Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Esercizi proposti dal Santo Padre Francesco in occasione del Giubileo dei sacerdoti e dei seminaristi – Terza meditazione (Basilica di San Paolo fuori le Mura), 02.06.2016


Meditazione del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

 

Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Santo Padre Francesco ha tenuto questo pomeriggio alle ore 16 la terza meditazione degli esercizi per i sacerdoti e i seminaristi presenti a Roma per il giubileo. Tutto il ritiro predicato oggi dal Papa è stato seguito in videoconferenza anche dai sacerdoti raccolti nelle Basiliche di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore.

Questo il testo dell’ultima meditazione dettata da Papa Francesco:

Meditazione del Santo Padre

Terza meditazione: il buon odore di Cristo
e la luce della sua misericordia

Speriamo che il Signore ci conceda quello che abbiamo chiesto nella preghiera: imitare l’esempio della pazienza di Gesù e con la pazienza superare le difficoltà.

Questa terza meditazione ha come titolo: “Il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia”.

In questo terzo incontro vi propongo di meditare sulle opere di misericordia, sia prendendone qualcuna, che sentiamo più legata al nostro carisma, sia contemplandole tutte insieme, vedendole con gli occhi misericordiosi della Madonna, che ci fanno scoprire “il vino che manca” e ci incoraggiano a “fare tutto quello che Gesù ci dirà” (cfr Gv 2,1-12), affinché la sua misericordia compia i miracoli di cui il nostro popolo ha bisogno.

Le opere di misericordia sono molto legate ai “sensi spirituali”. Pregando chiediamo la grazia di “sentire e gustare” il Vangelo in modo tale che ci renda sensibili per la vita. Mossi dallo Spirito, guidati da Gesù possiamo vedere già da lontano, con occhi di misericordia, chi giace a terra al bordo della strada, possiamo ascoltare le grida di Bartimeo, possiamo sentire come sente il Signore sul bordo del suo mantello il tocco timido ma deciso dell’emorroissa, possiamo chiedere la grazia di gustare con Lui sulla croce il sapore amaro del fiele di tutti i crocifissi, per sentire così l’odore forte della miseria – in ospedali da campo, in treni e barconi pieni di gente –; quell’odore che l’olio della misericordia non copre, ma che ungendolo fa sì che si risvegli una speranza.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando delle opere di misericordia, racconta che santa Rosa da Lima, il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, santa Rosa da Lima senza esitare le disse: «Quando serviamo i poveri e i malati, siamo buon odore di Cristo» (n. 2449). Questo buon odore di Cristo – la cura dei poveri – è caratteristico della Chiesa, sempre lo è stato. Paolo centrò qui il suo incontro con “le colonne”, come lui le chiama, con Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi «ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri» (Gal 2,10). Questo mi ricorda un fatto, che ho detto alcune volte: appena eletto Papa, mentre continuavano lo scrutinio, si è avvicinato a me un fratello Cardinale, mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non dimenticarti dei poveri”. Il primo messaggio che il Signore mi ha fatto arrivare in quel momento. Il Catechismo dice anche, in maniera suggestiva, che «gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi, a difenderli e a liberarli» (n. 2448). E questo senza ideologie, soltanto con la forza del Vangelo.

Nella Chiesa abbiamo avuto e abbiamo molte cose non tanto buone, e molti peccati, ma in questo di servire i poveri con opere di misericordia, come Chiesa abbiamo sempre seguito lo Spirito, e i nostri santi lo hanno fatto in modo molto creativo ed efficace. L’amore per i poveri è stato il segno, la luce che fa sì che la gente glorifichi il Padre. La nostra gente apprezza questo, il prete che si prende cura dei poveri, dei malati, che perdona i peccatori, che insegna e corregge con pazienza… Il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona. E non è tanto per la ricchezza in sé, ma perché il denaro ci fa perdere la ricchezza della misericordia. Il nostro popolo riconosce “a fiuto” quali peccati sono gravi per il pastore, quali uccidono il suo ministero perché lo fanno diventare un funzionario, o peggio un mercenario, e quali invece sono, non direi peccati secondari - perché non so se teologicamente si può dire questo -, ma peccati che si possono sopportare, caricare come una croce, finché il Signore alla fine li purificherà, come farà con la zizzania. Invece ciò che attenta contro la misericordia è una contraddizione principale. Attenta contro il dinamismo della salvezza, contro Cristo che “si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (cfr 2 Cor 8,9). E questo è così perché la misericordia cura “perdendo qualcosa di sé”: un brandello di cuore rimane con la persona ferita; un tempo della nostra vita, in cui avevamo voglia di fare qualcosa, lo perdiamo quando lo regaliamo all’altro, in un’opera di misericordia.

Perciò non è questione che Dio mi usi misericordia in qualche mancanza, come se nel resto io fossi autosufficiente, o che ogni tanto io compia qualche atto particolare di misericordia verso un bisognoso. La grazia che chiediamo in questa preghiera è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Per noi sacerdoti e vescovi, che lavoriamo con i Sacramenti, battezzando, confessando, celebrando l’Eucaristia…, la misericordia è il modo di trasformare tutta la vita del popolo di Dio in “sacramento”. Essere misericordioso non è solo un modo di essere, ma il modo di essere. Non c’è altra possibilità di essere sacerdote. Il Cura Brochero diceva: «Il sacerdote che non prova molta compassione dei peccatori è un mezzo sacerdote. Questi stracci benedetti che porto addosso non sono essi che mi fanno sacerdote; se non porto nel mio petto la carità, non sono nemmeno cristiano».

Vedere quello che manca per porre rimedio immediatamente, e meglio ancora prevederlo, è proprio dello sguardo di un padre. Questo sguardo sacerdotale – di chi fa le veci del padre nel seno della Chiesa Madre – che ci porta a vedere le persone nell’ottica della misericordia, è quello che si deve insegnare a coltivare a partire dal seminario e deve alimentare tutti i piani pastorali. Desideriamo e chiediamo al Signore uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di “quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la nostra gente” per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a loro. Perché, come dice il Documento di Aparecida, citando sant’Alberto Hurtado, «nelle nostre opere, il nostro popolo sa che comprendiamo il suo dolore» (n. 386).

La prova di questa comprensione del nostro popolo è che nelle nostre opere di misericordia siamo sempre benedetti da Dio e troviamo aiuto e collaborazione nella nostra gente. Non così per altri tipi di progetti, che a volte vanno bene e altre no, e alcuni non si rendono conto del perché non funziona e si rompono la testa cercando un nuovo, ennesimo piano pastorale, quando si potrebbe semplicemente dire: non funziona perché gli manca misericordia, senza bisogno di entrare in particolari. Se non è benedetto è perché gli manca misericordia. Manca quella misericordia che appartiene più a un ospedale da campo che a una clinica di lusso, quella misericordia che, apprezzando qualcosa di buono, prepara il terreno ad un futuro incontro della persona con Dio invece di allontanarla con una critica puntuale…

Vi propongo una preghiera con la peccatrice perdonata (cfr Gv 8,3-11), per chiedere la grazia di essere misericordiosi nella Confessione, e un’altra sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Mi commuove sempre il passo del Signore con la donna adultera, come, quando non la condannò, il Signore “mancò” rispetto alla legge; in quel punto sul quale gli chiedevano di pronunciarsi – “bisogna lapidarla o no?” – non si pronunciò, non applicò la legge. Fece finta di non capire – anche in questo il Signore è un maestro per tutti noi - e, in quel momento, tirò fuori un’altra cosa. Iniziò così un processo nel cuore della donna che aveva bisogno di queste parole: «Neanch’io ti condanno». Tendendole la mano la fece alzare e questo le permise di incontrarsi con uno sguardo pieno di dolcezza che le cambiò il cuore. Il Signore tende la mano alla figlia di Giairo: “Datele da mangiare”. Al ragazzo morto, a Nain: “Alzati”, e lo dà alla sua mamma. E a questa peccatrice: “Alzati”. Il Signore ci rimette proprio come Dio ha voluto che l’uomo stia: in piedi, alzato, mai per terra. A volte mi dà un misto di pena e di indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione, il «non peccare più». E utilizza questa frase per “difendere” Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge. Penso che le parole che usa il Signore sono tutt’uno con le sue azioni. Il fatto di chinarsi a scrivere per terra due volte, creando una pausa prima di ciò che dice a quelli che vogliono lapidare la donna e, prima di ciò che dice a lei, ci parla di un tempo che il Signore si prende per giudicare e perdonare. Un tempo che rimanda ciascuno alla propria interiorità e fa sì che quelli che giudicano si ritirino.

Nel suo dialogo con la donna il Signore apre altri spazi: uno è lo spazio della non condanna. Il Vangelo insiste su questo spazio che è rimasto libero. Ci colloca nello sguardo di Gesù e ci dice che “non vede nessuno intorno ma solo la donna”. E poi Gesù stesso fa guardare intorno la donna con la domanda: “Dove sono quelli che ti classificavano?” (la parola è importante, perché dice di ciò che tanto rifiutiamo come il fatto che ci etichettino e ci facciano una caricatura…). Una volta che la fa guardare quello spazio libero dal giudizio altrui, le dice che nemmeno lui lo invade con le sue pietre: «Neanch’io ti condanno». E in quel momento stesso le apre un altro spazio libero: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Il comandamento si dà per l’avvenire, per aiutare ad andare, per “camminare nell’amore”. Questa è la delicatezza della misericordia che guarda con pietà il passato e incoraggia per il futuro. Questo «non peccare più» non è qualcosa di ovvio. Il Signore lo dice “insieme con lei”, la aiuta ad esprimere in parole ciò che lei stessa sente, quel “no” libero al peccato che è come il “sì” di Maria alla grazia. Il “no” viene detto in relazione alla radice del peccato di ciascuno. Nella donna si trattava di un peccato sociale, del peccato di qualcuno a cui la gente si avvicinava o per stare con lei o per lapidarla. Non c’era un altro tipo di vicinanza con questa donna. Perciò il Signore non solo le sgombra la strada ma la pone in cammino, perché smetta di essere “oggetto” dello sguardo altrui, perché sia protagonista. Il “non peccare” non si riferisce solo all’aspetto morale, io credo, ma a un tipo di peccato che non la lascia fare la sua vita. Anche al paralitico di Betzatà Gesù dice: «Non peccare più» (Gv 5,14); ma costui, che si giustificava per le cose tristi che gli succedevano, che aveva una psicologia da vittima - la donna no -, lo punge un po’ con quel «perché non ti accada qualcosa di peggio». Il Signore approfitta del suo modo di pensare, di ciò che lui teme, per farlo uscire dalla sua paralisi. Lo smuove con la paura, diciamo. Così, ognuno di noi deve ascoltare questo «non peccare più» in maniera intima e personale.

Questa immagine del Signore che mette in cammino le persone è molto appropriata: Egli è il Dio che si mette a camminare con il suo popolo, che manda avanti e accompagna la nostra storia. Perciò, l’oggetto a cui si dirige la misericordia è ben preciso: si rivolge a ciò che fa sì che un uomo e una donna non camminino nel loro posto, con i loro cari, con il proprio ritmo, verso la meta a cui Dio li invita ad andare. La pena, ciò che commuove, è che uno si perda, o che resti indietro, o che sbagli per presunzione; che sia fuori posto, diciamo; che non sia pronto per il Signore, disponibile per il compito che Lui vuole affidargli; che uno non cammini umilmente alla presenza del Signore (cfr Mi 6,8), che non cammini nella carità (cfr Ef 5,2).

Lo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi

Adesso passiamo allo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi.

E, parlando di spazio, andiamo a quello del confessionale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere il confessionale come un luogo in cui la verità ci rende liberi per un incontro. Dice così: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell'amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). E ci ricorda che «il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all'intenzione e alla carità di Cristo» (n. 1466).

Segno e strumento di un incontro. Questo siamo. Attrazione efficace per un incontro. Segno vuol dire che dobbiamo attrarre, come quando uno fa dei segni per richiamare l’attenzione. Un segno dev’essere coerente e chiaro, ma soprattutto comprensibile. Perché ci sono segni che sono chiari solo per gli specialisti, e questi non servono. Segno e strumento. Lo strumento si gioca la vita nella sua efficacia -serve o non serve? -, nell’essere disponibile e incidere nella realtà in modo preciso, adeguato. Siamo strumento se veramente la gente si incontra con il Dio misericordioso. A noi spetta “far sì che si incontrino”, che si trovino faccia a faccia. Quello che poi faranno è cosa loro. C’è un figlio prodigo nel porcile e un padre che tutte le sere sale in terrazza per vedere se arriva; c’è una pecora perduta e un pastore che è andato a cercarla; c’è un ferito abbandonato al bordo della strada e un samaritano che ha il cuore buono. Qual è, dunque, il nostro ministero? Essere segni e strumenti perché questi si incontrino. Teniamo ben chiaro che noi non siamo né il padre, né il pastore, né il samaritano. Piuttosto siamo accanto agli altri tre, in quanto peccatori. Il nostro ministero dev’essere segno e strumento di tale incontro. Perciò ci poniamo nell’ambito del mistero dello Spirito Santo, che è Colui che crea la Chiesa, Colui che fa l’unità, Colui che ravviva ogni volta l’incontro.

L’altra cosa propria di un segno e di uno strumento è di non essere autoreferenziale, per dirlo in maniera difficile. Nessuno si ferma al segno una volta che ha compreso la cosa; nessuno si ferma a guardare il cacciavite o il martello, ma guarda il quadro che è stato ben fissato. Siamo servi inutili. Ecco, strumenti e segni che furono molto utili per altri due che si unirono in un abbraccio, come il padre col figlio.

La terza caratteristica propria del segno e dello strumento è la loro disponibilità. Che sia pronto all’uso lo strumento, che sia visibile il segno. L’essenza del segno e dello strumento è di essere mediatori, disponibili. Forse qui si trova la chiave della nostra missione in questo incontro della misericordia di Dio con l’uomo. Probabilmente è più chiaro usare un termine negativo. Sant’Ignazio parlava di “non essere impedimento”. Un buon mediatore è colui che facilita le cose e non pone impedimenti. Nella mia terra c’era un grande confessore, il padre Cullen, che si sedeva nel confessionale e, quando non c’era gente, faceva due cose: una era aggiustare palloni di cuoio per i ragazzi che giocavano a calcio, l’altra era leggere un grande dizionario di cinese. Era stato tanto tempo in Cina, e voleva conservare la lingua. Diceva lui che quando la gente lo vedeva in attività così inutili, come aggiustare vecchi palloni, e così a lungo termine, come leggere un dizionario di cinese, pensava: “Posso avvicinarmi a parlare un po’ con questo prete perché si vede che non ha niente da fare”. Era disponibile per l’essenziale. Lui aveva un orario per il confessionale, ma era lì. Evitava l’impedimento di avere sempre l’aspetto di uno molto occupato. E’ qui il problema. La gente non si avvicina quando vede il suo pastore molto, molto occupato, sempre impegnato.

Ognuno di noi ha conosciuto buoni confessori. Bisogna imparare dai nostri buoni confessori, di quelli ai quali la gente si avvicina, quelli che non la spaventano e sanno parlare finché l’altro racconta quello che è successo, come Gesù con Nicodemo. E’ importante capire il linguaggio dei gesti; non chiedere cose che sono evidenti per i gesti. Se uno si avvicina al confessionale è perché è pentito, c’è già pentimento. E se si avvicina è perché ha il desiderio di cambiare. O almeno desidera il desiderio, e se la situazione gli sembra impossibile (ad impossibilia nemo tenetur, come dice il brocardo, nessuno è obbligato a fare l’impossibile). Il linguaggio dei gesti. Ho letto nella vita di un santo recente di questi tempi che, poveretto, soffriva nella guerra. C’era un soldato che stava per essere fucilato e lui andò a confessarlo. E si vede che quel tale era un po’ libertino, faceva tante feste con le donne… “Ma tu sei pentito di questo?” - “No, era tanto bello, padre”. E questo santo non sapeva come uscirne. C’era lì il plotone per fucilarlo, e allora gli disse: “Di’ almeno: ti rammarichi di non essere pentito?” - “Questo sì” - “Ah, va bene!”. Il confessore cerca sempre la strada, e il linguaggio dei gesti è il linguaggio delle possibilità per arrivare al punto.

Bisogna imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono. Io sono rimasto tanto edificato da uno dei Cardinali della Curia, che a priori io pensavo che fosse molto rigido. E lui, quando c’era un penitente che aveva un peccato in modo che gli dava vergogna a dirlo e incominciava con una parola o due, subito capiva di che cosa si trattava e diceva: “Vada avanti, ho capito, ho capito!”. E lo fermava, perché aveva capito. Questa è delicatezza. Ma quei confessori – perdonatemi – che domandano e domandano…: “Ma dimmi, per favore…”. Tu hai bisogno di tanti dettagli per perdonare oppure “ti stai facendo il film”? Quel cardinale mi ha edificato tanto. La completezza della confessione non è una questione matematica - quante volte? Come? dove?... -. A volte la vergogna si nasconde più davanti al numero che davanti al peccato stesso. Ma per questo bisogna lasciarsi commuovere dinanzi alla situazione della gente, che a volte è un miscuglio di cose, di malattia, di peccato e, di condizionamenti impossibili da superare, come Gesù che si commuoveva vedendo la gente, lo sentiva nelle viscere, nelle budella e perciò guariva e guariva anche se l’altro “non lo chiedeva bene”, come quel lebbroso, o girava intorno, come la Samaritana, che era come la pavoncella: faceva il verso da una parte ma aveva il nido dall’altra. Gesù era paziente.

Bisogna imparare dai confessori che sanno fare in modo che il penitente senta la correzione facendo un piccolo passo avanti, come Gesù, che dava una penitenza che bastava, e sapeva apprezzare chi ritornava a ringraziare, chi poteva ancora migliorare. Gesù faceva prendere il lettuccio al paralitico, o si faceva pregare un po’ dai ciechi o dalla donna sirofenicia. Non gli importava se dopo non badavano più a Lui, come il paralitico alla piscina di Betzatà, o se raccontavano cose che aveva detto loro di non raccontare e poi sembrava che il lebbroso fosse Lui, perché non poteva entrare nei villaggi o i suoi nemici trovavano motivi per condannarlo. Lui guariva, perdonava, dava sollievo, riposo, faceva respirare alla gente un alito dello Spirito consolatore.

Questo che dirò adesso l’ho detto tante volte, forse qualcuno di voi lo ha sentito. Ho conosciuto, a Buenos Aires, un frate cappuccino - vive ancora -, poco più giovane di me, che è un grande confessore. Davanti al confessionale ha sempre la fila, tanta gente - tutti: gente umile, gente benestante, preti, suore, una fila -, un susseguirsi di persone, tutto il giorno a confessare. E lui è un grande perdonatore. Sempre trova la strada per perdonare e per far fare un passo avanti. E’ un dono dello Spirito. Ma, a volte, gli viene lo scrupolo di aver perdonato troppo. E allora una volta parlando mi ha detto: “A volte ho questo scrupolo”. E io gli ho chiesto: “E cosa fai quando hai questo scrupolo?”. “Vado davanti al tabernacolo, guardo il Signore, e gli dico: Signore, perdonami, oggi ho perdonato molto. Ma che sia chiaro: la colpa è tua perché sei stato tu a darmi il cattivo esempio! Cioè la misericordia la migliorava con più misericordia.

Infine, su questo tema della Confessione, due consigli. Uno, non abbiate mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso. La misericordia ci libera dall’essere un prete giudice-funzionario, diciamo, che a forza di giudicare “casi” perde la sensibilità per le persone e per i volti. Io ricordo quando ero in II Teologia, sono andato con i miei compagni a sentire l’esame di “audiendas”, che si faceva al III Teologia, prima dell’ordinazione. Andammo per imparare un po’, sempre si imparava. E una volta, ricordo che ad un compagno hanno fatto una domanda, era sulla giustizia, de iure, ma tanto intricata, tanto artificiale… E quel compagno disse con molta umiltà: “Ma padre, questo non si trova nella vita” - “Ma si trova nei libri!”. Quella morale “dei libri”, senza esperienza. La regola di Gesù è “giudicare come vogliamo essere giudicati”. In quella misura intima che si ha per giudicare se si viene trattati con dignità, se si viene ignorati o maltrattati, se si è stati aiutati a mettersi in piedi…. Questa è la chiave per giudicare gli altri. Facciamo attenzione che il Signore ha fiducia in questa misura che è così soggettivamente personale. Non tanto perché tale misura sia “la migliore”, ma perché è sincera e, a partire da essa, si può costruire una buona relazione. L’altro consiglio: non siate curiosi nel confessionale. L’ho già accennato. Racconta santa Teresina che, quando riceveva le confidenze delle sue novizie, si guardava bene dal chiedere come erano andate poi le cose. Non curiosava nell’anima delle persone (cfr Storia di un’anima, Manoscritto C, Alla madre Gonzaga, c. XI 32r). E’ proprio della misericordia “coprire con il suo manto”, coprire il peccato per non ferire la dignità. E’ bello quel passo dei due figli di Noè che coprirono con il mantello la nudità del padre che si era ubriacato (cfr Gen 9,23).

La dimensione sociale delle opere di misericordia

Adesso passiamo a dire due parole sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Alla fine degli Esercizi, sant’Ignazio pone la “Contemplazione per giungere all’amore”, che congiunga ciò che si è vissuto nella preghiera con la vita quotidiana. E ci fa riflettere su come l’amore va posto più nelle opere che nelle parole. Tali opere sono le opere di misericordia, quelle che il Padre «ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,10), quelle che lo Spirito ispira a ciascuno per il bene comune (cfr 1 Cor 12,7). Mentre ringraziamo il Signore per tanti benefici ricevuto dalla sua bontà, chiediamo la grazia di portare a tutti gli uomini la misericordia che ha salvato noi.

Vi propongo, in questa dimensione sociale, di meditare su alcuni dei passi conclusivi dei Vangeli. Lì, il Signore stesso stabilisce tale connessione tra ciò che abbiamo ricevuto e ciò che dobbiamo dare. Possiamo leggere queste conclusioni in chiave di “opere di misericordia”, che pongono in atto il tempo della Chiesa nel quale Gesù risorto vive, accompagna, invia e attira la nostra libertà, che trova in Lui la sua realizzazione concreta e rinnovata ogni giorno.

La conclusione del Vangelo di Matteo, ci dice che il Signore invia gli apostoli e dice loro: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cfr 28,20). Questo “insegnare a chi non sa” è in sé stessa una delle opere di misericordia. E si rifrange come la luce nelle altre opere: in quelle di Matteo 25, che consistono piuttosto nelle opere cosiddette corporali, e in tutti i comandamenti e consigli evangelici, di “perdonare”, “correggere fraternamente”, consolare chi è triste, sopportare le persecuzioni, e così via.

Marco termina con l’immagine del Signore che “collabora” con gli apostoli e “conferma la Parola con i segni che la accompagnano” (cfr 16,20). Questi “segni” hanno la caratteristica delle opere di misericordia. Marco parla, tra l’altro, di guarire i malati e scacciare gli spiriti cattivi (cfr 16,17-18).

Luca continua il suo Vangelo con il Libro degli “Atti” – praxeis – degli Apostoli, narrando il loro modo di procedere e le opere che compiono, guidati dallo Spirito.

Giovanni termina parlando delle «molte altre cose» (21,25) o «segni» (20,30) che Gesù fece. Gli atti del Signore, le sue opere, non sono meri fatti ma sono segni nei quali, in modo personale e unico per ciascuno, si mostrano il suo amore e la sua misericordia.

Possiamo contemplare il Signore che ci invia a questo lavoro con l’immagine di Gesù misericordioso, così come fu rivelata a Suor Faustina. In quella immagine possiamo vedere la Misericordia come un’unica luce che viene dall’interiorità di Dio e che, passando attraverso il cuore di Cristo, esce diversificata, con un colore proprio per ogni opera di misericordia.

Le opere di misericordia sono infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape. Perché la misericordia è feconda e inclusiva. Queste due caratteristiche importanti: la misericordia è feconda e inclusiva. E’ vero che di solito pensiamo alle opere di misericordia ad una ad una, e in quanto legate ad un’opera: ospedali per i malati, mense per quelli che hanno fame, ostelli per quelli che sono per la strada, scuole per quelli che hanno bisogno di istruzione, il confessionale e la direzione spirituale per chi necessita di consiglio e di perdono… Ma se le guardiamo insieme, il messaggio è che l’oggetto della misericordia è la vita umana stessa e nella sua totalità. La nostra vita stessa in quanto “carne” è affamata e assetata, bisognosa di vestito, di casa, di visite, come pure di una sepoltura degna, cosa che nessuno può dare a sé stesso. Anche il più ricco, quando muore, si riduce a una miseria e nessuno porta dietro al suo corteo il camion del trasloco. La nostra vita stessa, in quanto “spirito”, ha bisogno di essere educata, corretta, incoraggiata, consolata. Parola molto importante, questa, nella Bibbia: pensiamo al Libro della consolazione di Israele, nel profeta Isaia. Abbiamo bisogno che altri ci consiglino, ci perdonino, ci sostengano e preghino per noi. La famiglia è quella che pratica queste opere di misericordia in maniera così adatta e disinteressata che non si nota, ma basta che in una famiglia con bambini piccoli manchi la mamma perché tutto vada in miseria. La miseria più assoluta e crudelissima è quella di un bambino per la strada, senza genitori, in balia degli avvoltoi.

Abbiamo chiesto la grazia di essere segno e strumento; ora si tratta di “agire”, e non solo di compiere gesti ma di fare opere, di istituzionalizzare, di creare una cultura della misericordia, che non è lo stesso di una cultura della beneficienza, dobbiamo distinguere. Messi all’opera, sentiamo immediatamente che è lo Spirito Colui che spinge, che manda avanti queste opere. E lo fa utilizzando i segni e gli strumenti che vuole, benché a volte non siano in sé stessi i più adatti. Di più, si direbbe che per esercitare le opere di misericordia lo Spirito scelga piuttosto gli strumenti più poveri, quelli più umili e insignificanti, che hanno loro stessi più bisogno di quel primo raggio della misericordia divina. Questi sono quelli che meglio si lasciano formare e preparare per realizzare un servizio di vera efficacia e qualità. La gioia di sentirsi “servi inutili”, per coloro che il Signore benedice con la fecondità della sua grazia, e che Lui stesso in persona fa sedere alla sua mensa e ai quali offre l’Eucaristia, è una conferma che si sta lavorando nelle sue opere di misericordia.

Al nostro popolo fedele piace raccogliersi intorno alle opere di misericordia. Basta venire ad una delle udienze generali del mercoledì e vediamo quanti ce ne sono: gruppi di persone che si mettono insieme per fare opere di misericordia. Tanto nelle celebrazioni – penitenziali e festive – quanto nell’azione solidale e formativa, la nostra gente si lascia radunare e pascolare in un modo che non tutti riconoscono e apprezzano, malgrado falliscano tanti altri piani pastorali centrati su dinamiche più astratte. La presenza massiccia del nostro popolo fedele nei nostri santuari e pellegrinaggi, presenza anonima per eccesso di volti e per desiderio di farsi vedere solo da Colui e Colei che li guardano con misericordia, come pure per la collaborazione numerosa che, sostenendo col suo impegno tante opere solidali, dev’essere motivo di attenzione, di apprezzamento e di promozione da parte nostra. E per me è stata una sorpresa come qui in Italia queste organizzazioni siano tanto forti e radunino tanto il popolo.

Come sacerdoti, chiediamo due grazie al Buon Pastore: quella di lasciarci guidare dal sensus fidei del nostro popolo fedele, e anche dal suo “senso del povero”. Entrambi i “sensi” sono legati al “sensus Christi”, di cui parla san Paolo, all’amore e alla fede che la nostra gente ha per Gesù.

Concludiamo recitando l’Anima Christi, che è una bella preghiera per chiedere misericordia al Signore venuto nella carne, che ci usa misericordia con i suoi stessi Corpo e Anima. Gli chiediamo che ci usi misericordia insieme con il suo popolo: alla sua anima chiediamo “santificaci”; il suo corpo supplichiamo “salvaci”; il suo sangue imploriamo “inebriaci”, toglici ogni altra sete che non sia di Te; all’acqua del suo costato chiediamo “lavaci”; la sua passione imploriamo “confortaci”; consola il tuo popolo; Signore crocifisso, nelle tue piaghe, Ti supplichiamo, “nascondici”… Non permettere che il tuo popolo, Signore, si separi da Te. Che niente e nessuno ci separi dalla tua misericordia, la quale ci difende dalle insidie del nemico maligno. Così potremo cantare le misericordie del Signore insieme a tutti i tuoi santi quando ci comanderai di venire a Te.

[Preghiera dell’Anima Christi]

Ho sentito qualche volta commenti dei sacerdoti che dicono: “Ma questo Papa ci bastona troppo, ci rimprovera”. E qualche bastonata, qualche rimprovero c’è. Ma devo dire che sono rimasto edificato da tanti sacerdoti, tanti preti bravi! Da quelli – ne ho conosciuti – che, quando non c’era la segreteria telefonica, dormivano con il telefono sul comodino, e nessuno moriva senza i sacramenti; chiamavano a qualsiasi ora, e loro si alzavano e andavano. Bravi sacerdoti! E ringrazio il Signore per questa grazia. Tutti siamo peccatori, ma possiamo dire che ci sono tanti bravi, santi sacerdoti che lavorano in silenzio e nascosti. A volte c’è uno scandalo, ma noi sappiamo che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.

E ieri ho ricevuto una lettera, l’ho lasciata lì, con quelle personali. L’ho aperta prima di venire e credo che sia stato il Signore a suggerirmelo. E’ di un parroco in Italia, parroco di tre paesini. Credo che ci farà bene sentire questa testimonianza di un nostro fratello.

E’ scritta il 29 maggio, da pochi giorni.

“Perdoni il disturbo. Colgo l’occasione di un amico sacerdote che in questi giorni si trova a Roma per il Giubileo sacerdotale, per farLe pervenire senza alcuna pretesa - da semplice parroco di tre piccoli parrocchie di montagna, preferisco farmi chiamare ‘pastorello’ - alcune considerazioni sul mio semplice servizio pastorale, provocate - La ringrazio di cuore – da alcune cose che Lei ha detto e che mi chiamano ogni giorno alla conversione. Sono consapevole di scriverLe nulla di nuovo. Certamente avrà già ascoltato queste cose. Sento il bisogno di farmi anche io portavoce. Mi ha colpito, mi colpisce quell’invito che Lei più volte fa a noi pastori di avere l’odore delle pecore. Sono in montagna e so bene cosa vuol dire. Si diventa preti per sentire quell’odore, che poi è il vero profumo del gregge. Sarebbe davvero bello se il contatto quotidiano e la frequentazione assidua del nostro gregge, motivo vero della nostra chiamata, non fosse sostituito dalle incombenze amministrative e burocratiche delle parrocchie, della scuola dell’infanzia e di altro. Ho la fortuna di avere dei bravi e validi laici che seguono dal di dentro queste cose. Ma c’è sempre quell’incombenza giuridica del parroco, come unico e solo legale rappresentante. Per cui, alla fine, lui deve sempre correre dappertutto, relegando a volte la visita agli ammalati, alle famiglie come ultima cosa, fatta magari velocemente e in qualche modo. Lo dico in prima persona, a volte è davvero frustrante constatare come nella mia vita di prete si corra tanto per l’apparato burocratico e amministrativo, lasciando poi la gente, quel piccolo gregge che mi è stato affidato, quasi abbandonato a se stesso. Mi creda, Santo Padre, è triste e tante volte mi viene da piangere per questa carenza. Uno cerca di organizzarsi, ma alla fine è solo il vortice delle cose quotidiane. Come pure un altro aspetto, richiamato anche da Lei: la carenza di paternità. Si dice che la società di oggi è carente di padri e di madri. Mi pare di constatare come a volte anche noi rinunciamo a questa paternità spirituale, riducendoci brutalmente a burocrati del sacro, con la triste conseguenza poi di sentirci abbandonati a noi stessi. Una paternità difficile, che poi si ripercuote inevitabilmente anche sui nostri superiori, presi anche loro da comprensibili incombenze e problematiche, rischiando così di vivere con noi un rapporto formale, legato alla gestione della comunità, più che alla nostra vita di uomini, di credenti e di preti. Tutto questo – e concludo – non toglie comunque la gioia e la passione di essere prete per la gente e con la gente. Se a volte come pastore non ho l’odore delle pecore, mi commuovo ogni volta del mio gregge che non ha perso l’odore del pastore! Che bello, Santo Padre, quando ci si accorge che le pecore non ci lasciano soli, hanno il termometro del nostro essere lì per loro, e se per caso il pastore esce dal sentiero e si smarrisce, loro lo afferrano e lo tengono per mano. Non smetterò mai di ringraziare il Signore, perché sempre ci salva attraverso il suo gregge, quel gregge che ci è stato affidato, quella gente semplice, buona, umile e serena, quel gregge che è la vera grazia del pastore. In modo confidenziale Le ho fatto pervenire queste piccole e semplici considerazioni, perché Lei è vicino al gregge, è capace di capire e può continuare ad aiutarci e sostenerci. Prego per Lei e La ringrazio, come pure per quelle “tiratine di orecchie” che sento necessarie per il mio cammino. Mi benedica Papa Francesco e preghi per me e per le mie parrocchie”. Firma e alla fine quel gesto proprio dei pastori: “Le lascio una piccola offerta. Preghi per le mie comunità, in particolare per alcuni ammalati gravi e per alcune famiglie in difficoltà economica e non solo. Grazie!”

Questo è un fratello nostro. Ce ne sono tanti così, ce ne sono tanti! Anche qui sicuramente. Tanti. Ci indica la strada. E andiamo avanti! Non perdere la preghiera. Pregate come potete, e se vi addormentate davanti al Tabernacolo, benedetto sia. Ma pregate. Non perdere questo. Non perdere il lasciarsi guardare dalla Madonna e guardarla come Madre. Non perdere lo zelo, cercare di fare… Non perdere la vicinanza e la disponibilità alla gente e anche, mi permetto di dirvi, non perdere il senso dell’umorismo. E andiamo avanti!

[00920-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Troisième méditation: La bonne odeur du Christ
et la lumière de sa Miséricorde.

Nous espérons que le Seigneur nous accordera ce que nous avons demandé dans la prière: imiter l’exemple de la patience de Jésus et grâce à la patience surmonter les difficultés.

Cette troisième méditation a pour titre: ‘‘La bonne odeur du Christ et la lumière de sa miséricorde’’.

Dans cette troisième rencontre, je vous propose de méditer sur les œuvres de miséricorde, soit en prenant l’une d’entre elles, celle que nous pensons être la plus liée à notre charisme, soit en les contemplant toutes ensemble, les regardant avec les yeux miséricordieux de Notre Dame qui nous fait découvrir le vin qui manque et qui nous encourage à faire tout ce que Jésus nous dit (cf. Jn 2, 1-12) pour que sa miséricorde opère les miracles dont notre peuple a besoin.

Les œuvres de miséricorde sont très liées aux ‘‘sens spirituels’’. En priant nous demandons la grâce de ‘‘sentir et de goûter’’ l’Évangile, de telle sorte qu’il nous rende sensible à la vie. Mus par l’Esprit, guidés par Jésus, nous pouvons voir déjà de loin, avec un regard de miséricorde, celui qui est tombé au bord du chemin, nous pouvons entendre les cris de Bartimée, nous pouvons sentir comme le Seigneur sent, sur le bord de son manteau, le contact timide mais décidé de l’hémorroïsse, nous pouvons demander la grâce de goûter avec lui sur la croix la saveur amère du fiel de tous les crucifiés, pour sentir ainsi la forte odeur de la misère – dans les hôpitaux de campagne, dans les trains et les barques remplies de gens –; cette odeur que l’huile de la miséricorde ne couvre pas, mais qui, en étant ointe, fait que s’éveille une espérance.

Le Catéchisme de l’Église catholique, en parlant des œuvres de miséricorde, nous raconte que Sainte Rose de Lima, le jour où sa mère l’a réprimandée d’accueillir à la maison pauvres et infirmes, lui dit: «Quand nous servons les pauvres et les malades, nous servons Jésus»(n. 2449). Cette bonne odeur du Christ – le soin des pauvres – est distinctive de l’Église, il en a toujours été ainsi. Paul y a centré sa rencontre avec les ‘‘colonnes’’, comme il les qualifie, avec Pierre, Jacques, et Jean. Ils [nous] ont demandé «seulement de nous souvenir des pauvres» (Ga 2, 10). Cela me rappelle quelque chose, que j’ai raconté plusieurs fois: juste après mon élection comme Pape, pendant qu’on continuait le scrutin, un frère Cardinal s’est approché de moi, m’a embrassé et m’a dit: ‘‘N’oublie pas les pauvres’’. Le premier message que le Seigneur m’a fait parvenir en ce moment-là. Le Catéchisme dit aussi, de manière suggestive, que «ceux que [la misère] accable sont l’objet d’un amour de préférence de la part de l’Église qui, depuis les origines, en dépit des défaillances de beaucoup de ses membres, n’a cessé de travailler à les soulager, les défendre et les libérer» (n. 2448). Et cela sans idéologies, seulement avec la force de l’Évangile.

Dans l’Église nous avons eu et nous avons beaucoup de choses pas très bonnes, et beaucoup de péchés, mais quant au service des pauvres à travers les œuvres de miséricorde, en tant qu’Église nous avons toujours suivi l’Esprit, et nos saints l’ont fait de manière très créative et efficace. L’amour des pauvres a été le signe, la lumière qui fait que les personnes glorifient le Père. Nos gens apprécient ceci: le prêtre qui prend soin des plus pauvres, des malades, qui pardonne aux pécheurs, qui enseigne et corrige avec patience… Nos gens pardonnent beaucoup de défauts aux prêtres, sauf celui de l’attachement à l’argent. Les gens ne le pardonnent pas. Et ce n’est pas tant à cause de la richesse en soi, mais parce que l’argent nous fait perdre la richesse de la miséricorde. Notre peuple sent par intuition quels péchés sont graves pour le pasteur, ceux qui tuent son ministère parce qu’ils le transforment en fonctionnaire, ou pire, en mercenaire, et en revanche les péchés qui sont, je ne dirais pas secondaires – parce que je ne sais pas si théologiquement on peut le dire -, mais des péchés que l’on peut supporter, charger comme une croix, jusqu’à ce que le Seigneur les purifie à la fin, comme il le fera de la zizanie. En revanche, ce qui porte atteinte à la miséricorde est une contradiction principale. Cela porte atteinte au dynamisme du salut, au Christ qui «s’est fait pauvre pour nous enrichir de sa pauvreté» (2Co 8, 9). Et il en est ainsi parce que la miséricorde prend soin «en perdant quelque chose d’elle-même»: une partie du cœur reste avec la personne blessée, un temps de notre vie est perdu pour ce que nous avions envie de faire, quand nous l’offrons aux autres, dans une œuvre de charité.

C’est pourquoi il ne s’agit pas que Dieu me fasse miséricorde pour certaines fautes, comme si pour le reste j’étais autosuffisant; ou bien que, de temps en temps, j’accomplisse une œuvre particulière de miséricorde envers une personne dans le besoin. La grâce que nous demandons dans cette prière est celle de laisser Dieu nous faire miséricorde dans tous les domaines de notre vie, et d’être miséricordieux envers les autres dans tout notre agir. Pour nous, prêtres et évêques, qui administrons les sacrements, baptisant, confessant, célébrant l’Eucharistie… la miséricorde est la manière de changer toute la vie du peuple de Dieu en sacrement. Etre miséricordieux ce n’est pas seulement unemanière d’être mais la manière d’être. Il n’y a pas une autre manière possible d’être prêtre. Le Père Brochero disait: «Le prêtre qui n’a pas beaucoup de pitié envers les pécheurs est un demi prêtre. Ce ne sont pas ces haillons bénis que je porte qui font de moi un prêtre ; si je n’ai pas dans mon cœur la charité, je ne suis même pas chrétien».

Le propre du regard d’un père est de voir ce qui manque pour y porter remède immédiatement, et mieux encore, de le prévoir. Ce regard sacerdotal – de celui qui joue le rôle de père au sein de l’Eglise Mère – qui nous fait voir les personnes du point de vue de la miséricorde, on doit enseigner à le cultiver dès le séminaire et il doit alimenter tous les plans pastoraux. Nous voulons et nous demandons au Seigneur un regard qui sache discerner les signes des temps en termes d’«œuvres de miséricorde dont notre peuple a aujourd’hui besoin», pour pouvoir sentir et faire l’expérience du Dieu de l’histoire qui marche avec lui. En effet, comme le dit le document d’Aparecida, en citant saint Alberto Hurtado: «Par nos œuvres, notre peuple sait que nous comprenons sa souffrance» (n. 386).

La preuve de cette compréhension de notre peuple est que nous sommes toujours bénis par Dieu dans nos œuvres de miséricorde, et que nous obtenons l’aide et la collaboration de nos gens. Il n’en est pas ainsi pour d’autres types de projets, qui parfois marchent bien, d’autres fois non, sans que certains ne comprennent pourquoi ça ne marche pas et se cassent la tête à chercher un nouvel énième plan pastoral, alors qu’on pourrait dire simplement: ça ne marche pas parce qu’il y manque la miséricorde, sans devoir entrer dans les détails. Si ce n’est pas béni, c’est parce qu’il y manque la miséricorde. Il manque cette miséricorde qui a plus de lien avec un hôpital de campagne qu’avec une clinique de luxe, cette miséricorde qui, valorisant ce qui est bon, prépare le terrain à une rencontre de la personne avec Dieu dans l’avenir, au lieu de l’éloigner par une critique sur un point particulier.

Je vous propose une prière avec la pécheresse pardonnée (Jn 8, 3-11), pour demander la grâce d’être miséricordieux dans la confession, et une autre sur la dimension sociale des œuvres de miséricorde.

Le passage concernant le Seigneur avec la femme adultère m’émeut toujours, lorsque, ne la condamnant pas, il ‘‘enfreint’’ la loi; sur ce cas précis sur lequel on lui demandait de se prononcer – ‘‘faut-il la lapider ou non’’ –, il ne s’est pas exprimé, il n’a pas appliqué la loi. Il a feint de ne pas comprendre – en cela également le Seigneur est un maître pour nous tous – et, à ce moment-là, il leur a sorti quelque chose d’autre. Il a ainsi initié un processus dans le cœur de la femme qui avait besoin de ces paroles: ‘‘Moi non plus, je ne te condamne pas’’. En la prenant par la main, il l’a relevée et cela lui a permis de croiser un regard plein de douceur qui a changé son cœur. Le Seigneur tend la main à la fille de Jaïre: ‘‘Donnez-lui à manger’’. Au jeune homme mort, à Naïm: ‘‘Lève-toi’’ et le rend à sa mère. Et à cette pécheresse: ‘‘Lève-toi’’. Le Seigneur nous remet exactement comme Dieu a voulu que l’homme soit: debout, relevé, jamais par terre. Parfois j’éprouve un mélange de peine et d’indignation quand on s’empresse de mettre en lumière la dernière recommandation, le‘‘ne pèche plus’’. Et on utilise cette phrase pour ‘‘défendre’’ Jésus, afin que ce ne soit pas comme s’il avait violé la loi. Je pense que les paroles que le Seigneur utilise forment un tout avec ses actes. Le fait de se pencher pour écrire par deux fois sur le sol, marquant une pause avant de parler à ceux qui veulent lapider la femme, et ensuite une autre avant ce qu’il lui dit, nous parle du temps que le Seigneur prend pour juger et pardonner. Un temps qui renvoie chacun à sa propre intériorité et fait que ceux qui jugent se retirent.

Dans son dialogue avec la femme, le Seigneur ouvre d’autres espaces: le premier est l’espace de la non condamnation. L’Evangile insiste sur cet espace resté libre. Il nous place sous le regard de Jésus et nous dit qu’ ‘‘il ne voit personne autour, sinon la femme’’. Et ensuite Jésus lui-même amène la femme à regarder autour d’elle par cette question: ‘‘Où sont-ils, ceux qui te cataloguaient?’’ (le mot est important, puisqu’il exprime ce que nous condamnons tant comme le fait qu’on nous catalogue ou qu’on nous caricature…). Une fois qu’il lui a fait voir cet espace libre du jugement d’autrui, il lui dit que lui non plus ne l’agresse pas avec ses pierres: ‘‘Moi non plus je ne te condamne pas’’. Et, sur le champ, il lui ouvre un autre espace libre: ‘‘Désormais, ne pèche plus’’. Le commandement est donné pour l’avenir, pour aider à avancer, pour «marcher dans l’amour». Voilà la délicatesse de la miséricorde qui regarde avec pitié le passé et encourage pour l’avenir. Ce ‘‘ne pèche plus’’, n’est pas une chose évidente. Le Seigneur le dit ‘‘avec elle’’, il l’aide à exprimer par des paroles ce qu’elle-même ressent, ce ‘‘non’’ libre au péché qui est comme le ‘‘oui’’ de Marie à la grâce. Le ‘‘non’’ est dit en relation avec la racine du péché de chacun. Chez la femme, il s’agissait d’un péché social, d’une personne dont les gens s’approchaient, ou pour coucher avec elle, ou pour la lapider. Il n’y avait pas un autre genre de proximité avec cette femme. C’est pourquoi le Seigneur, non seulement lui dégage la voie, mais aussi la met en mouvement, pour qu’elle cesse d’être ‘‘objet’’ du regard d’autrui, pour qu’elle soit protagoniste. Le fait de ne pas pécher ne se réfère pas seulement à l’aspect moral, je crois, mais à un type de péché qui ne la laisse pas faire sa vie. Au paralytique à la piscine de Bethesda il dit également «ne pèche plus» (Jn 5, 14). Mais à celui-ci, qui se justifiait avec les choses tristes qui ‘‘lui arrivaient’’, qui avait une psychologie de victime – la femme, elle non – il lui lance une pique en ces termes: ‘‘Qu’il ne t’arrive pas quelque chose de pire’’. Le Seigneur profite de sa manière de penser, de ce qu’il craint, pour le sortir de sa paralysie. Disons qu’il se sert de la peur pour le faire bouger. Ainsi, nous devons chacun entendre ce ‘‘ne pèche plus’’ de manière profonde et personnelle.

Cette image du Seigneur qui met les gens en mouvement lui est vraiment propre: il est le Dieu qui se met en route avec son peuple, qui fait aller de l’avant et accompagne notre histoire. C’est pourquoi l’objet vers lequel se dirige la miséricorde est très précis: c’est vers ce qui fait qu’un homme ou une femme ne marche pas à sa place, avec les siens, à son rythme, vers là où Dieu l’invite à aller. La peine, ce qui bouleverse, c’est que l’un ou l’autre se perde, ou reste derrière, ou s’égare par présomption. Disons, qu’il soit désorienté. Qu’il ne soit pas à la disposition du Seigneur, disponible pour la tâche qu’il veut lui confier. Qu’on ne marche pas humblement en présence du Seigneur (cf. Mi 6, 8), qu’on ne marche pas dans la charité (cf. Ep 5, 2).

L’espace du confessionnal où la vérité nous rend libres

À présent, passons à l’espace du confessionnal, où la vérité nous rend libres. Le Catéchisme de l’Église Catholique nous montre le confessionnal comme un lieu où la vérité nous rend libre pour une rencontre. Il dit ceci: «En célébrant le sacrement de la Pénitence, le prêtre accomplit le ministère du Bon Pasteur qui cherche la brebis perdue, celui du Bon Samaritain qui panse les blessures, du Père qui attend le Fils prodigue et l’accueille à son tour, du juste juge qui ne fait pas acception de personne et dont le jugement est à la fois juste et miséricordieux. Bref, le prêtre est le signe et l’instrument de l’amour miséricordieux de Dieu envers le pécheur» (n. 1465). Et il nous rappelle que «le confesseur n’est pas le maître mais le serviteur du pardon de Dieu. Le ministre de ce sacrement doit s’unir à l’intention et à la charité du Christ» (n. 1466).

Signe et instrument d’une rencontre. Voilà ce que nous sommes. Attrait efficace pour une rencontre. Signe veut dire que nous devons attirer, comme lorsque quelqu’un fait des signes pour attirer l’attention. Un signe doit être cohérent et clair, mais surtout compréhensible. Car il y a des signes qui ne sont clairs que pour les spécialistes, et ces signes ne servent pas. Signe et instrument. La raison d’être de l’instrument réside dans son efficacité – sert-il ou ne sert-il pas –, dans le fait d’être à portée de main et d’influer sur la réalité de manière précise, appropriée. Nous sommes des instruments si les gens rencontrent vraiment le Dieu miséricordieux. Il nous revient ‘‘de faire en sorte qu’ils se rencontrent’’, qu’ils se retrouvent face à face. Ce qu’ils feront ensuite est leur affaire. Il y a un enfant prodigue dans la porcherie et un père qui tous les soirs monte sur la terrasse pour voir s’il arrive; il y a une brebis perdue et un pasteur qui est sorti pour la chercher; il y a un blessé étendu au bord du chemin et un samaritain qui a bon cœur. En quoi consiste donc notre ministère? Etre des signes et des instruments pour qu’ils se rencontrent. Qu’il soit clair pour nous que nous ne sommes ni le père, ni le pasteur, ni le samaritain. Nous sommes plutôt du côté des trois autres, en tant que pécheurs. Notre ministère doit être signe et instrument de cette rencontre. C’est pourquoi nous nous situons dans le domaine du mystère du Saint Esprit, qui est celui qui crée l’Église, celui qui fait l’unité, celui qui ravive encore et encore la rencontre.

L’autre chose propre à un signe et à un instrument est sa non référentialité, pour le dire de manière compliquée. Personne n’en reste au signe, une fois qu’il a compris la réalité. Personne ne reste à regarder le tournevis ou le marteau, mais on regarde le cadre qui a été bien fixé. Nous sommes des serviteurs inutiles. C’est-à-dire des instruments et des signes qui ont été très utiles aux deux intéressés qui se sont fondus dans une accolade, comme le père avec son fils.

La troisième caractéristique propre au signe et à l’instrument est leur disponibilité. Que l’instrument soit à disposition, que le signe soit visible. L’essence du signe et de l’instrument est d’être médiateurs, disponibles. Voilà peut-être la clé de notre mission dans cette rencontre de la miséricorde de Dieu avec l’homme. Utiliser un terme négatif est sans doute plus clair. Saint Ignace disaitde ‘‘ne pas être un empêchement’’. Un bon médiateur est celui qui facilite les choses et ne crée pas d’empêchements. Dans mon pays, il y avait un grand confesseur, le Père Cullen, qui s’asseyait dans le confessionnal et, lorsqu’il n’y avait personne, faisait deux choses: l’une consistait à réparer des ballons de cuir pour les enfants qui jouaient au football, l’autre était de lire un gros dictionnaire chinois. Il était resté longtemps en Chine, il voulait garder [la pratique de] la langue. Et il disait que, lorsque les gens le voyaient dans des activités si superflues, comme réparer de vieux ballons, et d’utilité si lointaine, comme lire un dictionnaire chinois, ils pensaient: ‘‘Je vais m’approcher pour parler un peu avec ce prêtre, puisque je vois qu’il n’a rien à faire’’. Il était disponible pour l’essentiel. Il avait un horaire pour le confessionnal, mais il était là. Il se défaisait de l’empêchement d’avoir toujours l’air très occupé. Voilà le problème. Les gens ne s’approchent pas quand ils voient leur pasteur très, très occupé, toujours pris.

Chacun a connu de bons confesseurs. Nous devons apprendre de nos bons confesseurs, ceux dont les gens s’approchent, ceux qui ne font pas peur et savent parler jusqu’à ce que l’autre raconte ce qui lui est arrivé, comme Jésus avec Nicodème. Il est important de comprendre le langage des gestes; il ne faut pas demander des choses qui sont évidentes pour les gestes. Si quelqu’un s’approche du confessionnal, c’est parce qu’il s’est repenti, il y a déjà un repentir. Et s’il s’approche, c’est parce qu’il a le désir de changer. Ou au moins le désir du désir, et si la situation lui semble impossible (ad impossibilia nemo tenetur, comme le dit la maxime, à l’impossible nul n’est tenu). Le langage des gestes. J’ai lu dans la vie d’un nouveau saint de ces derniers temps que, le pauvre, il souffrait durant la guerre. Il y avait un soldat qui était sur le point d’être fusillé et il est allé le confesser. Et l’on voit que ce soldat était un peu libertin, il faisait beaucoup de fêtes avec les femmes…. ‘‘Mais t’en repens-tu?’’ – ‘‘Non, c’était si beau, mon Père’’. Et ce saint ne savait comment s’en sortir. Le peloton pour le fusiller était là, et alors il lui a dit: ‘‘Au moins ceci: as-tu le regret de ne pas te repentir?’’ – ‘‘Ça, oui!’’ – ‘‘Ah, ça va’’. Le confesseur cherche toujours la voie, et le langage des gestes est le langage des possibilités pour parvenir au but.

Il faut apprendre des bons confesseurs, ceux qui ont de la délicatesse envers les pécheurs, et à qui suffit un demi-mot pour tout comprendre, comme Jésus avec l’hémorroïsse, et précisément ainsi leur vient la force du pardon. J’ai été beaucoup édifié par l’un des Cardinaux de la Curie, dont je pensais a priori qu’il était très rigide. Et lui, lorsqu’il y avait un pénitent ayant un péché qu’il éprouvait de la honte à dire et qui commençait avec un mot ou deux, il comprenait immédiatement de quoi il s’agissait et disait: ‘‘Continue, j’ai compris, j’ai compris!’’. Et il l’arrêtait , parce qu’il avait compris. Ça, c’est la délicatesse. Mais ces confesseurs – pardonnez-moi – qui posent des questions et posent des questions…: ‘‘Mais dis-moi, s’il te plaît…’’. As-tu besoin de tant de détails pour pardonner ou bien ‘‘tu es en train de te faire le film’’? Ce Cardinal m’a beaucoup édifié. L’intégralité de la confession n’est pas une question mathématique – combien de fois? comment? où?... - Parfois la honte provient davantage du nombre que du nom du péché lui-même. Mais pour cela il faut se laisser émouvoir par la situation des gens, qui est parfois un mélange de choses, de maladie, de péché et de conditionnements impossibles à surmonter, comme Jésus qui s’émouvait en voyant les personnes, le sentait dans ses entrailles, dans ses tripes, et donc soignait et soignait même si l’autre ‘‘ne le demandait pas bien’’, comme ce lépreux, ou tournait autour du pot comme la Samaritaine qui était comme le héron: elle piaillait à un endroit et avait son nid ailleurs. Jésus était patient.

Il faut apprendre des confesseurs qui savent faire en sorte que le pénitent sente la correction en faisant un pas en avant, comme Jésus, qui donnait une pénitence suffisante, mais qui savait valoriser celui qui revenait pour rendre grâces, qui pouvait mieux faire encore. Jésus faisait prendre le brancard au paralytique, ou se faisait un peu prier par les aveugles ou par la femme syro-phénicienne. Peu lui importait si ensuite ils ne lui prêtaient plus attention, comme le paralytique de Siloé, ou s’ils disaient des choses qu’il leur avait demandé de taire et ensuite il semblait que c’était lui le lépreux parce qu’il ne pouvait pas entrer dans les villages, ou bien ses ennemis trouvaient des motifs pour le condamner. Il soignait, pardonnait, offrait un soulagement, du repos, il laissait les gens respirer un souffle de l'Esprit consolateur.

Ce que je vais dire à présent, je l’ai déjà dit de nombreuses fois, peut-être quelqu’un parmi l’a-t-il entendu. J’ai connu à Buenos Aires un frère capucin – il vit encore – un peu plus jeune que moi, qui est un grand confesseur. Il a toujours une file au confessionnal, beaucoup de gens – tous: d’humbles gens, des gens aisés, des prêtres, des religieuses, une file, un défilé, il confesse toute la journée. Et il pardonne beaucoup. Il trouve toujours la voie pour pardonner et pour faire faire un pas en avant. C’est un don de l’Esprit. Mais parfois lui vient le scrupule d’avoir trop pardonné. Et donc une fois, en parlant, il m’a dit: ‘‘J’ai parfois ces scrupules’’. Et je lui ai demandé: ‘‘Et que fais-tu quand tu as ces scrupules?’’ ‘‘Je vais devant le tabernacle, je regarde le Seigneur et le lui dis: «Seigneur, pardonne-moi, aujourd’hui j’ai beaucoup pardonné. Mais que ce soit clair – hein ? – que c’est de ta faute, car c’est toi qui m’as donné le mauvais exemple! C’est-à-dire la miséricorde»’’. Il renforçait la miséricorde avec davantage de miséricorde.

Enfin, concernant la confession, deux conseils: le premier, n’ayez jamais le regard du fonctionnaire, de celui qui voit seulement des ‘‘cas’’, et s’en débarrasse. La miséricorde nous libère d’être des prêtres juge-fonctionnaires, disons, qui, à force de tellement juger des ‘‘cas’’, perdent la sensibilité envers les personnes et envers les visages. Je me rappelle [que] lorsque j’étais en deuxième année de théologie, je suis allé avec mes compagnons assister à l’examen du ‘‘audiendas’’, qu’on faisait en troisième année de théologie, avant l’ordination. Nous y sommes allés pour apprendre un peu, on apprenait toujours. Et une fois, je me souviens qu’à un compagnon on a posé une question, c’était sur la justice, de iure, mais très compliquée, très artificielle… Et ce compagnon a dit avec beaucoup d’humilité: ‘‘Mais, Père, ça ne se voit pas dans la vie’’ – ‘‘Mais ça se trouve dans des livres’’. Cette morale ‘‘des livres’’, sans expérience. La règle de Jésus, c’est de ‘‘juger comme nous voulons être jugés’’. Cette mesure intime qu’on a pour juger si on est traité avec dignité, si on est ignoré ou maltraité, si on a été aidé à se mettre debout… voilà la clef pour juger les autres. Remarquons que le Seigneur se fie à cette mesure qui est très personnelle et subjective. Non pas tant parce que cette mesure est ‘‘lameilleure’’, mais parce qu’elle est sincère et, à partir d’elle, on peut construire une bonne relation. L’autre conseil: ne soyez pas curieux au confessionnal. J’en ai déjà parlé. Sainte Thérèse raconte que, lorsqu’elle recevait les confidences de ses novices, elle se gardait bien de demander comment la chose avait évolué. Elle ne fouinait pas dans l’âme des personnes (cf. Histoire d’une âme, Manuscrit C. A la Mère de Gonzague, c. XI 32 r). Le propre de la miséricorde est de ‘‘couvrir de son manteau’’, couvrir le péché pour ne pas blesser la dignité. Ce passage des deux fils de Noé est beau; ils couvrirent d’un manteau la nudité de leur père qui s’était enivré (cf. Gn 9, 23).

La dimension sociale des œuvres de miséricorde

Maintenant, disons deux mots sur la dimension sociale des œuvres de miséricorde.

A la fin des Exercices, saint Ignace met «la contemplation pour obtenir l’amour», qui relie ce qui a été vécu dans l’oraison avec la vie quotidienne. Et cela nous fait réfléchir sur la manière dont l’amour doit être mis davantage dans les œuvres que dans les paroles. Ces œuvres sont les œuvres de miséricorde, celles que le Père «a préparées d’avance pour que nous les pratiquions» (Ep 2, 10), celles que l’Esprit inspire à chacun pour le bien commun (cf. 1Co 12, 7). En même temps que nous remercions le Seigneur pour tant de bienfaits reçus de sa bonté, nous demandons la grâce de porter à tous les hommes cette miséricorde qui nous a sauvés nous.

Je vous propose, dans cette dimension sociale, de méditer sur quelques-uns des paragraphes conclusifs des Evangiles. Là, le Seigneur lui-même établit ce lien entre ce qui a été reçu et ce que nous devons donner. Nous pouvons lire ces conclusions avec la grille d’‘‘œuvres de miséricorde’’, qui concrétise le temps de l’Église dans lequel Jésus ressuscité vit, accompagne, envoie, et attire notre liberté, qui trouve en lui sa réalisation concrète et renouvelée chaque jour.

La conclusion de l’Évangile de Matthieu nous dit que le Seigneur envoie les Apôtres et leur dit: «Apprenez-leur à observer tout ce que je vous ai commandé» (28, 20). Cet «apprendre à celui qui ne sait pas» est, en soi, une œuvre de miséricorde. Et elle se multiplie, comme la lumière, dans les autres œuvres:dans celles de Mt 25, qui se réfèrent davantage aux œuvres appelées corporelles, et dans tous les commandements et conseils évangéliques: ‘‘pardonner’’, ‘‘corriger fraternellement’’, consoler ceux qui sont tristes, supporter les persécutions, et ainsi de suite.

Marc termine par l’image du Seigneur qui ‘‘collabore’’ avec les Apôtres et qui ‘‘confirme la Parole avec les signes qui l’accompagnent’’ (cf. 16, 20). Ces ‘‘signes’’ ont la caractéristique des œuvres de miséricorde. Marc parle, entre autres, de soigner les malades, d’expulser les esprits mauvais (cf. 16, 17-18).

Luc continue son Evangile avec le Livre des «Actes» – praxeis – des Apôtres, en racontant leur manière de faire et les œuvres qu’ils accomplissent, guidés par l’Esprit.

Jean termine en parlant de «beaucoup d’autres choses» (21, 25) ou de «signes» (20, 30) que Jésus a accomplis. Les actes du Seigneur, ses œuvres, ne sont pas de simples actes, mais ils sont des signes dans lesquels, de manière personnelle et unique en chacun, il montre son amour et sa miséricorde.

Nous pouvons contempler le Seigneur qui nous envoie pour cette tâche, avec l’image de Jésus miséricordieux, telle qu’elle a été révélée à sœur Faustine. Dans cette image nous pouvons voir la miséricorde comme une lumière unique qui vient de l’intériorité de Dieu et qui, en passant par le cœur du Christ, ressort diversifiée, avec une couleur propre à chaque œuvre de miséricorde.

Les œuvres de miséricorde sont infinies, chacune a son cachet particulier, avec l’histoire de chaque visage. Ce ne sont pas seulement les sept œuvres corporelles et les sept spirituelles en général. Ou plutôt, elles sont, ainsi énumérées, comme les matières premières – celles de la vie elle-même – qui, lorsque les mains de la miséricorde les touchent ou les modèlent, deviennent, chacune, une œuvre artisanale. Une œuvre qui se multiplie comme le pain dans les corbeilles, qui grandit démesurément comme la graine de moutarde. En effet, la miséricorde est féconde et inclusive. Ces deux caractéristiques importantes: la miséricorde est féconde et inclusive. Il est vrai que nous pensons d’habitude aux œuvres de miséricorde, séparément, et en tant que liées à une œuvre: hôpitaux pour les malades, cantines pour ceux qui ont faim, maisons d’accueil pour ceux qui sont dans la rue, écoles pour ceux qui ont besoin d’instruction, le confessionnal et la direction spirituelle pour celui qui a besoin de conseil et de pardon… Mais si nous les regardons ensemble, le message est que l’objet de la miséricorde est la vie humaine elle-même et dans sa totalité. Notre vie même en tant que ‘‘chair’’ est affamée et assoiffée, elle a besoin de vêtements, de maison, de visites, tout comme d’un enterrement digne, une chose que nul ne peut se donner à soi-même. Même le plus riche, au moment de mourir, est réduit à une misère, et personne n’a derrière son cortège funèbre le camion de déménagement. Notre vie elle-même, en tant qu’‘‘esprit’’, a besoin d’être éduquée, corrigée, encouragée, consolée. C’est un mot très important dans la Bible: pensons au Livre de la consolation d’Israël, chez le prophète Isaïe. Nous avons besoin que d’autres nous conseillent, nous pardonnent, nous supportent et prient pour nous. C’est la famille qui pratique ces œuvres de miséricorde, de manière si appropriée et si désintéressée qu’on ne le remarque pas, mais il suffit que, dans une famille avec des enfants en bas âge manque la maman pour que tout soit réduit à la misère. La misère la plus absolue et la plus cruelle est celle d’un enfant dans la rue, sans parents, à la merci des vautours.

Nous avons demandé la grâce d’être des signes et des instruments, maintenant il s’agit d’‘‘agir’’, et de ne pas accomplir seulement des gestes mais de faire des œuvres, d’institutionnaliser, de créer une culture de la miséricorde, qui n’est pas la même chose qu’une culture de bienfaisance; nous devons [les] distinguer. En nous mettant à l’œuvre, nous sentons immédiatement que c’est l’Eprit qui suscite, qui fait avancer ces œuvres. Et il le fait en utilisant les signes et les instruments qu’il veut, bien qu’ils ne ‘‘soient’’ pas toujours, par eux-mêmes, les plus aptes. Bien plus, on dirait que pour exercer les œuvres de miséricorde l’Esprit choisit plutôt les instruments les plus pauvres, les plus humbles et insignifiants, ceux qui ont le plus besoin eux-mêmes de ce premier rayon de la miséricorde divine. Ce sont ceux-là qui se laissent le mieux former et préparer pour réaliser un service d’une efficacité incontestable et de qualité. La joie de nous sentir des ‘‘serviteurs inutiles’’, pour ceux que le Seigneur bénit par la fécondité de sa grâce, et que lui-même en personne fait asseoir à sa table et à qui il sert l’Eucharistie, est une confirmation que nous travaillons à ses œuvres de miséricorde.

Notre peuple fidèle aime à se réunir autour des œuvres de miséricorde. Il suffit de venir à l’une des audiences générales du mercredi et nous voyons combien il y en a: des groupes de personnes qui se mettent ensemble pour faire des œuvres de miséricorde. Tant dans les célébrations – pénitentielles ou festives – que dans l’action solidaire et de formation, notre peuple se laisse rassembler et paître d’une manière que tous ne remarquent pas ni ne valorise, bien que beaucoup d’autres plans pastoraux centrés sur des dynamiques plus abstraites échouent. La présence massive de notre peuple fidèle dans nos sanctuaires et pèlerinages doit faire l’objet d’attention, de valorisation et de promotion de notre part, présence anonyme, mais anonyme par excès de visages et par le désir de se faire voir uniquement de Celui ou de Celle qui les regarde avec miséricorde, comme également anonyme quant à la collaboration variée qui soutient par le travail beaucoup d’œuvres de solidarité. Et pour moi, ça été une surprise [de constater] combien ici en Italie ces organisations sont fortes et rassemblent les fidèles.

En tant que prêtres, demandons deux grâces au Bon Pasteur, celle de savoir nous laisser guider par le sensus fidei de notre peuple fidèle, et aussi par son «sens du pauvre». Ces deux «sens» sont en lien avec son «sensus Christi», dont parle saint Paul, avec l’amour et la foi que notre peuple a pour Jésus.

Concluons en priant l’Âme du Christ, qui est une belle prière pour demander miséricorde au Seigneur venu dans la chair; qu’il nous fasse miséricorde avec son Corps et son Âme mêmes. Demandons-lui de nous faire miséricorde ainsi qu’à son peuple; à son Âme nous demandons:‘‘sanctifie-nous’’; nous supplions son Corps: ‘‘sauve-nous’’; nous demandons à son sang: ‘‘enivre-nous’’; délivre-nous de toute autre soif qui ne soit pas de toi. Demandons à l’eau de son côté: ‘‘lave-nous’’, nous implorons sa passion: ‘‘réconforte-nous’’; console ton peuple, Seigneur crucifié, dans tes plaies, nous t’en supplions: ‘‘cache-nous’’… Ne permets pas, Seigneur, que ton peuple soit séparé de toi. Que rien ni personne ne nous sépare de ta miséricorde, qui nous protège contre les pièges de l’ennemi malin. Ainsi, nous pourrons chanter les miséricordes du Seigneur avec tous tes saints quand tu nous rappelleras à toi.

[Prière Âme du Christ]

J’ai parfois entendu des commentaires de prêtres qui disent: ‘‘Mais ce Pape nous bastonne trop, il nous réprimande’’. Et des coups de bâton, des réprimandes, il y en a! Mais je dois dire que j’ai été édifié par de nombreux prêtres, de nombreux bons prêtres! Parmi ceux-ci – j’en ai connu – qui, lorsqu’il n’y avait pas le répondeur automatique du téléphone, dormaient, le téléphone posé sur la table de lit, et personne ne mourait sans les sacrements; on appelait à n’importe quelle heure, et ils se levaient et allaient. De bons prêtres! Et je remercie le Seigneur de cette grâce. Nous sommes tous pécheurs, mais nous pouvons dire qu’il y a tant de bons, saints prêtres qui travaillent en silence et cachés. Parfois il y a un scandale, mais nous savons qu’un arbre qui tombe fait plus de bruit qu’une forêt qui pousse.

Et hier, j’ai reçu une lettre, je l’ai laissée à côté, avec les lettres personnelles. Je l’ai ouverte avant de venir et je crois que c’est le Seigneur qui me l’a suggéré. Elle provient d’un curé en Italie, curé de trois petits villages. Je crois que ça nous fera du bien d’entendre ce témoignage de l’un de nos frères.

Elle a été écrite le 29 mai, il y a peu de jours.

«Excusez du dérangement. Je saisis l’occasion d’un ami prêtre qui se trouve ces jours-ci à Rome pour le Jubilé sacerdotal, afin de vous faire parvenir sans aucune prétention – en tant que simple curé de trois petites paroisses de montagne, je préfère me faire appeler ‘‘petit pasteur’’ – quelques considérations sur mon service pastoral simple suscitées – je vous remercie de tout cœur – par certaines choses que vous avez dites et qui m’appellent chaque jour à la conversion. Je suis conscient que je ne vous écris rien de nouveau. Vous avez déjà certainement entendu ces choses. J’éprouve le besoin de me faire moi aussi porte-parole. Cette invitation que vous nous avez faite à plusieurs reprises d’avoir l’odeur des brebis m’a touché, me touche. Je suis en montagne et je sais bien ce que cela veut dire. On devient prêtre pour sentir cette odeur, qui est également le vrai parfum du troupeau. Ce serait beau si le contact quotidien et la fréquentation assidue de notre troupeau, vrai motif de notre appel, n’étaient pas remplacés par les tâches administratives et bureaucratiques des paroisses, de l’école des enfants et autres. J’ai la chance d’avoir des laïcs bons et compétents qui suivent de près ces affaires. Mais il y a toujours cette fonction juridique du curé, comme l’unique et le seul représentant légal. Comme quoi, en fin de compte, il doit toujours courir partout, en reléguant parfois [au dernier rang] la visite aux malades, aux familles comme l’ultime chose, faite peut-être en hâte et d’une manière quelconque. Je le dis pour moi, c’est parfois vraiment frustrant de constater comment dans la vie du prêtre on court tant pour l’appareil bureaucratique et administratif, en laissant finalement de côté les gens, ce petit troupeau qui m’a été confié, presqu’abandonné à lui-même. Croyez-moi, Saint-Père, c’est triste et souvent l’envie me vient de pleurer pour ce manquement. On cherche à s’organiser, mais en fin de compte, il n’y a que le tourbillon des choses quotidiennes. Il en est de même pour un autre aspect, que vous avez évoqué également : le manque de paternité. On dit que la société contemporaine manque de pères et de mères. Je crois constater comment parfois nous aussi nous renonçons à cette paternité spirituelle, nous réduisant brutalement à [être] des fonctionnaires du sacré, avec la triste conséquence, finalement, de nous sentir abandonnés à nous-mêmes. Une paternité difficile, qui en somme se répercute également de manière inévitable sur nos supérieurs, pris eux aussi par des tâches compréhensibles et délicates, risquant ainsi d’entretenir avec nous des relations formelles, plus liées à la gestion de la communauté qu’à notre vie d’hommes, de croyants et de prêtres. Tout cela – et je conclus – n’ôte pas de toute façon la joie et la passion d’être prêtre pour les gens et avec les gens. Si parfois, en tant que pasteur je n’ai pas l’odeur des brebis, je suis toujours ému face à mon troupeau qui n’a pas perdu l’odeur du pasteur! Que c’est beau, Saint-Père, lorsqu’on se rend compte que les brebis ne nous laissent pas seuls, qu’elles ont le thermomètre de notre être-là pour elles, et que si par hasard le pasteur sort du sentier et se perd, elles le prennent et le tiennent par la main. Je ne cesserai jamais de remercier le Seigneur, parce qu’il me sauve toujours par l’intermédiaire de son troupeau, ce troupeau qui nous a été confié, ces gens simples, bons, humbles, sereins, ce troupeau qui est la vraie grâce du pasteur. De manière confidentielle, je vous ai parvenir ces petites et simples considérations, parce que vous êtes proche du troupeau, parce que vous êtes capable de comprendre et que vous pouvez continuer de nous aider et de nous soutenir. Je prie pour vous et vous remercie, comme également pour [nous] ‘‘tirer un peu oreilles’’, ce qui est nécessaire pour mon cheminement. Bénissez-moi, Pape François, et priez pour moi ainsi que pour mes paroisses’’. Il signe, et à la fin ce geste propre aux pasteurs: ‘‘Je vous envoie une petite offrande. Priez pour mes communautés, en particulier pour quelques grands malades et pour quelques familles en difficulté sur le plan économique et pas seulement. Merci!’’

C’est l’un de nos frères. Il y en a beaucoup comme lui, il y en a beaucoup. Sûrement ici également. Beaucoup! Il nous indique le chemin. Et allons de l’avant! Il ne faut pas perdre [le sens de] la prière. Priez comme vous pouvez, et si vous vous endormez devant le Tabernacle, qu’il soit loué. Mais priez! Il ne faut pas perdre ça: il ne faut pas perdre le fait de se laisser regarder par la Vierge et de la regarder comme Mère. Il ne faut pas perdre le zèle, il faut essayer de faire…. Il ne faut pas perdre la proximité et la disponibilité pour les gens et je me permets également de vous dire de ne pas perdre le sens de l’humour. Et allons de l’avant!

[00920-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Third Meditation: the good odour of Christ
and the light of his mercy

Let us hope that the Lord will grant us what we sought in prayer: to imitate Jesus’ example of patience, and with that patience to overcome all our difficulties.

This, our third meditation, is entitled: The good odour of Christ and the light of his mercy.

In this third meeting, I propose that we meditate on the works of mercy, by taking whichever one we feel is most closely linked to our charism, and by looking at them as a whole. We can contemplate them through the merciful eyes of Our Lady, who helps us to find “the wine that is lacking” and encourages us to “do whatever Jesus tells us” (cf. Jn 2:1-12), so that his mercy can work the miracles that our people need.

The works of mercy are closely linked to the “spiritual senses”. In our prayer we ask for the grace so to “feel and savour” the Gospel that it can make us more “sensitive” in our lives. Moved by the Spirit and led by Jesus, we can see from afar, with the eyes of mercy, those who have fallen along the wayside. We can hear the cries of Bartimaeus and feel with Jesus the timid yet determined touch of the woman suffering from haemorrhage, as she grasps his robe. We can ask for the grace to taste with the crucified Jesus the bitter gall of all those who share in his cross, and smell the stench of misery - in field hospitals, in trains and in boats crammed with people. The balm of mercy does not disguise this stench. Rather, by anointing it, it awakens new hope.

The Catechism of the Catholic Church, in discussing the works of mercy, tells us that “when her mother reproached her for care for the poor and the sick at home, Saint Rose of Lima said to her: ‘When we serve the poor and the sick, we are the good odour of Christ’” (No. 2449, Latin). That good odour of Christ – the care of the poor – is, and always has been, the hallmark of the Church. Paul made it the focus of his meeting with Peter, James and John, the “columns” of the Church. He tells us that they “asked only one thing, that we remember the poor” (Gal 2:10). This reminds of a story I have already told. Just after I was just elected Pope, while the reading of the ballots continued, a brother cardinal came up to me, embraced me and said: “Don’t forget the poor!” It was the first message the Lord sent me at that moment.

The Catechism goes on to say, significantly, that “those who are oppressed by poverty are the object of a preferential love on the part of the Church, which from her origins, and in spite of the failings of many of her members, has not ceased to work for their relief, defence and liberation” (No. 2448). Without ideologies, with the power of the Gospel alone.

In the Church we have, and have always had, our sins and failings. But when it comes to serving the poor by the works of mercy, as a Church we have always followed the promptings of the Spirit. Our saints did this in quite creative and effective ways. Love for the poor has been the sign, the light that draws people to give glory to the Father. Our people value this in a priest who cares for the poor and the sick, for those whose sins he forgives and for those whom he patiently teaches and corrects… Our people forgive us priests many failings, except for that of attachment to money. This they don’t forgive. It is not so much about money itself, but the fact that money makes us lose the treasure of mercy. Our people can sniff out which sins are truly grave for a priest, the sins that kill his ministry because they turn him into a bureaucrat or, even worse, a mercenary. They can also recognize which sins are, I won’t say secondary (I’m not sure if you can say this theologically!), but that have to be put up with, borne like a cross, until the Lord at last burns them away like the chaff. But the failure of a priest to be merciful is a glaring contradiction. It strikes at the heart of salvation, against Christ, who “became poor so that by his poverty we might become rich” (cf. 2 Cor 8:9). Because mercy heals “by losing something of itself”. We feel a pang of regret and we lose a part of our life, because rather than do what we wanted to do, we reached out to someone else in a work of mercy.

So it is not about God showing me mercy for this or that sin, as if I were otherwise self-sufficient, or about us performing some act of mercy towards this or that person in need. The grace we seek in this prayer is that of letting ourselves be shown mercy by God in every aspect of our lives and in turn to show mercy to others in all that we do. As priests and bishops, we work with the sacraments, baptizing, hearing confessions, celebrating the Eucharist… Mercy is our way of making the entire life of God’s people a sacrament. Being merciful is not only “a way of life”, but “the way of life”. There is no other way of being a priest. Father Brochero put it this way: “The priest who has scarce pity for sinners is only half a priest. These vestments I wear are not what make me a priest; if I don’t have charity in my heart, I am not even a Christian.”

To see needs and to bring immediate relief, and even more, to anticipate those needs: this is the mark of a father’s gaze. This priestly gaze – which takes the place of the father in the heart of Mother Church – makes us see people with the eyes of mercy. It has to be learned from seminary on, and it must enrich all our pastoral plans and projects. We desire, and we ask the Lord to give us, a gaze capable of discerning the signs of the times, to know “what works of mercy our people need today” in order to feel and savour the God of history who walks among them. For, as Aparecida says, quoting Saint Alberto Hurtado: “In our works, our people know that we understand their suffering” (No. 386).

The proof that we understand is that our works of mercy are blessed by God and meet with help and cooperation from our people. Some plans and projects do not work out well, without people ever realizing why. They rack their brains trying to come up with yet another pastoral plan, when all somebody has to say is: “It’s not working because it lacks mercy”, with no further ado. If it is not blessed, it is because it lacks mercy. It lacks the mercy found in a field hospital, not in expensive clinics; it lacks the mercy that values goodness and opens the door to an encounter with God, rather than turning someone away with sharp criticism…

I am going to propose a prayer about the woman whose sins were forgiven (Jn 8:3-11), to ask for the grace to be merciful in the confessional, and another prayer about the social dimension of the works of mercy.

I have always been struck by the passage of the Lord’s encounter with the woman caught in adultery, and how, by refusing to condemn her, he “fell short of” the Law. In response to the question they asked to test him – “should she be stoned or not?” – Jesus did not rule, he did not apply the law. He played dumb – here too the Lord has something to teach us! – and turned to something else. He thus initiated a process in the heart of the woman who needed to hear those words: “Neither do I condemn you”. He stretched out his hand and helped her to her feet, letting her see a gentle gaze that changed her heart. The Lord took the daughter of Jairus by the hand and said: “Give her something to eat”. He raised the son of the widow of Nain and gave him back to his mother. And here he tells the sinful woman to rise. He puts us exactly where God wants us to be: standing, on our feet, never down on the ground.

Sometimes I feel a little saddened and annoyed when people go straight to the last words Jesus speaks to her: “Go and sin no more”. They use these words to “defend” Jesus from bypassing the law. I believe that Christ’s words are of a piece with his actions. He bends down to write on the ground as a prelude to what he is about to say to those who want to stone the woman, and he does so again before talking to her. This tells us something about the “time” that the Lord takes in judging and forgiving. The time he gives each person to look into his or her own heart and then to walk away. In talking to the woman, the Lord opens other spaces: one is that of non-condemnation. The Gospel clearly mentions this open space. It makes us see things through the eyes of Jesus, who tells us: “I see no one else but this woman”.

Then Jesus makes the woman herself look around. He asks her: “Where are those who condemned you?” (The word “condemn” is itself important, since it is about what we find unacceptable about those who judge or caricature us…). Once he has opened before her eyes this space freed of other people’s judgements, he tells her that neither will he throw a stone there: “Nor do I condemn you”. Then he opens up another free space before her: “Go and sin no more”. His command has to do with the future, to help her to make a new start and to “walk in love”. Such is the sensitivity of mercy: it looks with compassion on the past and offers encouragement for the future.

Those words, “Go and sin no more” are not easy. The Lord says them “with her”. He helps her put into words what she herself feels, a free “no” to sin that is like Mary’s “yes” to grace. That “no” has to be said to the deeply-rooted sin present in everyone. In that woman, it was a social sin; people approached her either to sleep with her or to throw stones at her. There was no other way to approach her. That is why the Lord does not only clear the path before her, but sets her on her way, so that she can stop being the “object” of other people's gaze and instead take control of her life. Those words, “sin no more” refer not only to morality, but, I believe, to a kind of sin that keeps her from living her life. Jesus also told the paralytic at Bethzatha to sin no more (Jn 5:14). But that man had justified himself with all the sad things that had “happened to him”; unlike the woman, he suffered from a victim complex. So Jesus challenged him ever so slightly by saying: “…lest something worse happen to you”. The Lord took advantage of his way of thinking, his fears, to draw him out of his paralysis. He gave him a little scare, we might say. The point is that each of us has to hear the words “sin no more” in his own deeply personal way.

This image of the Lord who sets people on their way is very typical. He is the God who walks at his people’s side, who leads them forward, who accompanies our history. Hence, the object of his mercy is quite clear: it is everything that keeps a man or a woman from walking on the right path, with their own people, at their own pace, to where God is asking them to go. What troubles him is that people get lost, or fall behind, or try to go it on their own. That they end up nowhere. That they are not there for the Lord, ready to go wherever he wants to send them. That they do not walk humbly before him (cf. Mic 6:8), that they do not walk in love (cf. Eph 5:2).

The confessional, where the truth makes us free

Let us now go to the confessional, where the truth sets us free. The Catechism of the Catholic Church presents the confessional as the place where the truth makes us free for an encounter. It says: “When he celebrates the sacrament of penance, the priest is fulfilling the ministry of the Good Shepherd who seeks the lost sheep, of the Good Samaritan who binds up wounds, of the Father who awaits the prodigal son and welcomes him on his return, and of the just and impartial Judge whose judgement is both just and merciful. The priest is the sign and the instrument of God’s merciful love for the sinner” (No. 1465). The Catechism also reminds us that “the confessor is not the master of God's forgiveness but its servant. The minister of this sacrament should unite himself to the intention and charity of Christ” (No. 1466).

Signs and instruments of an encounter. That is what we are. An attractive invitation to an encounter. As signs, we must be welcoming, sending a message that attracts people’s attention. Signs need to be consistent and clear, but above all understandable. Some signs are only clear to specialists, are not of much help. Signs and instruments. Instruments have to be effective, readily available, precise and suitable for the job. Either they work or they don’t. We are instruments if people have a genuine encounter with the God of mercy. Our task is “to make that encounter possible”, face-to-face. What people do afterwards is their business. There is a prodigal son in a pigsty and a father who goes out every afternoon to await his return. There is a lost sheep and a shepherd who goes out to seek him. There is a wounded person left at the roadside and a good-hearted Samaritan. What is our ministry? It is to be signs and instruments enabling this encounter. Let us always remember that we are not the father, the shepherd or the Samaritan. Rather, inasmuch as we are sinners, we are on the side of the other three. Our ministry has to be a sign and instrument of that encounter. We are part of the mystery of the Holy Spirit, who creates the Church, builds unity, and constantly invites to encounter.

The other mark of a sign and instrument is that it is not self-referential. Put more simply, it is not an end in itself. Nobody sticks with the sign once they understand the reality. Nobody keeps looking at the screwdriver or the hammer, but at the well-hung picture. We are useless servants. Instruments and signs that help two people to join in an embrace, like the father and his son.

The third mark of a sign and instrument is its availability. An instrument has to be readily accessible; a sign must be visible. Being a sign and instrument is about being a mediator, about being available. Perhaps this is the real key to our own mission in this merciful encounter of God and man. We could even put it in negative terms. Saint Ignatius talked about “not getting in the way”. A good mediator makes things easy, rather than setting up obstacles.

In my country, there was a great confessor, Father Cullen. He would sit in the confessional and, when no one was around, he would do one of two things: he would repair worn soccer balls for the local kids, or he would thumb through a big Chinese dictionary. He had been in China for many years and he wanted to keep up the language. He used to say that when people saw him doing such completely useless things like fixing old soccer balls or working on his Chinese, they would think: “I’m going to go up and talk to his priest, since he obviously doesn’t have much to do!” He was available for what was essential. He had his regular hours for hearing confessions, but he was always there. He got rid of the obstacle of always looking busy and serious. This is the problem: people don’t approach their priests when they see them constantly busy and running around.

Everybody has known good confessors. We have to learn from our good confessors, the ones whom people seek out, who do not make them afraid but help them to speak frankly, as Jesus did with Nicodemus. It is important to understand body language, not to ask things that are already evident from body language. If people come to confession it is because they are penitent; repentance is already there. They come to confession because they want to change. Or at least they want to want to change, if they think their situation is hopeless. Ad impossibilia nemo tenetur, as the old maxim goes: no one is obliged to do the impossible.

Body language. I read in the biography of one of our recent saints who, poor man, he suffered much during the war. He had to confess a soldier about to face the firing squad. The man was clearly something of a philanderer, so our saint asked him: “Are you sorry for this?” The man replied: “No, Father! It was great!” Our saint didn’t know what to do. The firing squad was waiting to execute the man, so he said: “At least tell me this, are you sorry for not being sorry?” … “Certainly!” … “Good, then!” The confessor always seeks the right way of acting, and speaking, to get to the heart of things.

We have to learn from good confessors, those who are gentle with sinners, who after a couple of words understand everything, as Jesus did with the woman suffering from a haemorrhage, and straightaway the power of forgiveness goes forth from them. I was very edified by a curial cardinal who I thought was quite strict. But when he had a penitent who was clearly embarrassed about confessing a sin, after a few words he would interrupt to say that he understood and to go on. He interrupted because he understood. That is tact. But there are those confessors – forgive me! – who probe and probe. “Tell me this, tell me that”. Do you really need all those details to absolve or are you “making a film”? That cardinal edified me greatly.

The integrity of confession is not a mathematics problem. How many times? How? When? Sometimes people feel less shame in confessing a sin than in having to say the number of times they committed it. We have to let ourselves be moved by people’s situation, which at times is a mixture of their own doing, human weakness, sin and insuperable conditionings. We have to be like Jesus, who was deeply moved by the sight of people and their problems, and kept healing them, even when they “didn’t ask properly”, like that leper, or seemed to beat around the bush, like the Samaritan woman. She was like a bird we have in South America: she squawked in one place but had her nest in another. Jesus was patient.

We have to learn from confessors who can enable penitents to feel amendment in taking a small step forwards, like Jesus, who gave a suitable penance and could appreciate the one leper who returned to thank him, on whom he bestowed yet more. Jesus had his mat taken away from the paralytic, and he made the blind man and the Syro-Phoenician woman have to ask. It didn’t matter to him if they paid no attention to him, like the paralytic at the pool of Bethzatha, or told others what he ordered them not to tell, with the result that he himself became the leper, since he could not go into the towns or his enemies found reasons to condemn him. He healed people, forgave their sins, eased their suffering, gave them rest and made them feel the consoling breath of the Spirit.

Perhaps some of you have already heard what I am about to say. In Buenos Aires I knew a Capuchin Friar. He is still alive, a little younger than myself, and a great confessor. There is always a line before his confessional, lots of people – all kinds of people, rich and poor, priests and nuns – all day long. He is really good at forgiving. He always finds a way to forgive and to bring people along. It is a real gift of the Spirit. But every once in a while he has scruples about being so forgiving. Once in conversation he told me: “Sometimes I have scruples”. So I asked him: “What do you do when you have these scruples?” He replied: “I go before the tabernacle, I look at our Lord and I tell him, ‘Lord, forgive me, today I was very forgiving. But let’s be clear, it is all your fault, because you gave me bad example!” He added mercy to mercy.

Lastly, as far as confession is concerned, I have two bits of advice. First, never look like a bureaucrat or a judge, somebody who just sees “cases” to be dealt with. Mercy sets us free from being the kind of priest who is so used to judging “cases” that he is no longer sensitive to persons, to faces. When I was in second theology, I would go with my classmates to hear the public examinations of the third theologians who were about to be ordained. We went to learn and we always learned something. Once, I recall, a student was asked about justice, but the question was so intricate and unreal that the student answered, very humbly: “But Father, this never happens in real life!” He was told: “But it does in books!” Book morality, unrelated to experience…

The rule of Jesus is to “judge as we would be judged”. This is the key to our judgement: that we treat others with dignity, that we don’t demean or mistreat them, that we help raise them up, and that we never forget that the Lord is using us, weak as we are, as his instruments. Not necessarily because our judgement is “the best”, but because it is sincere and can build a good relationship.

My other bit of advice is not to pry in the confessional. Saint Therese tells us that when her novices would confide in her, she was very careful not to ask how things turned out. She did not pry into people’s souls (cf. History of a Soul, Ms C, to Mother Gonzaga, c. XII, 32r.). It is characteristic of mercy to cover sin with its cloak, so as not to wound people’s dignity. We can think of that touching passage about the two sons of Noah, who covered with a cloak the nakedness of their father in his drunkenness (cf. Gen 9:23).

The social dimension of the works of mercy

Let us now say something about the social dimension of the works of mercy.

At the conclusion of the Exercises, Saint Ignatius puts “contemplation to attain love”, which connects what is experienced in prayer to daily life. He makes us reflect on how love has to be put more into works than into words. Those works are the works of mercy which the Father “prepared beforehand to be our way of life” (Eph 2:10), those which the Spirit inspires in each for the common good (cf. 1 Cor 12:7). In thanking the Lord for all the gifts we have received from his bounty, we ask for the grace to bring to all mankind that mercy which has been our own salvation.

For this social dimension, I proposed that we meditate on one of the final paragraphs of the Gospels. There, the Lord himself makes that connection between what we have received and what we are called to give. We can read these conclusions in the key of “works of mercy” which bring about the time of the Church, the time in which the risen Jesus lives, guides, sends forth and appeals to our freedom, which finds in him its concrete daily realization.

The conclusion of Matthew’s Gospel tells us that the Lord sends his Apostles to make disciples of all nations, “teaching them to obey everything that I have commanded” (28:20). “Instructing the ignorant” is itself one of the works of mercy. It spreads like light to the other works: to those listed in Matthew 25, which deal more with the so-called “corporal works of mercy”, and to all the commandments and evangelical counsels, such as “forgiving”, “fraternally correcting”, consoling the sorrowing, enduring persecution and so forth.

Mark’s Gospel ends with the image of the Lord who “collaborates” with the Apostles and “confirms the word by the signs that accompany it”. Those “signs” greatly resemble the works of mercy. Mark speaks, among other things, of healing the sick and casting out demons (cf. 16:17-18).

Luke continues his Gospel with the “Acts” – praxeis -- of the Apostles, relating the history of how they acted and the works they did, led by the Spirit.

John’s Gospel ends by referring to the “many other things” (21:25) or “signs” (20:30) which Jesus performed. The Lord’s actions, his works, are not mere deeds but signs by which, in a completely personal way, he shows his love and his mercy for each person.

We can contemplate the Lord who sends us on this mission, by using the image of the merciful Jesus as revealed to Sister Faustina. In that image we can see mercy as a single ray of light that comes from deep within God, passes through the heart of Christ, and emerges in a diversity of colours, each representing a work of mercy.

The works of mercy are endless, but each bears the stamp of a particular face, a personal history. They are much more than the lists of the seven corporal and seven spiritual works of mercy. Those lists are like the raw material – the material of life itself – that, worked and shaped by the hands of mercy, turns into an individual artistic creation. Each work multiplies like the bread in the baskets; each gives abundant growth like the mustard seed. For mercy has these two important marks: it is fruitful and it is inclusive.

We usually think of the works of mercy individually and in relation to a specific initiative: hospitals for the sick, soup kitchens for the hungry, shelters for the homeless, schools for those to be educated, the confessional and spiritual direction for those needing counsel and forgiveness… But if we look at the works of mercy as a whole, we see that the object of mercy is human life itself and everything it embraces. Life itself, as “flesh”, hungers and thirsts; it needs to be clothed, given shelter and visited, to say nothing of receiving a proper burial, something none of us, however rich, can do for ourselves. Even the wealthiest person, in death, becomes a pauper; there are no moving vans in a funeral cortege. Life itself, as “spiritual”, needs to be educated, corrected, encouraged and consoled. That last word is very important in the Bible; think about the Book of the Consolation of Israel, in Isaiah. We need others to counsel us, to forgive us, to put up with us and to pray for us. The family is where these works of mercy are practised in so normal and unpretentious a way that we don’t even realize it. Yet once a family with small children loses its mother, everything begins to fall apart. The cruellest and most relentless form of poverty is that of street children, without parents and prey to the vultures.

We have asked for the grace to be signs and instruments. Now we have to “act”, not only with gestures, but with projects and structures, by creating a culture of mercy. This is not the same as a culture of philanthropy; the two need to be distinguished. Once we begin, we sense immediately that the Spirit energizes and sustains these works. He does this by using the signs and instruments he wants, even if at times they do not appear to be the most suitable ones. It could even be said that, in order to carry out the works of mercy, the Spirit tends to choose the poorest, humblest and most insignificant instruments, those who themselves most need that first ray of divine mercy. They are the ones who can best be shaped and readied to serve most effectively and well. The joy of realizing that we are “useless servants” for others whom the Lord blesses with the fruitfulness of his grace, seats at his table and serves us the Eucharist, is a confirmation that we are engaged in his works of mercy.

Our faithful people are happy to congregate around works of mercy. Just come to a Wednesday General Audience and you can see so groups and associations engaged in works of mercy. In penitential and festive celebrations, and in educational and charitable activities, our people willingly come together and let themselves be shepherded in ways that are not always recognized or appreciated, whereas so many of our more abstract and academic pastoral plans fail to work. The massive presence of our faithful people in our shrines and on our pilgrimages is an anonymous presence, but anonymous simply because it is made up of so many faces and so great a desire simply to be gazed upon with mercy by Jesus and Mary. The same can be said about the countless ways in which our people take part in countless initiatives of solidarity; this too needs to be recognized, appreciated and promoted on our part. I was pleasantly surprised to discover that here in Italy organizations of this kind are so strong and involve so many people.

As priests, we ask two graces of the Good Shepherd, that of letting ourselves be guided by the sensus fidei of our faithful people, and to be guided by their “sense of the poor”. Both these “senses” have to do with the sensus Christi spoken of by Saint Paul, with our people’s love for, and faith in, Jesus.

Let us conclude by reciting the Anima Christi, that beautiful prayer which implores mercy from the Lord who came among us in the flesh and graciously feeds us with his body and blood. We ask him to show mercy to us and to his people. We ask his soul to “sanctify us”, his body to “save us”, his blood to “inebriate us” and to remove from us all other thirsts that are not of him. We ask the water flowing from his side “to wash us”, his passion “to strengthen us”. Comfort your people, crucified Lord! May your wounds “shelter us”… Grant that your people, Lord, may never be parted from you. Let nothing and no one separate us from your mercy, which defends us from the snares of the wicked enemy. Thus, we will sing your mercies, Lord, with all your saints when you bid us come to you.

[Recitation of the Anima Christi]

Occasionally I hear comments from priests who say: “This Pope is always chiding us, always scolding us”. There has been a bit of that. But I must say that I have been edified by any number of good priests! From those – and I have known them – who in the days before there were answering machines, slept with the telephone on their night table. No one died without sacraments; when the phone would ring at all hours, they would get up and go. Good priests! And I thank the Lord for this blessing. All of us are sinners, but we can say that there are so many good and holy priests who work silently and unseen. Sometimes a scandal emerges, but, as we know, a tree as it falls makes more noise than a forest as it grows.

Yesterday I received a letter. I left it on my desk with my personal letters. I opened it just before coming here today and I believe that the Lord wanted me to. It is from a priest in Italy, a pastor of three small towns. I think we would do well to listen to this testimony from one of our brothers.

It was written on 29 May, just a few days ago.

“Pardon my troubling you. I am taking advantage of a priest friend who is going to Rome for the Jubilee of priests simply to send you, as an ordinary priest in charge of three small mountain parishes, a few thoughts about my own pastoral service. They are occasioned by some things you have said, that challenge me to daily conversion, and for this I thank you. I know I am not telling you anything new; surely these are things you have heard before. But I feel the need to say them myself. I have often been struck by your call to us pastors to have the smell of the sheep. I am in the mountains, so I know very well what that means. We become priests to know that smell, which is really the perfume of the flock. It would be wonderful if our daily contact and visits to our flock, the true reason for our calling, were not replaced by administrative and bureaucratic responsibilities of our parishes, schools and so forth. I am lucky to have good and capable lay persons who take care of these things. But as the sole legal representative of the parish, with all its responsibilities, the pastor ends up always running around, sometimes leaving visits to the sick and families for last. I say this about myself. At times, it is frustrating to see how in my priestly life I get so caught up in bureaucratic and administrative matters that my people, the small flock entrusted to my care, are almost left to fend for themselves. Believe me, Holy Father, when I say that I am driven to tears for this failure. We try to organize things, but in the end, there is only the whirlwind of daily affairs. Another thing you have talked about is the lack of fatherhood. Today’s society is said to be lacking fathers and mothers. It strikes me that we too can renounce this spiritual paternity, allowing ourselves to be reduced to sacred bureaucrats, with the sad result that we feel abandoned and alone. Our difficulty in being fathers then has inevitable repercussions on our superiors, who have their own responsibilities and problems. Their relationship to us can also risk becoming purely formal, concerned with the management of the community, rather than with our lives as men, believers and priests. All this – and here I will conclude – takes nothing away from my joy and excitement at being a priest for people and with people. If there are times when, as a pastor, I do not have the smell of the sheep, I am nonetheless moved to realize that my flock does not lose the smell of its pastor! Holy Father, it is a wonderful thing to realize that the sheep do not leave us alone. They can gauge how much we are there for them, and if perchance the pastor strays from the path and loses his way, they go after him and take him by the hand. I keep thanking the Lord because he always saves us through the flock, the flock entrusted to us, all those good, ordinary, humble and serene people, the flock that is the real blessing of every shepherd. I wanted to send you these simply little thoughts because you are close to the flock. You can understand us and can continue to help and support us. I pray for you and I thank you, too, for that occasional “scolding” that I feel is necessary for my journey. Bless me, Pope Francis, and pray for me and for my parishes.” He signed the letter and then, at the end, added, like every good pastor: “I am leaving you a little offering. Pray for my community, in particular for the gravely ill and a few families with financial troubles, and not only. Thank you!”

This is one of our brothers. There are so many others like him! Doubtless many are here in our midst. So many. He shows us the way. So let us go forward! Do not forget about prayer. Pray as best you can, and if you fall sleep in front of the tabernacle, so be it. But pray! Don’t ever lose this. Don’t fail to let yourselves be gazed upon by Our Lady, and keep her always as your Mother. Don’t ever lose your zeal, and your closeness and availability to people. And also, may I say: Don’t ever lose your sense of humour… So let’s move forward!

[00920-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Dritte Meditation: Der Duft Christi
und das Licht seiner Barmherzigkeit

Hoffen wir, dass der Herr uns gewähren möge, worum wir gebetet haben: das Beispiel der Geduld Jesu nachzuahmen und mit Geduld die Schwierigkeiten zu überwinden.

Diese dritte Meditation hat den Titel: „Der Duft Christi und das Licht seiner Barmherzigkeit“.

In dieser dritten Begegnung schlage ich euch vor, über die Werke der Barmherzigkeit zu meditieren. Wir können sowohl eines herausgreifen, das unserem Empfinden nach am besten unserem eigenen Charisma entspricht, als auch sie alle zusammen betrachten und sie mit den Augen Marias sehen, die uns „den fehlenden Wein“ entdecken lassen und uns ermutigen. „alles zu tun, was Jesus uns sagt“ (vgl. Joh 2,1-12), damit seine Barmherzigkeit die Wunder vollbringt, die unser Volk nötig hat.

Die Werke der Barmherzigkeit sind sehr an die „geistlichen Sinne“ gebunden. Im Gebet erbitten wir die Gnade, das Evangelium so „zu hören und zu verkosten“, dass es uns sensibel macht für das Leben. Vom Heiligen Geist bewegt und von Jesus geführt können wir mit den Augen der Barmherzigkeit schon von weitem sehen, wer am Straßenrand am Boden liegt; können wir die Rufe des Bartimäus hören; können wir fühlen wie der Herr, der am Saum seines Gewandes die schüchterne, aber entschlossene Berührung durch die an Blutungen leidende Frau fühlt; können wir die Gnade erbitten, mit ihm am Kreuz den bitteren Gallegeschmack aller Gekreuzigten zu kosten, um so den starken Geruch des Elends wahrzunehmen – in Feldlazaretten, in Zügen und Kähnen voller Menschen – diesen Geruch, den das Öl der Barmherzigkeit nicht überdeckt; doch wenn es ihn salbt, lässt es wieder Hoffnung aufkommen.

Der Katechismus der Katholischen Kirche erzählt uns im Zusammenhang mit den Werken der Barmherzigkeit, dass die heilige Rosa von Lima, als ihre Mutter sie eines Tages tadelte, weil sie zu Hause Arme und Kranke beherbergte, dieser ohne Zögern antwortete: »Wenn wir den Armen und Kranken dienen, sind wir der Wohlgeruch Christi« (vgl. Nr. 2449). Dieser Wohlgeruch Christi – die Sorge für die Armen – ist und war immer kennzeichnend für die Kirche. Paulus sah darin den Schwerpunkt seiner Begegnung mit den »Säulen«, wie er sie nennt, mit Petrus, Jakobus und Johannes, wenn er schreibt: Von ihnen »wurde mir nichts auferlegt […] Nur sollten wir an ihre Armen denken« (Gal 2,6.10). Das erinnert mich an eine Begebenheit, die ich schon mehrmals erzählt habe: Als ich gerade zum Papst gewählt worden war und die Auszählung der Stimmen noch weiterging, kam ein Bruder Kardinal zu mir, umarmte mich und sagte zu mir: „Vergiss die Armen nicht!“ Das war die erste Botschaft, die der Herr mir in jenem Moment zukommen ließ. Auch der Katechismus betont mit eindrucksvollen Worten: »Darum richtet sich auf alle, die [vom Elend] bedrückt sind, auch eine vorrangige Liebe der Kirche, die seit ihren Anfängen, ungeachtet der Schwächen vieler ihrer Glieder, unaufhörlich dafür gewirkt hat, die Bedrückten zu stützen, zu verteidigen und zu befreien« (Nr. 2448). Und das ohne Ideologien, allein mit der Kraft des Evangeliums.

In der Kirche hatten und haben wir vieles, was nicht sehr gut ist, und viele Sünden; doch darin, den Armen mit den Werken der Barmherzigkeit zu dienen, sind wir als Kirche immer dem Heiligen Geist gefolgt, und unsere Heiligen haben es auf sehr kreative und wirkungsvolle Weise getan. Die Liebe zu den Armen ist das Zeichen gewesen, das Licht, das die Menschen veranlasst hat, Gott den Vater zu preisen. Unsere Leute wissen das zu schätzen: den Priester, der sich um die Armen und die Kranken kümmert, der den Sündern vergibt, der geduldig unterweist und korrigiert… Unser Volk sieht dem Priester viele Fehler nach, nur nicht den, am Geld zu hängen. Das verzeiht das Volk nicht. Und das nicht so sehr wegen des Reichtums an sich, sondern weil das Geld uns den Reichtum der Barmherzigkeit verlieren lässt. Unser Volk hat ein feines Gespür dafür, welche Sünden für den Hirten schwerwiegend sind, welche seinen Dienst zunichtemachen, weil sie ihn zum Funktionär oder noch schlimmer: zum Söldling werden lassen, und welche hingegen – ich würde nicht sagen zweitrangige, denn ich weiß nicht, ob man das theologisch so sagen kann – aber doch erträgliche Sünden sind, die man wie ein Kreuz auf sich nimmt, bis der Herr sie am Ende reinigt, wie er es mit dem Unkraut tut. Was jedoch gegen die Barmherzigkeit verstößt, ist ein grundsätzlicher Widerspruch. Es verstößt gegen die Heilsdynamik, gegen Christus, der unseretwegen arm wurde, um uns durch seine Armut reich zu machen (vgl. 2Kor 8,9). Und das ist so, weil die Barmherzigkeit umsorgt und pflegt, indem sie „etwas von sich verliert“: Ein Stückchen des Herzens bleibt beim Verwundeten; eine Zeit unseres Lebens, in der wir Lust hatten, etwas zu tun, verlieren wir, wenn wir sie dem anderen schenken, in einem Werk der Barmherzigkeit.

Daher geht es nicht darum, dass Gott mir gegenüber in Bezug auf irgendeinen Fehler Barmherzigkeit erweist, als sei ich im Übrigen selbständig; oder darum, dass ich ab und zu irgendeinem Bedürftigen irgendeine besondere Tat der Barmherzigkeit erweise. Die Gnade, um die wir in diesem Gebet bitten, ist die, dass wir uns von Gott Barmherzigkeit erweisen lassen in allen Aspekten unseres Lebens und dass wir mit den anderen barmherzig sind in all unserem Tun. Für uns Priester und Bischöfe, die wir mit den Sakramenten arbeiten, indem wir taufen, Beichte hören, Eucharistie feiern…, ist die Barmherzigkeit die Weise, das ganze Leben des Gottesvolkes in ein Sakrament zu verwandeln. Barmherzig sein ist nicht nur eine Wesensart, sondern die Wesensart. Es gibt keine andere Möglichkeit, Priester zu sein. Der Pfarrer Brochero sagte: »Der Priester, der nicht viel Mitleid mit den Sündern hat, ist ein halber Priester. Diese gesegneten Klamotten, die ich am Leibe trage, sind nicht das, was mich zum Priester macht; wenn ich in meinem Herzen keine Liebe trage, bin ich nicht einmal ein Christ.«

Zu sehen, was fehlt, und unverzüglich Abhilfe zu schaffen und noch besser: es vorauszusehen, ist typisch für den Blick eines Vaters. Dieser priesterliche Blick – der Blick dessen, der im Innern der Mutter Kirche die Stelle des Vaters vertritt –, dieser Blick, der uns dazu führt, die Menschen aus der Perspektive der Barmherzigkeit zu sehen, ist das, was vom Seminar an zu pflegen gelehrt werden muss und was alle pastoralen Pläne zu inspirieren hat. Wir wünschen und erbitten vom Herrn einen Blick, der die Zeichen der Zeit zu unterscheiden lernt unter dem Gesichtspunkt, „welche Werke der Barmherzigkeit heute für unser Volk notwendig sind“, damit die Menschen den Gott der Geschichte, der mitten unter ihnen unterwegs ist, spüren und an ihm Gefallen finden können. Denn – wie es das Dokument von Aparecida mit den Worten des heiligen Alberto Hurtado sagt – »an unseren Taten erkennt unser Volk, dass wir sein Leid verstehen« (Nr. 386).

Der Beweis für dieses Verständnis gegenüber unserem Volk besteht darin, dass wir in unseren Werken der Barmherzigkeit immer von Gott gesegnet sind und bei unseren Leuten Hilfe und Mitarbeit finden. Das trifft nicht für andere Arten von Projekten zu, die manchmal gut gehen und manchmal nicht. Und manche merken nicht, warum es nicht funktioniert, und zerbrechen sich den Kopf, indem sie nach einem neuen, zigsten Pastoralplan suchen, während man doch einfach – ohne in Einzelheiten gehen zu müssen – sagen könnte: Es funktioniert nicht, weil ihm die Barmherzigkeit fehlt. Wenn es nicht gesegnet ist, dann weil ihm Barmherzigkeit fehlt. Es fehlt jene Barmherzigkeit, die mehr zu einem Feldlazarett gehört als zu einer Luxusklinik; jene Barmherzigkeit, die, indem sie etwas Gutes würdigt, den Boden bereitet für eine spätere Begegnung des Menschen mit Gott, anstatt ihn durch eine gezielte Kritik zu entfernen…

Ich schlage euch ein Gebet mit der Sünderin vor, der vergeben wurde (vgl. Joh 8,3-11), um die Gnade zu erbitten, in der Beichte barmherzig zu sein, und ein weiteres über die soziale Dimension der Werke der Barmherzigkeit.

Es rührt mich immer diese Schriftstelle vom Herrn mit der Ehebrecherin, wie der Herr, als er sie nicht verurteilte, gegen das Gesetz „verstieß“. In dem Punkt, zu dem sie seine Stellungnahme forderten – „muss man sie steinigen oder nicht?“ – äußerte er sich nicht, wendete er das Gesetz nicht an. Er tat, als verstehe er nicht – auch darin ist der Herr ein Lehrer für uns –, und in dem Moment packte er etwas anderes aus. So leitete er einen Prozess im Herzen der Frau ein, die diese Worte: »auch ich verurteile dich nicht« brauchte. Indem er ihr die Hand reichte, ließ er sie aufstehen, und das erlaubte ihr, einem Blick voller Liebe und Freundlichkeit zu begegnen, der ihr Herz verwandelte. Der Herr reicht die Hand der Tochter des Jaïrus: „Gebt ihr etwas zu essen!“; dem gestorbenen jungen Mann von Naïn: „Steh auf!“, und gibt ihn seiner Mutter zurück; und dieser Sünderin: „Steh auf!“. Der Herr bringt uns in genau die Situation, in der Gott uns haben möchte: stehend, aufgerichtet, niemals am Boden. Manchmal erzeugt es in mir eine Mischung aus Pein und Empörung, wenn jemand sich beeilt, die letzte Ermahnung, das »sündige nicht mehr«, zu erklären und diesen Satz gebraucht, um Jesus zu „verteidigen“ und damit bloß nicht die Sache im Raum stehen bleibt, dass das Gesetz übergangen wurde. Ich denke, dass die Worte, die der Herr gebraucht, eine Einheit bilden mit dem, was er tut. Die Tatsache, dass er sich bückt, um zweimal mit dem Finger auf die Erde zu schreiben, und so eine Pause schafft vor dem, was er zu denen sagt, welche die Frau steinigen wollen, und dann vor dem, was er zu der Frau sagt, spricht uns von einer Zeit, die der Herr sich nimmt, um zu urteilen und zu verzeihen. Eine Zeit, die jeden an sein eigenes Inneres verweist und bewirkt, dass diejenigen, die urteilen, sich zurückziehen.

In seinem Dialog mit der Frau eröffnet der Herr weitere Räume: Einer ist der Raum der Nicht-Verurteilung. Das Evangelium beharrt auf diesem Raum, der frei geblieben ist. Es versetzt uns in den Blick Jesu und sagt uns, dass er ringsum niemanden mehr sieht, nur noch die Frau. Und dann veranlasst Jesus selbst die Frau, sich umzuschauen mit der Frage: „Wo sind jene, die dich klassifizierten?“ (Das Wort ist wichtig, denn es bringt das zur Sprache, was wir so schlecht vertragen wie die Sache, dass man uns etikettiert und uns zur Karikatur macht…). Und nachdem er sie erst einmal jenen Raum sehen lässt, der frei ist vom Urteil anderer, sagt er ihr, dass nicht einmal er mit seinen Steinen in ihn eindringt: »Auch ich verurteile dich nicht.« Und in demselben Augenblick öffnet er ihr einen weiteren Freiraum: »Geh und sündige von jetzt an nicht mehr!« Das Gebot wird für die Zukunft gegeben, als Gehhilfe, um „in der Liebe voranzuschreiten“. Das ist das Feingefühl der Barmherzigkeit, die erbarmungsvoll auf die Vergangenheit schaut und Mut macht für die Zukunft. Dieses „sündige nicht mehr“ ist nicht etwas Selbstverständliches. Der Herr sagt es „gemeinsam mit ihr“; er hilft ihr, in Worte zu fassen, was sie selbst empfindet, dieses freie „Nein“ zur Sünde, das wie das „Ja“ Marias zur Gnade ist. Das „Nein“ wird in Bezug auf die Wurzel der Sünde eines jeden gesagt. Bei der Frau handelte es sich um eine gesellschaftliche Sünde, um die Sünde von einer, auf die die Menschen zugingen, um sich entweder mit ihr zu vergnügen oder sie zu steinigen. Eine andere Art der Annäherung an diese Frau gab es nicht. Darum räumt der Herr ihr nicht nur den Weg frei, sondern er bringt sie auf den Weg, damit sie aufhört, „Objekt“ des Blickes anderer zu sein, und selbständig handelndes „Subjekt“ ist. Das „nicht sündigen“ bezieht sich nicht nur auf den moralischen Aspekt, glaube ich, sondern auf eine Art von Sünde, die sie daran hindert, ihr eigenes Leben zu leben. Zum Gelähmten von Bethesda sagt Jesus ebenfalls: »Sündige nicht mehr« (Joh 5,14). Doch ihn, der sich rechtfertigte für die traurigen Dinge, die ihm geschahen, und der eine Opfermentalität besaß – nicht so die Frau! –, stachelt er ein wenig an mit den Worten: »damit dir nicht noch Schlimmeres zustößt« (ebd.). Der Herr nutzt die Denkweise des Gelähmten, das, wovor er sich fürchtet, um ihn aus seiner Lähmung herauszuziehen. Sagen wir: Mit der Angst bringt er ihn in Bewegung. So muss jeder von uns dieses „sündige nicht mehr“ tiefgreifend und ganz persönlich hören.

Dieses Bild des Herrn, der die Menschen in Bewegung bringt, ist sehr treffend: Er ist der Gott, der sich mit seinem Volk auf den Weg macht, der unsere Geschichte weiterführt und begleitet. Darum ist das Objekt, auf das die Barmherzigkeit gerichtet ist, genau bestimmt: Sie wendet sich an das, was einen Menschen veranlasst, sich nicht dort zu bewegen, wo sein Platz ist, nämlich mit seinen Lieben, in dem ihm eigenen Rhythmus, zu dem Ziel, zu dem Gott ihn einlädt. Die Sorge, das, was zutiefst beunruhigt, ist, dass einer auf Abwege gerät oder zurückbleibt oder aus Anmaßung fehlgeht; dass er – sagen wir – desorientiert ist; dass er nicht für den Herrn bereit ist, verfügbar für die Aufgabe, die er ihm übertragen möchte; dass einer sich nicht in Ehrfurcht in der Gegenwart Gottes bewegt (vgl. Mi 6,8), dass er nicht in Liebe seinen Weg geht (vgl. Eph 5,2).

Der Raum des Beichtstuhls, wo die Wahrheit uns frei macht

Jetzt kommen wir zu dem Raum des Beichtstuhls, wo die Wahrheit uns frei macht. Der Katechismus der Katholischen Kirche zeigt uns den Beichtstuhl als einen Ort, an dem die Wahrheit uns frei macht für eine Begegnung. Es heißt dort: »Wenn der Priester das Bußsakrament spendet, versieht er den Dienst des Guten Hirten, der nach dem verlorenen Schaf sucht; den des barmherzigen Samariters, der die Wunden verbindet; den des Vaters, der auf den verlorenen Sohn wartet und ihn bei dessen Rückkehr liebevoll aufnimmt; den des gerechten Richters, der ohne Ansehen der Person ein zugleich gerechtes und barmherziges Urteil fällt. Kurz, der Priester ist Zeichen und Werkzeug der barmherzigen Liebe Gottes zum Sünder« (Nr. 1465). Und er erinnert uns daran, dass »der Beichtvater […] nicht Herr, sondern Diener der Vergebung Gottes [ist]. Der Diener dieses Sakramentes soll sich mit der Absicht und der Liebe Christi vereinen« (Nr. 1466).

Zeichen und Werkzeug einer Begegnung. Das sind wir. Eine wirkungsvolle Anziehungskraft für eine Begegnung. „Zeichen“ bedeutet, dass wir Anziehung ausüben müssen wie jemand, der winkt, um Aufmerksamkeit zu erregen. Ein Zeichen muss stimmig und eindeutig sein, vor allem aber verständlich. Denn es gibt Zeichen, die nur für die Spezialisten eindeutig sind, und die helfen nicht weiter. Zeichen und Werkzeug. Für das Werkzeug hängt alles davon ab, ob es wirksam ist – ist es nützlich oder nicht? –, ob es greifbar ist und ob es genau und in geeigneter Weise auf die Wirklichkeit einwirkt. Wir sind ein Werkzeug, wenn die Menschen wirklich dem barmherzigen Gott begegnen. Uns obliegt es, „dafür zu sorgen, dass sie einander begegnen“, von Angesicht zu Angesicht einander gegenüberstehen. Was sie dann tun, ist ihre Angelegenheit. Es gibt einen verlorenen Sohn im Schweinestall und einen Vater, der jeden Abend auf die Dachterrasse steigt, um zu sehen, ob er kommt; es gibt ein verlorenes Schaf und einen Hirten, der sich auf die Suche nach ihm begeben hat; es gibt einen am Straßenrand liegengelassenen Verwundeten und einen Samariter, der ein gutes Herz hat. Was ist also unser Dienst? Zeichen und Werkzeug zu sein, damit diese einander begegnen. Machen wir uns ganz klar, dass wir weder der Vater, noch der Hirte, noch der Samariter sind. Wir befinden uns vielmehr an der Seite der anderen drei, insofern wir Sünder sind. Unser Dienst muss Zeichen und Werkzeug dieser Begegnung sein. Versetzen wir uns daher in den Bereich des Geheimnisses des Heiligen Geistes: Er ist es, der die Kirche schafft, der die Einheit herstellt, der jedes Mal die Begegnung belebt.

Die andere besondere Eigenschaft eines Zeichens und eines Werkzeugs ist, dass sie nicht selbstbezogen sind. Niemand bleibt beim Zeichen stehen, wenn er die Sache selbst verstanden hat; niemand hält inne, um den Schraubenzieher oder den Hammer zu betrachten, sondern er betrachtet das Bild, das sicher aufgehängt ist. Wir sind „unnütze Sklaven“. Das ist es: Werkzeuge und Zeichen, die sehr nützlich waren für zwei andere, die sich in einer Umarmung vereint haben wie der Vater und der Sohn.

Das dritte besondere Merkmal des Zeichens und des Werkzeugs ist ihre Verfügbarkeit: dass das Werkzeug gebrauchsbereit und das Zeichen sichtbar ist. Das Wesen des Zeichens und des Werkzeug ist, dass sie Mittler sind, verfügbar. Vielleicht liegt hier der Schlüssel für unsere Aufgabe bei dieser Begegnung der Barmherzigkeit Gottes mit dem Menschen. Möglicherweise ist es deutlicher, wenn man es negativ ausdrückt. Der heilige Ignatius sprach davon, „kein Hindernis zu sein“. Ein guter Mittler ist derjenige, welcher die Dinge vereinfacht und keine Hindernisse aufstellt. In meinem Land gab es einen großen Beichtvater, Pater Cullen. Er setzte sich in den Beichtstuhl, und wenn keine Leute da waren, tat er zwei Dinge: Das eine war, Lederbälle zu flicken für die Jungen, die Fußball spielten, und das andere, in einem großen chinesischen Wörterbuch zu lesen. Er war nämlich lange Zeit in China gewesen und wollte die Sprache nicht verlernen. Er sagte, wenn die Leute ihn bei Beschäftigungen sahen, die so nutzlos waren wie das Reparieren alter Bälle und so langfristig wie das Lesen in einem chinesischen Wörterbuch, dann dachten sie: „Zu diesem Priester kann ich gehen und ein wenig mit ihm sprechen, denn wie man sieht, hat er nichts zu tun.“ Er stand zur Verfügung für das Wesentliche. Er hatte einen bestimmten Zeitplan für den Beichtstuhl, aber er war einfach dort. Er vermied die Hürde, immer das Aussehen eines stark Beschäftigten zu haben. Da liegt das Problem. Die Leute kommen nicht, wenn sie ihren Hirten immer sehr, sehr beschäftigt sehen, immer im Einsatz.

Jeder von uns hat gute Beichtväter kennengelernt. Wir müssen von unseren guten Beichtvätern lernen, von denen, auf die die Leute zugehen, von denen, die die Menschen nicht erschrecken und die es verstehen, sich so lange mit dem anderen zu unterhalten, bis er erzählt, was passiert ist – wie Jesus mit Nikodemus. Es ist wichtig, die Sprache der Gesten zu verstehen; nicht nach Dingen zu fragen, die durch die Gesten schon klar sind. Wenn jemand zum Beichtstuhl kommt, dann tut er das, weil er etwas bereut, es gibt bereits Reue. Und wenn er kommt, tut er das, weil er den Wunsch hat, sich zu ändern. Oder er wünscht sich wenigstens diesen Wunsch, wenn die Situation ihm unmöglich erscheint (ad impossibilia nemo tenetur – wie der Rechtssatz sagt – zum Unmöglichen ist niemand verpflichtet). Die Sprache der Gesten. Ich habe in der Lebensbeschreibung eines Heiligen unserer Zeit gelesen. Der Arme, er hat während des Krieges gelitten. Da war ein Soldat, der erschossen werden sollte, und er ging hin, um seine Beichte zu hören. Und offensichtlich war jener Soldat ein bisschen ein Wüstling gewesen, er hatte sich sehr mit Frauen vergnügt… „Aber bereust du das?“ – „Nein, Pater, das war ja so schön!“ Da wusste dieser Heilige nicht recht weiter. Das Exekutionskommando stand bereit, um den Soldaten zu erschießen, und so sagte er zu ihm: „Sag wenigstens: Tut es dir leid, dass du keine Reue hast?“ – „Das ja.“ – „Aha, gut so!“. Der Beichtvater sucht immer einen Weg, und die Sprache der Gesten ist die Sprache der Möglichkeiten, etwas auf den Punkt zu bringen.

Man muss von den guten Beichtvätern lernen, die Feinfühligkeit gegenüber den Sündern besitzen und denen ein halbes Wort genügt, um alles zu verstehen – wie Jesus mit der unter Blutungen leidenden Frau –, und genau in dem Moment geht von ihnen die Kraft der Vergebung aus. Durchaus positiv beeindruckt hat mich ein Kurienkardinal, den ich von vornherein für sehr streng und unbeweglich gehalten hatte. Als er aber in der Beichte jemanden hatte, der sich einer Sünde so schämte, dass er Mühe hatte, sie beim Namen zu nennen, und deshalb mit einem oder zwei Worten zaghaft begann, begriff der Kardinal sofort, worum es ging und sagte: „Nur weiter, ich hab‘ schon verstanden!“ Er unterbrach ihn, weil er verstanden hatte. Das ist Feingefühl. Doch jene Beichtväter – verzeiht! – die fragen und fragen…: „Aber bitte, sag‘ mir…“. Brauchst du so viele Einzelheiten, um zu vergeben, oder „machst du dir einen Film“? Jener Kardinal hat mich sehr positiv beeindruckt. Die Vollständigkeit der Beichte ist keine mathematische Frage – „Wie oft? Wie? Wo?... –; manchmal löst die Anzahl der Sünden im Verborgenen mehr Beschämung aus als die Sünde selbst. Aber deshalb muss man sich innerlich anrühren lassen angesichts der Situation der Menschen, die manchmal eine Mischung aus Ereignissen, Krankheit, Sünde und unüberwindlichen Konditionierungen ist – wie Jesus, der beim Anblick der Menschen Mitleid empfand; es ging ihm zu Herzen, er spürte es bis ins Mark, und deshalb heilte er; und er heilte sogar, wenn der andere „nicht ausdrücklich darum bat“ wie jener Aussätzige, oder wenn er darum herumredete wie die samaritische Frau, die sich wie ein Kiebitz verhielt: Sie „lockte“ in die eine Richtung, hatte das Nest aber in der anderen. Jesus war geduldig.

Man muss von den Beichtvätern lernen, die sich so zu verhalten wissen, dass der Beichtende die Zurechtweisung spürt und einen kleinen Schritt voran tut – wie Jesus, der eine Bußübung aufgab, die genügte, und den zu würdigen wusste, der zurückkehrte, um zu danken, der sich noch weiter bessern konnte. Jesus ließ den Gelähmten seine Bahre tragen oder er ließ sich von den Blinden und von der kanaanäischen Frau ein wenig bitten. Es störte ihn nicht, wenn sie sich danach nicht mehr um ihn kümmerten wie der Gelähmte von Bethesda, oder wenn sie Dinge erzählten, die nicht zu erzählen er ihnen geboten hatte, und es dann schien, als sei er selbst der Aussätzige, weil er nicht mehr in die Dörfer gehen konnte, oder seine Feinde Gründe fanden, ihn zu verurteilen. Er heilte, verzieh, schenkte Erleichterung, Ruhe, ließ die Menschen einen Hauch des Tröster-Geistes einatmen.

Was ich jetzt sagen werde, habe ich schon oft erzählt; vielleicht hat jemand von euch es schon gehört. In Buenos Aires habe ich einen Kapuziner-Pater kennengelernt – er lebt noch, ist etwas jünger als ich –, der ein großer Beichtvater ist. Vor dem Beichtstuhl hat er immer eine Warteschlange, viele Menschen – alles: einfache Leute, wohlhabende Leute, Priester, Ordensschwestern, eine lange Reihe – eine endlose Folge von Menschen, deren Beichte er hört, den ganzen Tag lang. Und er ist ein großer Verzeihender. Immer findet er einen Weg, um zu vergeben und einen Schritt weiter zu führen. Das ist ein Geschenk des Heiligen Geistes. Aber manchmal kommt ihm der Zweifel, zu viel vergeben zu haben. Und da hat er einmal im Gespräch zu mir gesagt: „Manchmal habe ich diesen Zweifel.“ Und ich habe ihn gefragt: „Und was tust du mit diesem Zweifel?“ – „Ich begebe mich vor den Tabernakel, schaue auf den Herrn und sage ihm: Herr, verzeih mir, heute habe ich viel vergeben. Doch dass das ganz klar ist: Es ist deine Schuld, denn du warst es, der mir das schlechte Beispiel gegeben hat!“ Das heißt, die Barmherzigkeit machte er wett mit noch mehr Barmherzigkeit.

Als Letztes zu diesem Thema der Beichte zwei Ratschläge. Zum einen: Habt niemals den Blick des Justizbeamten, den Blick dessen, der nur „Fälle“ sieht und sie abschüttelt. Die Barmherzigkeit befreit uns davon, ein Priester zu sein, der – sagen wir: wie ein Richter mit der Sturheit eines Beamten – durch das viele Beurteilen von „Fällen“ das Gespür für die Menschen und für die Gesichter verliert. Ich erinnere mich, dass ich, als ich im zweiten Jahr des Theologiestudiums war, mit meinen Kameraden ging, um bei der Prüfung der „audiendas“ zuzuhören, die im dritten Jahr der Theologie, vor der Priesterweihe, abgehalten wurde. Wir gingen, um etwas zu lernen; man lernte immer etwas dazu. Und einmal wurde einem Kameraden eine Rechtsfrage gestellt, „de iure“, aber so verzwickt, so künstlich… Und jener Kamerad sagte ganz demütig: „Aber Pater, so etwas kommt im Leben nicht vor.“ – „Aber es kommt in den Büchern vor!“ – Diese Moral der Bücher, ohne Erfahrung… Die Regel Jesu ist: „beurteilen, wie wir beurteilt sein möchten“. In jenem inneren Maßstab, den man hat, um zu beurteilen, ob man würdevoll behandelt wird, ob man ignoriert oder misshandelt wird, ob einem geholfen wurde aufzustehen…, darin liegt der Schlüssel, um die anderen zu beurteilen. Beachten wir, dass der Herr diesem so subjektiv persönlichen Maßstab vertraut! Nicht so sehr, weil dieser Maßstab „der beste“ wäre, sondern weil er ehrlich ist und man von ihm aus eine gute Beziehung aufbauen kann. Der zweite Ratschlag: Seid nicht neugierig im Beichtstuhl. Das habe ich bereits erwähnt. Die heilige Theresia [vom Kinde Jesu] erzählt, dass sie, wenn sie die vertraulichen Mitteilungen ihrer Novizinnen empfing, sich hütete zu fragen, wie sich die Dinge dann weiterentwickelt hatten. Sie schnüffelte nicht in der Seele der anderen herum (vgl. Geschichte einer Seele, Manuskript C. An Mutter Gonzaga, c. XI 32 r). Es ist typisch für die Barmherzigkeit, „mit ihrem Mantel zu überdecken“, die Sünde zu überdecken, um die Würde nicht zu verletzen. Schön ist die Schriftstelle, die von den beiden Söhnen Noahs erzählt, die mit dem Mantel die Blöße ihres Vaters bedeckten, der sich betrunken hatte (vgl. Gen 9,23).

Die soziale Dimension der Werke der Barmherzigkeit

Jetzt wollen wir noch ein paar Worte über die soziale Dimension der Werke der Barmherzigkeit sagen. An das Ende der Geistlichen Übungen setzt der heilige Ignatius die »Betrachtung, um Liebe zu erlangen«, die das, was man im Gebet erlebt hat, mit dem Alltagsleben verbindet. Und er lässt uns darüber nachdenken, wie die Liebe mehr in die Werke als in die Worte gelegt werden muss. Diese Werke sind die Werke der Barmherzigkeit, die der himmlische Vater im Voraus bereitet hat, damit wir sie tun (vgl. Eph 2,10), und die der Heilige Geist jedem Einzelnen eingibt zum Wohl aller (vgl. 1Kor 12,7). Während wir dem Herrn für die vielen Wohltaten danken, die wir von seiner Güte empfangen haben, bitten wir ihn um die Gnade, allen Menschen die Barmherzigkeit zu überbringen, die uns gerettet hat.

Ich schlage euch im Zusammenhang mit dieser sozialen Dimension vor, über einige Abschnitte zu meditieren, mit denen die Evangelien schließen. Dort stellt der Herr selbst die Verbindung her zwischen dem, was wir empfangen haben, und dem, was wir geben müssen. Wir können diese Schlussworte im Hinblick auf die „Werke der Barmherzigkeit“ lesen; sie machen die Zeit der Kirche fruchtbar, in der der auferstandene Christus lebt, uns begleitet, uns aussendet und unsere Freiheit an sich zieht, die sich in ihm konkret und täglich neu verwirklicht.

Der Schluss des Matthäusevangeliums berichtet uns, dass der Herr die Apostel aussendet und ihnen sagt: »Lehrt […], alles zu befolgen, was ich euch geboten habe« (28,20). Dieses „die Unwissenden lehren“ ist in sich selbst ein Werk der Barmherzigkeit. Und wie das Licht sich bricht, so spaltet es sich auf in die anderen Werke: in die aus Matthäus 25, wo es eher um die sogenannten leiblichen Werke geht, und in alle Gebote und Ratschläge des Evangeliums wie zu verzeihen, brüderlich zurechtzuweisen, die Traurigen zu trösten, Verfolgungen zu ertragen usw.

Markus schließt mit dem Bild des Herrn, der mit den Aposteln „zusammenarbeitet“ und „die Verkündigung bekräftigt durch die Zeichen, die sie begleiten“ (vgl. 16,20). Diese „Zeichen“ haben das Merkmal der Werke der Barmherzigkeit. Markus spricht unter anderem davon, die Kranken zu heilen und Dämonen auszutreiben (vgl. 16,17-18).

Lukas setzt sein Evangelium fort mit der Apostelgeschichte, dem Buch der „Taten – praxeis – der Apostel“ und erzählt ihre Vorgehensweise und die Werke, die sie vom Heiligen Geist geführt vollbringen.

Johannes schließt, indem er sagt, dass es »viele andere Zeichen« (20,30) bzw. »noch vieles andere [gibt], was Jesus getan hat« (21,25). Die Taten des Herrn, seine Werke, sind nicht einfache Tatsachen, sondern es sind Zeichen, in denen sich – in einer für jeden persönlichen und einmaligen Weise – seine Liebe und seine Barmherzigkeit zeigen.

Wir können den Herrn, der uns zu dieser Arbeit aussendet, in dem Bild des barmherzigen Jesus betrachten, so wie es der Schwester Faustina offenbart wurde. In jenem Bild können wir die göttliche Barmherzigkeit sehen wie ein einziges Licht, das aus dem Innern Gottes kommend den Weg über das Herz Jesu nimmt und vielgestaltig gebrochen herausströmt mit einer eigenen Farbe für jedes Werk der Barmherzigkeit.

Die Werke der Barmherzigkeit sind zahllos, jedes mit seiner persönlichen Prägung, mit der Geschichte eines jeden Gesichtes. Es sind nicht nur die sieben leiblichen und die sieben geistigen Werke ganz allgemein. Oder besser gesagt: So aufgezählt sind diese wie die „Rohstoffe“ – die des Lebens selbst –, und wenn sie von der Hand der Barmherzigkeit berührt oder geformt werden, verwandelt sich jedes von ihnen in ein persönlich gestaltetes Werk. Ein Werk, das sich vervielfacht wie das Brot in den Körben; das übermäßig wächst wie das Senfkorn. Denn die Barmherzigkeit ist fruchtbar und inklusiv. Diese beiden wichtigen Merkmale: Die Barmherzigkeit ist fruchtbar und inklusiv. Es ist wahr, dass wir gewöhnlich an die Werke der Barmherzigkeit denken, indem wir sie einzeln betrachten und in Verbindung mit einer Einrichtung sehen: Krankenhäuser für die Kranken, Mittagstische für die Hungrigen, Herbergen für die Obdachlosen, Schulen für die, welche eine Ausbildung brauchen, und Beichtstuhl und geistliche Leitung für die, welche Rat und Vergebung nötig haben… Wenn wir sie aber gemeinsam betrachten, dann lautet die Botschaft, dass der Gegenstand der Barmherzigkeit das menschliche Leben selbst ist und zwar in seiner Ganzheit. Unser eigenes Leben in seiner Eigenschaft als „Fleisch“ ist hungrig, durstig, bedarf der Kleidung, einer Wohnung, des Kontaktes mit anderen Menschen wie auch eines würdigen Begräbnisses, das niemand sich selber geben kann. Auch der Reichste wird, wenn er stirbt, zu einem Häufchen Elend, und niemand führt in seinem Trauerzug den Umzugswagen mit. Insofern es „Geist“ ist, bedarf unser eigenes Leben der Erziehung, der Zurechtweisung, der Ermutigung und des Trostes – das ist ein sehr wichtiges Wort in der Bibel: Denken wir an Israels Trostbuch beim Propheten Jesaja. Wir haben es nötig, dass andere uns beraten, uns verzeihen, uns unterstützen und für uns beten. Die Familie ist der Ort, wo diese Werke der Barmherzigkeit in so angemessener Form und so uneigennützig praktiziert werden, dass man es gar nicht merkt; doch es genügt, dass in einer Familie mit kleinen Kindern die Mutter fehlt, und alles gerät in Not. Das vollkommenste und grausamste Elend ist das eines Straßenkindes, ohne Eltern und den Aasgeiern ausgesetzt.

Wir haben die Gnade erbeten, Zeichen und Werkzeug zu sein; jetzt geht es darum, zu „handeln“, und zwar nicht nur Gesten zu tun, sondern Werke zu vollbringen, eine Kultur der Barmherzigkeit zu schaffen, zu „institutionalisieren“ – was nicht dasselbe ist wie eine Wohlfahrtskultur; wir müssen das unterscheiden –. Wenn wir uns an die Arbeit machen, spüren wir sofort, dass es der Heilige Geist ist, der drängt, der diese Werke vorantreibt. Und er tut es, indem er sich der Zeichen und der Werkzeuge bedient, die er will, auch wenn sie manchmal an sich nicht die geeignetsten sind. Mehr noch, man könnte sagen, dass der Geist zur Ausübung der Werke der Barmherzigkeit eher die ärmlichsten Werkzeuge auswählt, die am demütigsten und unbedeutendsten sind und selbst am meisten jenes ersten Strahles der göttlichen Barmherzigkeit bedürfen. Das sind diejenigen, die sich am besten formen und vorbereiten lassen, um einen wirklich wirksamen und hochwertigen Dienst zu leisten. Die Freude, sich als „unnütze Sklaven“ zu fühlen, ist für die, welche der Herr mit der Fruchtbarkeit seiner Gnade segnet und die er persönlich an seinem Tisch Platz nehmen lässt und ihnen die Eucharistie schenkt, eine Bestätigung, dass man an seinen Werken der Barmherzigkeit arbeitet.

Unserem gläubigen Volk gefällt es, sich um die Werke der Barmherzigkeit zu scharen. Es genügt, zu einer der Generalaudienzen am Mittwoch zu kommen, um zu sehen, wie viele Gruppen es gibt von Menschen, die sich zusammentun, um Werke der Barmherzigkeit zu vollbringen. Sowohl in den liturgischen Feiern – Bußandachten und Festmessen – als auch in solidarischem Tun und in der Glaubensvertiefung lassen unsere Leute sich zusammenführen und „weiden“. Dies geschieht in einer Weise, die nicht alle kennen und zu schätzen wissen, obwohl viele andere, auf abstraktere Dynamiken ausgerichtete Pastoralpläne scheitern. Die massenhafte Anwesenheit unseres gläubigen Volkes in unseren Heiligtümern und bei unseren Wallfahrten – eine anonyme Anwesenheit aufgrund der Überzahl an Gesichtern und wegen des Wunsches, sich allein von Demjenigen und Derjenigen sehen zu lassen, die voller Barmherzigkeit auf sie schauen, wie auch aufgrund der vielen Mitarbeiter, die mit ihrem Einsatz viele solidarische Werke unterstützen –, diese massenhafte Anwesenheit muss unsere Aufmerksamkeit erregen und uns anregen, dies zu würdigen und zu fördern. Und für mich war es eine Überraschung, wie stark diese Organisationen hier in Italien sind und wie viel Volk sie versammeln.

Als Priester erbitten wir vom Guten Hirten zwei Gnaden: uns vom sensus fidei unseres gläubigen Volkes und auch von seinem „Empfinden des Armen“ leiten zu lassen. Beide „Sinne“ sind mit dem „sensus Christi“ verbunden, von dem der heilige Paulus spricht, mit der Liebe und dem Glauben, die unsere Leute für Jesus hegen.

Schließen wir, indem wir das Anima Christi beten. Es ist ein schönes Gebet, um den im Fleisch gekommenen Herrn um Barmherzigkeit zu bitten; mit seinem eigenen Leib und seiner Seele selbst schenkt er uns sein Erbarmen. Wir bitten ihn, dass er uns gemeinsam mit seinem Volk Barmherzigkeit erweist: Seine Seele bitten wir: „Heilige uns!“; seinen Leib flehen wir an: „Rette uns!“; sein Blut bitten wir inständig: „Tränke uns!“, nimm uns jeden anderen Durst, der nicht Durst nach dir ist; das Wasser aus seiner Seite bitten wir: „Wasche uns rein!“; von seinem Leiden erflehen wir: „Stärke uns!“. Tröste dein Volk, oh gekreuzigter Herr; in deinen Wunden, so bitten wir, „birg uns“… Lass nicht zu, dass dein Volk sich von dir trennt, oh Herr! Nichts und niemand trenne uns von deiner Barmherzigkeit, die uns vor den Verlockungen des bösen Feindes schützt. So werden wir mit allen deinen Heiligen deine Barmherzigkeit besingen können, wenn du uns einst zu dir rufst.

[Gebet des „Anima Christi“]

Ich habe manchmal Kommentare von Priestern gehört, die sagen: „Aber dieser Papst schlägt zu viel auf uns ein und macht uns Vorwürfe.“ Und manchen Hieb, manchen Vorwurf gibt es. Doch ich muss sagen, dass ich von vielen Priestern positiv beeindruckt worden bin, von vielen guten Priestern. Von denen – ich habe solche kennengelernt –, die in der Zeit, als es noch keinen Anrufbeantworter gab, mit dem Telefon auf dem Nachttisch schliefen, und niemand starb ohne die Sakramente. Man rief sie zu jeder beliebigen Zeit an, und sie standen auf und gingen. Gute Priester! Und ich danke dem Herrn für diese Gnade. Alle sind wir Sünder, aber wir können sagen, dass es viele gute, heilige Priester gibt, die im Stillen und im Verborgenen arbeiten. Manchmal gibt es einen Skandal, aber wir wissen ja, dass ein Baum, der fällt, mehr Lärm macht als ein Wald, der wächst.

Gestern habe ich einen Brief erhalten; ich habe ihn dort gelassen, bei den persönlichen Briefen. Bevor ich hierher kam, habe ich ihn geöffnet, und ich glaube, dass es der Herr war, der mir das eingegeben hat. Es ist der Brief eines Pfarrers in Italien, eines Pfarrers von drei kleinen Dörfern. Ich denke, dass es uns gut tun wird, dieses Zeugnis von einem unserer Brüder anzuhören.

Der Brief ist am 29. Mai geschrieben, vor einigen Tagen.

„Entschuldigen Sie die Störung. Ich ergreife die Gelegenheit, dass ein befreundeter Priester in diesen Tagen wegen des Jubiläums für Priester in Rom ist, um Ihnen – ohne irgendwelche Ansprüche zu erheben – als einfacher Pfarrer dreier kleiner Bergpfarreien (ich lasse mich am liebsten „Pastorello“ nennen) einige Überlegungen über meinen einfachen pastoralen Dienst zukommen zu lassen. Die Anregung zu diesen Überlegungen kam mir aus einigen Dingen, die Sie gesagt haben, für die ich Ihnen von Herzen danke und die mich jeden Tag zur Umkehr rufen. Ich weiß wohl, dass ich Ihnen nichts Neues schreibe; sicher haben Sie diese Dinge schon gehört. Ich habe aber das Bedürfnis, sie auch selbst zur Sprache zu bringen.

Ihre wiederholte Aufforderung an uns Hirten, den Geruch der Schafe zu haben, hat mich beeindruckt und beeindruckt mich immer neu. Ich bin in den Bergen und weiß genau, was das bedeutet. Man wird Priester, um diesen Geruch wahrzunehmen, der übrigens der wahre Duft der Herde ist. Es wäre wirklich schön, wenn der tägliche Kontakt und der dauernde Umgang mit unserer Herde – der eigentliche Grund für unsere Berufung – nicht verdrängt würde von den administrativen und bürokratischen Verpflichtungen für die Pfarreien, den Kindergarten und anderes. Zu meinem Glück habe ich gute und tüchtige Laien, die diesen Dingen eigenständig nachkommen. Aber da ist immer diese rechtliche Verpflichtung des Pfarrers als des einzigen legalen Vertreters. Deshalb muss letztlich immer er überallhin eilen und manchmal den Krankenbesuch oder den Besuch bei den Familien auf den letzten Platz verbannen und vielleicht rasch und irgendwie erledigen. Das sage ich ganz persönlich: Manchmal ist es wirklich frustrierend festzustellen, wie ich in meinem Priesterleben so viel Eile habe für den Büro- und Verwaltungsapparat und dann die Leute, jene kleine Herde, die mir anvertraut ist, fast sich selbst überlasse. Glauben Sie mir, Heiliger Vater, das ist traurig, und oft ist mir zum Weinen zumute wegen dieses Mangels. Man versucht, sich zu organisieren, doch am Ende ist da nur der Strudel der täglichen Angelegenheiten.

Ebenso wie ein anderer Aspekt, an den auch Sie erinnert haben: der Mangel an Vaterschaft. Man spricht von der heutigen Gesellschaft als einer vater- und mutterlosen Gesellschaft. Ich meine zu bemerken, dass manchmal auch wir diese geistliche Vaterschaft aufgeben und schonungslos zu Bürokraten des Heiligen verkommen, mit der traurigen Konsequenz, dass wir uns dann uns selbst überlassen fühlen. Eine schwierige Vaterschaft, die sich dann unvermeidlich auch auf unsere Vorgesetzten auswirkt, die ebenfalls mit verständlichen Verpflichtungen und Problemen beschäftigt sind und so in Gefahr kommen, eine formelle Beziehung zu uns zu pflegen, die mehr mit der Führung der Gemeinde zu tun hat als mit unserem Leben als Menschen, als Gläubige und als Priester.

All das – und ich komme zum Schluss – nimmt dennoch nicht die Freude und die Leidenschaft, Priester für die Menschen und mit den Menschen zu sein. Wenn ich als Hirte gelegentlich nicht den Geruch der Schafe habe, bin ich jedes Mal gerührt über meine Herde, die nicht den Geruch des Hirten verloren hat! Wie schön, Heiliger Vater, wenn man merkt, dass die Schafe uns nicht alleinlassen. Sie haben das „Thermometer“ unseres Daseins für sie; und wenn der Hirte vielleicht vom Weg abkommt und sich verirrt, ergreifen sie ihn und halten ihn an der Hand. Ich werde nie aufhören, dem Herrn zu danken, dass er uns immer rettet durch seine Herde, jene Herde, die uns anvertraut ist, diese einfachen, guten, demütigen und heiter-gelassenen Leute, diese Herde, die die wahre Gnade für den Hirten ist.

Ich habe Ihnen diese kleinen, einfachen Überlegungen vertraulich zukommen lassen, denn Sie sind der Herde nahe, Sie sind fähig, zu verstehen, und können uns weiterhin helfen und uns unterstützen. Ich bete für Sie und danke Ihnen – wie auch dafür, dass Sie uns manchmal „am Ohr ziehen“; ich spüre, dass ich das nötig habe für meinen Weg. Segnen Sie mich, Papst Franziskus, und beten Sie für mich und für meine Pfarreien.“

Unterschrift, und am Ende jene für die Hirten typische Geste: „Ich überlasse Ihnen eine kleine Spende. Beten Sie für meine Gemeinden, besonders für einige Schwerkranke und für einige Familien in finanziellen Schwierigkeiten und nicht nur… Danke!“

Das ist einer unserer Brüder. Es gibt viele solche, viele! Sicher auch hier. Viele. Er weist uns den Weg. Und gehen wir voran! Versäumt nicht das Gebet! Betet, wie ihr könnt, und wenn ihr vor dem Tabernakel einschlaft, so sei es zum Segen. Aber betet. Das nicht aufgeben! Und versäumt nicht, euch von der Muttergottes anschauen zu lassen und sie wie eine Mutter anzuschauen. Verliert nicht den Eifer, versucht es zu schaffen… Verliert nicht die Nähe und die Verfügbarkeit für die Menschen und – ich erlaube mir, es euch zu sagen – verliert nicht den Sinn für Humor. Und gehen wir voran!

[00920-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Tercera Meditación: El buen olor de Cristo
y la luz de su misericordia

Esperemos que el Señor nos conceda lo que hemos pedido en la oración: imitar el ejemplo de la paciencia de Jesús, y con la paciencia superar las dificultades.

Esta tercera meditación se titula: «El buen olor de Cristo y la luz de su misericordia».

En este tercer encuentro les propongo meditar con las obras de misericordia, ya sea tomando alguna de ellas, la que más sintamos ligada a nuestro carisma, ya sea contemplándolas todas juntas, viéndolas con los ojos misericordiosos de nuestra Señora, que nos hacen descubrir «el vino que falta» y nos alientan a «hacer todo lo que Jesús nos diga» (cf. Jn 2,1-12), para que su misericordia obre los milagros que nuestro pueblo necesita.

Las obras de misericordia están muy ligadas a los «sentidos espirituales». Al rezar pedimos la gracia de «sentir y gustar» el Evangelio de tal manera que nos sensibilice para la vida. Movidos por el Espíritu, guiados por Jesús, podemos ver ya de lejos con ojos de misericordia al que está caído al lado del camino, podemos escuchar los gritos de Bartimeo; podemos notar cómo el Señor siente en el borde de su manto el toque tímido pero decidido de la hemorroísa; podemos pedir la gracia de gustar con él en la cruz el sabor amargo de la hiel de todos los crucificados, para sentir así el fuerte olor de la miseria —en hospitales de campaña, en trenes y en barcones repletos de gente—; ese olor que no tapa el aceite de la misericordia, sino que al ungirlo hace que se despierte una esperanza.

El Catecismo de la Iglesia Católica, hablando de las obras de misericordia, nos cuenta que santa Rosa de Lima, el día en que su madre la reprendió por atender en la casa a pobres y enfermos, ella le contestó: «Cuando servimos a los pobres y a los enfermos, somos buen olor de Cristo» (n. 2449). Ese buen olor de Cristo —el cuidado de los pobres— es distintivo de la Iglesia, siempre lo ha sido. Pablo centró en esto su encuentro con «las columnas», como él les llama, con Pedro, Santiago y Juan. Ellos «sólo nos pidieron que nos acordáramos de los pobres» (Ga 2,10).

Esto me recuerda un hecho que he contado algunas veces: apenas elegido Papa, mientras continuaba el escrutinio, un hermano Cardenal se acercó, me abrazó y me dijo: «No te olvides de los pobres». Es el primer mensaje que el Señor me hizo llegar en aquel momento. El Catecismo dice también, de manera sugestiva, que «los oprimidos por la miseria son objeto de un amor de preferencia por parte de la Iglesia, que, desde los orígenes, y a pesar de los fallos de muchos de sus miembros, no ha cesado de trabajar para aliviarlos, defenderlos y liberarlos» (n. 2448). Y esto sin ideologías, solamente con la fuerza del Evangelio.

En la Iglesia hemos tenido y tenemos muchas cosas no tan buenas, y muchos pecados, pero en esto de servir a los pobres con obras de misericordia, siempre hemos seguido como Iglesia al Espíritu, y nuestros santos lo hicieron de manera muy creativa y eficaz. El amor a los pobres ha sido el signo, la luz que hace que la gente glorifique al Padre. Nuestro pueblo valora esto: al cura que cuida a los más pobres, a los enfermos, que perdona a los pecadores, que enseña y corrige con paciencia... Nuestro pueblo perdona a los curas muchos defectos, salvo el de estar apegados al dinero. El pueblo no lo perdona. Y no es tanto por la riqueza en sí, sino porque el dinero nos hace perder la riqueza de la misericordia. Nuestro pueblo olfatea qué pecados son graves para el pastor, cuáles matan su ministerio porque lo convierten en un funcionario o, peor aún, en un mercenario, y cuáles son en cambio, no diría que pecados secundarios —porque no sé si teológicamente se puede decir esto—, pero sí pecados que se pueden sobrellevar, cargar como una cruz, hasta que el Señor los purifique al final, como hará con la cizaña. Sin embargo, lo que atenta contra la misericordia es una contradicción principal. Atenta contra el dinamismo de la salvación, contra Cristo que «se hizo pobre para enriquecernos con su pobreza» (2 Co 8,9). Y esto es así porque la misericordia cura «perdiendo algo de sí»: un jirón del corazón se queda con el herido, un tiempo de nuestra vida lo perdemos para lo que teníamos ganas de hacer cuando se lo regalamos al otro en una obra de misericordia.

Por eso, no se trata de que Dios tenga misericordia mí en alguna falta, como si en el resto yo fuera autosuficiente, que de vez en cuando yo realice algún acto particular de misericordia con algún necesitado. La gracia que pedimos en esta oración es la de dejarnos misericordiar por Dios en todos los aspectos de nuestra vida y de ser misericordiosos con los demás en todo nuestro actuar. Para nosotros, sacerdotes y obispos, que trabajamos con los sacramentos bautizando, confesando, celebrando la Eucaristía..., la misericordia es la manera de convertir toda la vida del Pueblo de Dios en sacramento. Ser misericordioso no es sólo un modo de ser, sino el modo de ser. No hay otra posibilidad de ser sacerdote. El Cura Brochero decía: «El sacerdote que no tiene mucha lástima de los pecadores es medio sacerdote. Estos trapos benditos que llevo encima no son los que me hacen sacerdote; si no llevo en mi pecho la caridad, ni a cristiano llego».

Ver lo que falta para poner remedio inmediatamente y, mejor aún, preverlo, es propio de la mirada de un padre. Esta mirada sacerdotal —del que hace las veces del padre en el seno de la Iglesia Madre—, que nos lleva a ver a los hombres en clave de misericordia, es la que se debe enseñar a cultivar desde el seminario y debe alimentar todos los planes pastorales. Queremos, y le pedimos al Señor, una mirada que aprenda a discernir los signos de los tiempos en clave de «qué obras de misericordia están necesitando hoy nuestros pueblos», para poder sentir y gustar al Dios de la historia que camina en medio de ellos. Porque, como dice Aparecida citando a san Alberto Hurtado, «en nuestras obras, nuestro pueblo sabe que comprendemos su dolor» (n. 386).

La prueba de esta comprensión de nuestros pueblos es que en nuestras obras de misericordia siempre somos bendecidos por Dios y encontramos ayuda y colaboración en nuestra gente. No así para otro tipo de proyectos, que a veces van bien y otras no, sin que algunos se den cuenta de por qué no funciona y se rompan la cabeza buscando un nuevo, enésimo, plan pastoral, cuando uno podría decir sencillamente: no funciona porque le falta misericordia, sin necesidad de entrar en detalles. Si no es bendecido es porque le falta misericordia. Falta esa misericordia que tiene que ver más con un hospital de campaña que con una clínica de lujo, esa misericordia que, valorando algo bueno, siembra un futuro para encuentro de la persona con Dios, en vez de alejarla con una crítica puntual...

Les propongo una oración con la pecadora perdonada (Jn 8,3-11), para pedir la gracia de ser misericordiosos en la confesión, y otra sobre la dimensión social de las obras de misericordia.

Siempre me conmueve el pasaje del Señor con la mujer adúltera: cómo, cuando no la condenó, el Señor «faltó» a la ley; en ese punto en que le pedían que se definiera —«¿hay que apedrearla o no?»—, no se definió, no aplicó la ley. Se hizo el sordo —también en esto el Señor es un maestro para todos nosotros— y, en ese momento, les salió con otra cosa. Inició así un proceso en el corazón de la mujer que necesitaba aquellas palabras: «Yo tampoco te condeno». Con la mano tendida la puso en pie, y esto le permitió que se encontrara con una mirada llena de dulzura que le cambió el corazón. El Señor tiende la mano a la hija Jairo: «Dale de comer». Al muchacho muerto, en Naín: «Levántate», y lo entrega a su madre. Y a esta pecadora: «Levántate». El Señor nos vuelve a poner precisamente en la postura que Dios quiere que esté: de pie, alzado, nunca por tierra. A veces me da una mezcla de pena e indignación cuando alguno se apura a poner en claro la última recomendación, el «no peques más». Y utiliza esta frase para «defender» a Jesús y que no quede como uno que se saltó la ley. Pienso que las palabras que utiliza el Señor forman un todo con sus acciones. El hecho de agacharse para escribir en tierra dos veces, pausando lo que les dice a los que quieren apedrear a la mujer y luego lo que le dice a ella, nos habla de un tiempo que el Señor se toma para juzgar y perdonar. Un tiempo que remite a cada uno a su interioridad y hace que los que juzgan se retiren.

En su diálogo con la mujer, el Señor abre otros espacios: uno es el espacio de la no condena. El Evangelio insiste en este espacio que ha quedado libre. Nos sitúa en la mirada de Jesús y nos dice que «no ve a nadie alrededor sino sólo a la mujer». Y luego, Jesús mismo hace mirar alrededor a la mujer con su pregunta: «¿Dónde están los que te “categorizaban”?» (la palabra es importante, ya que habla de eso que tanto rechazamos, como es el que nos cataloguen o nos caricaturicen...). Una vez que la hace mirar ese espacio libre del juicio ajeno, le dice que él tampoco lo invade con sus piedras: «Yo tampoco te condeno». Y ahí mismo le abre otro espacio libre: «En adelante no peques más». El mandamiento se da para adelante, para ayudar a andar, para «caminar en el amor». Esta es la delicadeza de la misericordia que mira con piedad lo pasado y da ánimo para el futuro. Este «no peques más» no es algo obvio. El Señor lo dice «junto con ella», le ayuda a poner en palabras lo que ella misma siente, ese «no» libre al pecado, que es como el «sí» de María a la gracia. El «no» va dicho en relación a la raíz del pecado de cada uno. En la mujer se trataba de un pecado social, de alguien a la que se le acercaba la gente o para estar con ella o para apedrearla. No había otro modo de cercanía con esta mujer. Por eso, el Señor no sólo le despeja el camino, sino que la pone a caminar, para que deje de ser «objeto» de la mirada ajena, para que sea protagonista. El no pecar no se refiere sólo al aspecto moral, creo yo, sino a un tipo de pecado que no la deja hacer su vida. También le dice al paralítico de la piscina de Betesda: «No peques más» (Jn 5,14). Pero a este, que se justificaba con las cosas tristes que «le sucedían», que tenía una psicología de víctima —la mujer no—, lo pincha un poco con eso de que «no sea que te suceda algo peor». Aprovecha el Señor su manera de pensar, aquello que teme, para sacarlo de su parálisis. Lo persuade con el susto, digamos. Así, cada uno tenemos que escuchar este «no peques más» de manera honda, personal.

Esta imagen del Señor, que pone a caminar a la gente, es muy suya: él es el Dios que se pone a caminar con su pueblo, que lleva adelante y acompaña nuestra historia. Por eso, el objeto al que se dirige la misericordia es muy preciso: es hacia aquello que hace que un hombre o una mujer no caminen en su lugar, con los suyos, a su ritmo, hacia donde Dios los invita a andar. La pena, lo que conmueve, es que uno se pierda, o se quede atrás, o se pase de vivo. Que esté desubicado, digamos. Que no esté a mano para el Señor, disponible para lo que él quiera mandar. Que uno no camine humildemente en presencia del Señor (cf. Mi 6,8), que no camine en la caridad (cf. Ef 5,2).

El espacio del confesionario, donde la verdad nos hace libres

Pasemos ahora al espacio del confesionario, donde la verdad nos hace libres. El Catecismo de la Iglesia Católica nos hace ver el confesionario como un lugar en el que la verdad nos hace libres para un encuentro. Dice así: «Cuando celebra el sacramento de la Penitencia, el sacerdote ejerce el ministerio del Buen Pastor que busca la oveja perdida, el del Buen Samaritano que cura las heridas, del Padre que es-pera al hijo pródigo y lo acoge a su vuelta, del justo Juez que no hace acepción de personas y cuyo juicio es a la vez justo y misericordioso. En una palabra, el sacerdote es el signo y el instrumento del amor misericordioso de Dios con el pecador» (n. 1465). Y nos recuerda que «el confesor no es dueño, sino el servidor del perdón de Dios. El ministro de este sacramento debe unirse a la intención y a la caridad de Cristo» (n. 1466).

Signo e instrumento de un encuentro. Eso somos. Atracción eficaz para un encuentro. Signo quiere decir que debemos atraer, como cuando uno hace señales para llamar la atención. Un signo debe ser coherente y claro, pero sobre todo comprensible. Porque hay signos que son claros sólo para los especialistas, y estos no sirven. Signo e instrumento. El instrumento se juega la vida en su eficacia —¿sirve o no sirve?—, en estar a mano e incidir en la realidad de manera precisa, adecuada. Somos instrumento si de verdad la gente se encuentra con el Dios misericordioso. A nosotros nos toca «hacer que se encuentren», que queden frente a frente. Lo que después hagan ellos es cosa suya. Hay un hijo pródigo en el chiquero y un padre que sube todas las tardes a la terraza a ver si viene; hay una oveja perdida y un pastor que ha salido a buscarla; hay un herido tirado al borde del camino y un samaritano que tiene buen corazón. ¿Cuál es, pues, nuestro ministerio? Ser signo e instrumento de que estos se encuentren. Tengamos claro que nosotros no somos ni el padre, ni el pastor, ni el samaritano. Más bien estamos del lado de los otros tres, en cuanto pecadores. Nuestro ministerio tiene que ser signo e instrumento de ese encuentro. Por eso, nos situamos en el ámbito del misterio del Espíritu Santo, que es el que crea la Iglesia, el que hace la unidad, el que reaviva una y otra vez el encuentro.

La otra cosa propia de un signo y de un instrumento es su no autorreferencialidad, por decirlo en difícil. Nadie se queda en el signo una vez que comprendió la cosa; nadie se queda mirando el destornillador ni el martillo, sino que mira el cuadro que quedó bien fijado. Siervos inútiles somos. Esto es, instrumento y signo que fueron muy útiles para otros dos que se fundieron en un abrazo, como el padre con su hijo.

La tercera característica propia del signo y del instrumento es su disponibilidad. Que el instrumento esté a la mano, que el signo sea visible. La esencia del signo y del instrumento es ser mediadores, disponibles. Quizás aquí está la clave de nuestra misión en este encuentro de la misericordia de Dios con el hombre. Es más claro probablemente usar un término negativo. San Ignacio hablaba de «no ser impedimento». Un buen mediador es el que facilita las cosas y no pone impedimentos. En mi tierra había un gran confesor, el padre Cullen, que se sentaba en el confesionario y, cuando no había gente, hacía dos cosas: una era arreglar pelotas de cuero para los chicos que jugaban al fútbol, la otra era leer un gran diccionario chino. Había estado mucho tiempo en China y quería conservar la lengua. Él decía que, cuando la gente lo veía en actividades tan inútiles, como arreglar pelotas viejas, y tan a largo plazo, como leer un diccionario chino, pensaba: «Voy a acercarme a charlar un poco con este cura, ya que se ve que no tiene nada que hacer». Estaba disponible para lo esencial. Él tenía un horario para el confesionario, pero estaba allí. Quitaba el impedimento de andar siempre con cara de muy ocupado. Y aquí está el problema. La gente no se acerca cuando ve a su pastor muy, pero que muy ocupado, siempre ajetreado.

Todos nosotros hemos conocido buenos confesores. Hay que aprender de nuestros buenos confesores, de aquellos a los que la gente se les acerca, los que no la espantan y saben hablar hasta que el otro cuenta lo que le pasa, como Jesús con Nicodemo. Es importante comprender el lenguaje de los gestos; no preguntar cosas que son evidentes por los gestos. Si uno se acerca al confesionario es porque está arrepentido, ya hay arrepentimiento. Y si se acerca es porque tiene deseo de cambiar. O al menos deseo de deseo, si la situación le parece imposible (ad impossibilia nemo tenetur, como dice el brocardo, nadie está obligado a hacer lo imposible). El lenguaje de los gestos. He leído en la vida de un santo reciente, de estos tiempos, que, pobrecito, sufría en la guerra. Había un soldado que estaba para ser fusilado y él fue a confesarlo. Y se ve que aquel sujeto era un poco libertino, hacía muchas fiestas con mujeres... «Pero tú ¿te arrepientes de eso?». «No, era tan bonito, padre». Y este santo no sabía cómo salir de aquello. Allí estaba el pelotón de ejecución, y entonces le dijo: «Di al menos si te pesa no estar arrepentido». «Esto sí». «¡Ah! está bien». El confesor busca siempre el camino, y el lenguaje de los gestos es el lenguaje de las posibilidades para llegar al punto.

Hay que aprender de los buenos confesores, los que tienen delicadeza con los pecadores y les basta media palabra para comprender todo, como Jesús con la hemorroísa, y ahí precisamente les sale la fuerza del perdón.

Yo he quedado muy edificado de un Cardenal de la Curia, que a priori yo creía que era muy rígido. Y él, cuando había un penitente que tenía un pecado que se avergonzaba decir y comenzaba con una o dos palabras, comprendía inmediatamente de qué se trataba, y decía: «Siga, siga, que lo he entendido». Y lo interrumpía porque había entendido. Esta es delicadeza. Pero esos confesores —me perdonen— que preguntan y preguntan...: «Dímelo, por favor...». Tú, ¿tienes necesidad de tantos detalles para perdonar, o es que te estás haciendo un film? Aquel Cardenal me ha edificado mucho. La integridad de la confesión no es cuestión de matemáticas —¿cuántas veces? ¿Cómo? ¿Dónde?...—. A veces la vergüenza se cierra más ante el número que ante el nombre del pecado mismo. Pero para esto hay que dejarse conmover ante la situación de la gente, que a veces es una mezcla de cosas, de enfermedad, de pecado y de condicionamientos imposibles de superar, como Jesús, que se conmovía al ver a la gente, lo sentía en las entrañas, en las tripas y por eso curaba y curaba, aunque el otro «no lo pidiera bien», como aquel leproso, o diera vueltas como la Samaritana, que era como el tero: chillaba en un lado pero tenía el nido en otro. Jesús era paciente.

Hay que aprender de los confesores que saben hacer que el penitente sienta la corrección dando un pasito adelante, como Jesús, que daba una penitencia que bastaba, y sabía valorar al que volvía a dar gracias, al que daba para más. Jesús hacía tomar la camilla al paralítico, o se hacía rogar un poco por los ciegos o por la mujer sirofenicia. No le importaba si después no le hacían caso, como el paralítico de Siloé, o si contaban cosas que les había mandado que no contaran y luego parecía que el leproso era él, porque no podía entrar en los poblados o sus enemigos encontraban motivos para condenarlo. Él curaba, perdonaba, daba alivio, descanso, dejaba respirar a la gente un hálito del Espíritu consolador.

Lo que diré ahora lo he dicho muchas veces, quizás alguno de ustedes ya lo ha oído. Conocí en Buenos Aires a un fraile capuchino —aún vive—, algo más joven que yo, que es un gran confesor. Siempre tiene delante del confesionario una fila, mucha gente —de todo: gente humilde, gente acomodada, curas, religiosas, una fila— más y más gente, todo el día confesando. Y es un gran perdonador. Siempre encuentra la vía para perdonar y dar un paso adelante. Es un don el Espíritu. Pero, a veces, le agarran escrúpulos de haber perdonado mucho. Y entonces, una vez, charlando, me dijo: «A veces, tengo esos escrúpulos». Y yo le pregunté: «¿Y qué hacés cuando tenés esos escrúpulos?». «Voy delante del sagrario, lo miro al Señor, y le digo: “Señor, perdoname, hoy he perdonado mucho. Pero que quede claro, ¿eh?, que la culpa la tenés vos porque me diste el mal ejemplo”». La misericordia la mejoraba con más misericordia.

Por último, en esto de la confesión, dos consejos: Uno, no tengan nunca la mirada del funcionario, del que sólo ve «casos» y se los quita de encima. La misericordia nos libra de ser un cura juez-funcionario, digamos, que de tanto juzgar «casos» pierde la sensibilidad para las personas y para los rostros. Yo recuerdo cuando estaba en II de Teología; fui con mis compañeros a escuchar el examen de «audiendas», que se hacía en III de Teología, antes de la ordenación. Fuimos para aprender un poco, siempre se aprendía. Y recuerdo que una vez a un compañero le hicieron una pregunta, era sobre la justicia, de iure, pero tan enredada, tan artificial… Y aquel compañero dijo con mucha humildad: «Pero Padre, esto no se encuentra en la vida». «Pero se encuentra en los libros». Aquella moral «de los libros», sin experiencia. La regla de Jesús es «juzgar como queremos ser juzgados». En esa medida intima que uno tiene para juzgar si lo trataron con dignidad, si lo ningunearon o lo maltrataron, si lo ayudaron a ponerse en pie... —fijémonos en que el Señor confía en esa medida que es tan subjetivamente personal—. Esta es la clave para juzgar a los demás. No tanto porque esa medida sea «la mejor», sino porque es sincera y, a partir de ella, se puede construir una buena relación. El otro consejo: No sean curiosos en el confesionario. Lo he dicho antes. Cuenta santa Teresita que, cuando recibía las confidencias de sus novicias, se cuidaba muy bien de preguntar cómo había seguido la cosa. No curioseaba el alma de la gente (cf. Historia de un alma, manuscrito C. A la madre Gonzaga, c. XI 32 r). Es propio de la misericordia «cubrir con su manto», cubrir el pecado para no herir la dignidad. Es hermoso aquel pasaje de los dos hijos de Noé que cubrieron con el manto la desnudez de su padre, que se había emborrachado (cf. Gn 9,23).

Dimensión social de las obras de misericordia

Ahora diremos unas palabras sobre la dimensión social de las obras de misericordia.

Al final de los Ejercicios, san Ignacio pone la «contemplación para alcanzar amor», que conecta lo vivido en la oración con la vida cotidiana. Y nos hace reflexionar acerca de cómo el amor hay que ponerlo más en las obras que en las palabras. Esas obras son las obras de misericordia, las que el Padre «preparó de antemano para que las practicáramos» (Ef 2,10), las que el Espíritu inspira a cada uno para el bien común (cf. 1 Co 12, 7). A la vez que agradecemos al Señor por tantos beneficios recibidos de su bondad, pedimos la gracia de llevar a todos los hombres esa misericordia que nos ha salvado a nosotros.

Les propongo, en esta dimensión social, meditar con alguno de los párrafos finales de los Evangelios. Allí, el Señor mismo establece esa conexión entre lo recibido y lo que debemos dar. Podemos leer estos finales en clave de «obras de misericordia», que ponen en acto el tiempo de la Iglesia en el que Jesús resucitado vive, acompaña, envía y atrae nuestra libertad, que encuentra en él su realización concreta y renovada cada día.

La conclusión del Evangelio de Mateo, nos dice que el Señor envía a los apóstoles y les dice: «Enseñen a guardar todo lo que yo les he mandado» (28,20). Este «enseñar al que no sabe» es en sí mismo una de las obras de misericordia. Y se multiplica como la luz en las demás obras: en las de Mateo 25, que tienen que ver más con las obras así llamadas corporales, y en todos los mandamientos y consejos evangélicos, de «perdonar», «corregir fraternalmente», consolar a los tristes, soportar las persecuciones, y así sucesivamente.

Marcos termina con la imagen del Señor que «colabora» con los apóstoles y «confirma la Palabra con las señales que la acompañan» (cf. 16,20). Esas «señales» tienen la característica de las obras de misericordia. Marcos habla, entre otras cosas, de sanar a los enfermos y expulsar a los malos espíritus (cf. 16,17-18).

Lucas continúa su Evangelio con el libro de los «Hechos» —praxeis de los apóstoles, narrando su modo de proceder y las obras que hacen, guiados por el Espíritu.

Juan termina hablando de las «otras muchas cosas» (21,25) o «señales» (20,30) que hizo Jesús. Los hechos del Señor, sus obras, no son meros hechos sino que son signos en los que, de manera personal y única en cada uno, se muestra su amor y su misericordia.

Podemos contemplar al Señor que nos envía a este trabajo con la imagen de Jesús misericordioso, tal como se le reveló a sor Faustina. En esa imagen podemos ver la Misericordia como una única luz que viene de la interioridad de Dios y que, al pasar por el corazón de Cristo, sale diversificada, con un color propio para cada obra de misericordia.

Las obras de misericordia son infinitas, cada una con su sello personal, con la historia de cada rostro. No son solamente las siete corporales y las siete espirituales en general. O más bien, estas, así numeradas, son como las materias primas —las de la vida misma— que, cuando las manos de la misericordia las tocan y o las moldean, se convierten cada una de ellas en una obra artesanal. Una obra que se multiplica como el pan en las canastas, que crece desmesuradamente como la semilla de mostaza. Porque la misericordia es fecunda e inclusiva. Estas dos características importantes: la misericordia es fecunda e inclusiva. Es verdad que solemos pensar en las obras de misericordia de una en una, y en cuanto ligadas a una obra: hospitales para los enfermos, comedores para los que tienen hambre, hospederías para los que están en situación de calle, escuelas para los que tienen que educarse, el confesionario y la dirección espiritual para el que necesita consejo y perdón... Pero, si las miramos en conjunto, el mensaje es que el objeto de la misericordia es la vida humana misma y en su totalidad. Nuestra vida misma en cuanto «carne» es hambrienta y sedienta, necesitada de vestido, casa y visitas, así como de un entierro digno, cosa que nadie puede darse a sí mismo. Hasta el más rico, al morir, queda hecho una miseria y nadie lleva detrás, en su cortejo, el camión de la mudanza. Nuestra vida misma, en cuanto «espíritu», tiene necesidad de ser educada, corregida, alentada, consolada. Esta es una palabra muy importante en la Biblia: pensemos en el libro de la consolación de Israel, del profeta Isaías. Necesitamos que otros nos aconsejen, nos perdonen, nos aguanten y recen por nosotros. La familia es la que practica estas obras de misericordia de manera tan ajustada y desinteresada que no se nota, pero basta que en una familia con niños pequeños falte la mamá para que todo se quede en la miseria. La miseria más absoluta y crudelísima es la de un niño en la calle, sin papás, a merced de los buitres.

Hemos pedido la gracia de ser signo e instrumento, ahora se trata de «actuar», y no sólo de tener gestos sino de hacer obras, de institucionalizar, de crear una cultura de la misericordia, que no es lo mismo que una cultura de la beneficencia, debemos distinguir. Puestos a obrar, sentimos inmediatamente que es el Espíritu el que moviliza, que lleva adelante estas obras. Y lo hace utilizando los signos e instrumentos que desea, aunque a veces no sean los más aptos en sí mismos. Es más, se diría que para ejercitar las obras de misericordia el Espíritu elige más bien los instrumentos más pobres, los más humildes e insignificantes, los más necesitados ellos mismos de ese primer rayo de la misericordia divina. Estos son los que mejor se dejan formar y capacitar para realizar un servicio de verdadera eficacia y calidad. La alegría de sentirse «siervos inútiles», para aquellos a los que el Señor bendice con la fecundidad de su gracia, y que él mismo en persona sienta a su mesa y les ofrece la Eucaristía, es una confirmación de estar trabajando en sus obras de misericordia.

A nuestro pueblo fiel le gusta unirse en torno a las obras de misericordia. Basta venir a una de las audiencias generales de los miércoles y vemos cuántos hay: grupos de personas que se juntan para hacer obras de misericordia. Tanto en las celebraciones —penitenciales y festivas— como en la acción solidaria y formativa, nuestro pueblo se deja juntar y pastorear de una manera que no todos advierten ni valoran, aunque fracasen tantos otros planes pastorales centrados en dinámicas más abstractas. La presencia masiva de nuestro pueblo fiel en nuestros santuarios y peregrinaciones, presencia anónima, pero anónima por exceso de rostros y por el deseo de hacerse ver sólo por Aquel y Aquella que los miran con misericordia, así como por la colaboración también numerosa que, sosteniendo con su trabajo tanta obra solidaria, debe ser motivo de atención, de valoración y de promoción por nuestra parte. Y para mí ha sido una sorpresa ver cómo estas organizaciones son tan fuertes aquí en Italia y reagrupan tanto al pueblo.

Como sacerdotes, pedimos dos gracias al Buen Pastor, la de saber dejamos guiar por el sensus fidei de nuestro pueblo fiel, y también por su «sentido del pobre». Ambos «sentidos» tienen que ver con su «sensus Christi», del cual habla san Pablo, con el amor y la fe que nuestro pueblo tiene por Jesús.

Terminamos rezando el Alma de Cristo, que es una hermosa oración para pedir misericordia al Señor venido en carne, que nos misericordea con su mismo Cuerpo y Alma. Le pedimos que nos misericordee junto con su pueblo: a su alma, le pedimos «santifícanos», a su cuerpo, le suplicamos «sálvanos», a su sangre, le rogamos «embriáganos», quítanos toda otra sed que no sea de ti, al agua de su costado, le pedimos «lávanos»; a su pasión le rogamos «confórtanos», consuela a tu pueblo, Señor crucificado; en sus llagas suplicamos «hospédanos»... No permitas que tu pueblo, Señor, se aparte de ti. Que nada ni nadie nos separe de tu misericordia, que nos defiende de las insidias del enemigo maligno. Así podremos cantar las misericordias del Señor junto con todos tus santos cuando nos mandes ir a ti.

[Oración del Anima Christi]

Alguna vez me han llegado comentarios de sacerdotes que dicen: «Pero este Papa nos golpea mucho, nos riñe». Y algún bastonazo, alguna reprimenda se ha dado. Pero he de decir que he quedado edificado por muchos sacerdotes, muchos sacerdotes buenos. De esos —los he conocido— que, cuando no había contestador automático, dormían con el teléfono sobre la cómoda, y nadie moría sin los sacramentos; llamaban a cualquier hora y ellos se levantaban e iban. Buenos sacerdotes. Y agradezco al Señor esta gracia. Todos somos pecadores, pero podemos decir que hay muchos buenos, santos sacerdotes, que trabajan en silencio y desapercibidos. A veces ocurre un escándalo, pero sabemos que hace más ruido un árbol que cae que un bosque que crece.

Ayer recibí una carta. La he dejado allí entre aquellas personales. La he abierto antes de venir y creo que ha sido el Señor quien me lo ha sugerido. Es de un párroco de Italia, párroco de tres pueblos. Creo que nos vendrá muy bien oír este testimonio de un hermano nuestro.

Está escrita el 29 de mayo, de hace pocos días.

«Perdone la molestia. Aprovecho la ocasión que me ofrece un amigo sacerdote, que en estos días está en Roma para el Jubileo sacerdotal, para hacerle llegar sin ninguna pretensión —la de un simple párroco de tres pequeñas parroquias de montaña, prefiero que me llamen «pastorcito— algunas consideraciones sobre mi sencillo servicio pastoral, provocadas —se lo agradezco de corazón― por algunas de las cosas que usted ha dicho y que me llaman cada día a la conversión. Soy consciente de que no le escribo nada nuevo. Ciertamente, usted ya ha habrá escuchado estas cosas. Siento la necesidad de hacerme también yo portavoz. Me ha llamado la atención, me llama la atención la invitación que a menudo nos hace a nosotros pastores a que tengamos olor a ovejas. Estoy en la montaña y sé bien lo que quiere decir. Se es sacerdote para sentir ese olor, que es el verdadero perfume del rebaño. Sería realmente hermoso si el contacto diario y el trato asiduo de nuestro rebaño, verdadera razón de nuestra llamada, no fuera sustituido por las tareas administrativas y burocráticas de la parroquia, de la escuela infantil y otras cosas. Tengo la suerte de contar con laicos buenos y preparados que siguen estas cosas desde dentro. Pero existe siempre la responsabilidad jurídica del párroco, como único representante legal. Por lo cual, al final, siempre tiene que ir corriendo a todas partes, relegando a veces la visita a los enfermos, a las familias, como a lo último, y hecha tal vez con rapidez y de cualquier manera. Lo digo en primera persona, a veces es muy frustrante ver que en mi vida de cura se corre mucho por el aparato burocrático y administrativo, dejando a la gente, al pequeño rebaño que se me ha confiado, como abandonado a sí mismo. Créame, Santo Padre, es triste, y muchas veces me dan ganas de llorar por esta falta. Uno trata de organizarse, pero al final, se cae en la vorágine de las cosas cotidianas. Como también otro aspecto, recordado por usted: la falta de paternidad. Se dice que la sociedad actual carece de padres y madres. Me parece ver que a veces también nosotros renunciamos a esta paternidad espiritual, reduciéndonos brutalmente a burócratas de lo sagrado, con la triste consecuencia de sentirnos abandonados a nosotros mismos. Una paternidad difícil, que afecta también inevitablemente a nuestros superiores, ocupados comprensiblemente en tareas y problemas, cayendo en el riesgo de tener con nosotros una relación formal, ligada más a la gestión de la comunidad que a nuestra vida de hombres, de creyentes y de curas. Todo esto —y termino— no quita en cualquier caso la alegría y la pasión de ser sacerdote para la gente y con la gente. Aunque a veces como pastor no tengo olor a oveja, me conmueve siempre mi rebaño que no ha perdido el olor del pastor. Qué bonito, Santo Padre, cuando nos damos cuenta de que las ovejas no nos dejan solos, tienen el termómetro de nuestra estar allí por ellos, y si por casualidad el pastor se sale del camino y se pierde, ellos lo agarran y lo sostienen. Nunca dejaré de dar gracias al Señor porque siempre nos salva a través de su rebaño, el rebaño que se nos ha confiado, la gente sencilla, buena, humilde y tranquila: ese rebaño que es la verdadera gracia del pastor. De manera confidencial le he hecho llegar estas pequeñas y sencillas consideraciones, porque usted está cerca del rebaño, es capaz de entender y puede seguir ayudándonos y sosteniéndonos. Rezo por usted y le doy las gracias, también por esos «tirones de orejas» que necesito en mi camino. Bendígame, Papa Francisco, y rece por mí y por mis parroquias». Firma y al final ese gesto propio de los pastores: «Le dejo una pequeña ofrenda. Rece per mis comunidades, en particular por algunos enfermos graves y algunas familias con dificultades económicas y no sólo. Gracias».

Este es un hermano nuestro. Hay muchos de estos, hay muchos. También aquí ciertamente. Muchos. Nos muestra el camino. Y vayamos adelante. No pierdan la oración. Recen como puedan, y si se duermen delante del Sagrario, bendito sea. Pero recen. No pierdan esto. No pierdan el dejarse mirar por la Virgen y mirarla como Madre. No pierdan el celo, traten de hacer… No pierdan la cercanía y la disponibilidad para la gente y también, déjenme que les diga, no pierdan el sentido del humor. Y sigamos adelante.

[00920-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

III meditação: o bom odor de Cristo
e a luz da sua Misericórdia

Oxalá o Senhor nos conceda aquilo que acabamos de pedir-Lhe na oração: imitar o exemplo da paciência de Jesus e, com a paciência, superar as dificuldades.

Esta terceira meditação tem por título: «O bom odor de Cristo e a luz da sua misericórdia».

Neste terceiro encontro, proponho-vos meditar sobre as obras de misericórdia, quer debruçando-vos sobre uma delas – a que sentirmos mais relacionada com o nosso carisma – quer contemplando-as todas juntas, vendo-as com os olhos misericordiosos de Nossa Senhora, que nos fazem descobrir «o vinho que falta» e nos anima a «fazer tudo o que Jesus nos disser» (cf. Jo 2, 1-12), para que a sua misericórdia realize os milagres de que necessita o nosso povo.

As obras de misericórdia estão muito ligadas aos «sentidos espirituais». Rezando, peçamos a graça de «sentir e saborear» de tal modo o Evangelho que nos sensibilize para a vida. Movidos pelo Espírito, guiados por Jesus, podemos ver já de longe, com olhos de misericórdia, a pessoa que está caída ao lado da estrada, podemos ouvir os gritos de Bartimeu, podemos perceber como sente o Senhor na franja do seu manto o toque tímido mas decidido da hemorroíssa, podemos pedir a graça de saborear com Ele na cruz o gosto amargo do fel de todos os crucificados, para deste modo sentir o odor forte da miséria – em hospitais de campanha, em comboios e em barcaças repletas de pessoas –; odor que embora o óleo da misericórdia não cubra todavia, ao ungi-lo, faz com que se desperte uma esperança.

Ao falar das obras de misericórdia, o Catecismo da Igreja Católica conta que Santa Rosa de Lima, «no dia em que a sua mãe a repreendeu por manter em sua casa pobres e doentes, respondeu-lhe: “Quando servimos os pobres e os doentes, é a Jesus que servimos”» (n. 2449). Servindo-os, somos o bom odor de Cristo. Este bom odor de Cristo – o cuidado dos pobres – é distintivo da Igreja; sempre o foi. Foi aqui que Paulo centrou o seu encontro com «as colunas» – como lhes chama –, com Pedro, Tiago e João. «Só nos disseram que nos devíamos lembrar dos pobres» (Gl 2, 10). Isto recorda-me um facto, que já referi algumas vezes: logo que foi atingido o quórum para ser eleito Papa e enquanto continuavam o escrutínio, aproximou-se de mim um irmão Cardeal, abraçou-me e disse: «Não te esqueças dos pobres». A primeira mensagem que o Senhor me fez chegar naquele momento. E, sugestivamente, o Catecismo diz também que «os que se sentem acabrunhados pela miséria são objeto de um amor preferencial por parte da Igreja, que desde o princípio, apesar das falhas de muitos dos seus membros, nunca deixou de trabalhar por aliviá-los, defendê-los e libertá-los» (n. 2448). E isto sem ideologias, mas apenas com a força do Evangelho.

Na Igreja tivemos, e temos, tantas coisas não muito boas, e muitos pecados, mas nisto de servir os pobres com obras de misericórdia, como Igreja sempre seguimos o Espírito, tendo-o feito os nossos Santos de maneira muito criativa e eficaz. O amor pelos pobres é o sinal, a luz que faz com que as pessoas glorifiquem o Pai. É isto que o nosso povo aprecia no padre: se cuida dos pobres, dos doentes, se perdoa os pecadores, ensina e corrige com paciência... O nosso povo perdoa muitos defeitos nos padres, exceto o de serem agarrados ao dinheiro. O povo não o perdoa. E não é tanto pela riqueza em si, mas porque o dinheiro nos faz perder a riqueza da misericórdia. O nosso povo pressente os pecados que são graves para o pastor, que matam o seu ministério porque o transformam num funcionário ou, pior, num mercenário, e, diversamente, os pecados que são, não diria secundários – porque não sei se teologicamente se pode dizer isso –, mas possíveis de suportar, carregar como uma cruz, até que o Senhor finalmente os purifique, como fará com a cizânia. Ao contrário, o que atenta contra a misericórdia é uma contradição principal: atenta contra o dinamismo da salvação, contra Cristo que «Se fez pobre para nos enriquecer com a sua pobreza» (cf. 2 Cor 8, 9). Sucede isto, porque a misericórdia cura à custa de «perder algo de si mesma»: um retalho do coração fica com o ferido, perdemos um momento da nossa vida quando o damos a outrem numa obra de misericórdia, em vez de o ocuparmos naquilo que nos apetecia fazer.

Por isso, não se trata de Deus ter misericórdia de mim numa falta ou noutra como se, no resto, eu fosse autossuficiente, nem se trata de realizar, de vez em quando, algum ato especial de misericórdia com uma pessoa necessitada. A graça que pedimos, nesta oração, é a de nos deixarmos «misericordiar» por Deus em todos os aspetos da nossa vida e sermos misericordiosos com os outros em toda a nossa atividade. Para nós, padres e bispos, que trabalhamos com os Sacramentos batizando, confessando, celebrando a Eucaristia... a misericórdia é o modo de transformar toda a vida do povo de Deus em sacramento. Ser misericordioso não é apenas um «modo de ser», mas «o modo de ser». Não há outra possibilidade de ser sacerdote. O Cura Brochero dizia: «O sacerdote que não sente muita compaixão pelos pecadores, é um meio-sacerdote. O que me faz sacerdote não são estes trapos abençoados de que estou revestido; se não levo no meu peito a caridade, nem a cristão chego».

Ver o que falta para lhe pôr imediatamente remédio, e melhor ainda prevê-lo, é próprio do olhar dum pai. Este olhar sacerdotal – daquele que faz as vezes do pai no seio da Igreja Mãe –, que nos leva a ver as pessoas na ótica da misericórdia, é o que se deve ensinar e cultivar desde o Seminário e deve alimentar todos os planos pastorais. Desejemos e peçamos ao Senhor um olhar que aprenda a discernir os sinais dos tempos na perspetiva das obras de misericórdia de que hoje têm necessidade os nossos povos, para poderem sentir e saborear o Deus da história que caminha no meio deles. Porque, como diz o Documento de Aparecida citando Santo Alberto Hurtado: «Pelas nossas obras, o nosso povo sabe se compreendemos a sua dor» (n. 386).

A prova desta compreensão do nosso povo é que, nas nossas obras de misericórdia, sempre somos abençoados por Deus e encontramos ajuda e colaboração no nosso povo. Não se verifica o mesmo com outro género de projetos, que umas vezes avançam e outras não, e alguns não se dão conta do motivo por que não funcionam e cansam a cabeça à procura de mais um novo plano pastoral, quando se poderia dizer simplesmente: não funciona porque lhe falta misericórdia, sem necessidade de entrar em detalhes. Se não é abençoado, é porque lhe falta misericórdia. Falta aquela misericórdia que tem a ver mais com um hospital de campanha do que com uma clínica de luxo; aquela misericórdia que, apreciando algo de bom, prepara o terreno para um futuro encontro da pessoa com Deus, em vez de a afastar com uma crítica patente...

Proponho-vos uma oração com a pecadora perdoada (cf. Jo 8, 3-11), para pedir a graça de ser misericordiosos na Confissão, e outra sobre a dimensão social das obras de misericórdia.

Sempre me comove o episódio do Senhor com a mulher adúltera, ao pensar que, não a condenando, o Senhor «faltou» à lei; naquele preciso momento em que Lhe pediam para Se pronunciar – «devemos apedrejá-la ou não?» – não Se pronunciou, não aplicou a lei. Fez-Se despercebido – também nisto, o Senhor é um mestre para todos nós – e, naquele momento, saiu-lhes com outra coisa. Assim começou um processo no coração da mulher, que tinha necessidade destas palavras: «Nem Eu te condeno». Estendendo-lhe a mão, levantou-a; isto permitiu-lhe encontrar-se com um olhar cheio de doçura, que mudou o seu coração. O Senhor estende a mão à filha de Jairo: «Dai-lhe de comer». Ao rapaz morto, em Naim: «Levanta-te» e dá-o à sua mãe. E a esta pecadora: «Levanta-te». O Senhor repõe-nos precisamente como Deus quis que esteja o homem: de pé, erguido, jamais por terra. Às vezes sinto um misto de pena e indignação, quando alguém se apressa a evidenciar a última recomendação: «não peques mais»; e usa esta frase para «defender» Jesus, para que não apareça como alguém que saltou por cima da lei. Penso que as palavras usadas pelo Senhor formam um todo com as suas ações. O facto de Se inclinar a escrever no chão por duas vezes, criando uma pausa antes do que disse a quantos queriam apedrejar a mulher e, em seguida, antes daquilo que disse a ela, aponta para um tempo que o Senhor Se reserva antes de julgar e perdoar; um tempo que remete cada um para a sua interioridade e faz com que aqueles que julgam se retirem.

No seu diálogo com a mulher, o Senhor abre outros espaços: um é o espaço da não condenação. O Evangelho insiste neste espaço que ficou livre. Situa-nos na perspetiva de Jesus e diz-nos que «em redor não vê ninguém, a não ser a mulher». E, em seguida, o próprio Jesus faz a mulher olhar ao seu redor, com esta pergunta: «Onde estão os que te classificavam (palavra importante, porque fala de algo que decididamente rejeitamos, ou seja, que nos rotulem ou caricaturem)»? Depois de a fazer olhar aquele espaço livre do juízo alheio, diz-lhe que nem Ele o invade com as suas pedras: «Nem Eu te condeno». E, naquele preciso momento, abre-lhe outro espaço livre: «Doravante não peques mais». O mandamento é dado para o futuro, para ajudar a caminhar, para «caminhar no amor». Esta é a delicadeza da misericórdia, que olha com piedade o passado e encoraja para o futuro. Este «não peques mais» não é uma coisa óbvia. O Senhor di-lo «juntamente com ela», ajuda-a a expressar em palavras o que ela própria sente: um «não» dito livremente ao pecado, que é como o «sim» de Maria à graça. O «não» deve ser dito em relação à raiz do pecado de cada um. Na mulher, tratava-se dum pecado social, do pecado duma pessoa de quem outros se aproximavam ou para dormir com ela ou para a apedrejar. Não havia outro tipo de aproximação àquela mulher. Por isso o Senhor não só lhe desimpede o caminho, mas põe-na a caminhar, para que deixe de ser «objeto» do olhar alheio e passe a ser protagonista. O «não pecar» não se refere apenas ao aspeto moral – creio eu –, mas a um tipo de pecado que a impede de realizar a sua vida. Ao paralítico da piscina de Betzatá, Jesus também lhe diz «não peques mais» (Jo 5, 14); mas a este – que se justificava com as coisas tristes que lhe aconteciam, que tinha uma psicologia de vítima (a mulher, não!) – espicaça-o um pouco com as palavras «para que não te aconteça coisa ainda pior». O Senhor aproveita a maneira de pensar dele, aquilo que teme, para fazê-lo sair da sua paralisia. Digamos que o estimula com o susto. Assim, cada um tem que ouvir este «não peques mais» de forma íntima e pessoal.

Esta imagem do Senhor que põe as pessoas a caminhar é muito apropriada: Ele é o Deus que Se põe a caminho com o seu povo, que faz avançar e acompanha a nossa história. Por isso, o objeto que visa a misericórdia é muito concreto: tem em vista aquilo que impede um homem ou uma mulher de caminharem no seu lugar, com os seus queridos, ao seu ritmo, para a meta aonde Deus os convida. O que faz pena, o que comove é que uma pessoa se perca, ou que fique para trás, ou que erre por presunção. Que esteja – digamos – fora do seu lugar; que não esteja à disposição do Senhor, disponível para a tarefa que Ele quiser confiar-lhe; que uma pessoa não caminhe humildemente na presença do Senhor (cf. Miq 6, 8), que não caminhe na caridade (cf. Ef 5, 2).

O espaço do confessionário, onde a verdade nos faz livres

Agora passemos ao espaço do confessionário onde a verdade nos faz livres. E, falando de espaço, vamos ao do confessionário. O Catecismo da Igreja Católica apresenta-nos o confessionário como um lugar onde a verdade nos torna livres para um encontro. Diz assim: «Ao celebrar o sacramento da Penitência, o sacerdote exerce o ministério do Bom Pastor que procura a ovelha perdida; do bom Samaritano que cura as feridas; do Pai que espera pelo filho pródigo e o acolhe no seu regresso; do justo juiz que não faz aceção de pessoas e cujo juízo é, ao mesmo tempo, justo e misericordioso. Em resumo, o sacerdote é sinal e instrumento do amor misericordioso de Deus para com o pecador» (n. 1465). E lembra-nos que «o confessor não é dono, mas servidor do perdão de Deus. O ministro deste sacramento deve unir-se à intenção e à caridade de Cristo» (n. 1466).

Sinal e instrumento de um encontro. Eis o que somos: atração eficaz para um encontro. Sinal quer dizer que devemos atrair, como quando uma pessoa faz sinais para chamar a atenção. Um sinal deve ser coerente e claro, mas sobretudo compreensível. Com efeito, há sinais que são claros só para os especialistas, e estes não servem. Sinal e instrumento. O instrumento vale pela sua eficácia – serve ou não serve? –, por estar ao alcance e incidir na realidade de forma concreta, adequada. Somos instrumentos, se verdadeiramente as pessoas se encontrarem com Deus misericordioso; a nós cabe «fazer com que se encontrem», que fiquem face a face. O que fizerem depois é lá com eles. Temos um filho pródigo na pocilga e um pai que todas as tardes sobe ao terraço para ver se ele chega; temos uma ovelha perdida e um pastor que saiu à sua procura; temos um ferido caído ao lado da estrada e um samaritano que tem bom coração. Então qual é o nosso ministério? Ser sinal e instrumento para que eles se encontrem. Fique claro que não somos o pai, nem o pastor, nem o samaritano. Antes, como pecadores, estamos do lado dos outros três. O nosso ministério tem de ser sinal e instrumento daquele encontro. Por isso, estamos situados no âmbito do mistério do Espírito Santo, que é quem cria a Igreja, quem faz a unidade, quem reaviva de cada vez o encontro.

Outra coisa própria dum sinal e dum instrumento é – dizendo-a em palavras difíceis – a sua não autorreferencialidade. Ninguém fica no sinal, logo que compreendeu a significação; ninguém fica a olhar para a chave de fendas ou para o martelo, mas olha o quadro se ficou bem fixado. Somos servos inúteis. Por outras palavras, instrumentos e sinais que foram muito úteis para os outros dois que se fundiram num abraço, como o pai com seu filho.

A terceira característica própria do sinal e do instrumento é a sua disponibilidade: que o instrumento esteja pronto para ser usado, que o sinal seja visível. A essência do sinal e do instrumento é serem mediadores, disponíveis. Talvez esteja aqui a chave da nossa missão neste encontro da misericórdia de Deus com o homem. Provavelmente fica mais claro, se usarmos um termo negativo: Santo Inácio falava de «não ser impedimento». Um bom mediador é aquele que facilita as coisas e não coloca impedimentos. Na minha terra, havia um grande confessor, o Padre Cullen, que se sentava no confessionário e, quando não havia gente, fazia duas coisas: uma era remendar bolas de couro para os meninos que jogavam futebol, a outra era ler um grande dicionário de chinês. Estivera muito tempo na China, e não queria esquecer a língua. Dizia ele que, quando o viam ocupado em atividades tão inúteis, como remendar bolas velhas, e sem qualquer urgência, como ler um dicionário de chinês, as pessoas pensavam: «Posso aproximar-me para falar um pouco com este padre, pois vê-se que não tem nada que fazer». Estava disponível para o essencial. Ele tinha um horário para o confessionário e estava lá. Evitava o impedimento de ter o aspeto duma pessoa sempre muito ocupada. É aqui que está o problema. As pessoas não se aproximam quando veem o seu pastor muito, muito ocupado, sempre comprometido.

Cada um de nós conheceu bons confessores. Devemos aprender com os nossos bons confessores, com aqueles de quem as pessoas se aproximam, que não as assustam e que sabem falar até o outro contar o que se passa, como Jesus com Nicodemos. É importante compreender a linguagem dos gestos; não perguntar coisas que são evidentes através dos gestos. Se alguém se aproxima do confessionário é porque está arrependido, já há arrependimento. E, se se aproxima, é porque tem desejo de mudar ou, pelo menos, desejo de desejar, e se a situação lhe parece impossível (ad impossibilia nemo tenetur – como diz o «brocardo» – ninguém é obrigado a fazer o impossível). A linguagem dos gestos. Li na vida de um Santo recente destes tempos que, pobre dele, sofria na guerra. Havia um soldado que estava para ser fuzilado e foi confessá-lo. E vê-se que o homem era um pouco libertino, fazia tantas festas com as mulheres… «Mas tu estás arrependido disso?» – «Não, padre; era tão bom!» E o Santo não sabia como desenvencilhar-se; o pelotão já estava ali para o fuzilar. Então disse-lhe: «Diz-me ao menos: Tens pena de não estar arrependido?» – «Isso, sim!» «Ah, está bem!» e deu-lhe a absolvição. O confessor procura sempre a estrada, e a linguagem dos gestos é a linguagem das possibilidades para chegar ao ponto desejado.

Devemos aprender com os bons confessores, com aqueles que têm delicadeza com os pecadores bastando-lhes meia palavra para compreenderem tudo, como Jesus com a hemorroíssa, e naquele mesmo momento sai deles a força do perdão. Fiquei muito edificado com um dos Cardeais da Cúria que a priori eu pensava fosse muito rígido. Mas ele, quando tinha um penitente com um pecado que sentia vergonha de dizer e começava com uma palavra ou duas, imediatamente compreendia de que se tratava e dizia: «Passe à frente, entendi, já entendi!» E detinha-o, porque tinha compreendido. Isto é delicadeza. Mas aqueles confessores – perdoai-me! – que perguntam e perguntam… «Diz-me, por favor! Tu precisas de tantos detalhes para perdoar ou estás a “rodar o filme”?» Muito me edificou aquele Cardeal. A integridade da confissão não é uma questão de matemática: Quantas vezes? Como? Onde?... Às vezes, a vergonha fica-se a dever mais ao número do que ao nome do próprio pecado. Mas, para isso, é preciso deixar-se comover perante a situação das pessoas – às vezes, é uma mistura de coisas, de doença, de pecado e de condicionalismos impossíveis de superar – como Jesus que Se comovia ao ver as pessoas, sentia-o nas entranhas, nas vísceras e, por isso, curava; e curava mesmo que o outro «não lho pedisse» como aquele leproso, ou andasse às voltas como a Samaritana, que era como o pardal: piava num lado, mas tinha o ninho noutro. Jesus era paciente.

Devemos aprender com os confessores capazes de fazer com que o penitente sinta vontade de emenda dando um pequeno passo em frente, como Jesus que dava uma penitência suficiente mas sabia apreciar quem voltava para agradecer, quem fazia mais. Jesus fazia levar o catre ao paralítico, ou fazia-Se rogar um pouco pelos cegos ou pela mulher sirofenícia. Não Se importava se depois não sabiam dizer Quem era, como o paralítico da piscina de Betzatá, ou se alardeavam coisas que lhes ordenara não contar e, por isso, até parecia que o leproso fosse Ele, porque não podia entrar nas povoações ou os seus inimigos encontravam motivos para O condenar. Curava, perdoava, dava alívio, descanso, fazia as pessoas respirarem uma lufada do Espírito consolador.

Isto que vou dizer agora, já o disse tantas vezes que é possível que algum de vós o tenha ouvido. Em Buenos Aires, conheci um padre capuchinho – vive ainda; um pouco mais novo do que eu – que é um grande confessor. Diante do confessionário havia sempre uma fila de gente, muitas pessoas – todos: gente humilde, gente abastada, sacerdotes, freiras, uma fila sem fim de pessoas, passava todo o dia a confessar. Ele é um grande perdoador. Sempre encontra a estrada para perdoar e fazer avançar um passo mais. É um dom do Espírito. E perdoa, mas às vezes vêm-lhe escrúpulos de ter perdoado demasiado. E, falando nós uma vez, disse-me: «Às vezes, tenho estes escrúpulos». E perguntei-lhe: «Que fazes, quando tens estes escrúpulos?» – «Vou diante do sacrário, olho para o Senhor e digo-Lhe: “Senhor, perdoai-me! Hoje perdoei muito. Mas fique claro que a culpa é vossa, porque fostes Vós a dar-me o mau exemplo». Ou seja, melhorava a misericórdia com mais misericórdia.

Por último, neste ponto da Confissão, dois conselhos: O primeiro, nunca adotem o olhar do funcionário, de quem só vê «casos» e livra-se deles. A misericórdia livra-nos de ser um padre juiz-funcionário que, à força – digamos – de tanto julgar «casos», perde a sensibilidade pelas pessoas e pelos rostos. Quando estava no 2º Ano de Teologia, lembro-me que fui com os meus colegas ouvir o exame de «audiendas», que se fazia no 3º Ano de Teologia, antes da Ordenação. Fomos para aprender um pouco; sempre se aprendia. E recordo que então a um companheiro fizeram uma pergunta sobre a justiça, de iure, mas muito intrincada, muito artificial… E aquele companheiro disse com muita humildade: «Mas, padre, isto não se encontra na vida!» – «Mas encontra-se nos livros…» Aquela moral «dos livros», sem experiência. A regra de Jesus é «julgar como queremos ser julgados». Na medida íntima que uma pessoa emprega para julgar se a trataram com dignidade, se a ignoraram ou maltrataram, se a ajudaram a levantar-se..., está a chave para julgar os outros (tenhamos presente que o Senhor confia nesta medida, tão subjetivamente pessoal). E não tanto porque essa medida seja a «melhor», mas porque é sincera e, a partir dela, pode-se construir uma boa relação. O segundo conselho: Não sejais curiosos no confessionário. Já aludi a isto. Conta Santa Teresinha que, quando recebia as confidências das suas noviças, evitava cuidadosamente perguntar como terminaram as coisas. Dominava a curiosidade sobre a alma das pessoas (cf. História de uma alma: Manuscrito C, dirigido à Madre Gonzaga, c. XI, 32vs.). É próprio da misericórdia «cobrir com o seu manto», cobrir o pecado para não ferir a dignidade. É belo aquele episódio dos dois filhos de Noé, que cobriram com o manto a nudez do pai que se embriagara (cf. Gn 9, 23).

A dimensão social das obras de misericórdia

Digamos agora duas palavras sobre a dimensão social das obras de misericórdia. No fim dos Exercícios, Santo Inácio coloca a «contemplação para chegar ao amor», que liga a vivência na oração com a vida quotidiana. E faz-nos refletir que o amor se deve colocar mais nas obras do que nas palavras. Estas obras são as obras de misericórdia, as obras que o Pai «de antemão preparou para nelas caminharmos» (Ef 2, 10), as obras que o Espírito inspira a cada um para o bem comum (cf. 1 Cor 12, 7). Ao mesmo tempo que agradecemos ao Senhor por tantos benefícios recebidos da sua bondade, peçamos a graça de levar a todos os homens esta misericórdia que nos salvou a nós.

Proponho-vos, nesta dimensão social, meditar alguns dos parágrafos finais dos Evangelhos. Lá, o próprio Senhor estabelece a conexão entre o que recebemos e o que devemos dar. Podemos ler estas conclusões em chave de «obras de misericórdia» que se realizam no tempo da Igreja em que Jesus ressuscitado vive, acompanha, envia e atrai a nossa liberdade, que encontra nisso a sua realização concreta e renovada em cada dia.

A conclusão do Evangelho de Mateus diz-nos que o Senhor envia os apóstolos com estas palavras: «Ensinai-os a cumprir tudo quanto vos tenho mandado» (28, 20). Este «ensinar a quem ignora» é, em si mesmo, uma das obras de misericórdia. E decompõe-se como a luz nas demais obras: nas referidas em Mateus 25, que têm mais a ver com as obras chamadas corporais, e em todos os mandamentos e conselhos evangélicos de «perdoar», «corrigir fraternalmente», consolar os tristes, suportar as perseguições, etc.

Marcos termina com a imagem do Senhor que «cooperava» com os apóstolos e «confirma a Palavra com os sinais que a acompanhavam». Estes «sinais» têm a caraterística das obras de misericórdia. Marcos fala, entre outras coisas, de curar os doentes e expulsar os espíritos maus (cf. 16, 17-18).

Lucas continua o seu Evangelho com o livro dos «Atos - praxeis - dos Apóstolos», narrando o seu modo de proceder e as obras que realizam, guiados pelo Espírito.

João termina, aludindo a «muitas outras coisas» (21, 25) ou «sinais» (20, 30) que Jesus fez. As ações do Senhor, as suas obras não são meros factos mas sinais em que se manifestam, de forma pessoal e única por cada um, o seu amor e a sua misericórdia.

Podemos contemplar o Senhor, que nos envia a fazer este trabalho, através da imagem de Jesus misericordioso, tal como foi revelada à Irmã Faustina. Naquela imagem, podemos ver a Misericórdia como uma única luz que vem da interioridade de Deus e que, ao passar pelo coração de Cristo, sai diversificada com uma cor própria para cada obra de misericórdia.

As obras de misericórdia são infinitas, cada uma com o seu cunho pessoal, com a história de cada rosto. Não são apenas as sete corporais e as sete espirituais em geral. Ou melhor: estas, assim enumeradas, são como matérias-primas – as da própria vida – que, quando as mãos da misericórdia as tocam e moldam, se transformam, cada uma delas, num trabalho artesanal. Uma obra que se multiplica como o pão nos cestos, que cresce desmedidamente como a semente de mostarda. Com efeito, a misericórdia é fecunda e inclusiva. Estas duas caraterísticas importantes: a misericórdia é fecunda e inclusiva. É verdade que estamos habituados a pensar nas obras de misericórdia uma a uma e enquanto ligadas a uma obra: hospitais para os doentes, sopa dos pobres para os famintos, abrigos para os que vivem pela estrada, escolas para quem precisa de instrução, o confessionário e a direção espiritual para quem necessita de conselho e perdão… Mas, se as olharmos em conjunto, a mensagem que daí resulta é que a misericórdia tem por objeto a própria vida humana na sua totalidade. A nossa própria vida, enquanto «carne», é faminta e sedenta, carecida de vestuário, casa e visitas, bem como de um enterro digno, coisa que ninguém pode fazer para si mesmo. Mesmo o mais rico, ao morrer, fica reduzido a uma miséria e ninguém leva atrás do cortejo fúnebre o camião com a mercadoria da casa mudada. A nossa própria vida, enquanto «espírito», precisa de ser educada, corrigida e encorajada, consolada. Esta é uma palavra muito importante na bíblia: pensemos no Livro da Consolação de Israel, no profeta Isaías. Temos necessidade que outros nos aconselhem, perdoem, apoiem e rezem por nós. Na família, praticam-se estas obras de misericórdia de forma tão justa e desinteressada que nem se dá por ela, mas basta que, numa família com crianças pequenas, falte a mãe para que tudo fique na miséria. A miséria mais absoluta e cruel é a duma criança na rua, sem pais, à mercê dos abutres.

Pedimos a graça de ser sinal e instrumento; agora trata-se de «agir», e não apenas de ter gestos, mas de fazer obras, institucionalizar, criar uma cultura da misericórdia, que não é a mesma coisa que uma cultura de beneficência – há que distinguir –. Lançando mãos ao trabalho, sentimos imediatamente que é o Espírito quem mobiliza e faz avançar estas obras. E fá-lo utilizando os sinais e instrumentos que deseja, embora às vezes não «sejam» em si mesmos os mais aptos. Mais ainda: dir-se-ia que, para exercer as obras de misericórdia, o Espírito prefira os instrumentos mais pobres, os mais humildes e insignificantes, sendo eles mesmos os mais necessitados desse primeiro raio da misericórdia divina. Estes são aqueles que melhor se deixam formar e preparar para realizar um serviço de verdadeira eficácia e qualidade. A alegria de se sentir «servos inúteis», a quem o Senhor abençoa com a fecundidade da sua graça e que Ele próprio faz sentar à sua mesa e nos serve a Eucaristia, é uma confirmação de que estamos a trabalhar nas suas obras de misericórdia.

O nosso povo fiel gosta de congregar-se à volta das obras de misericórdia. Basta vir a uma Audiência Geral das quartas-feiras para vermos a quantidade de grupos de pessoas que se dão as mãos para praticar obras de misericórdia. Tanto nas celebrações – penitenciais e festivas – como na ação solidária e formadora, o nosso povo deixa-se convocar e conduzir e de uma forma que nem todos se dão conta e valorizam, apesar de falharem muitos outros planos pastorais centrados em dinâmicas mais abstratas. A presença maciça do nosso povo fiel nos nossos santuários e peregrinações, uma presença anónima – só anónima por excesso de rostos e pelo desejo de fazer-se ver apenas por Aquele e Aquela que os olham com misericórdia –, bem como a colaboração também numerosa que, sustentando com o seu trabalho tantas obras solidárias, deve ser motivo de atenção, apreço e promoção da nossa parte. E foi uma surpresa para mim ver como aqui, na Itália, estas organizações são tão fortes e congregam tantas pessoas.

Como sacerdotes, peçamos duas graças ao Bom Pastor: a de nos deixarmos guiar pelo sensus fidei do nosso povo fiel e também pelo seu «sentido do pobre». Ambos os «sentidos» estão ligados com o seu «sensus Christi» – de que fala São Paulo –, com o amor e a fé que o nosso povo tem por Jesus.

Terminemos rezando Alma de Cristo, que é uma boa oração para pedir misericórdia ao Senhor que veio encarnado, que nos «misericordia» com o seu próprio Corpo e Alma. Peçamos-Lhe que nos «misericordie» juntamente com o seu povo: à sua alma, pedimos «santificai-nos»; ao seu corpo, suplicamos «salvai-nos»; ao seu sangue, rogamos «inebriai-nos», tirai-nos qualquer outra sede que não seja de Vós; à água do seu lado, pedimos «lavai-nos»; à sua paixão, rogamos «confortai-nos», consolai o vosso povo, ó Senhor crucificado; nas vossas chagas – suplicamo-Vos –, escondei-nos»... Não permitais, Senhor, que o vosso povo se separe de Vós. Que nada e ninguém nos separe da vossa misericórdia; defendei-nos das ciladas do inimigo maligno. Assim poderemos cantar as misericórdias do Senhor juntamente com todos os vossos Santos, quando nos mandardes ir para Vós.

Algumas vezes chegam-me comentários de sacerdotes que dizem: «Este Papa malha-nos demais, censura-nos». E qualquer bastonada, qualquer censura existe. Mas devo dizer que fiquei edificado com muitos sacerdotes, com tantos bons padres! Com aqueles – conheci-os – que dormiam com o telefone na mesinha de cabeceira (ainda não havia a secretaria telefónica) e ninguém morria sem os sacramentos; chamavam a qualquer hora, eles levantavam-se e iam. Bons sacerdotes! E agradeço ao Senhor esta graça. Somos todos pecadores, mas podemos dizer que há muitos bons, santos sacerdotes que trabalham em silêncio e escondidos. Às vezes há um escândalo, mas sabemos que faz mais barulho uma árvore que cai do que uma floresta que cresce.

Ontem recebi uma carta, deixei-a lá com as cartas pessoais. Abri-a antes de vir e creio que foi o Senhor quem mo sugeriu. É de um pároco na Itália, pároco de três aldeias. Penso que nos fará bem ouvir este testemunho de um nosso irmão.

Foi escrita em 29 de maio, poucos dias atrás.

«Desculpe incomodá-lo. Aproveito os bons ofícios dum amigo sacerdote, que se encontra em Roma nestes dias para o Jubileu Sacerdotal, para despretensiosamente – como simples pároco de três pequenas paróquias de montanha; prefiro que me chamem «pastorinho» – lhe fazer chegar algumas considerações sobre o meu serviço pastoral simples, provocadas – e de coração lho agradeço – por algumas coisas que o Santo Padre disse e que me chamam todos os dias à conversão. Estou ciente de não lhe escrever nada de novo. Certamente terá já ouvido estas coisas. Mas sinto necessidade também eu de me fazer porta-voz delas.

Impressionou-me e impressiona-me aquele convite que o Santo Padre repetidamente nos faz, a nós pastores, de ter o odor das ovelhas. Vivo na montanha, e sei bem o que nos quer dizer. Uma pessoa torna-se sacerdote para sentir aquele odor, que é afinal o verdadeiro perfume do rebanho. Como seria bom se o contacto diário e a visita assídua do nosso rebanho – a verdadeira razão da nossa vocação – não fossem substituídos por incumbências administrativas e burocráticas das paróquias, da escola infantil, e muito mais! Tenho a sorte de dispor de leigos bons e válidos que seguem de perto estas coisas. Mas há sempre aquelas incumbências jurídicas do pároco, enquanto único e exclusivo representante legal. Por isso, no fim de contas, ele tem sempre de acorrer a tudo, relegando às vezes a visita aos doentes, às famílias para o último lugar, feitas talvez à pressa e de qualquer modo. Falo por experiência pessoal: às vezes é verdadeiramente frustrante constatar como na minha vida de sacerdote corro tanto pelo aparato burocrático e administrativo, deixando depois o povo, aquele pequeno rebanho que me foi confiado, quase abandonado a si mesmo. Creia-me, Santo Padre, é triste e muitas vezes apetece-me chorar por esta carência. Uma pessoa procura organizar-se, mas, no fim, é apenas o turbilhão das coisas quotidianas.

Outro aspeto, igualmente sublinhado pelo Santo Padre: a carência de paternidade. Diz-se que a sociedade de hoje é carente de pais e mães. Mas parece-me constatar que às vezes também nós renunciamos a esta paternidade espiritual, reduzindo-nos tremendamente a burocratas do sagrado, com a triste consequência de nos sentirmos depois abandonados a nós mesmos. Uma paternidade difícil, que depois se repercute inevitavelmente nos nossos superiores, também eles ocupados por compreensíveis incumbências e problemáticas, correndo assim o risco de viverem connosco uma relação formal, ligada mais à gestão da comunidade do que à nossa vida de homens, de crentes e de sacerdotes.

Mas tudo isto – e concluo – não tira a alegria e a paixão de ser padre para o povo e com o povo. Se às vezes como pastor não tenho o odor das ovelhas, sempre me comovo com o meu rebanho que não perdeu o odor do pastor! Como é bom, Santo Padre, quando nos damos conta de que as ovelhas não nos deixam sozinhos, têm o termómetro do nosso estar lá para elas e, se por acaso o pastor se afasta e perde o trilho, elas agarram-no e seguram-no pela mão. Não cessarei jamais de agradecer ao Senhor, porque sempre nos salva através do seu rebanho, aquele rebanho que nos foi confiado, aquele povo simples, bom, humilde e sereno, aquele rebanho que é a verdadeira graça do pastor.

De modo confidencial fiz-lhe chegar estas breves e simples considerações, porque o Santo Padre está perto do rebanho, é capaz de compreender e pode continuar a ajudar-nos e apoiar-nos. Rezo pelo Santo Padre e agradeço-lhe inclusive aqueles “puxões de orelhas” que sinto necessários para o meu caminho. Abençoe-me, Papa Francisco, e reze por mim e pelas minhas paróquias».

Assina e, no fim, aquele gesto próprio dos pastores: «Deixo uma pequena oferta. Reze pelas minhas comunidades, particularmente por alguns doentes graves e por algumas famílias com dificuldades económicas e não só. Obrigado!»

Este é um irmão nosso. Há tantos iguais, tantos! Mesmo aqui, seguramente. Muitos. Indica-nos a estrada. E vamos para diante! Não percamos a oração. Rezai como puderdes; e, se cairdes de sono diante do Sacrário, bendito seja ele. Mas rezai. Não percais isto. Não percais o deixar-vos olhar por Nossa Senhora e olhá-La como Mãe. Não percais o zelo, empenhai-vos... Não percais a proximidade e a disponibilidade às pessoas, e – permiti que vo-lo diga – não percais o sentido do humor. E vamos para diante!

[00920-PO.02] [Texto original: Italiano]

[B0396-XX.02]