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Santa Messa in occasione del Giubileo dei Sacerdoti e dei seminaristi, 03.06.2016


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

 

Alle ore 9.30 di oggi, Solennità del Sacro Cuore di Gesù, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa sul sagrato della Basilica Vaticana, in occasione del Giubileo dei Sacerdoti e dei seminaristi.
Nel corso della celebrazione, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha tenuto la seguente omelia:

Omelia del Santo Padre

Celebrando il Giubileo dei Sacerdoti nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, siamo chiamati a puntare al cuore, ovvero all’interiorità, alle radici più robuste della vita, al nucleo degli affetti, in una parola, al centro della persona. E oggi volgiamo lo sguardo a due cuori: il Cuore del Buon Pastore e il nostro cuore di pastori.

Il Cuore del Buon Pastore non è soltanto il Cuore che ha misericordia di noi, ma è la misericordia stessa. Lì risplende l’amore del Padre; lì mi sento sicuro di essere accolto e compreso come sono; lì, con tutti i miei limiti e i miei peccati, gusto la certezza di essere scelto e amato. Guardando a quel Cuore rinnovo il primo amore: la memoria di quando il Signore mi ha toccato nell’animo e mi ha chiamato a seguirlo, la gioia di aver gettato le reti della vita sulla sua Parola (cfr Lc 5,5).

Il Cuore del Buon Pastore ci dice che il suo amore non ha confini, non si stanca e non si arrende mai. Lì vediamo il suo continuo donarsi, senza limiti; lì troviamo la sorgente dell’amore fedele e mite, che lascia liberi e rende liberi; lì riscopriamo ogni volta che Gesù ci ama «fino alla fine» (Gv 13,1) - non si ferma prima, fino alla fine -, senza mai imporsi.

Il Cuore del Buon Pastore è proteso verso di noi, “polarizzato” specialmente verso chi è più distante; lì punta ostinatamente l’ago della sua bussola, lì rivela una debolezza d’amore particolare, perché tutti desidera raggiungere e nessuno perdere.

Davanti al Cuore di Gesù nasce l’interrogativo fondamentale della nostra vita sacerdotale: dove è orientato il mio cuore? Domanda che noi sacerdoti dobbiamo farci tante volte, ogni giorno, ogni settimana: dove è orientato il mio cuore? Il ministero è spesso pieno di molteplici iniziative, che lo espongono su tanti fronti: dalla catechesi alla liturgia, alla carità, agli impegni pastorali e anche amministrativi. In mezzo a tante attività permane la domanda: dove è fisso il mio cuore? Mi viene alla memoria quella preghiera tanto bella della Liturgia: “Ubi vera sunt gaudia…”. Dove punta, qual è il tesoro che cerca? Perché – dice Gesù – «dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Ci sono debolezze in tutti noi, anche peccati. Ma andiamo al profondo, alla radice: dov’è la radice delle nostre debolezze, dei nostri peccati, cioè dov’è proprio quel “tesoro” che ci allontana dal Signore?

I tesori insostituibili del Cuore di Gesù sono due: il Padre e noi. Le sue giornate trascorrevano tra la preghiera al Padre e l’incontro con la gente. Non la distanza, l’incontro. Anche il cuore del pastore di Cristo conosce solo due direzioni: il Signore e la gente. Il cuore del sacerdote è un cuore trafitto dall’amore del Signore; per questo egli non guarda più a sé stesso – non dovrebbe guardare a sé stesso – ma è rivolto a Dio e ai fratelli. Non è più “un cuore ballerino”, che si lascia attrarre dalla suggestione del momento o che va di qua e di là in cerca di consensi e piccole soddisfazioni. E’ invece un cuore saldo nel Signore, avvinto dallo Spirito Santo, aperto e disponibile ai fratelli. E lì risolve i suoi peccati.

Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.

Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.

Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).

Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.

Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).

Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a ricomporre le liti. E’ un uomo che sa includere.

Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.

Cari sacerdoti, nella Celebrazione eucaristica ritroviamo ogni giorno questa nostra identità di pastori. Ogni volta possiamo fare veramente nostre le sue parole: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». È il senso della nostra vita, sono le parole con cui, in un certo modo, possiamo rinnovare quotidianamente le promesse della nostra Ordinazione. Vi ringrazio per il vostro “sì”, e per tanti “sì” nascosti di tutti i giorni, che solo il Signore conosce. Vi ringrazio per il vostro “sì” a donare la vita uniti a Gesù: sta qui la sorgente pura della nostra gioia.

[00922-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Célébrant le Jubilé des Prêtres en la Solennité du Sacré Cœur de Jésus, nous sommes appelés à viser au cœur, c’est-à-dire à l’intériorité, aux racines les plus fortes de la vie, au noyau des affections, en un mot, au centre de la personne. Et aujourd’hui, nous tournons le regard vers deux cœurs: le Cœur du Bon Pasteur et notre cœur de pasteurs.

Le Cœur du Bon Pasteur n’est pas seulement le Cœur qui a de la miséricorde pour nous, mais la miséricorde elle-même. Là resplendit l’amour du Père; là je me sens sûr d’être accueilli et compris comme je suis; là, avec toutes mes limites et mes péchés, je goûte la certitude d’être choisi et aimé. En regardant ce Cœur, je renouvelle le premier amour: la mémoire du moment où le Seigneur m’a touché dans l’âme et m’a appelé à le suivre, la joie d’avoir jeté les filets de la vie sur sa Parole (cf.Lc 5, 5).

Le Cœur du Bon Pasteur nous dit que son amour n’a pas de frontières, il ne se fatigue jamais et ne se rend jamais. Là nous voyons sa manière continuelle de se donner, sans limites; là nous trouvons la source de l’amour fidèle et doux, qui laisse libres et rend libres; là nous redécouvrons chaque fois que Jésus nous aime «jusqu’au bout» (Jn 13, 1) – il ne s’arrête pas avant, jusqu’à la fin, – sans jamais s’imposer.

Le Cœur du Bon Pasteur est penché vers nous, «polarisé» spécialement envers celui qui est plus distant; là pointe obstinément l’aiguille de sa boussole, là se révèle une faiblesse d’amour particulier, parce qu’il désire rejoindre chacun et n’en perdre aucun.

Devant le Cœur de Jésus naît l’interrogation fondamentale de notre vie sacerdotale: où est orienté mon cœur? Question que nous prêtres devons nous poser de nombreuses fois, chaque jour, chaque semaine: où est orienté mon cœur? Le ministère et souvent rempli de multiples initiatives, qui l’exposent sur de nombreux fronts: de la catéchèse à la liturgie, à la charité, aux engagements pastoraux et aussi administratifs. Parmi tant d’activités demeure la question: où est fixé mon cœur? Il me vient à la mémoire cette prière si belle de la Liturgie: «Ubi vera sunt gaudia…». Où pointe-t-il, quel trésor cherche-t-il? Parce que dit Jésus – «là où est ton trésor, là aussi sera ton cœur» (Mt 6, 21). Il y a des faiblesses en nous tous, et aussi des péchés. Mais allons au fond, à la racine: où est la racine de nos faiblesses, de nos péchés, c’est-à-dire où est vraiment ce «trésor» qui nous éloigne du Seigneur?

Les trésors irremplaçables du Cœur de Jésus sont deux: le Père et nous. Ses journées se passaient entre la prière au Père et la rencontre avec les gens. Pas la distance, la rencontre. Le cœur du pasteur du Christ lui aussi connaît seulement deux directions: le Seigneur et les gens. Le cœur du prêtre est un cœur transpercé par l’amour du Seigneur; pour cela il ne se regarde plus lui-même – il ne devrait pas se regarder lui-même – mais il est tourné vers Dieu et vers les frères. Ce n’est plus «un cœur instable», qui se laisse attirer par la suggestion du moment ou qui va çà et là en cherchant des consensus et de petites satisfactions. C’est au contraire un cœur établi dans le Seigneur, captivé par l’Esprit Saint, ouvert et disponible aux frères. Et là il résout ses péchés.

Pour aider notre cœur à brûler de la charité de Jésus Bon Pasteur, nous pouvons nous entraîner à faire nôtre trois actions, que les Lectures d’aujourd’hui nous suggèrent: chercher, inclure et se réjouir.

Chercher. Le prophète Ézéchiel nous a rappelé que Dieu lui-même cherche ses brebis (34, 11.16). L’Évangile dit, «il va chercher celle qui est perdue» (Lc 15, 4), sans se laisser effrayer par les risques; sans délai il s’aventure hors des endroits du pâturage et hors des horaires de travail. Et il ne se fait pas payer les “extras”. Il ne renvoie pas la recherche, il ne pense pas «aujourd’hui j’ai déjà fait mon devoir, et éventuellement je m’en occuperai demain», mais il se met tout de suite à l’œuvre; son cœur est inquiet tant qu’il n’a pas retrouvé cette unique brebis perdue. L’a-t-il trouvée, il oublie la fatigue et il la charge sur ses épaules tout content. Parfois il doit sortir pour la chercher, lui parler, la persuader; d’autres fois il doit demeurer devant le tabernacle, luttant avec le Seigneur pour cette brebis.

Voilà le cœur qui cherche: c’est un cœur qui ne privatise pas les temps et les espaces. Gare aux pasteurs qui privatisent leur ministère! Il n’est pas jaloux de sa légitime tranquillité – je dis légitime, même de celle-là – et il n’exige jamais de ne pas être dérangé. Le pasteur selon le cœur de Dieu ne défend pas ses propres aises, il n’est pas préoccupé de conserver sa bonne réputation, mais il sera calomnié, comme Jésus. Sans craindre les critiques, il est disposé à risquer même d’imiter son Seigneur. «Heureux êtes-vous si l’on vous insulte, si l’on vous persécute…» (Mt 5, 11)

Le Pasteur selon Jésus a le cœur libre pour laisser ses affaires, il ne vit pas en tenant les comptes de ce qu’il a et des heures de service: il n’est pas un comptable de l’esprit, mais un bon samaritain à la recherche de celui qui a besoin. C’est un pasteur, non un inspecteur du troupeau, et il se dévoue à la mission non à cinquante ou soixante pour cent, mais avec tout lui-même. Allant à la recherche, il trouve, et il trouve parce qu’il risque. Si le pasteur ne risque pas, il ne trouve pas. Il ne s’arrête pas après les déceptions et il ne se rend pasdans les fatigues ; il est en effet, obstiné dans le bien, oint de la divine obstination que personne ne se perde. Pour cela, non seulement il tient les portes ouvertes, mais il sort à la recherche de celui qui ne veut plus entrer par la porte. Et comme tout bon chrétien et comme exemple pour tout chrétien, il est toujours en sortie de soi. L’épicentre de son cœur se trouve hors de lui: il est un décentré de lui-même, centré seulement en Jésus. Il n’est pas attiré par son moi, mais par le Tu de Dieu et par le nous des hommes.

Deuxième parole: inclure. Le Christ aime et connaît se brebis, il donne sa vie pour elles et aucune ne lui est étrangère (cf. Jn 10, 11-14). Son troupeau est sa famille et sa vie. Il n’est pas un chef craint par les brebis, mais il est le Pasteur qui marche avec elles et les appelle par leur nom (cf. Jn 10, 3-4). Et il désire rassembler les brebis qui ne demeurent pas encore avec Lui (cf. Jn 10, 16).

Ainsi également le prêtre du Christ: il est oint pour le peuple, pas pour choisir ses propres projets, mais pour être proche des gens concrets que Dieu, par l’Église, lui a confiés. Personne n’est exclu de son cœur, de sa prière et de son sourire. Avec un regard aimable et un cœur de père, il accueille, il inclut et, quand il doit corriger, c’est toujours pour approcher; il ne méprise personne, mais il est prêt à se salir les mains pour tous. Le Bon Pasteur ne connaît pas les gants. Ministre de la communion qu’il célèbre et qu’il vit, il n’attend pas les salutations et les compliments des autres, mais il tend la main en premier, rejetant les bavardages, les jugements et les venins. Il écoute les problèmes avec patience et il accompagne les pas des personnes, accordant le pardon divin avec une généreuse compassion. Il ne gronde pas celui qui laisse ou qui perd la route, mais il est toujours prêt à réinsérer et à calmer les querelles. C’est un homme qui sait inclure.

Se réjouir. Dieu est «tout joyeux» (Lc 5, 5): sa joie naît du pardon, de la vie qui renaît, du fils qui respire à nouveau l’air de la maison. La joie de Jésus Bon Pasteur n’est pas une joie pour soi, mais c’est une joie pour les autres et avec les autres, la vraie joie de l’amour. C’est aussi la joie du prêtre. Il est transformé par la miséricorde qui donne gratuitement. Dans la prière il découvre la consolation de Dieu et il expérimente que rien n’est plus fort que son amour. Pour cela, il est serein intérieurement, et il est heureux d’être un canal de miséricorde, d’approcher l’homme au Cœur de Dieu. La tristesse pour lui n’est pas normale, mais seulement passagère: la dureté lui est étrangère, parce qu’il est pasteur selon le Cœur doux de Dieu.

Chers prêtres, dans la célébration eucharistique nous retrouvons chaque jour notre identité de pasteurs. Chaque fois nous pouvons faire véritablement nôtre ses paroles «ceci est mon corps offert en sacrifice pour vous». C’est le sens de notre vie, ce sont les paroles avec lesquelles, dans un certain sens, nous pouvons renouveler quotidiennement les promesses de notre Ordination. Je vous remercie pour votre «oui», et pour de nombreux «oui» cachés de tous les jours, que seul le Seigneur connaît. Je vous remercie pour votre «oui» à donner la vie unis à Jésus: là se tient la source pure de notre joie.

[00922-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

This celebration of the Jubilee for Priests on the Solemnity of the Sacred Heart of Jesus invites us all to turn to the heart, the deepest root and foundation of every person, the focus of our affective life and, in a word, his or her very core. Today we contemplate two hearts: the Heart of the Good Shepherd and our own heart as priests.

The Heart of the Good Shepherd is not only the Heart that shows us mercy, but is itself mercy. There the Father’s love shines forth; there I know I am welcomed and understood as I am; there, with all my sins and limitations, I know the certainty that I am chosen and loved. Contemplating that heart, I renew my first love: the memory of that time when the Lord touched my soul and called me to follow him, the memory of the joy of having cast the nets of our life upon the sea of his word (cf. Lk 5:5).

The Heart of the Good Shepherd tells us that his love is limitless; it is never exhausted and it never gives up. There we see his infinite and boundless self-giving; there we find the source of that faithful and meek love which sets free and makes others free; there we constantly discover anew that Jesus loves us “even to the end” (Jn 13:1), to the very end, without ever imposing.

The Heart of the Good Shepherd reaches out to us, above all to those who are most distant. There the needle of his compass inevitably points, there we see a particular “weakness” of his love, which desires to embrace all and lose none.

Contemplating the Heart of Christ, we are faced with the fundamental question of our priestly life: Where is my heart directed? It is a question we need to keep asking, daily, weekly… Where is my heart directed? Our ministry is often full of plans, projects and activities: from catechesis to liturgy, to works of charity, to pastoral and administrative commitments. Amid all these, we must still ask ourselves: What is my heart set on? I think of that beautiful prayer of the liturgy, “Ubi vera sunt gaudia”… Where is it directed, what is the treasure that it seeks? For as Jesus says: “Where your treasure is, there will your heart be also” (Mt 6:21). All of us have our weaknesses and sins. But let us go deeper: what is the root of our failings, those sins, the place we have hid that “treasure” that keeps us from the Lord?

The great riches of the Heart of Jesus are two: the Father and ourselves. His days were divided between prayer to the Father and encountering people. Not distance, but encounter. So too the heart of Christ’s priests knows only two directions: the Lord and his people. The heart of the priest is a heart pierced by the love of the Lord. For this reason, he no longer looks to himself, or should look to himself, but is instead turned towards God and his brothers and sisters. It is no longer “a fluttering heart”, allured by momentary whims, shunning disagreements and seeking petty satisfactions. Rather, it is a heart rooted firmly in the Lord, warmed by the Holy Spirit, open and available to our brothers and sisters. That is where our sins are resolved.

To help our hearts burn with the charity of Jesus the Good Shepherd, we can train ourselves to do three things suggested to us by today’s readings: seek out, include and rejoice.

Seek out. The prophet Ezekiel reminds us that God himself goes out in search of his sheep (Ez 34:11, 16). As the Gospel says, he “goes out in search of the one who is lost” (Lk 15:4), without fear of the risks. Without delaying, he leaves the pasture and his regular workday. He doesn’t demand overtime. He does not put off the search. He does not think: “I have done enough for today; perhaps I’ll worry about it tomorrow”. Instead, he immediately sets to it; his heart is anxious until he finds that one lost sheep. Having found it, he forgets his weariness and puts the sheep on his shoulders, fully content. Sometimes he has to go and seek it out, to speak, to persuade; at other times he must remain in prayer before the tabernacle, struggling with the Lord for that sheep.

Such is a heart that seeks out. A heart that does not set aside times and spaces as private. Woe to those shepherds to privatize their ministry! It is not jealous of its legitimate quiet time, even that, and never demands that it be left alone. A shepherd after the heart of God does not protect his own comfort zone. He is not worried about protecting his good name, but will be slandered as Jesus was. Unafraid of criticism, he is disposed to take risks in seeking to imitate his Lord. “Blessed are you when people revile you and persecute you….” (Mt 5:11).

A shepherd after the heart of God has a heart sufficiently free to set aside his own concerns. He does not live by calculating his gains or how long he has worked: he is not an accountant of the Spirit, but a Good Samaritan who seeks out those in need. For the flock he is a shepherd, not an inspector, and he devotes himself to the mission not fifty or sixty percent, but with all he has. In seeking, he finds, and he finds because he takes risks. Unless a shepherd risks, he does not find. He does not stop when disappointed and he does not yield to weariness. Indeed, he is stubborn in doing good, anointed with the divine obstinacy that loses sight of no one. Not only does he keep his doors open, but he also goes to seek out those who no longer wish to enter them. Like every good Christian, and as an example for every Christian, he constantly goes out of himself. The epicentre of his heart is outside of himself. He is centred only in Jesus, not in himself. He is not attracted by his own “I”, but by the “Thou” of God and by the “we” of other men and women.

The second word: Include. Christ loves and knows his sheep. He gives his life for them, and no one is a stranger to him (cf. Jn 10:11-14). His flock is his family and his life. He is not a boss to feared by his flock, but a shepherd who walks alongside them and calls them by name (cf. Jn 10:3-4). He wants to gather the sheep that are not yet of his fold (cf. Jn 10:16).

So it is also with the priest of Christ. He is anointed for his people, not to choose his own projects but to be close to the real men and women whom God has entrusted to him. No one is excluded from his heart, his prayers or his smile. With a father’s loving gaze and heart, he welcomes and includes everyone, and if at times he has to correct, it is to draw people closer. He stands apart from no one, but is always ready to dirty his hands. The Good Shepherd does not wear gloves. As a minister of the communion that he celebrates and lives, he does not await greetings and compliments from others, but is the first to reach out, rejecting gossip, judgements and malice. He listens patiently to the problems of his people and accompanies them, sowing God’s forgiveness with generous compassion. He does not scold those who wander off or lose their way, but is always ready to bring them back and to resolve difficulties and disagreements. He knows how to include.

Rejoice. God is “full of joy” (cf. Lk 15:5). His joy is born of forgiveness, of life risen and renewed, of prodigal children who breathe once more the sweet air of home. The joy of Jesus the Good Shepherd is not a joy for himself alone, but a joy for others and with others, the true joy of love. This is also the joy of the priest. He is changed by the mercy that he freely gives. In prayer he discovers God’s consolation and realizes that nothing is more powerful than his love. He thus experiences inner peace, and is happy to be a channel of mercy, to bring men and women closer to the Heart of God. Sadness for him is not the norm, but only a step along the way; harshness is foreign to him, because he is a shepherd after the meek Heart of God.

Dear priests, in the Eucharistic celebration we rediscover each day our identity as shepherds. In every Mass, may we truly make our own Christ’s words: “This is my body, which is given up for you”. This is the meaning of our life; with these words, in a real way we can daily renew the promises we made at our priestly ordination. I thank all of you for saying “yes”, and also for all those many times you secretly say “yes” each day, things that only the Lord knows about. I thank you for saying “yes” to giving your life in union with Jesus: for in this is found the pure source of our joy.

[00922-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Da wir das Jubiläum der Priester am Hochfest des Heiligsten Herzens Jesu feiern, sind wir aufgerufen, uns auf das Herz bzw. die Innerlichkeit zu konzentrieren, auf die kräftigsten Wurzeln des Lebens, auf den Kern der Gefühle – in einem Wort: auf die Mitte der Person. Und heute richten wir den Blick auf zwei Herzen: auf das Herz des Guten Hirten und auf unser Hirtenherz.

Das Herz des Guten Hirten ist nicht nur das Herz, das Erbarmen mit uns hat, sondern es ist die Barmherzigkeit selbst. Dort erstrahlt die Liebe des Vaters; dort habe ich das sichere Gefühl, angenommen und verstanden zu werden, wie ich bin; dort genieße ich die Gewissheit, mit allen meinen Grenzen und Sünden doch erwählt und geliebt zu sein. Indem ich auf dieses Herz blicke, erneuere ich meine erste Liebe: die Erinnerung an den Moment, als der Herr mich im Innersten angerührt und mich berufen hat, ihm nachzufolgen, die Freude, auf sein Wort hin die Netze des Lebens ausgeworfen zu haben (vgl. Lk 5,5).

Das Herz des Guten Hirten sagt uns, dass seine Liebe keine Grenzen kennt, dass es nicht müde wird und niemals aufgibt. Dort sehen wir seine ständige, uneingeschränkte Selbsthingabe; dort finden wir die Quelle der treuen und sanften Liebe, die frei lässt und frei macht; dort entdecken wir jedes Mal neu, dass Jesus uns liebt »bis zur Vollendung« (Joh 13,1) – er hört nicht früher auf: bis zur Vollendung! –, ohne sich jemals aufzudrängen.

Das Herz des Guten Hirten streckt sich uns entgegen, es ist auf den „gepolt“, der am weitesten entfernt ist; hartnäckig zeigt die Nadel seines Kompasses dorthin, dort offenbart es eine besondere Schwäche der Liebe, denn es möchte alle erreichen und niemanden verlieren.

Vor dem Herzen Jesu kommt die grundlegende Frage unseres Priesterlebens auf: Wohin ist mein Herz ausgerichtet? Eine Frage, die wir Priester uns viele Male stellen müssen, jeden Tag, jede Woche: Wohin ist mein Herz ausgerichtet? Der Dienst ist oft angefüllt mit vielerlei Initiativen, die ihn an viele Fronten stellen: von der Katechese zur Liturgie, zum karitativen Einsatz, zu den pastoralen und sogar zu den administrativen Verpflichtungen. Inmitten so vieler Aktivitäten bleibt die Frage: Wo ist mein Herz verankert? – Da kommt mir jenes so schöne Gebet aus der Liturgie in den Sinn: „Ubi vera sunt gaudia…“ –, worauf zielt es ab, welches ist der Schatz, den es sucht? Denn – sagt Jesus – »wo dein Schatz ist, da ist auch dein Herz« (Mt 6,21). Es gibt Schwachheiten bei uns allen, auch Sünden. Aber gehen wir in die Tiefe, an die Wurzel: Wo ist die Wurzel unserer Schwachheiten, unserer Sünden, das heißt wo genau ist dieser „Schatz“, der uns vom Herrn entfernt?

Die unersetzlichen Schätze des Herzens Jesu sind zwei: der Vater und wir. Seine Tage verliefen zwischen dem Gebet zum Vater und der Begegnung mit den Menschen. Nicht der Abstand, sondern die Begegnung. Auch das Herz des Hirten Christi kennt nur zwei Richtungen: den Herrn und die Menschen. Das Herz des Priesters ist ein von der Liebe des Herrn durchbohrtes Herz. Deshalb schaut er nicht mehr auf sich selbst – sollte nicht auf sich selbst schauen –, sondern ist Gott und den Mitmenschen zugewandt. Es ist kein „wankendes Herz“ mehr, das sich vom Reiz des Augenblicks anziehen lässt oder das hin- und herzieht auf der Suche nach Zustimmung und kleinen Befriedigungen. Es ist stattdessen ein Herz, das im Herrn gefestigt, vom Heiligen Geist gefesselt und für die Mitmenschen offen und verfügbar ist. Und dort löst es seine Sünden.

Um unserem Herz zu helfen, von der Liebe Jesu, des Guten Hirten, zu brennen, können wir uns üben, uns drei Handlungen zu Eigen zu machen, welche die Lesungen von heute uns vorschlagen: suchen, einbeziehen und uns freuen.

Suchen. Der Prophet Ezechiel hat uns daran erinnert, dass Gott selber seine Schafe sucht (34,11.16). Er »geht dem verlorenen nach«, sagt das Evangelium (Lk 15,4), ohne sich von den Gefahren erschrecken zu lassen; ohne Zögern dringt er wagemutig in Gebiete außerhalb des Weidelands und in Zonen außerhalb der Arbeitszeiten vor. Und er lässt sich die Überstunden nicht bezahlen. Er schiebt die Suche nicht auf. Er denkt nicht: „Heute habe ich meine Pflicht bereits erledigt und vielleicht werde ich mich morgen darum kümmern“, sondern er macht sich sofort an die Arbeit. Sein Herz ist unruhig, bis er das eine verlorene Schaf wiederfindet. Und wenn er es gefunden hat, vergisst er die Mühe und lädt es ganz zufrieden auf seine Schultern. Manchmal muss er hinausgehen, um es zu suchen, zu sprechen, zu überzeugen; andere Male muss er vor dem Tabernakel bleiben und mit dem Herrn um jenes Schaf ringen.

Das ist das suchende Herz: Es ist ein Herz, das Zeiten und Räume nicht „privatisiert“ – weh den Hirten, die ihren Dienst privatisieren! –, nicht eifersüchtig über seine rechtmäßige Ruhe wacht – „rechtmäßige“ sage ich, und nicht einmal über die! – und niemals den Anspruch erhebt, nicht gestört zu werden. Der Hirt nach dem Herzen Gottes verteidigt nicht die eigenen Bequemlichkeiten, ist nicht besorgt, den eigenen guten Ruf zu schützen, sondern er wird verleumdet werden wie Jesus. Ohne die Kritiken zu fürchten, ist er bereit zum Risiko, nur um seinen Herrn nachzuahmen. »Selig seid ihr, wenn ihr beschimpft und verfolgt werdet…« (Mt 5,11).

Der Hirt, der Jesus gemäß ist, besitzt ein Herz, das frei ist, die eigenen Dinge loszulassen. Er lebt nicht, indem er sein Eigentum und seine Dienststunden „abrechnet“: Er ist kein Buchhalter des Geistes, sondern ein barmherziger Samariter auf der Suche nach den Bedürftigen. Er ist ein Hirte, nicht ein Inspekteur der Herde, und widmet sich seiner Sendung nicht fünfzig- oder sechzigprozentig, sondern mit seinem ganzen Sein. Wenn er auf die Suche geht, findet er, und er findet, weil er riskiert. Wenn der Hirte nicht riskiert, findet er nicht. Er bleibt nach Enttäuschungen nicht stehen und gibt in Mühen nicht auf. Er ist tatsächlich hartnäckig im Guten, gesalbt von der göttlichen Hartnäckigkeit, dass niemand verlorengehen soll. Deshalb hält er nicht nur die Türen offen, sondern geht hinaus auf die Suche nach denen, die nicht mehr durch die Tür eintreten wollen. Und wie jeder gute Christ und als Vorbild für jeden Christen geht er ständig aus sich selbst heraus. Der Schwerpunkt seines Herzens befindet sich außerhalb seiner selbst: Er ist aus dem Zentrum des eigenen Ich herausgerückt und hat als Zentrum nur Jesus. Er ist nicht von seinem Ich angezogen, sondern von dem Du Gottes und vom Wir der Menschen.

Das zweite Wort: einbeziehen. Christus liebt und kennt seine Schafe, für sie gibt er sein Leben hin und keines ist ihm fremd (vgl. Joh 10.11-14). Seine Herde ist seine Familie und sein Leben. Er ist kein von den Schafen gefürchteter Vorgesetzter, sondern der Hirt, der mit ihnen geht und sie beim Namen ruft (vgl. Joh 10, 3-4). Und er möchte die Schafe versammeln, die noch nicht bei ihm wohnen (vgl. Joh 10,16).

So ist auch der Priester Christi: Er ist gesalbt für das Volk, nicht um sich für seine eigenen Pläne zu entscheiden, sondern um den konkreten Menschen nahe zu sein, die Gott ihm durch die Kirche anvertraut hat. Niemand ist aus seinem Herzen, aus seinem Gebet und aus seinem Lächeln ausgeschlossen. Mit liebevollem Blick und einem Vaterherzen nimmt er auf und bezieht ein; und wenn er zurechtweisen muss, dann stets, um in die Nähe zu holen. Niemanden verachtet er, sondern für alle ist er bereit, sich die Hände schmutzig zu machen. Der Gute Hirte kennt keine Handschuhe. Als Diener der Communio, die er zelebriert und die er lebt, erwartet er nicht den Gruß und die Komplimente der anderen, sondern reicht als Erster die Hand und verwirft Tratsch, Urteile und Gift. Geduldig hört er die Probleme an und begleitet die Schritte der Menschen, indem er mit großherzigem Mitgefühl die göttliche Vergebung spendet. Er schimpft den nicht aus, der den Weg verlässt oder verliert, sondern ist immer bereit, wieder einzugliedern und Streit zu schlichten. Er ist ein Mann, der einzugliedern versteht.

Und das dritte Wort: sich freuen. Gott ist »voll Freude« (Lk 15,5): Seine Freude hat ihren Grund in der Vergebung; in dem Leben, das neu ersteht; in dem Sohn, der wieder die Luft des Elternhauses atmet. Die Freude Jesu, des Guten Hirten, ist keine Freude über sich, sondern eine Freude über die anderen und mit den anderen, die wahre Freude der Liebe. Das ist auch die Freude des Priesters. Er wird verwandelt durch die Barmherzigkeit, die er gegenleistungsfrei erweist. Im Gebet entdeckt er den Trost Gottes und erfährt, dass nichts stärker ist als seine Liebe. Darum ist er innerlich ausgeglichen und ist glücklich, ein Kanal der Barmherzigkeit zu sein und den Menschen dem Herzen Gottes nahezubringen. Traurigkeit ist für ihn nicht normal, sondern vorübergehend; Härte ist ihm fremd, denn er ist ein Hirte gemäß dem milden Herzen Gottes.

Liebe Priester, in der Eucharistiefeier finden wir jeden Tag diese unsere Identität des Hirten wieder. Jedes Mal können wir uns seine Worte: »Dies ist mein Leib, der für euch hingegeben wird« wirklich zu Eigen machen. Das ist der Sinn unseres Lebens, das sind die Worte, mit denen wir in gewisser Weise täglich unsere Weiheversprechen erneuern können. Ich danke euch für euer „Ja“ und für viele verborgene „Ja“ des Alltags, die allein der Herr kennt. Ich danke euch für euer „Ja“, das Leben vereint mit Jesus hinzugeben: Hier liegt die reine Quelle unserer Freude.

[00922-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

 

La celebración del Jubileo de los Sacerdotes en la solemnidad del Sagrado Corazón de Jesús nos invita a llegar al corazón, es decir, a la interioridad, a las raíces más sólidas de la vida, al núcleo de los afectos, en una palabra, al centro de la persona. Y hoy nos fijamos en dos corazones: el del Buen Pastor y nuestro corazón de pastores.

El corazón del Buen Pastor no es sólo el corazón que tiene misericordia de nosotros, sino la misericordia misma. Ahí resplandece el amor del Padre; ahí me siento seguro de ser acogido y comprendido como soy; ahí, con todas mis limitaciones y mis pecados, saboreo la certeza de ser elegido y amado. Al mirar a ese corazón, renuevo el primer amor: el recuerdo de cuando el Señor tocó mi alma y me llamó a seguirlo, la alegría de haber echado las redes de la vida confiando en su palabra (cf. Lc 5,5).

El corazón del Buen Pastor nos dice que su amor no tiene límites, no se cansa y nunca se da por vencido. En él vemos su continua entrega sin algún confín; en él encontramos la fuente del amor dulce y fiel, que deja libre y nos hace libres; en él volvemos cada vez a descubrir que Jesús nos ama «hasta el extremo» (Jn 13,1); no se detiene antes, va hasta el final, sin imponerse nunca.

El corazón del Buen Pastor está inclinado hacia nosotros, «polarizado» especialmente en el que está lejano; allí apunta tenazmente la aguja de su brújula, allí revela la debilidad de un amor particular, porque desea llegar a todos y no perder a nadie.

Ante el Corazón de Jesús nace la pregunta fundamental de nuestra vida sacerdotal: ¿A dónde se orienta mi corazón? Pregunta que nosotros sacerdotes tenemos que hacernos muchas veces, cada día, cada semana: ¿A dónde se orienta mi corazón? El ministerio está a menudo lleno de muchas iniciativas, que lo ponen ante diversos frentes: de la catequesis a la liturgia, de la caridad a los compromisos pastorales e incluso administrativos. En medio de tantas actividades, permanece la pregunta: ¿En dónde se fija mi corazón? Viene a mi memoria esa oración tan bonita de la liturgia: «Ubi vera sunt gaudia…».¿A dónde apunta, cuál es el tesoro que busca? Porque —dice Jesús— «donde estará tu tesoro, allí está tu corazón» (Mt 6,21). Tenemos debilidades todos nosotros, también pecados. Pero vayamos a lo profundo, a la raíz: ¿Dónde está la raíz de nuestras debilidades, de nuestros pecados? Es decir: ¿Dónde está el «tesoro» que nos aleja del Señor?

Los tesoros irremplazables del Corazón de Jesús son dos: el Padre y nosotros. Él pasaba sus jornadas entre la oración al Padre y el encuentro con la gente. No la distancia, sino el encuentro. También el corazón de pastor de Cristo conoce sólo dos direcciones: el Señor y la gente. El corazón del sacerdote es un corazón traspasado por el amor del Señor; por eso no se mira a sí mismo —no debería mirarse a sí mismo— sino que está dirigido a Dios y a los hermanos. Ya no es un «corazón bailarín», que se deja atraer por las seducciones del momento, o que va de aquí para allá en busca de aceptación y pequeñas satisfacciones. Es más bien un corazón arraigado en el Señor, cautivado por el Espíritu Santo, abierto y disponible para los hermanos. Y ahí resuelve sus pecados.

Para ayudar a nuestro corazón a que tenga el fuego de la caridad de Jesús, el Buen Pastor, podemos ejercitarnos en asumir en nosotros tres formas de actuar que nos sugieren las Lecturas de hoy: buscar, incluir y alegrarse.

Buscar. El profeta Ezequiel nos recuerda que Dios mismo busca a sus ovejas (cf. 34,11.16). Como dice el Evangelio, «va tras la descarriada hasta que la encuentra» (Lc 15,4), sin dejarse atemorizar por los riesgos; se aventura sin titubear más allá de los lugares de pasto y fuera de las horas de trabajo. Y no se hace pagar lo extraordinario. No aplaza la búsqueda, no piensa: «Hoy ya he cumplido con mi deber, y tal vez me ocuparé mañana», sino que se pone de inmediato manos a la obra; su corazón está inquieto hasta que encuentra esa oveja perdida. Y, cuando la encuentra, olvida la fatiga y se la carga sobre sus hombros todo contento. A veces tiene que salir para buscarla, para hablar, persuadir; otras veces debe permanecer ante el Sagrario, luchando con el Señor por esa oveja.

Así es el corazón que busca: es un corazón que no privatiza los tiempos y espacios, . ¡Ay de los pastores que privatizan su ministerio! No es celoso de su legítima tranquilidad —legítima, digo; ni siquiera de esa—, y nunca pretende que no lo molesten. El pastor, según el corazón de Dios, no defiende su propia comodidad, no se preocupa de proteger su buen nombre, aunque sea calumniado como Jesús. Sin temor a las críticas, está dispuesto a arriesgar con tal de imitar a su Señor. «Bienaventurados cuando os insulten, os persigan….» (Mt 5,11).

El pastor según Jesús tiene el corazón libre para dejar sus cosas, no vive haciendo cuentas de lo que tiene y de las horas de servicio: no es un contable del espíritu, sino un buen Samaritano en busca de quien tiene necesidad. Es un pastor, no un inspector de la grey, y se dedica a la misión no al cincuenta o sesenta por ciento, sino con todo su ser. Al ir en busca, encuentra, y encuentra porque arriesga; . Si el pastor no arriesga, no encuentra. No se queda parado después de las desilusiones ni se rinde ante las dificultades; en efecto, es obstinado en el bien, ungido por la divina obstinación de que nadie se extravíe. Por eso, no sólo tiene la puerta abierta, sino que sale en busca de quien no quiere entrar por ella. Y como todo buen cristiano, y como ejemplo para cada cristiano, siempre está en salida de sí mismo. El epicentro de su corazón está fuera de él: es un descentrado de sí mismo, centrado sólo en Jesús. No es atraído por su yo, sino por el tú de Dios y por el nosotros de los hombres.

Segunda palabra: incluir. Cristo ama y conoce a sus ovejas, da la vida por ellas y ninguna le resulta extraña (cf. Jn 10,11-14). Su rebaño es su familia y su vida. No es un jefe temido por las ovejas, sino el pastor que camina con ellas y las llama por su nombre (cf. Jn 10, 3-4). Y quiere reunir a las ovejas que todavía no están con él (cf. Jn 10,16).

Así es también el sacerdote de Cristo: está ungido para el pueblo, no para elegir sus propios proyectos, sino para estar cerca de las personas concretas que Dios, por medio de la Iglesia, le ha confiado. Ninguno está excluido de su corazón, de su oración y de su sonrisa. Con mirada amorosa y corazón de padre, acoge, incluye, y, cuando debe corregir, siempre es para acercar; no desprecia a nadie, sino que está dispuesto a ensuciarse las manos por todos. El Buen Pastor no conoce los guantes. Ministro de la comunión, que celebra y vive, no pretende los saludos y felicitaciones de los otros, sino que es el primero en ofrecer mano, desechando cotilleos, juicios y venenos. Escucha con paciencia los problemas y acompaña los pasos de las personas, prodigando el perdón divino con generosa compasión. No regaña a quien abandona o equivoca el camino, sino que siempre está dispuesto para reinsertar y recomponer los litigios. Es un hombre que sabe incluir.

Alegrarse. Dios se pone «muy contento» (Lc 15,5): su alegría nace del perdón, de la vida que se restaura, del hijo que vuelve a respirar el aire de casa. La alegría de Jesús, el Buen Pastor, no es una alegría para sí mismo, sino para los demás y con los demás, la verdadera alegría del amor. Esta es también la alegría del sacerdote. Él es transformado por la misericordia que, a su vez, ofrece de manera gratuita. En la oración descubre el consuelo de Dios y experimenta que nada es más fuerte que su amor. Por eso está sereno interiormente, y es feliz de ser un canal de misericordia, de acercar el hombre al corazón de Dios. Para él, la tristeza no es lo normal, sino sólo pasajera; la dureza le es ajena, porque es pastor según el corazón suave de Dios.

Queridos sacerdotes, en la celebración eucarística encontramos cada día nuestra identidad de pastores. Cada vez podemos hacer verdaderamente nuestras las palabras de Jesús: «Esto es mi cuerpo que se entrega por vosotros». Este es el sentido de nuestra vida, son las palabras con las que, en cierto modo, podemos renovar cotidianamente las promesas de nuestra ordenación. Os agradezco vuestro «sí», y por tantos «sí» escondidos de todos los días, que sólo el Señor conoce. Os agradezco por vuestro «sí» para dar la vida unidos a Jesús: aquí está la fuente pura de nuestra alegría.

[00922-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Celebrando o Jubileu dos Sacerdotes na Solenidade do Sagrado Coração de Jesus, somos chamados a concentrar-nos no coração, ou seja, na interioridade, nas raízes mais robustas da vida, no núcleo dos afetos, numa palavra, no centro da pessoa. E hoje fixamos o olhar em dois corações: o Coração do Bom Pastor e o nosso coração de pastores.

O Coração do Bom Pastor é, não apenas o Coração que tem misericórdia de nós, mas a própria misericórdia. Nele resplandece o amor do Pai; nele tenho a certeza de ser acolhido e compreendido como sou; nele, com todas as minhas limitações e os meus pecados, saboreio a certeza de ser escolhido e amado. Fixando aquele Coração, renovo o primeiro amor: a memória de quando o Senhor me tocou no mais íntimo e me chamou para O seguir; a alegria de, à sua Palavra, ter lançado as redes da vida (cf. Lc 5, 5).

O Coração do Bom Pastor diz-nos que o seu amor não tem limites, não se cansa nem se arrende jamais. Nele vemos a sua doação incessante, sem limites; nele encontramos a fonte do amor fiel e manso, que deixa livres e torna livres; nele descobrimos sempre de novo que Jesus nos ama «até ao fim» (Jo 13,1) – não se detém antes, ama até ao fim –, sem nunca se impor.

O Coração do Bom Pastor está inclinado para nós, concentrado especialmente sobre quem está mais distante; para aí aponta obstinadamente a agulha da sua bússola, por essa pessoa revela um fraquinho particular de amor, porque deseja alcançar a todos e não perder ninguém.

À vista do Coração de Jesus, surge a questão fundamental da nossa vida sacerdotal: para onde está orientado o meu coração? Uma pergunta que nós, sacerdotes, nos devemos pôr muitas vezes, cada dia, cada semana: para onde está orientado o meu coração? O ministério aparece, com frequência, cheio das mais variadas iniciativas, que o reclamam em tantas frentes: da catequese à liturgia, à caridade, aos compromissos pastorais e mesmo administrativos. No meio de tantas atividades, permanece a questão: onde está fixo o meu coração? (Vem-me à mente aquela oração tão bela da liturgia: «Ubi vera sunt gaudia…»). Para onde aponta o coração? Qual é o tesouro que procura? Porque – diz Jesus – «onde estiver o teu tesouro, aí estará também o teu coração» (Mt 6, 21). Todos nós temos fraquezas e também pecados. Mas procuremos ir ao fundo, à raiz: Onde está a raiz das nossas fraquezas, dos nossos pecados, ou seja, onde está precisamente aquele «tesouro» que nos afasta do Senhor?

Os tesouros insubstituíveis do Coração de Jesus são dois: o Pai e nós. As suas jornadas transcorriam entre a oração ao Pai e o encontro com as pessoas. Não distanciamento, mas o encontro. Também o coração do pastor de Cristo só conhece duas direções: o Senhor e as pessoas. O coração do sacerdote é um coração trespassado pelo amor do Senhor; por isso já não olha para si mesmo – não deveria olhar para si mesmo –, mas está fixo em Deus e nos irmãos. Já não é «um coração dançarino», que se deixa atrair pela sugestão do momento ou que corre daqui para ali à procura de consensos e pequenas satisfações; ao contrário, é um coração firme no Senhor, conquistado pelo Espírito Santo, aberto e disponível aos irmãos. E nisso têm solução os seus pecados.

Para ajudar o nosso coração a inflamar-se na caridade de Jesus Bom Pastor, podemos treinar-nos a fazer nossas três ações que as Leituras de hoje nos sugerem: procurar, incluir e alegrar-se.

Procurar. O profeta Ezequiel lembrou-nos que Deus em pessoa procura as suas ovelhas (34, 11.16). Ele – diz o Evangelho – «vai à procura da que se tinha perdido» (Lc 15, 4), sem se deixar atemorizar pelos riscos; sem hesitação, aventura-se para além dos lugares de pastagem e fora das horas de trabalho. E não exige pagamento das horas extraordinárias. Não adia a busca; não pensa: «hoje já cumpri o meu dever; veremos se me ocupo disso amanhã», mas põe-se imediatamente em campo; o seu coração está inquieto enquanto não encontra aquela única ovelha perdida. Tendo-a encontrado, esquece-se do cansaço e carrega-a aos ombros, cheio de alegria. Umas vezes terá de sair à sua procura, falar-lhe, convencê-la; outras deverá permanecer diante do Sacrário, «lutando» com o Senhor por aquela ovelha.

Tal é o coração que procura: é um coração que não privatiza os tempos e os espaços. Ai dos pastores que privatizam o seu ministério! Não é cioso da sua legítima tranquilidade – disse «legítima»; nem sequer desta –, e nunca pretende que não o perturbem. O pastor segundo o coração de Deus não defende as comodidades próprias, não se preocupa por tutelar o seu bom nome, mas será caluniado, como Jesus. Sem medo das críticas, está disposto a arriscar para imitar o seu Senhor. «Felizes sereis, quando vos insultarem e perseguirem…» (Mt 5, 11).

O pastor segundo Jesus tem o coração livre para deixar as suas coisas, não vive fazendo a contabilidade do que tem e das horas de serviço: não é um contabilista do espírito, mas um bom Samaritano à procura dos necessitados. É um pastor, não um inspetor do rebanho; e dedica-se à missão, não a cinquenta ou sessenta por cento, mas com todo o seu ser. Indo à procura encontra, e encontra porque arrisca. Se o pastor não arrisca, não encontra. Não se detém com as deceções nem se arrende às fadigas; na realidade, é obstinado no bem, ungido pela obstinação divina de que ninguém se extravie. Por isso não só mantém as portas abertas, mas sai à procura de quem já não quer entrar pela porta. Como todo o bom cristão, e como exemplo para cada cristão, está sempre em saída de si mesmo. O epicentro do seu coração está fora dele: é um descentrado de si mesmo, porque centrado apenas em Jesus. Não é atraído pelo seu eu, mas pelo Tu de Deus e pelo “nós” dos homens.

Segunda palavra: incluir. Cristo ama e conhece as suas ovelhas, dá a vida por elas e nenhuma Lhe é desconhecida (cf. Jo 10, 11-14). O seu rebanho é a sua família e a sua vida. Não é um líder temido pelas ovelhas, mas o Pastor que caminha com elas e as chama pelo nome (cf. Jo 10, 3-4). E quer reunir as ovelhas que ainda não habitam com Ele (cf. Jo 10, 16).

Assim é também o sacerdote de Cristo: é ungido para o povo, não para escolher os seus próprios projetos, mas para estar perto do povo concreto que Deus, através da Igreja, lhe confiou. Ninguém fica excluído do seu coração, da sua oração e do seu sorriso. Com olhar amoroso e coração de pai acolhe, inclui e, quando tem que corrigir, é sempre para aproximar; não despreza ninguém, estando pronto a sujar as mãos por todos. O Bom Pastor não usa luvas... Ministro da comunhão que celebra e vive, não espera cumprimentos e elogios dos outros, mas é o primeiro a dar uma mão, rejeitando as murmurações, os juízos e os venenos. Com paciência, escuta os problemas e acompanha os passos das pessoas, concedendo o perdão divino com generosa compaixão. Não ralha a quem deixa ou perde a estrada, mas está sempre pronto a reintegrar e a compor as contendas. É um homem que sabe incluir.

Alegrar-se. Deus está «cheio de alegria» (Lc 15, 5): a sua alegria nasce do perdão, da vida que ressurge, do filho que respira novamente o ar de casa. A alegria de Jesus Bom Pastor não é uma alegria por Si, mas uma alegria pelos outros e com os outros, a alegria verdadeira do amor. Esta é também a alegria do sacerdote. É transformado pela misericórdia que dá gratuitamente. Na oração, descobre a consolação de Deus e experimenta que nada é mais forte do que o seu amor. Por isso permanece sereno interiormente, sentindo-se feliz por ser um canal de misericórdia, por aproximar o homem do Coração de Deus. Nele a tristeza não é normal, mas apenas passageira; a dureza é-lhe estranha, porque é pastor segundo o Coração manso de Deus.

Queridos sacerdotes, na Celebração Eucarística, reencontramos todos os dias esta nossa identidade de pastores. De cada vez podemos fazer verdadeiramente nossas as suas palavras: «Este é o meu corpo que será entregue por vós». É o sentido da nossa vida, são as palavras com que, de certa forma, podemos renovar diariamente as promessas da nossa Ordenação. Agradeço-vos pelo vosso «sim», e por tantos «sins» diários, escondidos, que só o Senhor conhece. Agradeço-vos pelo vosso «sim a doar a vida unidos a Jesus: aqui está a fonte pura da nossa alegria.

[00922-PO.02] [Texto original: Italiano]

[B0397-XX.02]