois offrir l’alternative d’un projet politique constructif. Le dialogue est remplacé ou par une opposition stérile, qui peut même mettre en danger la cohabitation civile, ou bien par une hégémonie du pouvoir politique qui emprisonne et empêche une vraie vie démocratique. Dans un cas, on détruit les ponts et dans l’autre, on construit des murs. Et aujourd’hui l’Europe connaît les deux.

Les chrétiens sont appelés à favoriser le dialogue politique, spécialement là où il est menacé et où semble prévaloir l’affrontement. Les chrétiens sont appelés à redonner de la dignité à la politique, entendue comme le plus grand service au bien commun et non comme une charge de pouvoir. Cela demande aussi une formation adéquate, car la politique n’est pas ‘‘l’art de l’improvisation’’, mais plutôt une haute expression d’abnégation et de dévouement personnel en faveur de la communauté. Être dirigeant exige des études, de la préparation et de l’expérience.

Un domaine inclusif

L’une des responsabilités communes des dirigeants, c’est de favoriser une Europe qui soit une communauté inclusive, affranchie d’une mauvaise compréhension de fond: inclusion n’est pas synonyme d’aplatissement indifférencié. Au contraire, on est authentiquement inclusif lorsqu’on sait valoriser les différences, en les assumant comme patrimoine commun et enrichissant. Dans cette perspective, les migrants sont une ressource plus qu’un poids. Les chrétiens sont appelés à méditer sérieusement l’affirmation de Jésus: «J’étais un étranger, et vous m’avez accueilli» (Mt 25, 35). Surtout devant le drame des déplacés et des réfugiés, on ne peut pas oublier le fait qu’on est devant des personnes, qui ne peuvent pas être choisies ou rejetées selon le bon vouloir, suivant les logiques politiques, économiques, voire religieuses.

Cependant, cela n’est pas en opposition avec le droit de chaque autorité de gouvernement de gérer la question migratoire «avec la vertu propre au gouvernement, c’est-à-dire la prudence» (Conférence de presse sur le vol de retour de la Colombie, 10 septembre 2017, L’Osservatore Romano, éd. en langue française, n. 38, jeudi 21 septembre 2017, p. 13), qui doit tenir compte aussi bien de la nécessité d’avoir un cœur ouvert que de la possibilité d’intégrer pleinement, au niveau social, économique et politique, ceux qui arrivent dans le pays. On ne peut pas penser que le phénomène migratoire soit un processus sans discernement et sans règles, mais on ne peut pas non plus ériger des murs d’indifférence ou de peur. De leur côté, les migrants eux-mêmes ne doivent pas négliger le devoir grave de connaître, de respecter et d’assimiler aussi la culture ainsi que les traditions de la nation qui les accueille.

Un espace de solidarité

Œuvrer pour une communauté inclusive signifie édifier un espace de solidarité. Être une communauté implique en effet qu’on se soutient mutuellement et donc qu’il ne peut y avoir seulement quelques-uns qui portent les poids et font des sacrifices extraordinaires, tandis que les autres restent retranchés dans la défense de positions privilégiées. Une Union Européenne qui, en affrontant ses crises, ne redécouvrirait pas le sens d’être une unique communauté qui se soutient et s’aide – et non un ensemble de petits groupes d’intérêt – perdrait non seulement l’un des défis les plus importants de son histoire, mais aussi l’une des plus grandes opportunités pour son avenir.

La solidarité - cette parole qu’il semble si souvent que l’on veuille l’exclure du dictionnaire- la solidarité, qui dans la perspective chrétienne trouve sa raison d’être dans le précepte de l’amour (cf. Mt 22, 37-40), ne peut qu’être la sève vitale d’une communauté vivante et mure. Avec l’autre principe cardinal de la subsidiarité, elle ne concerne pas que les relations avec les États et les Régions d’Europe. Être une communauté solidaire signifie avoir de la sollicitude envers les plus faibles de la société, envers les pauvres, envers tous ceux qui sont rejetés par les systèmes économiques et sociaux, à commencer par les personnes âgées et par les chômeurs. Mais la solidarité exige également qu’on récupère la collaboration et le soutien réciproque entre les générations.

Depuis les années soixante du siècle passé, on assiste à un conflit des générations sans précédent. En remettant aux nouvelles générations les idéaux qui ont fait la grandeur de l’Europe, on peut dire de manière hyperbolique qu’à la tradition on a préféré la trahison. Au rejet de ce qui provenait des pères a ainsi succédé le temps d’une stérilité dramatique. Non seulement parce qu’en Europe on fait peu d’enfants –notre hiver démographique -, et que ceux qui ont été privés du droit de naître sont trop nombreux, mais aussi parce qu’on s’est découvert incapable de transmettre aux jeunes les instruments matériels et culturels pour affronter l’avenir. L’Europe vit une sorte de déficit de mémoire. Redevenir une communauté solidaire signifie redécouvrir la valeur de son propre passé, pour enrichir le présent et transmettre à la postérité un avenir d’espérance.

Beaucoup de jeunes se trouvent au contraire désemparés face à l’absence de racines et de perspectives, ils sont déracinés, «secoués et menés à la dérive par tous les courants d’idées» (Ep 4, 14); parfois également ‘‘prisonniers’’ d’adultes possessifs qui ont du mal à assumer leur devoir. Elle est grave, la tâche d’éduquer non seulement en offrant un ensemble de connaissances techniques et scientifiques, mais surtout en œuvrant «pour promouvoir la personne humaine dans sa perfection, ainsi que pour assurer le bien de la société terrestre et la construction d’un monde toujours plus humain» (Concile Œcuménique Vatican II, Décl. Gravissimum educationis, 28 octobre 1965, n. 3). Cela exige l’engagement de toute la société. L’éducation est une tâche commune, qui demande la participation active concomitante des parents, de l’école et des universités, des institutions religieuses et de la société civile. Sans éducation, la culture ne se forme pas et le tissu vital des communautés se dessèche.

Une source de développement

L’Europe qui se redécouvre communauté sera sûrement une source de développement pour elle-même et pour le monde entier. Développement est à entendre dans le sens que le bienheureux Paul VI a donné à ce mot: « Pour être authentique, il doit être intégral, c'est-à-dire promouvoir tout homme et tout l'homme. Comme l'a fort justement souligné un éminent expert: "Nous n'acceptons pas de séparer l'économique de l'humain, le développement des civilisations où il s'inscrit. Ce qui compte pour nous, c'est l'homme, chaque homme, chaque groupement d'hommes, jusqu'à l'humanité tout entière"» (Paul VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 26 mars 1967, n. 14).

Certainement le travail, qui est un facteur essentiel pour la dignité et la maturation de la personne, contribue au développement de l’homme. Il faut du travail et il faut des conditions adéquates de travail. Au cours du siècle passé, n’ont pas manqué des exemples éloquents d’entrepreneurs chrétiens qui ont compris comment le succès de leurs initiatives dépendait surtout de la possibilité d’offrir des opportunités d’emploi et des conditions dignes de travail. Il faut repartir de l’esprit de ces initiatives, qui sont aussi le meilleur antidote contre les déséquilibres provoqués par une globalisation sans âme, une globalisation “sphérique”, qui, plus attentive au profit qu’aux personnes, a créé des poches diffuses de pauvreté, de chômage, d’exploitation et de mal être social.

Il serait opportun de redécouvrir également la nécessité du caractère concret du travail, surtout pour les jeunes. Aujourd’hui beaucoup tendent à fuir les travaux dans des secteurs autrefois cruciaux, car considérés comme pénibles et peu rémunérés, oubliant combien ceux-ci sont indispensables au développement humain. Que serions-nous, sans l’engagement des personnes qui, par le travail contribuent à notre subsistance quotidienne? Que serions-nous sans le travail patient et inventif de ceux qui confectionnent les vêtements que nous portons ou construisent les maisons que nous habitons? Beaucoup de professions considérées aujourd’hui comme de seconde catégorie sont fondamentales. Elles le sont du point de vue social, mais elles le sont surtout pour la satisfaction que les travailleurs reçoivent de pouvoir être utiles pour eux-mêmes et pour les autres à travers leur engagement quotidien.

Il revient pareillement aux gouvernements de créer les conditions économiques qui favorisent une saine entreprise et des niveaux adéquats d’emploi. Il est spécialement du ressort de la politique de réactiver un cercle vertueux qui, à partir des investissements en faveur de la famille et de l’éduction, permette le développement harmonieux et pacifique de la communauté civile tout entière.

Une promesse de paix

Enfin, l’engagement des chrétiens en Europe doit constituer une promesse de paix. Ce fut la pensée principale qui a animé les signataires des Traités de Rome. Après deux guerres mondiales et des violences atroces de peuples contre peuples, était arrivé le temps d’affirmer le droit à la paix (cf. Discours aux étudiants et au monde académique, Bologne, 1er octobre 2017, n. 3). C’est un droit. Cependant, aujourd’hui encore nous voyons combien la paix est un bien fragile et comment les logiques particulières et nationales risquent de rendre vains les rêves courageux des fondateurs de l’Europe (cf. Ibid.).

Toutefois, être artisans de paix (cf. Mt 5, 9) ne signifie pas seulement œuvrer pour éviter les tensions internes, travailler pour mettre fin aux nombreux conflits qui ensanglantent le monde ou bien soulager celui qui souffre. Être artisans de paix signifie se faire promoteurs d’une culture de la paix. Cela exige l’amour de la vérité, sans laquelle il ne peut y avoir de relations humaines authentiques, la recherche de la justice, sans laquelle l’oppression est la norme prédominante dans n’importe quelle communauté.

La paix exige de la pure créativité. L’Union Européenne maintiendra la foi dans son engagement pour la paix dans la mesure où elle ne perdra pas l’espérance et saura se renouveler pour répondre aux besoins et aux attentes de ses citoyens. Il y a cent ans, précisément en ces jours, commençait la bataille de Caporetto, l’une des plus dramatiques de la Grande guerre. Elle a été le point culminant de la guerre d’usure que fut le premier conflit mondial, qui eut le triste record de faucher d’innombrables victimes pour de risibles conquêtes. Depuis cet événement, nous apprenons que si l’on se retranche derrière ses propres positions, on finit par succomber. Ce n’est donc pas le moment de construire des tranchées, mais plutôt celui d’avoir le courage de travailler pour poursuivre pleinement le rêve des Pères fondateurs d’une Europe unie et unanime, une communauté de peuples désireux de partager un destin de développement et de paix.

Être l’âme de l’Europe

Éminences, Excellences,

Illustres hôtes,

L’auteur de la Lettre à Diognète affirme que « ce que l’âme est dans le corps, les chrétiens le sont dans le monde» (Lettre à Diognète, VI). En ce temps, ils sont appelés à redonner une âme à l’Europe, à réveiller sa conscience, non pas pour occuper les espaces - ce serait du prosélytisme - mais pour encourager les processus (cf. Exhort. Ap. Evangelii gaudium, n. 223) qui créent de nouveaux dynamismes dans la société. C’est précisément ce qu’a fait saint Benoît proclamé, non pas par hasard, patron de l’Europe par Paul VI: il ne s’est pas soucié d’occuper les espaces d’un monde désorienté et confus. Soutenu par la foi, il a regardé au-delà et depuis une petite grotte de Subiaco il a donné le jour à un mouvement contagieux et irrésistible qui a redessiné le visage de l’Europe. Lui, qui a été «messager de paix, artisan d’union, maître de civilisation» (Paul VI, Lett. Ap. Pacis Nuntius, 24 octobre 1964), qu’il nous montre à nous aussi chrétiens d’aujourd’hui combien de la foi jaillit une espérance joyeuse, capable de changer le monde.

Merci!

Que le Seigneur nous bénisse tous, qu’il bénisse notre travail, qu’il bénisse nos peuples, nos familles, nos jeunes, nos personnes âgées, qu’il bénisse l’Europe.

Que Dieu tout-puissant vous bénisse, le Père, le Fils et le Saint Esprit.

Merci beaucoup. Merci.

[01623-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Your Eminences,

Your Excellencies,

Distinguished Authorities,

Ladies and Gentlemen,

I am pleased to join you at the conclusion of your Dialogue on the theme (Re)Thinking Europe – a Christian Contribution to the Future of the European Project, sponsored by the Commission of the Bishops’ Conferences of the European Community (COMECE). In a particular way I greet the President of the Commission, His Eminence Cardinal Reinhard Marx, and the Honourable Antonio Tajani, President of the European Parliament, and I thank them for their kind words. To each of you I express my deep appreciation for your active contribution to this important discussion. Thank you!

In these days, your Dialogue has allowed for wide-ranging reflection on the future of Europe from a variety of viewpoints, thanks to the presence of leading figures from the ecclesial, political and academic sectors, and from civil society as a whole. The young have been able to present their expectations and hopes, and to share them with their elders, while these in turn have drawn on their own reflections and experiences. It is significant that this meeting was intended above all to be a dialogue, pursued in a spirit of openness and freedom, for the sake of mutual enrichment. It has sought to shed light on the future path of Europe, the road that all of us are called to travel in surmounting present crises and facing challenges yet to come.

To speak of a Christian contribution to the future of the continent means, before all else, to consider our task, as Christians today, in these lands which have been so richly shaped by the faith down the centuries. What is our responsibility at a time when the face of Europe is increasingly distinguished by a plurality of cultures and religions, while for many people Christianity is regarded as a thing of the past, both alien and irrelevant?

Person and community

In the twilight of the ancient world, as the glories of Rome fell into the ruins that still amaze us, and new peoples flooded across the borders of the Empire, one young man echoed anew the words of the Psalmist: “Who is the man that longs for life and desires to see good days?”1 By asking this question in the Prologue of his Rule, Saint Benedict pointed the people of his time, and ours as well, to a view of man radically different from that of classical Greco-Roman culture, and even more from the violent outlook typical of the invading barbarians. Man is no longer simply a civis, a citizen endowed with privileges to be enjoyed at leisure; no longer a miles, a soldier serving the powers of the time; and above all, no longer a servus, a commodity bereft of freedom and destined solely for hard labour.

Saint Benedict was not concerned about social status, riches or power. He appealed to the nature common to every human being, who, whatever his or her condition, longs for life and desires to see good days. For Benedict, the important thing was not functions but persons, not adjectives but nouns rather. This was one of the foundational values brought by Christianity: the sense of the person created in the image of God. This principle led to the building of the monasteries, which in time would become the cradle of the human, cultural, religious and economic rebirth of the continent.

The first and perhaps the greatest contribution that Christians can make to today’s Europe is to remind her that she is not a mass of statistics or institutions, but is made up of people. Sadly, we see how frequently issues get reduced to discussions about numbers. There are no citizens, only votes. There are no migrants, only quotas. There are no workers, only economic markers. There are no poor, only thresholds of poverty. The concrete reality of the human person is thus reduced to an abstract – and thus more comfortable and reassuring – principle. The reason for this is clear: people have faces; they force us to assume a responsibility that is real, personal and effective. Statistics, however useful and important, are about arguments; they are soulless. They offer an alibi for not getting involved, because they never touch us in the flesh.

To acknowledge that others are persons means to value what unites us to them. To be a person connects us with others; it makes us a community. The second contribution that Christians can make to the future of Europe, then, is to help recover the sense of belonging to a community. It is not by chance that the founders of the European project chose that very word to identify the new political subject coming into being. Community is the greatest antidote to the forms of individualism typical of our times, to that widespread tendency in the West to see oneself and one’s life in isolation from others. The concept of freedom is misunderstood and seen as if it were a right to be left alone, free from all bonds. As a result, a deracinated society has grown up, lacking a sense of belonging and of its own past. And for me this is serious.

Christians recognize that their identity is primarily relational. They are joined to one another as members of one body, the Church (cf. 1 Cor 12:12), and each, with his or her unique identity and gifts, freely shares in the common work of building up that body. Analogously, this relationship is also found in the areas of interpersonal relationships and civil society. By interacting with others, each one discovers his or her own qualities and defects, strengths and weaknesses. In other words, they come to know who they are, their specific identity.

The family, as the primordial community, remains the most fundamental place for this process of discovery. There, diversity is valued and at the same time brought into unity. The family is the harmonious union of the differences between man and woman, which becomes stronger and more authentic to the extent that it is fruitful, capable of opening itself to life and to others. Secular communities, likewise, are alive when they are capable of openness, embracing the differences and gifts of each person while at the same time generating new life, development, labour, innovation and culture.

Person and community are thus the foundations of the Europe that we, as Christians, want and can contribute to building. The bricks of this structure are dialogue, inclusion, solidarity, development and peace.

A place of dialogue

Today the whole of Europe, from the Atlantic to the Urals, from the North Pole to the Mediterranean, cannot miss the chance to be first and foremost a place of candid and constructive dialogue, in which all participants share equal dignity. We are called to build a Europe in which we can meet and engage at every level, much as in the ancient agorá, the main square of the polis. The latter was not just a marketplace but also the nerve centre of political life, where laws were passed for the common good. The presence of a temple dominating the square was a reminder that the horizontal dimension of daily life ought never to overlook the transcendent, which invites us to see beyond the ephemeral, the transitory and the provisional.

This leads us to reflect on the positive and constructive role that religion in general plays in the building up of society. I think, for example, of the contribution made by interreligious dialogue to greater mutual understanding between Christians and Muslims in Europe. Regrettably, a certain secularist prejudice, still in vogue, is incapable of seeing the positive value of religion’s public and objective role in society, preferring to relegate it to the realm of the merely private and sentimental. The result is the predominance of a certain groupthink,2 quite apparent in international meetings, which sees the affirmation of religious identity as a threat to itself and its dominance, and ends up promoting an ersatz conflict between the right to religious freedom and other fundamental rights. There is a dissociation between these two.

Favouring dialogue, in any form whatsoever, is a fundamental responsibility of politics. Sadly, all too often we see how politics is becoming instead a forum for clashes between opposing forces. The voice of dialogue is replaced by shouted claims and demands. One often has the feeling that the primary goal is no longer the common good, and this perception is shared by more and more citizens. Extremist and populist groups are finding fertile ground in many countries; they make protest the heart of their political message, without offering the alternative of a constructive political project. Dialogue is replaced either by a futile antagonism that can even threaten civil coexistence, or by the domination of a single political power that constrains and obstructs a true experience of democracy. In the one, bridges are burned; in the other, walls are erected. And Europe is experiencing both.

Christians are called to promote political dialogue, especially where it is threatened and where conflict seems to prevail. Christians are called to restore dignity to politics and to view politics as a lofty service to the common good, not a platform for power. This demands a suitable formation, because politics is not the “art of improvising”. Instead, it is a noble expression of self-sacrifice and personal dedication for the benefit of the community. To be a leader demands thoughtfulness, training and experience.

An inclusive milieu

Leaders together share responsibility for promoting a Europe that is an inclusive community, free of one fundamental misunderstanding: namely that inclusion does not mean downplaying differences. On the contrary, a community is truly inclusive when differences are valued and viewed as a shared source of enrichment. Seen in this way, migrants are more a resource than a burden. Christians are called to meditate seriously on Jesus’ words: “I was a stranger and you welcomed me” (Mt 25:35). Especially when faced with the tragedy of displaced persons and refugees, we must not forget that we are dealing with persons, who cannot be welcomed or rejected at our own pleasure, or in accordance with political, economic or even religious ideas.

Nor is this opposed to the duty of all government authorities to address the migration issue “with the virtue proper to governance, which is prudence”.3 Authorities should keep in mind the need for an open heart, but also their ability to provide for the full integration, on the social, economic and political level, of those entering their countries. We cannot regard the phenomenon of migration as an indiscriminate and unregulated process, but neither can we erect walls of indifference and fear. For their part, migrants must not neglect their own grave responsibility to learn, respect and assimilate the culture and traditions of the nations that welcome them.

Room for solidarity

Striving for an inclusive community means making room for solidarity. To be a community in fact entails supporting one another; bearing burdens and making extraordinary sacrifices do not fall to some few, while the rest remain entrenched in defence of their privileged positions. A European Union that, in facing its crises, fails to recover a sense of being a single community that sustains and assists its members – and not just a collection of small interest groups – would miss out not only on one of the greatest challenges of its history, but also on one of the greatest opportunities for its own future.

Solidarity… that word we so often seem to want to throw out from the dictionary. Solidarity, which from a Christian perspective finds its raison d’être in the precept of love (cf. Mt 22:37-40), has to be the lifeblood of a mature community. Together with the other cardinal principle of subsidiarity, it is not limited to relations between the states and regions of Europe. To be a solidary community means to be concerned for the most vulnerable of society, the poor and those discarded by social and economic systems, beginning with the elderly and the unemployed. At the same time, solidarity calls for a recovery of cooperation and mutual support between the generations.

An unprecedented generational conflict has been taking place since the 1960’s. In passing on to new generations the ideals that made Europe great, one could say, with a touch of hyperbole, that betrayal was preferred to tradition. The rejection of what had been passed down from earlier generations was followed by a period of dramatic sterility. Not only because Europe has fewer children – our demographic winter – and all too many were denied the right to be born, but also because there has been a failure to pass on the material and cultural tools that young people need to face the future. Europe has a kind of memory deficit. To become once more a solidary community means rediscovering the value of our own past, in order to enrich the present and to pass on a future of hope to future generations.

Instead, many young people are lost, without roots or prospects, they are uprooted, “tossed to and fro and carried about with every wind of doctrine” (Eph 4:14). At times they are even “held captive” by possessive adults who struggle to carry out their own responsibilities. It is a grave responsibility to provide an education, not only by offering technical and scientific knowledge, but above all by working “to promote the complete perfection of the human person, the good of earthly society and the building of a world that is more human”.4 This demands the involvement of society as a whole. Education is a shared duty that requires the active and combined participation of parents, schools and universities, religious and civil institutions. Without education, culture does not develop and the life of the community dries up.

A source of development

A Europe that rediscovers itself as a community will surely be a source of development for herself and for the whole world. Development must be understood in the terms laid down by Blessed Paul VI: “To be authentic, it must be well rounded; it must foster the development of each man and of the whole man. As an eminent specialist on this question has rightly said: ‘We cannot allow economics to be separated from human realities, nor development from the civilization in which it takes place. What counts for us is man – each individual man, each human group, and humanity as a whole’”.5

Work certainly contributes to human development; it is an essential factor in the dignity and growth of the person. Employment and suitable working conditions are needed. The last century provided many eloquent examples of Christian entrepreneurs who understood that the success of their ventures depended above all on the ability to provide employment opportunities and dignified working conditions. There is a need to recover the spirit of those ventures, for they are also the best antidote to the imbalances caused by a soulless globalization, a “spherical” globalization which, more attentive to profits than people, has created significant pockets of poverty, unemployment, exploitation and social unease.

It would also be helpful to recover a sense of the need to provide concrete opportunities for employment, especially to the young. Today, many people tend to shy away from certain jobs because they seem physically demanding and unprofitable, forgetting how indispensable they are for human development. Where would we be without the efforts of those whose work contributes daily to putting food on our tables? Where would we be without the patient and creative labour of those who produce the clothes we wear or build the houses in which we live? Many essential professions are now looked down upon. Yet they are essential both for society and, above all, for the satisfaction that they give to those who realize that they are being useful in themselves and for others, thanks to their daily work.

Governments also have the duty to create economic conditions that promote a healthy entrepreneurship and appropriate levels of employment. Politicians are especially responsible for restoring a virtuous circle that, starting from investments that favour the family and education, enable the harmonious and peaceful development of the entire civil community.

A promise of peace

Finally, the commitment of Christians in Europe must represent a promise of peace. This was the central concern that inspired the signatories of the Treaties of Rome. After two World Wars and atrocious acts of violence perpetrated by peoples against peoples, the time had come to affirm the right to peace.6 For it is a right. Yet today we continue to see how fragile is that peace, and how particular and national agendas risk thwarting the courageous dreams of the founders of Europe.7

Being peacemakers (cf. Mt 5:9), however, does not mean simply striving to avoid internal tensions, working to end the bloodshed and conflicts throughout our world, or relieving those who suffer. To be workers for peace entails promoting a culture of peace. This requires love for the truth, without which authentic human relationships cannot exist; it also requires the pursuit of justice, without which oppression becomes the rule in any community.

Peace also requires creativity. The European Union will remain faithful to its commitment to peace only to the extent that it does not lose hope and can renew itself in order to respond to the needs and expectations of its citizens. A hundred years ago, in these very days, the battle of Caporetto was fought, one of the most dramatic of the First World War. It was the culmination of that war of attrition, which set a sinister record in reaping countless casualties for the sake of risible gains. From that event we learn that entrenchment in one’s own positions only leads to failure. Now is not the time, then, to dig trenches, but instead to work courageously to realize the founding fathers’ dream of a united and harmonious Europe, a community of peoples desirous of sharing a future of development and peace.

To be the soul of Europe

Your Eminence, Your Excellencies,

Distinguished Guests,

The author of the Letter to Diognetus states that “what the soul is to the body, Christians are to the world”.8 In our day, Christians are called to revitalize Europe and to revive its conscience, not by occupying spaces – this would be proselytizing – but by generating processes9 capable of awakening new energies in society. This is exactly what Saint Benedict did. It was not by chance that Paul VI proclaimed him the Patron of Europe. He was not concerned to occupy spaces in a wayward and confused world. Sustained by faith, Benedict looked ahead, and from a tiny cave in Subiaco he gave birth to an exciting and irresistible movement that changed the face of Europe. May Saint Benedict, “messenger of peace, promoter of union, master of civilization”10 make clear to us, the Christians of our own time, how a joyful hope, flowing from faith, is able to change the world.

Thank you.

May the Lord bless us all, bless our work, bless our peoples, our families, our youth, our elderly, may he bless Europe.

May Almighty God bless you, the Father, the Son and the Holy Spirit.

Thank you very much. Thank you.

_________________________________

1 SAINT BENEDICT, Rule, Prologue, 14; cf. Ps 34:12.

2 La dittatura del pensiero unico, Morning Reflection in the Domus Sanctae Marthae Chapel, 10 April 2014.

3 Cf. Press Conference on the Return Flight from Colombia, 10 September 2017.

4 SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Declaration Gravissimum Educationis (28 October 1963), 3.

5 PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967), 14.

6 Cf. Address to Students and Academic Authorities, Bologna, 1 October 2017, 3.

7 Cf. ibid.

8 Op. cit., VI.

9 Cf. Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium, 223.

10 PAUL VI, Apostolic Letter Pacis Nuntius, 24 October 1964.

[01623-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Eminenzen, Exzellenzen,

sehr geehrte Vertreter des öffentlichen Lebens,

meine Damen und Herren,

es freut mich, bei dieser abschließenden Zusammenkunft des von der Kommission der Bischofskonferenzen der Europäischen Gemeinschaft (COMECE) veranstalteten Diskussionsforums (Re)Thinking Europe. Ein christlicher Beitrag zur Zukunft des europäischen Projekts teilzunehmen. Ich grüße insbesondere den Präsidenten, Seine Eminenz Kardinal Reinhard Marx, wie auch den Präsidenten des Europäischen Parlaments Antonio Tajani und ich danke ihnen für die ehrerbietigen Worte, die sie vorhin an mich gerichtet haben. Jedem von Ihnen möchte ich meine große Wertschätzung dafür zum Ausdruck bringen, dass Sie sich so zahlreich in diese wichtige Diskussionsrunde eingebracht haben. Danke!

Der Dialog dieser Tage hat die Gelegenheit dazu gegeben, dank der Anwesenheit von verschiedenen Personen unter Ihnen aus dem kirchlichen, politischen, akademischen Bereich oder einfach aus der zivilen Gesellschaft auf umfassende Weise über die Zukunft Europas aus einer Vielzahl von Blickwinkeln nachzudenken. Die Jungen haben ihre Erwartungen und Hoffnungen vorbringen und sie mit den Älteren diskutieren können, die ihrerseits die Möglichkeit hatten, ihnen ihren Erfahrungsschatz und ihre Überlegungen mitzuteilen. Es ist bezeichnend, dass diese Begegnung vor allem ein Dialog im Geist einer freien und offenen Auseinandersetzung sein wollte, durch den eine gegenseitige Bereicherung stattfinden und der Zukunftsweg Europas beleuchtet werden sollte, oder vielmehr der Weg, den wir alle zusammen aufgerufen sind zu beschreiten, um die Krisen zu überwinden, die wir durchmachen, und uns den Herausforderungen zu stellen, die auf uns warten.

Von einem christlichen Beitrag zur Zukunft des Kontinents zu sprechen, bedeutet vor allem, sich die Frage unserer Aufgabe als Christen heute in diesen im Lauf der Jahrhunderte so reich durch den Glauben geprägten Ländern zu stellen. Welche Verantwortung haben wir in einer Zeit, in der das Angesicht Europas immer mehr von einer Pluralität von Kulturen und Religionen gekennzeichnet ist, während das Christentum für viele als ein fernes und fremdes Element aus der Vergangenheit wahrgenommen wird?

Person und Gemeinschaft

Als die antike Zivilisation unterging und die Herrlichkeiten Roms zu jenen Ruinen wurden, die wir heute noch in der Stadt bewundern können, als die neuen Völker über die Grenzen des alten Reichs drängten, ließ ein junger Mann die Stimme des Psalmisten widerhallen: »Wer ist der Mensch, der das Leben liebt und gute Tage zu sehen wünscht?«.1 Mit der Formulierung dieser Fragestellung im Prolog der Regula lenkte der heilige Benedikt die Aufmerksamkeit seiner Zeitgenossen und auch die unsere auf eine Auffassung vom Menschen, die sich von derjenigen der griechisch-römischen Klassik und noch mehr von jener gewalttätigen, die für die einfallenden Barbaren charakteristisch war, radikal unterschied. Der Mensch ist nicht mehr einfach ein civis, ein mit Vorrechten ausgestatteter Bürger, an denen er sich in der Muße erfreuen kann; er ist nicht mehr ein miles, ein kämpferischer Diener des jeweiligen Machthabers; vor allem ist er nicht mehr ein servus, eine Tauschware, die der Freiheit beraubt ist und einzig für die Arbeit und die Anstrengung bestimmt ist.

Der heilige Benedikt achtet nicht auf den sozialen Stand oder auf den Reichtum oder die Macht, die jemand innehat. Er wendet sich an die gemeinsame Natur jedes Menschen, der - gleich welchen Standes - sich nach dem Leben sehnt und sich glückliche Tage wünscht. Für Benedikt gibt es keine Rollen, sondern Personen, keine Adjektive, sondern Substantive. Gerade dies ist einer der Grundwerte, den das Christentum gebracht hat: der Sinn für die Person, die nach dem Ebenbild Gottes gebildet ist. Ausgehend von diesem Grundsatz wird man Klöster bauen, die über die Zeit zur Wiege der menschlichen, kulturellen und religiösen und auch wirtschaftlichen Renaissance des Kontinents werden.

Der erste und vielleicht größte Beitrag, den die Christen dem heutigen Europa bringen können, ist es, daran zu erinnern, dass es nicht eine Ansammlung von Zahlen oder Institutionen ist, sondern aus Menschen besteht. Leider ist festzustellen, wie sich jegliche Debatte oft leicht auf eine Diskussion über Zahlen reduziert. Es gibt nicht die Bürger, es gibt die Stimmen bei Wahlen. Es gibt nicht die Migranten, es gibt die Quoten. Es gibt nicht die Arbeiter, es gibt die Wirtschaftsindikatoren. Es gibt nicht die Armen, es gibt die Armutsgrenzen. Die konkrete menschliche Person wird so auf ein abstraktes, bequemeres und beruhigenderes Prinzip reduziert. Der Grund hierfür ist verständlich: Die Personen haben Gesichter, sie verpflichten uns zu einer realen, tatkräftigen „persönlichen“ Verantwortung; die Zahlen beschäftigen uns mit Gedankengängen, die auch nützlich und wichtig sind, aber sie werden immer seelenlos bleiben. Sie bieten uns den Vorwand, um uns nicht zu engagieren, weil sie niemals unser Fleisch anrühren.

Zu erkennen, dass der andere vor allem eine Person ist, bedeutet, das wertzuschätzen, was mich mit ihm verbindet. Das Personensein bindet uns an die anderen, lässt uns Gemeinschaft werden. Der zweite Beitrag, den die Christen zur Zukunft Europas beisteuern können, ist also die Wiederentdeckung des Sinns für die Zugehörigkeit zu seiner Gemeinschaft. Nicht von ungefähr haben die Gründerväter des europäischen Projekts gerade dieses Wort gewählt, um dem neuen politischen Subjekt, das sich gerade bildete, seine Identität zu geben. Die Gemeinschaft ist das stärkste Gegengift gegen die Individualismen, die unsere Zeit kennzeichnen, gegen die heute im Westen verbreitete Tendenz, sich als Einzelwesen zu begreifen und demgemäß zu leben. Man missversteht den Begriff der Freiheit, indem man ihn so auslegt, als wäre er die Pflicht zum Alleinsein, losgelöst von jeder Bindung. Infolgedessen hat sich eine entwurzelte Gesellschaft entwickelt, der der Sinn für die Zugehörigkeit und für das Erbe fehlt. Und für mich ist das schlimm.

Die Christen erkennen, dass ihre Identität vor allem relational ist. Sie sind als Glieder eines Leibes, der Kirche (vgl. 1 Kor 12,12), zusammengefügt, in dem jeder mit seiner Identität und Eigenart frei am gemeinsamen Aufbau teilnimmt. Analog gestaltet sich dieses Verhältnis auch im Bereich der zwischenmenschlichen Beziehungen und der zivilen Gesellschaft. Gegenüber dem anderen entdeckt jeder seine Vorzüge und seine Mängel; seine starken Seiten und seine Schwächen; mit anderen Worten, er entdeckt sein Angesicht, er begreift seine Identität.

Die Familie bleibt als erste Gemeinschaft der grundlegendste Ort dieser Entdeckung. In ihr wird die Verschiedenheit hochgehalten und zugleich in der Einheit wieder zusammengefasst. Die Familie ist die harmonische Einheit der Unterschiede zwischen Mann und Frau, die umso wahrer und tiefer ist, je mehr sie fruchtbar und fähig ist, sich für das Leben und für die anderen zu öffnen. Ebenso ist eine zivile Gemeinschaft lebendig, wenn sie offen sein kann, wenn sie die Unterschiedlichkeit und die Gaben eines jeden aufnehmen kann und zugleich neues Leben hervorzubringen vermag wie auch Entwicklung, Arbeit, Erneuerung und Kultur.

Person und Gemeinschaft sind also die Fundamente des Europas, zu dessen Aufbau wir als Christen beitragen wollen und können. Die Mauersteine dieses Baus heißen: Dialog, Inklusion, Solidarität, Entwicklung und Frieden.

Ein Ort des Dialogs

Heute muss ganz Europa, von Atlantik zum Ural, vom Nordpol bis zum Mittelmeer, die Gelegenheit ergreifen, vor allem ein Ort des Dialogs zu sein, ehrlich und konstruktiv zugleich, in dem allen Beteiligten die gleiche Würde zukommt. Wir sind aufgerufen, ein Europa zu erbauen, in dem man sich auf allen Ebenen begegnen und auseinandersetzen kann – gewissermaßen wie die Agora der Antike. Diese war ja der Stadtplatz der polis. Sie fungierte nicht nur als Raum für den Handel, sondern auch als Herzmitte der Politik, als Ort, an dem man die Gesetze zum Wohl aller ausarbeitete; als Ort, an dem der Tempel emporragte, so dass der horizontalen Dimension des Alltags niemals der transzendente Atem fehlte, der über das Flüchtige, das Vergängliche und Vorläufige hinausblicken lässt.

Dies treibt uns dazu an, die positive und konstruktive Rolle zu betrachten, die der Religion im Allgemeinen beim Aufbau der Gesellschaft zukommt. Ich denke beispielsweise an den Beitrag zum interreligiösen Dialog, um das gegenseitige Kennenlernen zwischen Christen und Muslimen in Europa zu fördern. Leider ist ein gewisses laizistisches Vorurteil immer noch verbreitet. Es ist nicht fähig, den positiven Wert der öffentlichen und objektiven Rolle der Religion für die Gesellschaft wahrzunehmen, und zieht es vor, sie in eine rein private und gefühlsmäßige Sphäre zu verbannen. So setzt sich auch die Vorherrschaft eines gewissen Einheitsdenkens2 durch, das in den internationalen Vereinigungen überaus verbreitet ist und in der Bejahung einer religiösen Identität für sich und die eigene Vorherrschaft eine Gefahr erblickt, so dass schließlich das Recht auf Religionsfreiheit und andere Grundrechte künstlich gegeneinander ausgespielt werden. Sie werden voneinander geschieden.

Den Dialog fördern – jeglichen Dialog – ist eine Grundverantwortung der Politik. Leider ist allzu oft zu beobachten, wie sie sich eher in einen Ort des Zusammenstoßes von gegensätzlichen Kräften verwandelt. Die Stimme des Dialogs wird durch die Racheschreie ersetzt. Von mehreren Seiten gewinnt man den Eindruck, dass das Gemeinwohl nicht mehr das primäre Ziel ist und dieses Desinteresse wird von vielen Bürgern wahrgenommen. So finden in vielen Ländern die extremistischen oder populistischen Bewegungen fruchtbaren Boden, die aus dem Protest das Herzstück ihrer politischen Botschaft machen, ohne jedoch die Alternative eines konstruktiven politischen Projekts anzubieten. Der Dialog wird entweder durch eine fruchtlose Konfrontation, die auch das zivile Zusammenleben gefährden kann, oder durch eine Vorherrschaft der politischen Macht ersetzt, die ein wahres demokratisches Leben eingesperrt und verhindert. Im ersten Fall werden die Brücken zerstört und im zweiten Fall errichtet man Mauern. Heute kennt Europa beide.

Die Christen sind aufgerufen, den politischen Dialog zu fördern, besonders dort, wo er bedroht ist und die Konfrontation sich durchzusetzen scheint. Die Christen sind aufgerufen, der Politik wieder Würde zu verleihen, die als höchster Dienst am Gemeinwohl und nicht als Aneignung der Macht zu verstehen ist. Dies verlangt auch eine angemessene Bildung, da die Politik nicht „die Kunst der Improvisation ist“, sondern vielmehr ein hoher Ausdruck der Selbstverleugnung und der persönlichen Hingabe zum Vorteil der Gemeinschaft. Verantwortungsträger zu sein erfordert Studium, Vorbereitung und Erfahrung.

Ein inklusiver Raum

Es ist die gemeinsame Verpflichtung der Verantwortungsträger, ein Europa zu fördern, das eine inklusive Gemeinschaft ist. Man hüte sich hier vor einem grundsätzlichen Missverständnis: Inklusion ist nicht Synonym für eine undifferenzierte Verflachung. Im Gegenteil, man ist wahrhaft inklusiv, wenn man die Unterschiede in ihrem Wert erkennt und sie als gemeinsames und bereicherndes Kapital annimmt. In dieser Sichtweise sind die Migranten eher eine Ressource als eine Last. Die Christen sind aufgerufen, ernsthaft die Aussage Jesu zu betrachten: »Ich war fremd und ihr habt mich aufgenommen« (Mt 25,35). Vor allem angesichts des Flüchtlingsdramas darf man die Tatsache nicht vergessen, dass es sich um Personen handelt, die nicht nach eigenem Belieben, entsprechend politischer, wirtschaftlicher oder sogar religiöser Gesichtspunkte ausgewählt oder abgewiesen werden können.

Dennoch steht dies nicht im Widerspruch zur Pflicht jeder Regierungsgewalt, die Flüchtlingsfrage mit der Tugend zu behandeln, die dem Regieren eigen ist, d.h. mit Klugheit3, die sowohl der Notwendigkeit, ein offenes Herz zu haben, als auch der Möglichkeiten, diejenigen auf gesellschaftlicher, wirtschaftlicher und politischer Ebene voll zu integrieren, die in das Land kommen, Rechnung tragen muss. Man kann das Flüchtlingsphänomen nicht als einen unterschiedslosen und ungeregelten Vorgang verstehen, aber man kann auch nicht Mauern der Gleichgültigkeit und der Angst errichten. Ihrerseits dürfen die Migranten selbst die schwerwiegende Verpflichtung nicht versäumen, die Kultur und die Traditionen der aufnehmenden Nation kennenzulernen, zu achten und sich auch anzueignen.

Ein Raum der Solidarität

Sich für eine inklusive Gemeinschaft einzusetzen, bedeutet, einen Raum der Solidarität aufzubauen. Gemeinschaft sein schließt nämlich ein, dass man sich gegenseitig unterstützt und es somit nicht nur einige sein können, die Lasten tragen und außerordentliche Opfer vollbringen, während andere sich zur Verteidigung ihrer bevorzugten Positionen verschanzen. Eine Europäische Union, die in der Bewältigung ihrer Krisen nicht den Sinn dafür wiederentdecken würde, eine einzige Gemeinschaft zu sein, die sich stützt und hilft – und nicht eine Gesamtheit von kleinen Interessengruppen – würde nicht nur vor einer der wichtigsten Herausforderungen ihrer Geschichte versagen, sondern auch eine der größten Chancen für ihre Zukunft verpassen.

Die Solidarität – manchmal scheint es, dass man dieses Wort aus dem Wortschatz streichen will – die Solidarität, die in der christlichen Perspektive ihren Daseinsgrund im Liebesgebot findet (vgl. Mt 22,37-40), kann nichts anderes als der Lebenssaft einer lebendigen und reifen Gemeinschaft sein. Diese bezieht sich zusammen mit dem anderen Grundprinzip der Subsidiarität nicht nur auf die Beziehungen zwischen den Staaten und den Regionen Europas. Eine solidarische Gemeinschaft zu sein, bedeutet, sich um die Schwächsten der Gesellschaft, die Armen, die von den wirtschaftlichen und sozialen Systemen Ausgegrenzten, angefangen von den alten Menschen und den Arbeitslosen, zu sorgen. Aber die Solidarität verlangt auch, dass man die Zusammenarbeit und die gegenseitige Unterstützung unter den Generationen wiederfindet.

Seit den 60er-Jahren des vergangenen Jahrhunderts ist ein beispielloser Generationenkonflikt im Gang. Man kann übertreibend sagen, dass man bei der Weitergabe der Ideale, die das große Europa gebildet haben, dem Vermächtnis den Verrat vorgezogen hat. Auf die Ablehnung dessen, was von den Vätern kam, folgte so die Zeit einer dramatischen Unfruchtbarkeit und dies nicht nur weil in Europa wenig Kinder gezeugt werden – es ist unser demographischer Winter – und es allzu viele sind, die ihres Rechtes, geboren zu werden, beraubt worden sind, sondern auch weil man sich als unfähig erwiesen hat, den jungen Menschen die materiellen und kulturellen Werkzeuge zu übergeben, um sich der Zukunft zu stellen. Europa erlebt eine Art Gedächtnisverlust. Dazu zurückzukehren, eine solidarische Gemeinschaft zu sein, bedeutet, den Wert der eigenen Vergangenheit wiederzuentdecken, um die eigene Gegenwart zu bereichern und den nachfolgenden Generationen eine Zukunft der Hoffnung zu übergeben.

Viele junge Menschen fühlen sich hingegen angesichts des Fehlens von Wurzeln und Perspektiven verloren, sie sind entwurzelt, »ein Spiel der Wellen, geschaukelt und getrieben von jedem Widerstreit der Lehrmeinungen« (Eph 4,14); zuweilen auch »Gefangene« von dominierenden Erwachsenen, die Mühe haben, die ihnen zukommende Aufgabe zu bewältigen. Die Pflicht zur Bildung ist schwerwiegend: Dabei soll nicht nur eine Gesamtheit von technischen und wissenschaftlichen Kenntnissen vermittelt werden, sondern man muss sich vor allem für die »Vervollkommnung der menschlichen Persönlichkeit, zum Wohl der irdischen Gesellschaft und zum Aufbau einer Welt, die menschlicher gestaltet werden muss«4 einsetzen. Dies erfordert, dass man die ganze Gesellschaft mit einbezieht. Die Bildung ist eine gemeinsame Aufgabe, die die aktive Beteiligung der Eltern, der Schulen und der Universitäten, der religiösen Einrichtungen und der zivilen Gesellschaft zugleich verlangt. Ohne Bildung bringt man keine Kultur hervor, und das lebensnotwendige Gewebe der Gemeinschaften vertrocknet.

Eine Quelle der Entwicklung

Das Europa, das sich als Gemeinschaft wiederentdeckt, wird gewiss eine Quelle der Entwicklung für sich und für die ganze Welt sein. Entwicklung ist in der Bedeutung zu verstehen, die der selige Paul VI. diesem Wort gab: »Wahre Entwicklung muss umfassend sein, sie muss jeden Menschen und den ganzen Menschen im Auge haben, wie ein Fachmann auf diesem Gebiet geschrieben hat: „Wir lehnen es ab, die Wirtschaft vom Menschlichen zu trennen, von der Entwicklung der Kultur, zu der sie gehört. Was für uns zählt, ist der Mensch, jeder Mensch, jede Gruppe von Menschen bis hin zur gesamten Menschheit“«5

Gewiss trägt die Arbeit zur Entwicklung des Menschen bei, die ein wesentlicher Faktor für die Würde und die Reifung der menschlichen Person ist. Es braucht Arbeit und es braucht angemessene Arbeitsbedingungen. Im vergangenen Jahrhundert hat es nicht an ansprechenden Beispielen von christlichen Unternehmern gefehlt, die verstanden haben, wie der Erfolg ihrer Initiativen vor allem von der Möglichkeit abhing, Arbeitsplätze und würdige Anstellungsbedingungen anzubieten. Es ist notwendig, wieder vom Geist dieser Initiativen auszugehen, die auch das beste Gegengift gegen die von einer seelenlosen Globalisierung, einer „sphärischen“ Globalisierung hervorgerufenen Unausgeglichenheiten sind, die mehr auf den Gewinn als auf die Personen achtet und so weit verbreitete Enklaven der Armut, der Arbeitslosigkeit, der Ausbeutung und sozialen Elends geschaffen hat.

Es wäre angemessen, auch den Bedarf an konkreter Arbeit wiederzuentdecken, vor allem für die jungen Menschen. Heute neigen viele dazu, Arbeiten in einst entscheidenden Bereichen zu meiden, weil sie als zu anstrengend und zu wenig bezahlt angesehen werden, wobei vergessen wird, wie unverzichtbar diese für die menschliche Entwicklung sind. Wie würde es um uns stehen ohne den Einsatz der Personen, die mit der Arbeit zu unserer täglichen Ernährung beitragen? Wie würde es ohne die geduldige und einfallsreiche Arbeit dessen um uns stehen, der die Kleidung näht, die wir tragen, oder die Häuser baut, in denen wir wohnen? Viele heute als zweitrangig betrachtete Berufe sind grundlegend. Sie sind es vom sozialen Gesichtspunkt aus, aber vor allem aufgrund der Genugtuung, die die Arbeiter aus der Erfahrung empfangen, durch ihren täglichen Einsatz nützlich für sich und die anderen zu sein.

Ebenso kommt es den Regierungen zu, die wirtschaftlichen Bedingungen zu schaffen, die eine gesunde Unternehmerschaft und angemessene Beschäftigungsniveaus fördern. Der Politik kommt es insbesondere zu, einen positiven Kreislauf erneut in Gang zu bringen, der ausgehend von Investitionen zugunsten der Familie und der Bildung die harmonische und friedliche Entwicklung der gesamten zivilen Gesellschaft ermöglicht.

Eine Friedensverheißung

Schließlich muss der Einsatz der Christen in Europa eine Friedensverheißung darstellen. Dies war der Hauptgedanke, der die Unterzeichner der Römischen Verträge beseelt hat. Nach zwei Weltkriegen und grauenhafter Gewalt von Volk gegen Volk war die Zeit zur Geltendmachung des Rechtes auf Frieden gekommen.6 Es ist ein Recht. Noch heute sehen wir aber, wie der Frieden ein zerbrechliches Gut ist und die Sonderinteressen der Nationen die mutigen Träume der Gründer Europas zu vereiteln drohen.7

Dennoch bedeutet Friedensstifter zu sein (vgl. Mt 5,9) nicht nur, sich um die Vermeidung von internen Spannungen zu bemühen, für die Beendigung von zahlreichen Konflikten zu arbeiten, die die Welt mit Blut beflecken, oder den Leidenden Erleichterung zu verschaffen. Friedensstifter zu sein bedeutet, Förderer einer Kultur des Friedens zu sein. Dies erfordert Liebe zur Wahrheit, ohne die es keine echten menschlichen Beziehungen geben kann, und Suche nach Gerechtigkeit, ohne die jedwede Gesellschaft die Unterdrückung als die vorherrschende Norm akzeptiert.

Der Friede erfordert auch Kreativität. Die Europäische Union wird ihrer Friedensverpflichtung in dem Maße treu sein, wie sie die Hoffnung nicht verliert und sich erneuern kann, um den Bedürfnissen und Erwartungen seiner Bürger nachzukommen. Vor hundert Jahren begann genau in diesen Tagen die Schlacht von Caporetto, die zu den dramatischsten des Ersten Weltkrieges gehört. Es war der Höhepunkt eines Zermürbungskriegs, dieses ersten weltweiten Konflikts, dem der traurige Vorrang zukam, unzählige Opfer angesichts von lächerlich geringen Geländeeroberungen zu fordern. Von diesem Ereignis lernen wir, dass wenn man sich hinter den eigenen Positionen verschanzt, man am Ende unterliegt. Dies ist also nicht die Zeit, um Schützengraben auszuheben, sondern um den Mut zu haben, für die volle Verwirklichung des Traums der Väter von einem geeinten und einträchtigen Europa als einer Gemeinschaft von Völkern zu arbeiten, die sich nach einem gemeinsamen Ziel der Entwicklung und des Friedens sehnen.

Seele Europas sein

Eminenzen, Exzellenzen,

verehrte Gäste,

der Verfasser des Briefs an Diognet erklärt: »Was die Seele im Leibe ist, das sind die Christen in der Welt«.8 Heute sind sie aufgerufen, Europa wieder eine Seele zu geben, sein Gewissen wieder wachzurufen, nicht um Räume zu besetzen – dies wäre Proselytismus –, sondern um Prozesse in Gang zu bringen9, die neue Dynamiken in der Gesellschaft erzeugen. Genau dies tat der heilige Benedikt, der von Paul VI. nicht von ungefähr zum Patron Europas ausgerufen wurde: Er kümmerte sich nicht darum, die Räume einer verlorenen und verworrenen Welt zu besetzen. Vom Glauben aufrecht erhalten schaute er weiter und von einer kleinen Höhle in Subiaco aus rief er eine ansteckende und unaufhaltbare Bewegung ins Leben, die das Angesicht Europas neu gestaltete. Er, der »Bote des Friedens, Friedensstifter, Lehrmeister der Kultur«10 war, möge auch uns Christen von heute zeigen, wie aus dem Glauben immer eine frohe Hoffnung entspringt, die fähig ist, die Welt zu verändern.

Der Herr möge uns alle segnen, er segne unsere Arbeit, unsere Völker, unsere Familien, unsere jungen Leute, unsere Alten, er segne Europa.

Es segne euch der allmächtige Gott, der Vater und der Sohn und der Heilige Geist.

Vielen Dank. Danke.

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1 Benedikt, Regula, Prolog, 14. Vgl. Ps 34,13.

2 Die Diktatur des Einheitsdenkens. Morgendliche Meditation in der Kapelle der Domus Sanctae Marthae, 10. April 2014

3 Vgl. Pressekonferenz auf dem Rückflug von Kolumbien, 10. September 2017.

4 Zweites Vatikanisches Konzil Erklärung Gravissimum educationis, 28. Oktober 1965, 3.

5 Paul VI. , Enzyklika Populorum progressio, 26. März 1967, 14.

6 Vgl. Ansprache an die Studenten und die akademische Welt, Bologna, 1. Oktober 2017, Nr. 3.

7 Vgl. ebd.

8 Brief an Diognet¸VI.

9 Vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 223.

10 Paul VI., Apostolisches Schreiben Pacis Nuntius, 24. Oktober 1964.

[01623-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Eminencias, Excelencias,

Distinguidas autoridades,

Señoras y señores:

Me complace estar presente en la conclusión del Diálogo (Re)Thinking Europe. Una contribución cristiana al futuro del proyecto europeo promovido por la Comisión de las Conferencias Episcopales de la Comunidad Europea (COMECE). Saludo de forma particular al Presidente, el Cardenal Reinhard Marx, como también al honorable Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, y les agradezco por las deferentes palabras que me han dirigido. Quisiera expresar a cada uno de ustedes mi más profundo agradecimiento por haber intervenido en este importante espacio de debate. Gracias.

El Diálogo de estos días ha sido una oportunidad para reflexionar ampliamente sobre el futuro de Europa desde múltiples ángulos, gracias a la presencia entre vosotros de diversas personalidades eclesiales, políticas, académicas o sencillamente representantes de la sociedad civil. Los jóvenes han podido expresar sus expectativas y esperanzas, confrontándose con los más ancianos, quienes, a su vez, han tenido la ocasión de ofrecer su propio bagaje cargado de reflexiones y experiencias. Es significativo que este encuentro buscase ser sobre todo un diálogo en un espíritu de confrontación libre y abierta, a través de la cual enriquecerse mutuamente e iluminar el camino del futuro de Europa, más allá de la senda que todos juntos estamos llamados a recorrer para superar las crisis que padecemos y para afrontar los desafíos que nos esperan.

Hablar de una contribución cristiana para el futuro del continente significa ante todo preguntarse sobre nuestro deber como cristianos hoy, en estas tierras fecundamente plasmadas por la fe a lo largo de los siglos. ¿Cuál es nuestra responsabilidad en un tiempo en el que el rostro de Europa está cada vez más marcado por una pluralidad de culturas y de religiones, mientras que para muchos el cristianismo se percibe como un elemento del pasado, lejano y ajeno?

Persona y comunidad

En el ocaso de la antigua civilización, cuando las glorias de Roma se convertían en esas ruinas que todavía hoy podemos admirar en la ciudad; mientras nuevos pueblos presionaban a lo largo de las fronteras del antiguo Imperio, un joven se hizo eco de la voz del Salmista: «¿Quién es el hombre que quiere la vida y desea ver días felices?».1 Al proponer esta cuestión en el Prólogo de la Regla, san Benito orientó la atención de sus contemporáneos, y también la nuestra, sobre una concepción del hombre radicalmente diversa de la que había distinguido la época clásica Greco-romana y aún más de la violenta que había caracterizado las invasiones bárbaras. El hombre ya no es simplemente un civis, un ciudadano dotado de privilegios para consumarse en el ocio; ya no es un miles, combativo servidor del poder de turno; sobre todo ya no es un servus, mercancía de cambio privada de libertad, destinada únicamente al trabajo y al desgaste.

San Benito no se preocupa de la condición social, ni de la riqueza, ni del poder. Él mira la naturaleza común de cada ser humano, que, cualquiera que sea su condición, anhela profundamente la vida y desea días felices. Para san Benito no hay roles, hay personas: no hay adjetivos sino sustantivos. Este es uno de los valores fundamentales que ha traído el cristianismo: el sentido de la persona, creada a imagen de Dios. A partir de ese principio se construyeron los monasterios, que con el tiempo se convertirían en cuna del renacimiento humano, cultural, religioso y, también, económico del continente.

La primera, y tal vez la mayor, contribución que los cristianos pueden aportar a la Europa de hoy es recordar que no se trata de una colección de números o de instituciones, sino que está hecha de personas. Lamentablemente, a menudo se nota cómo cualquier debate se reduce fácilmente a una discusión de cifras. No hay ciudadanos, hay votos. No hay emigrantes, hay cuotas. No hay trabajadores, hay indicadores económicos. No hay pobres, hay umbrales de pobreza. Lo concreto de la persona humana se ha reducido así a un principio abstracto, más cómodo y tranquilizador. Se entiende la razón: las personas tienen rostros, nos obligan a asumir una responsabilidad real y «personal»; las cifras tienen que ver con razonamientos, también útiles e importantes, pero permanecerán siempre sin alma. Nos ofrecen excusas para no comprometernos, porque nunca nos llegan a tocar en la propia carne.

Reconocer que el otro es ante todo una persona significa valorar lo que me une a él. El ser personas nos une a los demás, nos hace ser comunidad. Por lo tanto, la segunda contribución que los cristianos pueden aportar al futuro de Europa es el descubrimiento del sentido de pertenencia a una comunidad. No es una casualidad que los padres fundadores del proyecto europeo eligieran precisamente esa palabra para identificar el nuevo sujeto político que estaba constituyéndose. La comunidad es el antídoto más grande contra los individualismos que caracterizan nuestro tiempo, contra esa tendencia generalizada hoy en Occidente a concebirse y a vivir en soledad. Se tergiversa el concepto de libertad, interpretándolo como si fuera el deber de estar solos, libres de cualquier vínculo y en consecuencia se ha construido una sociedad desarraigada, privada de sentido de pertenencia y de herencia. Para mí, esto es grave.

Los cristianos reconocen que su identidad es ante todo relacional. Están integrados como miembros de un cuerpo, la Iglesia (cf. 1 Co 12,12), en el que cada uno con su propia identidad y peculiaridades participa libremente en la edificación común. De forma análoga, esta relación se da también en el ámbito de las relaciones interpersonales y de la sociedad civil. Frente al otro, cada uno descubre sus méritos y defectos; sus puntos fuertes y sus debilidades; en otras palabras, descubre su rostro, comprende su identidad.

La familia, como primera comunidad, sigue siendo el lugar fundamental para ese descubrimiento. En ella, la diversidad se exalta y al mismo tiempo se recompone en la unidad. La familia es la unión armónica de las diferencias entre el hombre y la mujer, que cuanto más generativa y capaz sea de abrirse a la vida y a los demás, tanto más será verdadera y profunda. Del mismo modo, una comunidad civil está viva si sabe estar abierta, si sabe acoger la diversidad y las cualidades de cada uno y, al mismo tiempo, sabe generar nuevas vidas, así como también desarrollo, trabajo, innovación y cultura.

Persona y comunidad son, por tanto, los pilares de la Europa que como cristianos queremos y podemos ayudar a construir. Los ladrillos de ese edificio se llaman: diálogo, inclusión, solidaridad, desarrollo y paz.

Un lugar de diálogo

Hoy toda Europa, desde el Atlántico hasta los Urales, desde el Polo Norte hasta el Mar Mediterráneo, no se puede permitir perder la oportunidad de ser ante todo un lugar de diálogo, sincero y constructivo al mismo tiempo, en el que todos los protagonistas tienen la misma dignidad. Estamos llamados a construir una Europa en la que podamos encontrarnos y confrontarnos a todos los niveles, así como lo era en un cierto sentido la antigua ágora. Ella era, de hecho, la plaza de la pólis. No solo un espacio de intercambio económico, sino también el corazón neurálgico de la política, sede en la que se elaboraban las leyes para el bienestar de todos; lugar hacia el que se asomaba el templo, de tal modo que a la dimensión horizontal de la vida cotidiana no le faltara nunca el aliento trascendente que mira más allá de lo efímero, de lo pasajero y provisorio.

Todo eso nos empuja a considerar el papel positivo y constructivo que en general tiene la religión en la construcción de la sociedad. Pienso, por ejemplo, en la importancia del diálogo interreligioso para favorecer el conocimiento recíproco entre cristianos y musulmanes en Europa. Desafortunadamente, cierto prejuicio laicista, todavía en auge, no es capaz de percibir el valor positivo que tiene para la sociedad el papel público y objetivo de la religión, prefiriendo relegarla a una esfera meramente privada y sentimental. Se instaura así también el predominio de un cierto pensamiento único,2 muy extendido en la comunidad internacional, que ve en las afirmaciones de una identidad religiosa un peligro para la propia hegemonía, acabando así por favorecer una falsa contraposición entre el derecho a la libertad religiosa y otros derechos fundamentales. Hay una separación entre ellos.

Favorecer el diálogo —cualquier diálogo— es una responsabilidad fundamental de la política y, lamentablemente, se nota demasiado a menudo cómo esta se transforma más bien en un lugar de choque entre fuerzas opuestas. Los gritos de las reivindicaciones sustituyen a la voz del diálogo. Desde varios lugares se tiene la sensación de que el bien común ya no es el objetivo primario a perseguir y ese desinterés lo perciben muchos ciudadanos. Encuentran así terreno fértil en muchos países las formaciones extremistas y populistas que hacen de la protesta el corazón de su mensaje político, sin ofrecer un proyecto político como alternativa constructiva. El diálogo viene sustituido por una contraposición estéril, que puede también poner en peligro la convivencia civil, o por una hegemonía del poder político que enjaula e impide una verdadera vida democrática. En un caso se destruyen puentes y en el otro se construyen muros. Y hoy Europa conoce ambos.

Los cristianos están llamados a favorecer el diálogo político, especialmente allí donde está amenazado y prevalece el enfrentamiento. Los cristianos están llamados a dar nueva dignidad a la política, entendida como máximo servicio al bien común y no como una ocupación de poder. Esto requiere también una adecuada formación, porque la política no es «el arte de la improvisación», sino una alta expresión de abnegación y entrega personal en ventaja de la comunidad. Ser líder exige estudio, preparación y experiencia.

Un ámbito inclusivo

La responsabilidad de los líderes es la de favorecer una Europa que sea una comunidad inclusiva, libre de un equívoco de fondo: inclusión no es sinónimo de aplastamiento indiferenciado. Al contrario, se es auténticamente inclusivos cuando se saben valorar las diferencias, asumiéndolas como patrimonio común y enriquecedor. En esta perspectiva, los emigrantes son un recurso más que un peso. Los cristianos están llamados a meditar seriamente sobre la afirmación de Jesús: «Fui forastero y me hospedasteis» (Mt 25,35). Ante el drama de los refugiados y de los desplazados, no se puede olvidar, de ningún modo, el hecho de estar ante personas que no pueden ser elegidas o descartadas por el propio gusto, según lógicas políticas, económicas o incluso religiosas.

Sin embargo, esto no contrasta con el deber de toda autoridad de gobierno de gestionar la cuestión migratoria «con la virtud propia del gobernante, es decir, la prudencia»,3 que debe tener en cuenta tanto la necesidad de tener un corazón abierto, como la posibilidad de integrar plenamente a nivel social, económico y político a los que llegan al país. No se puede pensar que el fenómeno migratorio sea un proceso indiscriminado y sin reglas, pero no se pueden tampoco levantar muros de indiferencia o de miedo. Por su parte, los mismos emigrantes no deben olvidar el compromiso importante de conocer, respetar y también asimilar la cultura y las tradiciones de la nación que los acoge.

Un espacio de solidaridad

Trabajar por una comunidad inclusiva significa edificar un espacio de solidaridad. Ser comunidad implica de hecho que nos apoyemos mutuamente y, por tanto, que no pueden ser solo algunos los que lleven pesos y realicen sacrificios extraordinarios, mientras que otros permanecen enrocados defendiendo posiciones privilegiadas. Una Unión Europea que, al afrontar sus crisis, no redescubriera el sentido de ser una única comunidad que se sostiene y se ayuda —y no un conjunto de pequeños grupos de interés— perdería no solo uno de los desafíos más importantes de su historia, sino también una de las oportunidades más grandes para su futuro.

La solidaridad, esa palabra que tantas veces parece que se quiera eliminar del diccionario. La solidaridad, que en la perspectiva cristiana encuentra su razón de ser en el precepto del amor (cf. Mt 22,37-40), no puede ser otra cosa que la savia vital de una comunidad viva y madura. Junto al otro principio cardinal de la subsidiariedad, esta se refiere no solo a las relaciones entre los Estados y las regiones de Europa. Ser una comunidad solidaria significa cuidar de los más débiles de la sociedad, de los pobres, de los que son descartados por los sistemas económicos y sociales, a partir de los ancianos y los desempleados. Pero la solidaridad exige también que se recupere la colaboración y el apoyo recíproco entre las generaciones.

A partir de los años sesenta del siglo pasado está teniendo lugar un conflicto generacional sin precedentes. Al entregar a las nuevas generaciones los ideales que han hecho grande a Europa, se puede decir hiperbólicamente que se ha preferido la traición a la tradición. Al rechazo de lo que llegaba de los padres, le ha seguido el tiempo de una dramática esterilidad. No solo porque en Europa se tienen pocos hijos —nuestro invierno demográfico—, y demasiados son los que han sido privados del derecho a nacer, sino también porque nos hemos encontrado incapaces de entregar a los jóvenes los instrumentos materiales y culturales para afrontar el futuro. Europa vive una especia de déficit de memoria. Volver a ser comunidad solidaria significa redescubrir el valor del propio pasado, para enriquecer el propio presente y entregar a la posteridad un futuro de esperanza.

Muchos jóvenes se encuentran, sin embargo, perdidos ante la ausencia de raíces y de perspectivas, están desarraigados, «llevados a la deriva por todo viento de doctrina» (Ef 4,14); a veces también «prisioneros» de adultos posesivos, a los que les cuesta sostener la tarea que les corresponde. Es importante la tarea de educar, no solo ofreciendo un conjunto de conocimientos técnicos y científicos, sino sobre todo trabajando «para promover la perfección íntegra de la persona humana, también para el bien de la sociedad terrestre y para la construcción de un mundo que debe configurarse más humanamente».4 Esto exige la implicación de toda la sociedad. La educación es una tarea común, que requiere la activa participación al mismo tiempo de los padres, de la escuela y de las universidades, de las instituciones religiosas y de la sociedad civil. Sin educación, no se genera cultura y se vuelve árido el tejido vital de las comunidades.

Una fuente de desarrollo

La Europa que se redescubre comunidad será seguramente una fuente de desarrollo para sí y para todo el mundo. El desarrollo hay que entenderlo en la acepción que el beato Pablo VI dio a tal palabra. «Para ser auténtico, debe ser integral, es decir, promover a todos los hombres y a todo el hombre. Con gran exactitud ha subrayado un eminente experto: “Nosotros no aceptamos la separación de la economía de lo humano, el desarrollo de las civilizaciones en que está inscrito. Lo que cuenta para nosotros es el hombre, cada hombre, cada agrupación de hombres, hasta la humanidad entera”».5

Ciertamente al desarrollo del hombre contribuye el trabajo, que es un factor esencial para la dignidad y la maduración de la persona. Se necesita que haya trabajo y se necesitan también condiciones adecuadas de trabajo. En el siglo pasado no han faltado ejemplos elocuentes de empresarios cristianos que han comprendido cómo el éxito de sus iniciativas dependía sobre todo de la posibilidad de ofrecer oportunidades de empleo y condiciones dignas de trabajo. Es necesario volver a empezar desde el espíritu de esas iniciativas, que son también el mejor antídoto a los desequilibrios provocados por una globalización sin alma, una globalización «esférica», que —más atenta al beneficio que a las personas— ha creado gran cantidad de pobreza, desempleo, explotación y malestar social.

Sería oportuno también redescubrir la necesidad de una concreción del trabajo, sobre todo para los jóvenes. Hoy muchos tienden a rehuir de trabajos en sectores que antes eran cruciales, porque son considerados fatigosos y poco remunerados, olvidando cuánto son indispensables para el desarrollo humano. ¿Qué sería de nosotros sin el compromiso de las personas que con el trabajo contribuyen a nuestra alimentación cotidiana? ¿Qué sería de nosotros sin el trabajo paciente e ingenioso de quien teje los vestidos que llevamos o construye las casas en las que vivimos? Muchas profesiones consideradas hoy de segundo grado son fundamentales. Lo son desde el punto de vista social, pero sobre todo lo son por la satisfacción que los trabajadores reciben del poder ser útiles para sí y para los otros a través de su compromiso diario.

También corresponde a los gobiernos crear las condiciones económicas que favorezcan un sano empresariado y niveles adecuados de empleo. A la política le compete especialmente reactivar un círculo virtuoso que, a partir de inversiones a favor de la familia y de la educación, consienta el desarrollo armonioso y pacífico de toda la comunidad civil.

Una promesa de paz

Finalmente, el compromiso de los cristianos en Europa debe constituir una promesa de paz. Fue este el pensamiento principal que animó a los firmantes de los Tratados de Roma. Después de dos guerras mundiales y violencias atroces de pueblos contra pueblos, había llegado el momento de afirmar el derecho a la paz.6 Es un derecho. Pero todavía hoy vemos cómo la paz es un bien frágil y las lógicas particulares y nacionales corren el riesgo de frustrar los sueños valientes de los fundadores de Europa.7

Sin embargo, ser trabajadores de paz (cf. Mt 5,9) no significa solamente trabajar para evitar las tensiones internas, trabajar para poner fin a numerosos conflictos que desangran al mundo o llevar alivio a quien sufre. Ser trabajadores de paz significa hacerse promotores de una cultura de la paz. Esto exige amor a la verdad, sin la que no pueden existir relaciones humanas auténticas y búsqueda de la justicia, sin la que el abuso es la norma imperante de cualquier comunidad.

La paz exige también creatividad. La Unión Europea mantendrá fidelidad a su compromiso de paz en la medida en que no pierda la esperanza y sepa renovarse para responder a las necesidades y a las expectativas de los propios ciudadanos. Hace cien años, precisamente en estos días, empezaba la batalla de Caporetto, una de las más dramáticas de la Gran Guerra. Fue el ápice de una guerra de deterioro, como fue el primer conflicto mundial, que tuvo su triste primado de causar innumerables víctimas frente a conquistas irrisorias. De ese evento aprendemos que quien se atrinchera detrás de las propias posiciones, termina por sucumbir. No es este, por tanto, el tiempo de construir trincheras, sino el de tener la valentía de trabajar para perseguir plenamente el sueño de los Padres fundadores de una Europa unida y concorde, comunidad de pueblos que desean compartir un destino de desarrollo y de paz.

Ser alma de Europa

Eminencias, Excelencias,

Ilustres huéspedes:

El autor de la Carta a Diogneto afirma que « los cristianos son en el mundo lo que el alma es en el cuerpo».8 En este tiempo, los cristianos están llamados a dar nuevamente alma a Europa, a despertar la conciencia, no para ocupar los espacios —esto sería proselitismo—, sino para animar procesos que generen nuevos dinamismos en la sociedad.9 Es precisamente cuanto hizo san Benito, proclamado no por casualidad patrón de Europa por Pablo VI; él no se detuvo en ocupar los espacios de un mundo perdido y confuso. Sostenido por la fe, miró más allá y desde una pequeña cueva de Subiaco dio vida a un movimiento contagioso e imparable que rediseñó el rostro de Europa. Él, que fue «mensajero de paz, realizador de unión, maestro de civilización»,10 nos muestre también a nosotros cristianos de hoy cómo de la fe brota siempre una esperanza alegre, capaz de cambiar el mundo.

Gracias.

Que el Señor nos bendiga, bendiga nuestro trabajo, bendiga a nuestros pueblos, nuestras familias, nuestros jóvenes, nuestros ancianos, bendiga a Europa.

Muchas gracias.

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1 San Benito, Regla, Prólogo, 14. Cf. Sal 33,13.

2 La dictadura del pensamiento único. Meditación matutina en la Capilla de la Domus Sanctae Marthae, 10 abril 2014.

3 Conferencia de prensa durante el vuelo de regreso de Colombia, 10 septiembre 2017.

4 Concilio Ecuménico Vaticano II, Decl. Gravissimum educationis, 28 octubre 1965, 3.

5 Pablo VI, Carta enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 14.

6 Cf. Discurso a los estudiantes y al mundo académico, Bolonia 1 octubre 2017, n. 3.

7 Cf. ibíd.

8 Carta a Diogneto, VI.

9 Cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 223.

10 Pablo VI, Carta ap. Pacis Nuntius, 24 octubre 1964.

[01623-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Eminencje, Ekscelencje,

Szanowni przedstawiciele władz,

Panie i Panowie,

Cieszę się z możliwości uczestniczenia w zakończeniu dialogu: „Przemyśleć na nowo Europę. Chrześcijański wkład w przyszłość projektu europejskiego”, promowanego przez Komisję Biskupów Wspólnoty Europejskiej (COMECE). Witam szczególnie jej przewodniczącego, Jego Eminencję kardynała Reinharda Marxa, a także czcigodnego pana Antonio Tajaniego, przewodniczącego Parlamentu Europejskiego i dziękuję im za uprzejme słowa, które przed chwilą do mnie skierowali. Każdemu z was pragnę wyrazić moje głębokie uznanie za liczne wypowiedzi na tym ważnym forum dyskusyjnym. Dziękuję!

Dialog minionych dni stworzył okazją do szerokiego zastanowienia się nad przyszłością Europy z wielorakiej perspektywy, dzięki obecności w waszym gronie różnych osobistości kościelnych, politycznych, naukowych czy też wywodzących się ze społeczeństwa obywatelskiego. Ludzie młodzi mogli przedłożyć swoje oczekiwania i nadzieje, skonfrontować się z osobami starszymi, które z kolei miały okazję zaoferować swój zasób pełen refleksji i doświadczeń. Jest rzeczą znamienną, że spotkanie to pragnęło być przede wszystkim dialogiem w duchu wolnej i otwartej debaty, poprzez którą można się wzajemnie ubogacać i rzucić światło na drogę przyszłości Europy, czyli drogę, do której przebycia wszyscy razem jesteśmy wezwani, aby przezwyciężyć przeżywane kryzysy i stawić czoło stojącym przed nami wyzwaniom.

Mówienie o chrześcijańskim wkładzie w przyszłość kontynentu oznacza przede wszystkim zastanowienie się nad naszym zadaniem jako chrześcijan dzisiaj, na tych terenach tak bogato ukształtowanych przez wiarę na przestrzeni wieków. Jaka jest nasza odpowiedzialność w czasie, gdy oblicze Europy jest coraz bardziej naznaczone pluralizmem kultur i religii, podczas gdy wielu postrzega chrześcijaństwo jako element przeszłości dalekiej i obcej?

Osoba i wspólnota

U schyłku cywilizacji starożytnej, kiedy chlubą Rzymu stawały się te ruiny, które także dzisiaj możemy podziwiać w mieście; gdy nowe narody atakowały granice starożytnego imperium, pewien młody człowiek sprawił, iż rozbrzmiał głos Psalmisty: „Któż jest człowiekiem, co miłuje życie ipragnie widzieć dni szczęśliwe?”1. Proponując to pytanie w Prologu Reguły, św. Benedykt zwrócił uwagę swoich współczesnych, a także naszą, na koncepcję człowieka diametralnie różną od tej, która cechowała klasycyzm grecko-rzymski, a tym bardziej tę brutalną, która charakteryzowała najeźdźców barbarzyńskich. Człowiek nie jest już tylko civis, obywatelem obdarzonym przywilejami, które należy konsumować w bezczynności; nie jest już miles, walecznym sługą aktualnej władzy; a przede wszystkim nie jest już servus, towarem handlowym przeznaczonym wyłącznie do pracy i znoju.

Św. Benedykt nie zwraca uwagi na kondycję społeczną, ani bogactwa, ani też posiadaną władzę. Odwołuje się do wspólnej natury każdego człowieka, który niezależnie od swej kondycji, z pewnością tęskni za życiem i pragnie dni szczęśliwych. Dla Benedykta nie ma ról, są osoby: nie ma przymiotników, są rzeczowniki. To jest właśnie jedna z podstawowych wartości, jakie wniosło chrześcijaństwo: znaczenie osoby stworzonej na obraz Boga. Na podstawie tej zasady zostaną wybudowane klasztory, które z czasem staną się kolebką odrodzenia humanistycznego, kulturowego, religijnego a także gospodarczego kontynentu.

Pierwszy, a być może największy wkład, jaki chrześcijanie mogą wnieść w dzisiejszą Europę, to przypomnieć jej, że nie jest ona zbiorem liczb i instytucji, ale składa się z osób. Niestety, często zauważamy, jak wiele debat łatwo sprowadza się do dyskusji o cyfrach. Nie ma obywateli, są głosy. Nie ma imigrantów, są kwoty. Nie ma robotników, są wskaźniki ekonomiczne. Nie ma ubogich, ale istnieją progi ubóstwa. W ten sposób konkrety osoby ludzkiej zostają sprowadzone do abstrakcyjnej zasady, wygodniejszej i bardziej uspokajającej. Można zrozumieć tego przyczynę: ludzie mają twarze, zmuszają nas do podjęcia realnej odpowiedzialności, faktycznej, „osobistej”; cyfry zajmują nas roztrząsaniami, nawet użytecznymi i ważnymi, ale zawsze będą bez duszy. Dają nam alibi do wykręcania się, bo nigdy nie dotykają nas osobiście.

Uznanie, że drugi człowiek to przede wszystkim osoba, oznacza docenienie tego, co mnie z nim łączy. Bycie osobami łączy nas z innymi, czyni nas wspólnotą. Zatem drugi wkład, jaki chrześcijanie mogą wnieść w przyszłość Europy, to odkrycie poczucia przynależności do wspólnoty. Nie przypadkiem ojcowie założyciele projektu europejskiego wybrali właśnie to słowo, aby określić nowy tworzący się podmiot polityczny. Wspólnota jest największym antidotum na indywidualizmy charakteryzujące naszą epokę, na tę powszechną dziś na Zachodzie skłonność do pojmowania siebie i życia w samotności. Nieporozumieniem jest takie pojęcie wolności, gdy interpretuje się ją tak, jakby była ona niemal obowiązkiem bycia samotnymi, uwolnionymi od jakiegokolwiek powiązania, w następstwie czego zostało zbudowane społeczeństwo wykorzenione, pozbawione poczucia przynależności i dziedziczenia. Według mnie, to bardzo poważne.

Chrześcijanie uznają, że ich tożsamość jest przede wszystkim relacyjna. Są oni wszczepieni jako członki w jedno ciało, którym jest Kościół (por. 1 Kor 12,12), w którym każdy ze swoją tożsamością i osobliwościami swobodnie uczestniczy we wspólnym budowaniu. Podobnie taka relacja powinna mieć miejsce w dziedzinie stosunków międzyludzkich i społeczeństwa obywatelskiego. Wobec drugiej osoby każdy odkrywa swoje zalety i wady; swoje punkty mocne i słabości - innymi słowy odkrywa swoje oblicze, rozumie swoją tożsamość.

Rodzina, jako pierwsza wspólnota, pozostaje najistotniejszym miejscem takiego odkrycia. W niej umacniana jest różnorodność, a jednocześnie jest ona ujęta w jedności. Rodzina jest harmonijnym związkiem różnic między mężczyzną a kobietą, która jest tym bardziej prawdziwa i głęboka, im bardziej jest generatywna, zdolna do otwarcia się na życie i na innych. Podobnie, wspólnota cywilna jest żywa, jeśli potrafi być otwarta, jeśli umie przyjąć różnorodności i talenty każdego a jednocześnie jeśli potrafi rodzić nowe życie, a także rozwój, miejsca pracy, innowację i kulturę.

Osoba i wspólnota są więc fundamentami Europy, do której budowania jako chrześcijanie chcemy i możemy wnieść swój wkład. Cegły tego budynku nazywają się: dialog, integracja, solidarność, rozwój i pokój.

Miejsce dialogu

Dziś cała Europa, od Atlantyku po Ural, od Bieguna Północnego po Morze Śródziemne nie może sobie pozwolić na zmarnowanie szansy, aby być przede wszystkim miejscem zarówno szczerego jak i konstruktywnego dialogu, w którym wszyscy uczestnicy mają równą godność. Jesteśmy wezwani do budowania takiej Europy, w której można się spotkać i konfrontować na wszystkich poziomach, w pewnym sensie podobnie jak starożytna Agora, będąca właściwie głównym rynkiem polis. Była to nie tylko przestrzeń wymiany gospodarczej, ale także newralgiczne centrum polityki, w którym wypracowywano prawa dla dobra wszystkich; miejsce, do którego przylegała świątynia, tak aby wymiarowi horyzontalnemu życia codziennego nie brakowało oddechu transcendentnego, który sprawia, że ​​można spojrzeć poza to, co przemijające, ulotne, i tymczasowe.

To prowadzi nas do rozważenia pozytywnej i konstruktywnej roli, jaką religia w ogólności posiada w budowie społeczeństwa. Myślę na przykład o wkładzie dialogu międzyreligijnego w ułatwianie wzajemnego poznania między chrześcijanami a muzułmanami w Europie. Niestety, pewne uprzedzenia laicystyczne, będące nadal w modzie, nie są w stanie dostrzec pozytywnej dla społeczeństwa wartości roli publicznej i obiektywnej religii, preferując spychanie jej do sfery wyłącznie prywatnej i uczuciowej. W ten sposób zostaje ustanawiana również dominacja pewnej poprawności ideowej2 dość rozpowszechnionej na forach międzynarodowych, dostrzegającej w potwierdzeniu pewnej tożsamości religijnej zagrożenie dla siebie i swojej hegemonii, doprowadzając w ten sposób do sprzyjania sztucznemu przeciwstawianiu sobie prawa do wolności religijnej innym prawom podstawowym. Między nimi nastąpił rozwód.

Ułatwianie dialogu - wszelkiego dialogu - jest podstawowym obowiązkiem polityki. Niestety nazbyt często widzimy jak przekształca się ona raczej w miejsce starcia między siłami przeciwnymi. Głos dialogu zostaje zastąpiony krzykami roszczeń. Z wielu stron dobiegają głosy, że ​​ dobro wspólne nie jest już głównym celem, do którego się dąży, a tę obojętność dostrzega wielu obywateli. W ten sposób w wielu krajach znajdują podatny grunt formacje ekstremistyczne i populistyczne, które z protestu czynią istotę swego przesłania politycznego, nie oferując jednak alternatywy konstruktywnego projektu politycznego. Dialog jest zastępowany jałową konfrontacją, która może zagrażać także współżyciu społecznemu lub hegemonią władzy politycznej, która krępuje i uniemożliwia prawdziwe życie demokratyczne. W jednym przypadku niszczone są mosty, a w drugim budowane są mury. A dziś Europa zna jedno i drugie.

Chrześcijanie są powołani do ułatwiania dialogu politycznego, zwłaszcza tam, gdzie jest on zagrożony, a zdaje się dominować konflikt. Chrześcijanie są powołani do przywrócenia godności polityce rozumianej jako najwznioślejsza służba dla dobra wspólnego, a nie jako przejmowanie władzy. Wymaga to również odpowiedniej formacji, ponieważ polityka nie jest „sztuką improwizacji”, ale wzniosłym wyrazem altruizmu i poświęcenia osobistego na rzecz wspólnoty. Bycie liderem wymaga studiów, przygotowań i doświadczenia.

Środowisko integrujące

Wspólną odpowiedzialnością przywódców jest promowanie Europy, która byłaby wspólnotą integrującą, wolną od podstawowego nieporozumienia: integracja nie jest synonimem jednolitego wyrównywania. Przeciwnie, jesteśmy prawdziwie inkluzywni, gdy potrafimy docenić różnice, przyjmując je jako wspólne i ubogacające dziedzictwo. W tej perspektywie imigranci stanowią bardziej bogactwo niż obciążenie. Chrześcijanie są powołani do poważnego rozważania stwierdzenia Jezusa: „byłem przybyszem, a przyjęliście Mnie” (Mt 25,35). Zwłaszcza w obliczu dramatu uchodźców i wysiedleńców nie możemy zapominać, że stajemy przed ludźmi, którzy nie mogą być wybierani lub odrzucani, jak się nam podoba, zgodnie z logiką polityczną, gospodarczą czy nawet religijną.

Jednak nie jest to sprzeczne z obowiązkiem każdej władzy rządowej, by zarządzać kwestią migracji „za pomocą cnoty właściwej rządzącym, to znaczy roztropności”3, która musi brać pod uwagę zarówno potrzebę otwartego serca, jak i możliwości pełnej integracji osób, które przyjeżdżają do kraju, na poziomie społecznym, gospodarczym i politycznym. Nie można sobie wyobrazić, aby zjawisko migracyjne mogło być procesem masowym i bez żadnych zasad, ale nie można też wznosić murów obojętności i strachu. Natomiast sami imigranci nie mogą przeoczyć poważnego obowiązku znajomości, poszanowania, a także przyswajania sobie kultury i tradycji narodu, który ich przyjmuje.

Przestrzeń solidarności

Praca na rzecz wspólnoty integrującej oznacza budowanie przestrzeni solidarności. Bycie wspólnotą oznacza bowiem, że ​​wspieramy się nawzajem, a zatem, że nie tylko nieliczni muszą nosić ciężary i ponosić nadzwyczajne ofiary, podczas gdy inni pozostają obwarowani w obronie uprzywilejowanych pozycji. Unia Europejska, która stając w obliczu swych kryzysów, nie odkryłaby poczucia, że jest jedną wspólnotą, wspierającą się i pomagającą sobie - a nie zbiorem małych grup interesów - straciłaby nie tylko jedno z najważniejszych wyzwań swej historii, ale także jedną z największych szans dla swej przyszłości.

Solidarność, to słowo, które - jak się często zdaje - chciałoby się wykreślić ze słownika. Solidarność, która w perspektywie chrześcijańskiej znajduje swoją rację bytu w przykazaniu miłości (por. Mt 22,37- 40), może być jedynie siłą napędową wspólnoty żywej i dojrzałej. Wraz z inną podstawową zasadą, jaką jest pomocniczość, obejmuje ona nie tylko relacje między państwami i regionami Europy. Bycie wspólnotą solidarną oznacza otoczenie troską najsłabszych członków społeczeństwa, ubogich, odrzuconych przez systemy ekonomiczne i społeczne, począwszy od osób starszych i bezrobotnych. Ale solidarność wymaga również odbudowy wzajemnej współpracy i wzajemnego wsparcia między pokoleniami.

Począwszy od lat sześćdziesiątych ubiegłego wieku ma miejsce bezprecedensowy konflikt pokoleń. Przekazując nowym pokoleniom ideały, które uczyniły Europę wielką, można powiedzieć przesadnie, że zamiast tradycji obrano zdradę. Po odrzuceniu tego, co pochodziło od ojców, nastąpił zatem czas dramatycznej bezpłodności. Nie tylko dlatego, że w Europie rodzi się mało dzieci - nasza zima demograficzna -, a zbyt wielu jest tych, którzy zostali pozbawieni prawa, by się urodzić, ale również dlatego, że okazało się, iż jesteśmy niezdolni do przekazania ludziom młodym narzędzi materialnych i kulturowych, by stawić czoło przyszłości. Europa przeżywa pewien deficyt pamięci. Powrót do bycia wspólnotą solidarną oznacza ponowne odkrycie wartości swej przeszłości, aby ubogacić swoją teraźniejszość i przekazać potomstwu przyszłość nadziei.

Wielu młodych ludzi jest natomiast zagubionych w obliczu braku korzeni i perspektyw, wykorzenionych, „zdanych na igraszkę fal i poddanych prądom nauki prowadzącej przez oszustwa i przebiegłość ludzką na manowce” (por. Ef 4,14); czasami także są „więźniami” zaborczych dorosłych, którym trudno wypełniać właściwe im zadanie. Istnieje poważny obowiązek wychowania, nie tylko oferując zestaw wiedzy technicznej i naukowej, ale przede wszystkim dążąc do „zdobywania pełnej doskonałości ludzkiej, a także w tworzeniu dobra ziemskiej społeczności i w budowaniu bardziej ludzkiego świata”4. Wymaga to zaangażowania całego społeczeństwa. Wychowanie jest zadaniem wspólnym wymagającym aktywnego uczestnictwa zarówno rodziców, szkół i uniwersytetów, jak instytucji wyznaniowych i społeczeństwa obywatelskiego. Bez edukacji nie powstaje kultura, a tkanka życiowa wspólnoty wysycha.

Źródło rozwoju

Europa, która odkrywa siebie jako wspólnotę, z pewnością będzie źródłem rozwoju dla siebie i dla całego świata. Rozwój musi być rozumiany w takim sensie, jaki nadał temu słowu błogosławiony Paweł VI. „Aby był prawdziwy, powinien on być zupełny, to znaczy winien przyczyniać się do rozwoju każdego człowieka i całego człowieka. Dlatego jeden z wybitnych znawców tego przedmiotu z całą słusznością tak pisał: Nie godzimy się na oddzielenie spraw ekonomicznych od tego, co ludzkie, ani też na rozważanie ich odrębnie od cywilizacji, do której należą. Naszym zdaniem wielce trzeba cenić człowieka, każdego człowieka, wszelką ludzką społeczność i całą ludzkość”5.

Z pewnością do rozwoju człowieka przyczynia się praca, która jest istotnym czynnikiem dla godności i dojrzewania osoby. Potrzebna jest praca i potrzebne są odpowiednie warunki pracy. W ostatnim stuleciu nie brakowało wymownych wzorców przedsiębiorców chrześcijańskich, którzy zrozumieli, w jaki sposób sukces ich inicjatywy zależał przede wszystkim od możliwości oferowania szansy zatrudnienia i godnych warunków pracy. Trzeba na nowo zacząć od ducha tych inicjatyw, które są również najlepszym antidotum na zakłócenia spowodowane przez bezduszną globalizację, „sferyczną” globalizację, która zwracając większą uwagę na zyski niż osoby, stworzyła szerokie obszary ubóstwa, bezrobocie, wyzysk i niezadowolenie społeczne.

Warto byłoby też ponownie odkryć potrzebę skonkretyzowania pracy, szczególnie dla ludzi młodych. Dziś wielu często unika pracy w sektorach niegdyś kluczowych, ponieważ uznawano je za męczące i nisko płatne, zapominając, jak bardzo są niezbędne dla rozwoju człowieka. Co by z nami się stało, bez zaangażowania osób, które swoją pracą wnoszą wkład w nasze codzienne pożywienie? Co stałoby się z nami bez cierpliwej i pomysłowej pracy osób szyjących ubrania, które nosimy lub budujących domy, w których mieszkamy? Wiele zawodów dziś uważanych za drugorzędne, ma znaczenie podstawowe. Są one fundamentalne z punktu widzenia społecznego, ale przede wszystkim z powodu satysfakcji, jaką otrzymują pracownicy, że mogą być użytecznymi dla siebie i dla innych poprzez swe codzienne zaangażowanie.

Do zadań rządów należy również stworzenie warunków gospodarczych sprzyjających zdrowej przedsiębiorczości oraz odpowiedniego poziomu zatrudnienia. Sprawą polityki jest szczególnie reaktywowanie spirali sukcesu, która wychodząc z inwestycji na rzecz rodziny i edukacji, pozwala na harmonijny i pokojowy rozwój całego społeczeństwa obywatelskiego.

Obietnica pokoju

Wreszcie zaangażowanie chrześcijan w Europie musi stanowić obietnicę pokoju. To była główna myśl, która ożywiała sygnatariuszy Traktatów Rzymskich. Po dwóch wojnach światowych i okrucieństwach narodów przeciwko narodom nadszedł czas, aby uznać prawo do pokoju6. To jest prawo. Jednak także dzisiaj widzimy, że pokój jest dobrem kruchym, a mentalność partykularna i nacjonalistyczna zagraża zniweczeniu odważnych marzeń założycieli Europy7.

Jednak bycie budowniczymi pokoju (por. Mt 5,9) oznacza nie tylko staranie się o uniknięcie napięć wewnętrznych, działanie na rzecz położenia kresu licznym konfliktom, które wykrwawiają świat lub przyniesienie ulgi tym, którzy cierpią. Bycie czyniącymi pokój oznacza stawanie się promotorami kultury pokoju. Wymaga to umiłowania prawdy, bez której nie mogą istnieć autentyczne ludzkie relacje oraz dążenia do sprawiedliwości, bez której ucisk jest normą panującą każdej wspólnoty.

Pokój wymaga również kreatywności. Unia Europejska dochowa wierności swojemu zaangażowaniu na rzecz pokoju na tyle, na ile nie utraci nadziei i będzie umiała się odnowić, aby odpowiedzieć na potrzeby i oczekiwania swoich obywateli. Przed stu laty, właśnie w tych dniach rozpoczęła się bitwa o Caporetto, jedna z najbardziej dramatycznych bitew I wojny światowej. Była punktem kulminacyjnym wojny na wyniszczenie, jaką była pierwsza wojna światowa, która miała smutny prymat w krwawym żniwie niezliczonych ofiar w obliczu żałosnych dokonań. Z tego wydarzenia nauczmy się, że jeśli okopiemy się na swoich pozycjach, to w końcu polegniemy. Nie jest to więc czas na budowanie okopów, ale czas na odwagę, by działać na rzecz pełnej realizacji marzenia ojców założycieli zjednoczonej i zgodnej Europy, wspólnoty narodów pragnących dzielić razem przyszłość rozwoju i pokoju.

Być duszą Europy

Eminencja, Ekscelencje,

Szanowni goście,

Autor Listu do Diogneta stwierdza, że „czym jest dusza w ciele, tym są w świecie chrześcijanie”8. W tym czasie, są oni wezwani, aby dać na nowo Europie duszę i rozbudzić w niej na nowo sumienie, nie aby zajmować przestrzenie - to byłby prozelityzm -, ale aby ożywiać procesy9, które zrodziłyby nową dynamikę w społeczeństwie. To właśnie uczynił św. Benedykt, nie przypadkiem ogłoszony przez Pawła VI patronem Europy: nie troszczył się on o zajmowanie przestrzeni świata zagubionego i zagmatwanego. Wspierany wiarą patrzył dalej i z małej groty w Subiaco dał życie ruchowi szybko się rozprzestrzeniającemu i niepowstrzymanemu, który przekształcił oblicze Europy. Niech On, który był „zwiastunem pokoju, sprawcą jedności, nauczycielem cywilizacji10”, ukaże także nam, dzisiejszym chrześcijanom, jak z wiary wypływa zawsze nadzieja radosna, zdolna do przemiany świata.

Dziękuję.

Niech wam wszystkim Pan błogosławi, niech błogosławi naszej pracy, niech błogosławi naszym narodom, naszym rodzinom, naszym młodym, naszym starszym, niech błogosławi Europie.

Niech was błogosławi Bóg wszechmogący, Ojciec i Syn, i Duch Święty.

Bardzo dziękuję. Dziękuję.

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1 ŚW. BENEDYKT, Reguła, Prolog, 14.

2 Dyktatura poprawności ideowej. Rozważanie poranne w kaplicy Domu Świętej Marty, 10 kwietnia 2014.

3 Konferencja prasowa w drodze powrotnej z Kolumbii, 10 września 2017.

4 SOBÓR WATYKAŃSKI II, Deklaracja Gravissiumum educationis, 28 października 1965,3.

5 PAWEŁ VI, Enc. Populorum progressio, 26 marca 1967, 14.

6 Por. Przemówienie do studentów i świata akademickiego, Bolonia 1 października 2017, n.3.

7 Por. Tamże.

8 List do Diogeneta, VI.

9 Por. Adhort, ap. Evangelii gaudium, 223.

10 PAWEŁ VI, List ap. Pacis nuntius, 24 października 1964.

[01623-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0749-XX.02]