Omelia del Santo Padre
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Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è stata concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi sono stati benedetti l’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni e il crisma.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Omelia del Santo Padre
Ascoltando dalle labbra di Gesù, dopo la lettura del passo di Isaia, le parole «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21), nella sinagoga di Nazareth avrebbe ben potuto scoppiare un applauso. E poi avrebbero potuto piangere dolcemente, con intima gioia, come piangeva il popolo quando Neemia e il sacerdote Esdra leggevano il libro della Legge che avevano rinvenuto ricostruendo le mura. Ma i Vangeli ci dicono che sorsero sentimenti opposti nei compaesani di Gesù: lo allontanarono e gli chiusero il cuore. All’inizio «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); ma dopo, una domanda insidiosa si fece largo: «Non è costui il figlio di Giuseppe, il falegname?». E infine: “Si riempirono di sdegno” (Lc 4,28). Volevano buttarlo giù dalla rupe... Si adempiva così quello che il vecchio Simeone aveva profetizzato alla Madonna: sarà «segno di contraddizione» (Lc 2,34). Gesù, con le sue parole e i suoi gesti, fa in modo che si riveli quello che ogni uomo e donna porta nel cuore.
E lì dove il Signore annuncia il vangelo della Misericordia incondizionata del Padre nei confronti dei più poveri, dei più lontani e oppressi, proprio lì siamo chiamati a scegliere, a «combattere la buona battaglia della fede» (1 Tm 6,12). La lotta del Signore non è contro gli uomini ma contro il demonio (cfr Ef 6,12), nemico dell’umanità. Però il Signore «passa in mezzo» a coloro che cercano di fermarlo “e prosegue il suo cammino” (cfr Lc 4,30). Gesù non combatte per consolidare uno spazio di potere. Se rompe recinti e mette in discussione sicurezze è per aprire una breccia al torrente della Misericordia che, con il Padre e lo Spirito, desidera riversare sulla terra. Una Misericordia che procede di bene in meglio: annuncia e porta qualcosa di nuovo: risana, libera e proclama l’anno di grazia del Signore.
La Misericordia del nostro Dio è infinita e ineffabile, ed esprimiamo il dinamismo di questo mistero come una Misericordia “sempre più grande”, una Misericordia in cammino, una Misericordia che ogni giorno cerca il modo di fare un passo avanti, un piccolo passo in là, avanzando sulla terra di nessuno, dove regnavano l’indifferenza e la violenza.
Questa è stata la dinamica del buon Samaritano, che “praticò la misericordia” (cfr Lc 10,37): si commosse, si avvicinò all’uomo tramortito, bendò le sue ferite, lo portò alla locanda, si fermò quella notte e promise di tornare a pagare ciò che si sarebbe speso in più. Questa è la dinamica della Misericordia, che lega un piccolo gesto con un altro, e senza offendere nessuna fragilità, si estende un po’ di più nell’aiuto e nell’amore. Ciascuno di noi, guardando la propria vita con lo sguardo buono di Dio, può fare un esercizio con la memoria e scoprire come il Signore ha usato misericordia con noi, come è stato molto più misericordioso di quanto credevamo, e così incoraggiarci a chiedergli che faccia un piccolo passo in più, che si mostri molto più misericordioso in futuro. «Mostraci, Signore, la tua misericordia» (Sal 85,8). Questo modo paradossale di pregare un Dio sempre più misericordioso aiuta a rompere quegli schemi ristretti nei quali tante volte incaselliamo la sovrabbondanza del suo Cuore. Ci fa bene uscire dai nostri recinti, perché è proprio del Cuore di Dio traboccare di misericordia, straripare, spargendo la sua tenerezza, in modo tale che sempre ne avanzi, poiché il Signore preferisce che si perda qualcosa piuttosto che manchi una goccia, preferisce che tanti semi se li mangino gli uccelli piuttosto che alla semina manchi un solo seme, dal momento che tutti hanno la capacità di portare frutto abbondante, il 30, il 60, e fino al cento per uno.
Come sacerdoti, siamo testimoni e ministri della Misericordia sempre più grande del nostro Padre; abbiamo il dolce e confortante compito di incarnarla, come fece Gesù, che «passò beneficando e risanando» (At 10,38), in mille modi, perché giunga a tutti. Noi possiamo contribuire ad inculturarla, affinché ogni persona la riceva nella propria personale esperienza di vita e così la possa comprendere e praticare – creativamente – nel modo di essere proprio del suo popolo e della sua famiglia.
Oggi, in questo Giovedì Santo dell’Anno Giubilare della Misericordia, vorrei parlare di due ambiti nei quali il Signore eccede nella sua Misericordia. Dal momento che è Lui che ci dà l’esempio, non dobbiamo aver paura di eccedere anche noi: un ambito è quello dell’incontro; l’altro è quello del suo perdono che ci fa vergognare e ci dà dignità.
Il primo ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è quello dell’incontro. Egli si dà totalmente e in modo tale che, in ogni incontro, passa direttamente a celebrare una festa. Nella parabola del Padre Misericordioso rimaniamo sbalorditi di fronte a quell’uomo che corre, commosso, a gettarsi al collo di suo figlio; vedendo come lo abbraccia e lo bacia e si preoccupa di mettergli l’anello che lo fa sentire uguale, e i sandali propri di chi è figlio e non dipendente; e poi come mette tutti in movimento e ordina di organizzare una festa. Nel contemplare sempre meravigliati questa sovrabbondanza di gioia del Padre, al quale il ritorno del figlio permette di esprimere liberamente il suo amore, senza resistenze né distanze, noi non dobbiamo avere paura di esagerare nel nostro ringraziamento. Il giusto atteggiamento possiamo prenderlo da quel povero lebbroso che, vedendosi risanato, lascia i suoi nove compagni che vanno a compiere ciò che ha ordinato Gesù e torna ad inginocchiarsi ai piedi del Signore, glorificando e rendendo grazie e Dio a gran voce.
La misericordia restaura tutto e restituisce le persone alla loro dignità originaria. Per questo il ringraziamento effusivo è la risposta giusta: bisogna entrare subito alla festa, indossare l’abito, togliersi i rancori del figlio maggiore, rallegrarsi e festeggiare… Perché solo così, partecipando pienamente a quel clima di celebrazione, si può poi pensare bene, si può chiedere perdono e vedere più chiaramente come poter riparare il male commesso. Può farci bene domandarci: dopo essermi confessato, festeggio? O passo rapidamente ad un’altra cosa, come quando dopo essere andati dal medico, vediamo che le analisi non sono andate tanto male e le rimettiamo nella busta e passiamo a un’altra cosa. E quando faccio l’elemosina, dò tempo a chi la riceve di esprimere il suo ringraziamento, festeggio il suo sorriso e quelle benedizioni che ci danno i poveri, o proseguo in fretta con le mie cose dopo “aver lasciato cadere la moneta”?
L’altro ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è il perdono stesso. Non solo perdona debiti incalcolabili, come al servo che lo supplica e poi si dimostrerà meschino con il suo compagno, ma ci fa passare direttamente dalla vergogna più vergognosa alla dignità più alta senza passaggi intermedi. Il Signore lascia che la peccatrice perdonata gli lavi familiarmente i piedi con le sue lacrime. Appena Simon Pietro gli confessa il suo peccato e gli chiede di allontanarsi, Lui lo eleva alla dignità di pescatore di uomini. Noi, invece, tendiamo a separare i due atteggiamenti: quando ci vergogniamo del peccato, ci nascondiamo e andiamo con la testa bassa, come Adamo ed Eva, e quando siamo elevati a qualche dignità cerchiamo di coprire i peccati e ci piace farci vedere, quasi pavoneggiarci.
La nostra risposta al perdono sovrabbondante del Signore dovrebbe consistere nel mantenerci sempre in quella sana tensione tra una dignitosa vergogna e una dignità che sa vergognarsi: atteggiamento di chi per sé stesso cerca di umiliarsi e abbassarsi, ma è capace di accettare che il Signore lo innalzi per il bene della missione, senza compiacersene. Il modello che il Vangelo consacra, e che può servirci quando ci confessiamo, è quello di Pietro, che si lascia interrogare a lungo sul suo amore e, nello stesso tempo, rinnova la sua accettazione del ministero di pascere le pecore che il Signore gli affida.
Per entrare più in profondità in questa “dignità che sa vergognarsi”, che ci salva dal crederci di più o di meno di quello che siamo per grazia, ci può aiutare vedere come nel passo di Isaia che il Signore legge oggi nella sua sinagoga di Nazareth, il Profeta prosegue dicendo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio» (61,6). È il popolo povero, affamato, prigioniero di guerra, senza futuro, residuale e scartato, che il Signore trasforma in popolo sacerdotale.
Come sacerdoti, noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate. Sentiamo che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva – che beviamo solo a sorsi –, ma per un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”. Ci sentiamo anche prigionieri, non circondati, come tanti popoli, da invalicabili mura di pietra o da recinzioni di acciaio, ma da una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click. Siamo oppressi, ma non da minacce e spintoni, come tanta povera gente, ma dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori.
E Gesù viene a riscattarci, a farci uscire, per trasformarci da poveri e ciechi, da prigionieri e oppressi in ministri di misericordia e consolazione. E ci dice, con le parole del profeta Ezechiele al popolo che si era prostituito e aveva tradito gravemente il suo Signore: «Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza [...] Allora ricorderai la tua condotta e ne sarai confusa, quando riceverai le tue sorelle maggiori insieme a quelle più piccole, che io darò a te per figlie, ma non in forza della tua alleanza. Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto – oracolo del Signore Dio» (Ez 16,60-63).
In questo Anno Giubilare celebriamo, con tutta la gratitudine di cui è capace il nostro cuore, il nostro Padre, e lo preghiamo che “si ricordi sempre della sua Misericordia”; accogliamo, con dignità che sa vergognarsi, la Misericordia nella carne ferita del nostro Signore Gesù Cristo, e gli chiediamo che ci lavi da ogni peccato e ci liberi da ogni male; e con la grazia dello Spirito Santo ci impegniamo a comunicare la Misericordia di Dio a tutti gli uomini, praticando le opere che lo Spirito suscita in ciascuno per il bene comune di tutto il popolo fedele di Dio.
[00458-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Après la lecture du passage d’Isaïe, entendant des lèvres de Jésus, les paroles: «Aujourd’hui s’accomplit ce passage de l’Écriture que vous venez d’entendre » (Lc 4, 21, des applaudissements auraient bien pu éclater dans la synagogue de Nazareth. Et ensuite, ils auraient pu pleurer doucement, d’une joie profonde, comme pleurait le peuple quand Néhémie et le prêtre Esdras lisaient le livre de la Loi qu’ils avaient retrouvé en reconstruisant les murailles. Mais les Évangiles nous disent que des sentiments opposés surgirent chez les compatriotes de Jésus: ils l’éloignèrent et lui fermèrent leur cœur. Au début « tous lui rendaient témoignage et s’étonnaient des paroles de grâce qui sortaient de sa bouche» (Lc 4, 22); mais ensuite, une question insidieuse fit son chemin: «N’est-ce pas là le fils de Joseph, [le charpentier] », et finalement «ils devinrent furieux» (Lc 4, 28). Ils voulaient le précipiter en bas du rocher… S’accomplissait ainsi ce que le vieux Siméon avait prophétisé à la Vierge: il sera «un signe de contradiction» (Lc 2, 34). Jésus, par ses paroles et ses gestes, fait en sorte que se révèle ce que tout homme et toute femme porte en son cœur.
Et là où le Seigneur annonce l’Évangile de la miséricorde sans condition du Père envers les plus pauvres, les plus éloignés et opprimés, c’est justement là que nous sommes appelés à choisir, à «mener le bon combat, celui de la foi » (1Tm 6, 12). La lutte du Seigneur n’est pas contre les hommes mais contre le démon (cf. Ep 6, 12), ennemi de l’humanité. Mais le Seigneur «passe au milieu» de ceux qui cherchent à l’arrêter et va son chemin (cf. Lc 4, 30). Jésus ne combat pas pour consolider un espace de pouvoir. S’il brise les clôtures et remet en cause les sécurités, c’est pour ouvrir une brèche au torrent de la miséricorde qu’il désire déverser sur la terre, avec le Père et l’Esprit. Une miséricorde qui avance de mieux en mieux: elle annonce et apporte quelque chose de nouveau: elle guérit, elle libère et elle proclame l’An de Grâce du Seigneur.
La miséricorde de notre Dieu est infinie et ineffable; et nous exprimons le dynamisme de ce mystère comme une miséricorde «toujours plus grande», une miséricorde en chemin, une miséricorde qui cherche tous les jours le moyen de faire un pas en avant, un petit pas en avant, avançant sur la terre inconnue, où règnent l’indifférence et la violence.
Telle a été la dynamique du bon Samaritain qui «pratiqua la miséricorde» (cf. Lc 10, 37): il s’est ému, s’est approché du blessé, a pansé ses blessures, l’a porté à l’auberge, s’est arrêté cette nuit-là et a promis de revenir payer ce qui aurait été dépensé en plus. C’est la dynamique de miséricorde, qui relie un petit geste à un autre, et, sans offenser aucune fragilité, se répand un peu plus dans l’aide et dans l’amour. Chacun de nous, regardant sa propre vie avec le regard bon de Dieu, peut exercer sa mémoire et découvrir comment le Seigneur a fait preuve de miséricorde avec nous, comment il a été beaucoup plus miséricordieux que nous le pensions, et ainsi nous encourager à lui demander qu’il fasse un petit pas en plus, qu’il se montre beaucoup plus miséricordieux à l’avenir. «Fais-nous voir, Seigneur, ton amour » (Ps 85, 8). Cette manière paradoxale de prier un Dieu toujours plus miséricordieux aide à briser les schémas étroits dans lesquels nous enfermons tant de fois la surabondance de son cœur. Cela nous fait du bien de sortir de nos enclos, parce que c’est propre au cœur de Dieu de déborder de miséricorde, [de déborder], répandant sa tendresse, de sorte qu’il en reste toujours, puisque le Seigneur préfère que quelque chose soit perdu plutôt que manque une goutte; il préfère que les oiseaux mangent beaucoup de graines plutôt que manque une seule graine aux semailles, du moment que toutes ont la capacité de porter du fruit en abondance, 30, 60, et jusqu’à 100 pour un.
En tant que prêtres, nous sommes témoins et ministres de la miséricorde toujours plus grande de notre Père; nous avons la douce et réconfortante tâche de l’incarner, comme a fait Jésus, qui, «là où il passait, faisait le bien» (Ac 10, 38) de mille manières, parce qu’il allait à tous. Nous pouvons contribuer à l’inculturer, pour que toute personne la reçoive dans son expérience de vie personnelle et puisse ainsi la comprendre et la pratiquer – de manière créative – dans la manière d’être propre à son peuple et à sa famille.
Aujourd’hui, en ce Jeudi Saint de l’Année Jubilaire de la Miséricorde, je voudrais parler des deux domaines dans lesquels le Seigneur exagère dans sa miséricorde. Puisque c’est lui qui nous donne l’exemple, nous ne devons pas avoir peur d’exagérer nous aussi: un domaine est celui de la rencontre; l’autre est celui de son pardon qui nous fait avoir honte et qui nous donne de la dignité.
Le premier domaine dans lequel nous voyons que Dieu exagère dans une miséricorde toujours plus grande, est celui de la rencontre. Il se donne totalement et de sorte que, dans toute rencontre, il en vient directement à faire une fête. Dans la parabole du Père miséricordieux nous sommes abasourdis devant cet homme qui court, ému, se jeter au cou de son fils; en voyant comment il le serre dans ses bras et l’embrasse, comment il lui met l’anneau qui le fait sentir égal, les sandales, qui conviennent à celui qui est fils et non domestique; et ensuite comment il met tout le monde en mouvement, et ordonne d’organiser une fête. En contemplant, toujours émerveillés, cette surabondance de joie du Père, à qui le retour de son fils permet d’exprimer librement son amour, sans résistance ni distance, nous ne devons pas avoir peur d’exagérer notre reconnaissance. Nous pouvons prendre l’attitude juste de ce pauvre lépreux qui, se voyant guéri, laisse ses neuf compagnons qui vont accomplir ce qu’a ordonné Jésus, et revient s’agenouiller aux pieds du Seigneur, glorifiant Dieu et lui rendant grâce à pleine voix.
La miséricorde restaure tout et rend aux personnes leur dignité d’origine. C’est pourquoi la réponsejuste est de remercier avec effusion : il faut entrer tout de suite dans la fête, mettre l’habit, se débarrasser des rancœurs du fils ainé, se réjouir et festoyer… Car c’est seulement ainsi, en participant pleinement à ce climat de célébration, que l’on peut ensuite bien réfléchir, demander pardon et voir plus clairement comment pouvoir réparer le mal commis. Cela peut nous faire du bien de se demander: est-ce qu’après m’être confessé, je fais la fête? Ou bien est-ce que je passe rapidement à autre chose; comme lorsqu’après être allé chez le médecin nous voyons que les analyses ne vont pas si mal et que nous les remettons dans l’enveloppe et passons à autre chose. Et quand je fais l’aumône, est-ce que je donne à celui qui la reçoit le temps d’exprimer son remerciement, est-ce que je fête son sourire et cette bénédiction que nous donnent les pauvres; ou bien est-ce que je continue vite mes affaires après «avoir laissé tomber la pièce»?
L’autre domaine dans lequel nous voyons que Dieu exagère dans une miséricorde toujours plus grande, c’est le pardon lui-même. Non seulement il pardonne des dettes incalculables, comme au serviteur qui le supplie, et qui ensuite se montrera mesquin envers son compagnon, mais il nous fait passer directement de la honte la plus honteuse à la dignité la plus haute sans étapes intermédiaires. Le Seigneur permet à la pècheresse pardonnée de lui laver familièrement les pieds de ses larmes. A peine Simon Pierre lui confesse-t-il son péché et lui demande-t-il de s’éloigner, qu’il l’élève à la dignité de pêcheur d’hommes. Nous, en revanche, nous avons tendance à séparer les deux attitudes: quand nous avons honte du péché, nous nous cachons et allons tête basse, comme Adam et Ève; et quand nous sommes élevés à une certaine dignité nous cherchons à cacher les péchés et nous aimons nous faire voir, presque nous pavaner.
Notre réponse au pardon surabondant du Seigneur devrait consister à nous maintenir toujours dans cette saine tension entre une honte digne et une dignité qui sait avoir honte: attitude de celui qui par lui-même cherche à s’humilier et s’abaisser, mais qui est capable d’accepter que le Seigneur l’élève pour le bien de la mission, sans s’y complaire. Le modèle que consacre l’Évangile, et qui peut nous servir quand nous nous confessons, est celui de Pierre qui se laisse longuement interroger sur son amour et, en même temps, renouvelle son acceptation du ministère de paître les brebis que le Seigneur lui confie.
Pour entrer plus profondément dans cette «dignité qui sait avoir honte», qui nous empêche de nous croire plus ou moins ce que nous sommes par grâce, cela peut nous aider de voir comment dans le passage d’Isaïe que le Seigneur lit aujourd’hui dans sa synagogue de Nazareth, le prophète dit: «Vous serez appelés “Prêtres du Seigneur”, on vous dira “Servants de notre Dieu”» (61, 6). C’est le peuple pauvre, affamé, prisonnier de guerre, sans avenir, résiduel et rejeté, que le Seigneur transforme en peuple sacerdotal.
Comme prêtres, nous nous identifions à ce peuple rejeté, que le Seigneur sauve, et nous nous souvenons qu’il y a d’innombrables personnes pauvres, ignorantes, prisonnières, qui se trouvent dans cette situation parce que d’autres les oppriment. Mais nous nous souvenons aussi que chacun sait dans quelle mesure, souvent, nous sommes aveugles, privés de la belle lumière de la foi, non parce que nous n’aurions pas l’Évangile à portée de la main, mais par excès de théologies compliquées. Nous sentons que notre âme est assoiffée de spiritualité, mais non par manque d’Eau Vive – que nous buvons seulement à petits coups – mais par excès de spiritualité «pétillante», de spiritualité «légère». Nous nous sentons aussi prisonniers, non pas entourés, comme tant de peuples, par d’infranchissables murs de pierres ou par des clôtures d’acier, mais par une mondanité virtuelle qui s’ouvre et se ferme d’un simple clic. Nous sommes oppressés, non par des menaces et des bourrades, comme beaucoup de pauvre gens, mais par l’attrait de mille propositions de consommation dont nous ne pouvons pas nous défaire en nous secouant pour marcher, libres, sur les sentiers qui nous conduisent à l’amour de nos frères, au troupeau du Seigneur, aux brebis qui attendent la voix de leurs pasteurs.
Et Jésus vient nous racheter, nous faire sortir, pour nous transformerde pauvres et aveugles, de prisonniers et opprimés en ministres de miséricorde et de consolation. Et il nous dit, avec les paroles du prophète Ezéchiel au peuple qui s’était prostitué et qui avait trahi gravement son Seigneur: « Moi, je me ressouviendrai de mon alliance, celle que j’ai conclue avec toi au temps de ta jeunesse […]. Tu te souviendras de ta conduite, et tu seras déshonorée, quand tu recueilleras tes sœurs, tes ainées et tes cadettes et quand je te les donnerai pour filles, sans que cela découle de ton alliance. Moi, je rétablirai mon alliance avec toi. Alors, tu sauras que je suis le Seigneur. Ainsi tu te souviendras, tu seras couverte de honte. Dans ton déshonneur, tu n’oseras pas ouvrir la bouche quand je te pardonnerai tout ce que tu as fait – oracle du Seigneur Dieu » (Ez 16, 60-63).
En cette Année jubilaire célébrons notre Père, avec toute la gratitude dont est capable notre cœur, et prions-le pour qu’“il se souvienne toujours de sa miséricorde”; accueillons, avec une dignité qui sait avoir honte, la miséricorde dans la chair blessée de notre Seigneur Jésus-Christ, et demandons-lui de nous laver de tout péché et de nous libérer de tout mal; et avec la grâce de l’Esprit Saint engageons-nous à communiquer la miséricorde de Dieu à tous les hommes, en pratiquant les œuvres que l’Esprit suscite en chacun pour le bien de tout le peuple fidèle de Dieu.
[00458-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
After hearing Jesus read from the Prophet Isaiah and say: “Today this Scripture has been fulfilled in your hearing” (Lk 4:21), the congregation in the synagogue of Nazareth might well have burst into applause. They might have then wept for joy, as did the people when Nehemiah and Ezra the priest read from the book of the Law found while they were rebuilding the walls. But the Gospels tell us that Jesus’ townspeople did the opposite; they closed their hearts to him and sent him off. At first, “all spoke well of him, and wondered at the gracious words that came from his mouth” (4:22). But then an insidious question began to make the rounds: “Is this not the son of Joseph, the carpenter?” (4:22). And then, “they were filled with rage” (4:28). They wanted to throw him off the cliff. This was in fulfilment of the elderly Simeon’s prophecy to the Virgin Mary that he would be “a sign of contradiction” (2:34). By his words and actions, Jesus lays bare the secrets of the heart of every man and woman.
Where the Lord proclaims the Gospel of the Father’s unconditional mercy to the poor, the outcast and the oppressed, is the very place we are called to take a stand, to “fight the good fight of the faith” (1 Tim 6:12). His battle is not against men and women, but against the devil (cf. Eph 6:12), the enemy of humanity. But the Lord “passes through the midst” of all those who would stop him and “continues on his way” (Lk 4:30). Jesus does not fight to build power. If he breaks down walls and challenges our sense of security, he does this to open the flood gates of that mercy which, with the Father and the Holy Spirit, he wants to pour out upon our world. A mercy which expands; it proclaims and brings newness; it heals, liberates and proclaims the year of the Lord’s favour.
The mercy of our God is infinite and indescribable. We express the power of this mystery as an “ever greater” mercy, a mercy in motion, a mercy that each day seeks to make progress, taking small steps forward and advancing in that wasteland where indifference and violence have predominated.
This was the way of the Good Samaritan, who “showed mercy” (cf. Lk 10:37): he was moved, he drew near to the wounded man, he bandaged his wounds, took him to the inn, stayed there that evening and promised to return and cover any further cost. This is the way of mercy, which gathers together small gestures. Without demeaning, it grows with each helpful sign and act of love. Every one of us, looking at our own lives as God does, can try to remember the ways in which the Lord has been merciful towards us, how he has been much more merciful than we imagined. In this we can find the courage to ask him to take a step further and to reveal yet more of his mercy in the future: “Show us, Lord, your mercy” (Ps 85:8). This paradoxical way of praying to an ever more merciful God, helps us to tear down those walls with which we try to contain the abundant greatness of his heart. It is good for us to break out of our set ways, because it is proper to the Heart of God to overflow with tenderness, with ever more to give. For the Lord prefers something to be wasted rather than one drop of mercy be held back. He would rather have many seeds be carried off by the birds of the air than have one seed be missing, since each of those seeds has the capacity to bear abundant fruit, thirtyfold, sixtyfold, even a hundredfold.
As priests, we are witnesses to and ministers of the ever-increasing abundance of the Father’s mercy; we have the rewarding and consoling task of incarnating mercy, as Jesus did, who “went about doing good and healing” (Acts 10:38) in a thousand ways so that it could touch everyone. We can help to inculturate mercy, so that each person can embrace it and experience it personally. This will help all people truly understand and practise mercy with creativity, in ways that respect their local cultures and families.
Today, during this Holy Thursday of the Jubilee Year of Mercy, I would like to speak of two areas in which the Lord shows excess in mercy. Based on his example, we also should not hesitate in showing excess. The first area I am referring to is encounter; the second is God’s forgiveness, which shames us while also giving us dignity.
The first area where we see God showing excess in his ever-increasing mercy is that of encounter. He gives himself completely and in such a way that every encounter leads to rejoicing. In the parable of the Merciful Father we are astounded by the man who runs, deeply moved, to his son, and throws his arms around him; we see how he embraces his son, kisses him, puts a ring on his finger, and then gives him his sandals, thus showing that he is a son and not a servant. Finally, he gives orders to everyone and organizes a party. In contemplating with awe this superabundance of the Father’s joy that is freely and boundlessly expressed when his son returns, we should not be fearful of exaggerating our gratitude. Our attitude should be that of the poor leper who, seeing himself healed, leaves his nine friends who go off to do what Jesus ordered, and goes back to kneel at the feet of the Lord, glorifying and thanking God aloud.
Mercy restores everything; it restores dignity to each person. This is why effusive gratitude is the proper response: we have to go the party, to put on our best clothes, to cast off the rancour of the elder brother, to rejoice and give thanks… Only in this way, participating fully in such rejoicing, is it possible to think straight, to ask for forgiveness, and see more clearly how to make up for the evil we have committed. It would be good for us to ask ourselves: after going to confession, do I rejoice? Or do I move on immediately to the next thing, as we would after going to the doctor, when we hear that the test results are not so bad and put them back in their envelope? And when I give alms, do I give time to the person who receives them to express their gratitude, do I celebrate the smile and the blessings that the poor offer, or do I continue on in haste with my own affairs after tossing in a coin?
The second area in which we see how God exceeds in his ever greater mercy is forgiveness itself. God does not only forgive incalculable debts, as he does to that servant who begs for mercy but is then miserly to his own debtor; he also enables us to move directly from the most shameful disgrace to the highest dignity without any intermediary stages. The Lords allows the forgiven woman to wash his feet with her tears. As soon as Simon confesses his sin and begs Jesus to send him away, the Lord raises him to be a fisher of men. We, however, tend to separate these two attitudes: when we are ashamed of our sins, we hide ourselves and walk around with our heads down, like Adam and Eve; and when we are raised up to some dignity, we try to cover up our sins and take pleasure in being seen, almost showing off.
Our response to God’s superabundant forgiveness should be always to preserve that healthy tension between a dignified shame and a shamed dignity. It is the attitude of one who seeks a humble and lowly place, but who can also allow the Lord to raise him up for the good of the mission, without complacency. The model that the Gospel consecrates, and which can help us when we confess our sins, is Peter, who allowed himself to be questioned about his love for the Lord, but who also renewed his acceptance of the ministry of shepherding the flock which the Lord had entrusted to him.
To grow in this “dignity which is capable of humbling itself”, and which delivers us from thinking that we are more or are less than what we are by grace, can help us understand the words of the prophet Isaiah that immediately follow the passage our Lord read in the synagogue at Nazareth: “You will be called priests of the Lord, ministers of our God” (Is 61:6). It is people who are poor, hungry, prisoners of war, without a future, cast to one side and rejected, that the Lord transforms into a priestly people.
As priests, we identify with people who are excluded, people the Lord saves. We remind ourselves that there are countless masses of people who are poor, uneducated, prisoners, who find themselves in such situations because others oppress them. But we too remember that each of us knows the extent to which we too are often blind, lacking the radiant light of faith, not because we do not have the Gospel close at hand, but because of an excess of complicated theology. We feel that our soul thirsts for spirituality, not for a lack of Living Water which we only sip from, but because of an excessive “bubbly” spirituality, a “light” spirituality. We feel ourselves also trapped, not so much by insurmountable stone walls or steel enclosures that affect many peoples, but rather by a digital, virtual worldliness that is opened and closed by a simple click. We are oppressed, not by threats and pressures, like so many poor people, but by the allure of a thousand commercial advertisements which we cannot shrug off to walk ahead, freely, along paths that lead us to love of our brothers and sisters, to the Lord’s flock, to the sheep who wait for the voice of their shepherds.
Jesus comes to redeem us, to send us out, to transform us from being poor and blind, imprisoned and oppressed, to become ministers of mercy and consolation. He says to us, using the words the prophet Ezekiel spoke to the people who sold themselves and betrayed the Lord: “I will remember my covenant with you in the days of your youth… Then you will remember your ways, and be ashamed when I take your sisters, both your elder and your younger, and give them to you as daughters, but not on account of the covenant with you. I will establish my covenant with you, and you shall know that I am the Lord, that you may remember and be confounded, and never open your mouth again because of your shame, when I forgive you all that you have done, says the Lord God” (Ezek 16:60-63).
In this Jubilee Year we celebrate our Father with hearts full of gratitude, and we pray to him that “he remember his mercy forever”; let us receive, with a dignity that is able to humble itself, the mercy revealed in the wounded flesh of our Lord Jesus Christ. Let us ask him to cleanse us of all sin and free us from every evil. And with the grace of the Holy Spirit let us commit ourselves anew to bringing God’s mercy to all men and women, and performing those works which the Spirit inspires in each of us for the common good of the entire People of God.
[00458-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Als nach der Lektüre einer Prophetie des Jesaja aus dem Munde Jesu die Worte zu hören waren: »Heute hat sich das Schriftwort, das ihr eben gehört habt, erfüllt« (Lk 4,21), hätte in der Synagoge von Nazareth eigentlich ein Beifall losbrechen müssen. Und dann hätten sie vor Freude weinen können, wie das Volk weinte, als Nehemia und der Priester Esra das Buch des Gesetzes vorlasen, das sie beim Wiederaufbau der Mauern entdeckt hatten (vgl. Neh 8,9). Doch die Evangelien berichten uns, dass unter den Landsleuten Jesu ganz andere Gefühle aufkamen: Sie trieben ihn fort und verschlossen ihm ihr Herz. Anfangs hatte »seine Rede bei allen Beifall [gefunden]; sie staunten darüber, wie begnadet er redete« (Lk 4,22), doch dann verbreitete sich eine heimtückische Frage: »Ist das nicht der Sohn Josefs, [des Zimmermanns]?« (ebd.) Und schließlich »gerieten sie alle in Wut« (Lk 4,28). Sie wollten ihn vom Felsen hinabstürzen… So erfüllte sich, was der greise Simeon der Mutter Jesu geweissagt hatte: »Er wird ein Zeichen sein, dem widersprochen wird« (Lk 2,34). Jesus bewirkt mit seinen Worten und seinen Gesten, dass offenbar wird, was jeder Mensch in seinem Herzen trägt.
Und dort, wo der Herr das Evangelium der bedingungslosen Barmherzigkeit des Vaters gegenüber den Ärmsten, den am weitesten Entfernten und den am meisten Unterdrückten verkündet, genau dort sind wir aufgerufen, uns zu entscheiden, »den guten Kampf des Glaubens« (1Tim 6,12) zu kämpfen. Der Kampf des Herrn richtet sich nicht gegen die Menschen, sondern gegen den Dämon (vgl. Eph 6,12), den Feind der Menschheit. Aber der Herr geht »mitten durch die Menge [derer] hindurch« (Lk 4,30), die ihn aufhalten wollen und setzt seinen Weg fort. Jesus kämpft nicht, um einen Raum der Macht zu festigen. Wenn er Umzäunungen niederreißt und Sicherheiten zur Diskussion stellt, dann tut er das, um eine Bresche zu öffnen für den Strom der Barmherzigkeit, den er gemeinsam mit dem Vater und dem Heiligen Geist auf die Erde gießen möchte. Eine Barmherzigkeit, die vom Guten zum Besseren fortschreitet, die etwas Neues verkündet und bringt, die heilt, befreit und ein Gnadenjahr des Herrn ausruft.
Die Barmherzigkeit unseres Gottes ist grenzenlos und unsagbar erhaben. Und die Dynamik dieses Geheimnisses drücken wir aus als eine „immer noch größere“ Barmherzigkeit, als eine Barmherzigkeit auf dem Weg, eine Barmherzigkeit, die jeden Tag nach der Möglichkeit sucht, einen Schritt voranzukommen, einen kleinen Schritt durch das Niemandsland dorthin, wo Gleichgültigkeit und Gewalt herrschten.
Das war die Dynamik des Samariters, der »barmherzig […] gehandelt hat« (Lk 10,37): Er hatte Mitleid, ging zu dem Verletzten hin, verband seine Wunden, brachte ihn in die Herberge, blieb in der Nacht dort und versprach, bei seiner Rückkehr eventuell noch anfallende Mehrkosten zu begleichen. Das ist die Dynamik der Barmherzigkeit, die eine kleine Geste mit der anderen verbindet und, ohne irgendeine Schwachheit zu beleidigen, sich in ihrer Hilfe und ihrer Liebe immer ein bisschen weiter ausstreckt. Jeder von uns kann, wenn er mit dem gütigen Blick Gottes das eigene Leben betrachtet, eine Gedächtnisübung machen und entdecken, wie der Herr uns gegenüber Barmherzigkeit hat walten lassen, wie er viel barmherziger war, als wir glaubten. Und so können wir Mut fassen ihn zu bitten, noch einen weiteren kleinen Schritt zu tun, dass er sich in Zukunft als noch viel barmherziger erweisen möge. »Erweise uns, Herr, deine Huld« (Ps 85,8). Diese in sich widersprüchliche Art, zu einem immer noch barmherzigeren Gott zu beten, hilft, jene engen Schablonen zu durchbrechen, in die wir den Überfluss seines Herzens so oft einzwängen. Es tut uns gut, aus unseren Einzäunungen hinauszutreten, denn es ist dem Herzen Gottes eigen, von Erbarmen überzulaufen, im Ausgießen seiner Zärtlichkeit überzuströmen, so dass immer etwas übrig bleibt. Denn es ist dem Herrn lieber, dass etwas verloren geht, als dass ein Tropfen fehlt; es ist ihm lieber, dass viele Samen von den Vögeln gefressen werden, als dass bei der Aussaat auch nur ein einziges Samenkorn fehlt, da alle die Fähigkeit haben, reiche Frucht zu tragen: dreißigfach, sechzigfach und bis zu hundertfach.
Als Priester sind wir Zeugen und Ausspender dieser immer noch größeren Barmherzigkeit unseres Vaters; wir haben die sanfte und Trost bringende Aufgabe, sie zu verkörpern – wie Jesus, der »umherzog, Gutes tat und alle heilte« (Apg 10,38) –, und dies in tausenderlei Art, damit sie alle erreiche. Wir können dazu beitragen, sie zu „inkulturieren“, damit jeder Mensch sie in seinem eigenen Leben empfängt und persönlich erfährt, so dass er sie verstehen und kreativ so in die Praxis umsetzen kann, wie es der besonderen Eigenart seines Volkes und seiner Familie entspricht.
Heute, an diesem Gründonnerstag des Jubiläumsjahres der Barmherzigkeit, möchte ich über zwei Bereiche sprechen, in denen der Herr sein Erbarmen im Übermaß walten lässt. Da er es ist, der uns das Beispiel gibt, müssen auch wir keine Angst haben zu übertreiben. Ein Bereich ist der der Begegnung; der andere ist der seiner Vergebung, die uns beschämt und uns Würde verleiht.
Der erste Bereich, in dem wir sehen, dass Gott eine immer noch größere Barmherzigkeit im Übermaß walten lässt, ist der Bereich der Begegnung. Er schenkt sich ganz und gar und zwar so, dass er in jeder Begegnung unmittelbar dazu übergeht, ein Fest zu feiern. Im Gleichnis vom barmherzigen Vater verblüfft uns dieser Mann, der tief bewegt seinem Sohn entgegenläuft, um ihm um den Hals zu fallen; wir sind verblüfft, wenn wir sehen, wie er ihn umarmt, ihn küsst und dafür sorgt, dass ihm der Ring an den Finger gesteckt wird, der ihm das Gefühl der Ebenbürtigkeit vermittelt, und die Sandalen angezogen werden, die ihn als Sohn kennzeichnen und nicht als Untergebenen; wenn wir dann sehen, wie er alle in Bewegung bringt und beauftragt, ein Fest zu organisieren. Wenn wir – immer neu staunend – dieses Übermaß der Freude des Vaters betrachten, dem die Rückkehr seines Sohnes erlaubt, rückhaltlos und ohne auf Distanz zu bleiben seiner Liebe freien Lauf zu lassen, dann dürfen wir keine Angst haben, in unserer Danksagung zu übertreiben. Die richtige Haltung können wir von jenem armen Aussätzigen übernehmen: Als er sieht, dass er geheilt ist, verlässt er seine neun Gefährten, die gehen, um den Auftrag Jesu zu erfüllen, und kehrt zurück, um sich dem Herrn zu Füßen zu werfen und mit lauter Stimme Gott zu loben und ihm zu danken.
Die Barmherzigkeit stellt alles wieder her und versetzt die Menschen in ihre ursprüngliche Würde zurück. Darum ist die überströmende Danksagung die richtige Antwort: Man muss sofort zum Fest schreiten, das entsprechende Gewand anziehen, den Groll des älteren Sohnes hinter sich lassen, sich freuen und feiern… Denn nur so, wenn man sich voll und ganz in diese Feststimmung begibt, kann man sich danach gründlich besinnen, kann man um Vergebung bitten und deutlicher sehen, wie man das angerichtete Übel wiedergutmachen kann. Es kann uns gut tun, uns zu fragen: Nachdem ich gebeichtet habe, feiere ich da? Oder gehe ich schnell zu anderen Dingen über – wie wenn wir nach dem Arztbesuch sehen, dass die Analysen nicht allzu schlecht ausgefallen sind, diese in ihren Umschlag zurückstecken und uns anderen Dingen zuwenden? Und wenn ich ein Almosen gebe, lasse ich dem, der es empfängt, die Zeit, seinen Dank auszudrücken, feiere ich sein Lächeln und jenen Segen, den die Armen uns spenden, oder fahre ich eilig mit meinen Angelegenheiten fort, nachdem ich „eine Münze habe fallen lassen“?
Der andere Bereich, in dem wir sehen, dass Gott eine immer noch größere Barmherzigkeit im Übermaß walten lässt, ist die Vergebung selbst. Er erlässt nicht nur unermessliche Schulden – wie dem Diener, der ihn anfleht und sich dann seinem Gefährten gegenüber als kleinlich erweist –, sondern er lässt uns von der zutiefst beschämenden Schande unmittelbar zur größten Würde übergehen, ohne Zwischenstufen. Der Herr lässt zu, dass die Sünderin, der vergeben wurde, ihm in einer familiären Vertrautheit mit ihren Tränen die Füße wäscht. Kaum gesteht Simon Petrus ihm seine Sünde und bittet ihn, auf Abstand von ihm zu gehen, schon erhebt Jesus ihn zum Menschenfischer. Wir hingegen neigen dazu, die beiden Haltungen voneinander zu trennen: Wenn wir uns der Sünde schämen, verbergen wir uns und lassen den Kopf hängen wie Adam und Eva, und wenn wir zu irgendeiner Würde erhoben worden sind, versuchen wir, die Sünden zu verbergen, und es gefällt uns, uns sehen zu lassen, uns gleichsam ins Rampenlicht zu stellen.
Unsere Antwort auf die überreiche Vergebung des Herrn müsste darin bestehen, immer in jener heilsamen Spannung zu bleiben zwischen einer würdevollen Beschämung und einer Würde, die sich zu schämen weiß – der Haltung dessen, der von sich aus danach trachtet, sich zu demütigen und zu erniedrigen, der aber fähig ist anzunehmen, dass der Herr ihn zum Wohl seiner Aufgabe erhöht, ohne deswegen persönliche Genugtuung zu empfinden. Das Vorbild, das vom Evangelium gewürdigt wird und das uns dienlich sein kann, wenn wir beichten, ist das des Petrus: Er lässt sich ausführlich über seine Liebe befragen und bekräftigt zugleich seine Bereitschaft zu dem Dienst, die Schafe zu weiden, die der Herr ihm anvertraut.
Um tiefer einzudringen in diese „Würde, die sich zu schämen weiß“ und die uns davor bewahrt, uns für mehr oder für weniger zu halten als das, was wir aus Gnade sind, kann es uns helfen zu sehen, wie der Abschnitt aus dem Buch Jesaja weitergeht, den der Herr heute in seiner Synagoge von Nazareth vorliest. Der Prophet sagt dort: »Ihr alle aber werdet „Priester des Herrn“ genannt, man sagt zu euch „Diener unseres Gottes“« (61,6). Das arme, hungrige Volk in Kriegsgefangenschaft, ohne Zukunft, ein ausgesonderter Rest – dieses Volk ist es, das der Herr in ein priesterliches Volk verwandelt.
Als Priester identifizieren wir uns mit jenem ausgesonderten Volk, das der Herr rettet, und wir erinnern uns daran, dass es unzählige Mengen armer, ungebildeter, gefangener Menschen gibt, die sich in jener Situation befinden, weil andere sie unterdrücken. Aber wir erinnern auch daran, dass jeder von uns weiß, in welchem Maß wir oft blind sind und ohne das schöne Licht des Glaubens – nicht etwa weil wir nicht das Evangelium zur Hand hätten, sondern wegen eines Übermaßes an komplizierten Theologien. Wir spüren, dass unsere Seele dahinschwindet vor Durst nach Spiritualität, aber nicht aus Mangel an „lebendigem Wasser“ – das wir nur schlückchenweise trinken –, sondern aus einem Übermaß an Formen „prickelnder“ Spiritualität, an Spiritualitäten mit dem Prädikat „light“. Wir fühlen uns auch als Gefangene, nicht – wie viele Völker – umgeben von unübersteigbaren Mauern aus Stein oder von Drahtzäunen aus Stahl, sondern von einer virtuellen Weltlichkeit, die man mit einem einfachen „mouse click“ öffnen und schließen kann. Wir sind unterdrückt, aber nicht von Drohungen und Fußtritten wie viele arme Menschen, sondern vom Reiz tausender Konsumangebote, die wir nicht abschütteln können, um frei auf den Wegen zu gehen, die uns zur Liebe führen – Liebe zu unseren Brüdern und Schwestern, zur Herde des Herrn, zu den Schafen, die auf die Stimme ihres Hirten warten.
Und Jesus kommt, um uns zu befreien, uns herauszuholen, um uns von Armen und Blinden, von Gefangenen und Unterdrückten zu verwandeln in Ausspender von Barmherzigkeit und Trost. Und mit den Worten des Propheten Ezechiel an das Volk, das sich zur Dirne gemacht und seinen Herrn schwer verraten hatte, sagt er uns: »Ich will meines Bundes gedenken, den ich mit dir in deiner Jugend geschlossen habe […] Du sollst dich an dein Verhalten erinnern und dich schämen, wenn ich deine älteren und jüngeren Schwestern nehme und sie dir zu Töchtern gebe, aber nicht deshalb, weil du den Bund gehalten hättest. Ich selbst gehe einen Bund mit dir ein, damit du erkennst, dass ich der Herr bin. Dann sollst du dich erinnern, sollst dich schämen und vor Scham nicht mehr wagen, den Mund zu öffnen, weil ich dir alles vergebe, was du getan hast – Spruch Gottes, des Herrn. « (Ez 16, 60-63).
In diesem Jubiläumsjahr feiern wir mit all der Dankbarkeit, zu der unser Herz fähig ist, unseren himmlischen Vater und bitten ihn, dass er „immer an sein Erbarmen denke“. Mit der Würde, die sich zu schämen weiß, nehmen wir die Barmherzigkeit im verwundeten Leib unseres Herrn Jesus Christus an und bitten ihn, uns von jeder Sünde reinzuwaschen und von allem Bösen zu befreien. Und mit der Gnade des Heiligen Geistes setzen wir uns ein, die Barmherzigkeit Gottes an alle Menschen weiterzugeben, indem wir die Werke tun, die der Geist in jedem Einzelnen anregt, zum gemeinsamen Wohl des gesamten gläubigen Gottesvolkes.
[00458-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Después de la lectura del pasaje de Isaías, al escuchar en labios de Jesús las palabras: «Hoy mismo se ha cumplido esto que acaban de oír», bien podría haber estallado un aplauso en la Sinagoga de Nazaret. Y luego podrían haber llorado mansamente, con íntima alegría, como lloraba el pueblo cuando Nehemías y el sacerdote Esdras le leían el libro de la Ley que habían encontrado reconstruyendo el muro. Pero los evangelios nos dicen que hubo sentimientos encontrados en los paisanos de Jesús: le pusieron distancia y le cerraron el corazón. Primero, «todos hablaban bien de él, se maravillaban de las palabras llenas de gracia que salían de su boca» (Lc 4,22); pero después, una pregunta insidiosa fue ganando espacio: «¿No es este el hijo de José, el carpintero?». Y al final: «Se llenaron de ira» (Lc 4,28). Lo querían despeñar... Se cumplía así lo que el anciano Simeón le había profetizado a nuestra Señora: «Será bandera discutida» (Lc 2,34). Jesús, con sus palabras y sus gestos, hace que se muestre lo que cada hombre y mujer tiene en su corazón.
Y allí donde el Señor anuncia el evangelio de la Misericordia incondicional del Padre para con los más pobres, los más alejados y oprimidos, allí precisamente somos interpelados a optar, a «combatir el buen combate de la Fe» (1 Tm 6,12). La lucha del Señor no es contra los hombres sino contra el demonio (cf. Ef 6,12), enemigo de la humanidad. Pero el Señor «pasa en medio» de los que buscan detenerlo «y sigue su camino» (Lc 4,30). Jesús no confronta para consolidar un espacio de poder. Si rompe cercos y cuestiona seguridades es para abrir una brecha al torrente de la Misericordia que, con el Padre y el Espíritu, desea derramar sobre la tierra. Una Misericordia que procede de bien en mejor: anuncia y trae algo nuevo: cura, libera y proclama el año de gracia del Señor.
La Misericordia de nuestro Dios es infinita e inefable y expresamos el dinamismo de este misterio como una Misericordia «siempre más grande», una Misericordia en camino, una Misericordia que cada día busca el modo de dar un paso adelante, un pasito más allá, avanzando sobre las tierras de nadie, en las que reinaba la indiferencia y la violencia.
Y así fue la dinámica del buen Samaritano que «practicó la misericordia» (Lc 10,37): se conmovió, se acercó al herido, vendó sus heridas, lo llevó a la posada, se quedó esa noche y prometió volver a pagar lo que se gastara de más. Esta es la dinámica de la Misericordia, que enlaza un pequeño gesto con otro, y sin maltratar ninguna fragilidad, se extiende un poquito más en la ayuda y el amor. Cada uno de nosotros, mirando su propia vida con la mirada buena de Dios, puede hacer un ejercicio con la memoria y descubrir cómo ha practicado el Señor su misericordia para con nosotros, cómo ha sido mucho más misericordioso de lo que creíamos y, así, animarnos a desear y a pedirle que dé un pasito más, que se muestre mucho más misericordioso en el futuro. «Muéstranos Señor tu misericordia» (Sal 85,8). Esta manera paradójica de rezar a un Dios siempre más misericordioso ayuda a romper esos moldes estrechos en los que tantas veces encasillamos la sobreabundancia de su Corazón. Nos hace bien salir de nuestros encierros, porque lo propio del Corazón de Dios es desbordarse de misericordia, desparramarse, derrochando su ternura, de manera tal que siempre sobre, ya que el Señor prefiere que se pierda algo antes de que falte una gota, que muchas semillas se la coman los pájaros antes de que se deje de sembrar una sola, ya que todas son capaces de portar fruto abundante, el 30, el 60 y hasta el ciento por uno.
Como sacerdotes, somos testigos y ministros de la Misericordia siempre más grande de nuestro Padre; tenemos la dulce y confortadora tarea de encarnarla, como hizo Jesús, que «pasó haciendo el bien» (Hch 10,38), de mil maneras, para que llegue a todos. Nosotros podemos contribuir a inculturarla, a fin de que cada persona la reciba en su propia experiencia de vida y así la pueda entender y practicar —creativamente— en el modo de ser propio de su pueblo y de su familia.
Hoy, en este Jueves Santo del Año Jubilar de la Misericordia, quisiera hablar de dos ámbitos en los que el Señor se excede en su Misericordia. Dado que es él quien nos da ejemplo, no tenemos que tener miedo a excedernos nosotros también: un ámbito es el del encuentro; el otro, el de su perdón que nos avergüenza y dignifica.
El primer ámbito en el que vemos que Dios se excede en una Misericordia siempre más grande, es en el encuentro. Él se da todo y de manera tal que, en todo encuentro, directamente pasa a celebrar una fiesta. En la parábola del Padre Misericordioso quedamos pasmados ante ese hombre que corre, conmovido, a echarse al cuello de su hijo; cómo lo abraza y lo besa y se preocupa de ponerle el anillo que lo hace sentir como igual, y las sandalias del que es hijo y no empleado; y luego, cómo pone a todos en movimiento y manda organizar una fiesta. Al contemplar siempre maravillados este derroche de alegría del Padre, a quien el regreso de su hijo le permite expresar su amor libremente, sin resistencias ni distancias, nosotros no debemos tener miedo a exagerar en nuestro agradecimiento. La actitud podemos tomarla de aquel pobre leproso, que al sentirse curado, deja a sus nueve compañeros que van a cumplir lo que les mandó Jesús y vuelve a arrodillarse a los pies del Señor, glorificando y dando gracias a Dios a grandes voces.
La misericordia restaura todo y devuelve a las personas a su dignidad original. Por eso, el agradecimiento efusivo es la respuesta adecuada: hay que entrar rápido en la fiesta, ponerse el vestido, sacarse los enojos del hijo mayor, alegrarse y festejar... Porque sólo así, participando plenamente en ese ámbito de celebración, uno puede después pensar bien, uno puede pedir perdón y ver más claramente cómo podrá reparar el mal que hizo. Puede hacernos bien preguntarnos: Después de confesarme, ¿festejo? O paso rápido a otra cosa, como cuando después de ir al médico, uno ve que los análisis no dieron tan mal y los mete en el sobre y pasa a otra cosa. Y cuando doy una limosna, ¿le doy tiempo al otro a que me exprese su agradecimiento y festejo su sonrisa y esas bendiciones que nos dan los pobres, o sigo apurado con mis cosas después de «dejar caer la moneda»?
El otro ámbito en el que vemos que Dios se excede en una Misericordia siempre más grande, es el perdón mismo. No sólo perdona deudas incalculables, como al siervo que le suplica y que luego se mostrará mezquino con su compañero, sino que nos hace pasar directamente de Ia vergüenza más vergonzante a la dignidad más alta sin pasos intermedios. El Señor deja que la pecadora perdonada le lave familiarmente los pies con sus lágrimas. Apenas Simón Pedro le confiesa su pecado y le pide que se aleje, Él lo eleva a la dignidad de pescador de hombres. Nosotros, en cambio, tendemos a separar ambas actitudes: cuando nos avergonzamos del pecado, nos escondemos y andamos con la cabeza gacha, como Adán y Eva, y cuando somos elevados a alguna dignidad tratamos de tapar los pecados y nos gusta hacernos ver, casi pavonearnos.
Nuestra respuesta al perdón excesivo del Señor debería consistir en mantenernos siempre en esa tensión sana entre una digna vergüenza y una avergonzada dignidad: actitud de quien por sí mismo busca humillarse y abajarse, pero es capaz de aceptar que el Señor lo ensalce en bien de la misión, sin creérselo. El modelo que el Evangelio consagra, y que puede servirnos cuando nos confesamos, es el de Pedro, que se deja interrogar prolijamente sobre su amor y, al mismo tiempo, renueva su aceptación del ministerio de pastorear las ovejas que el Señor le confía.
Para entrar más hondo en esta avergonzada dignidad, que nos salva de creernos, más o menos, de lo que somos por gracia, nos puede ayudar ver cómo en el pasaje de Isaías que el Señor lee hoy en su Sinagoga de Nazaret, el Profeta continúa diciendo: «Ustedes serán llamados sacerdotes del Señor, ministros de nuestro Dios» (Is 61,6). Es el pueblo pobre, hambreado, prisionero de guerra, sin futuro, sobrante y descartado, a quien el Señor convierte en pueblo sacerdotal.
Como sacerdotes, nos identificamos con ese pueblo descartado, al que el Señor salva y recordamos que hay multitudes incontables de personas pobres, ignorantes, prisioneras, que se encuentran en esa situación porque otros los oprimen. Pero también recordamos que cada uno de nosotros conoce en qué medida, tantas veces estamos ciegos de la luz linda de la fe, no por no tener a mano el evangelio sino por exceso de teologías complicadas. Sentimos que nuestra alma anda sedienta de espiritualidad, pero no por falta de Agua Viva —que bebemos sólo en sorbos—, sino por exceso de espiritualidades «gaseosas», de espiritualidades light. También nos sentimos prisioneros, pero no rodeados como tantos pueblos, por infranqueables muros de piedra o de alambrados de acero, sino por una mundanidad virtual que se abre o cierra con un simple click. Estamos oprimidos pero no por amenazas ni empujones, como tanta pobre gente, sino por la fascinación de mil propuestas de consumo que no nos podemos quitar de encima para caminar, libres, por los senderos que nos llevan al amor de nuestros hermanos, a los rebaños del Señor, a Ias ovejitas que esperan la voz de sus pastores.
Y Jesús viene a rescatarnos, a hacernos salir, para convertirnos de pobres y ciegos, de cautivos y oprimidos. en ministros de misericordia y consolación. Y nos dice, con las palabras del profeta Ezequiel al pueblo que se prostituyó y traicionó tanto a su Señor: «Yo me acordaré de la alianza que hice contigo cuando eras joven... Y tú te acordarás de tu conducta y te avergonzarás de ella, cuando recibas a tus hermanas, las mayores y las menores, y yo te las daré como hijas, si bien no en virtud de tu alianza. Yo mismo restableceré mi alianza contigo, y sabrás que yo soy el Señor. Así, cuando te haya perdonado todo lo que has hecho, te acordarás y te avergonzarás, y la vergüenza ya no te dejará volver a abrir la boca —oráculo del Señor—» (Ez 16,60-63).
En este Año Santo Jubilar, celebramos con todo el agradecimiento de que sea capaz nuestro corazón, a nuestro Padre, y le rogamos que "se acuerde siempre de su Misericordia"; recibimos con avergonzada dignidad Ia Misericordia en Ia carne herida de nuestro Señor Jesucristo y le pedimos que nos lave de todo pecado y nos libre de todo mal; y con la gracia del Espíritu Santo nos comprometemos a comunicar la Misericordia de Dios a todos los hombres, practicando Ias obras que el Espíritu suscita en cada uno para el bien común de todo el pueblo fiel de Dios.
[00458-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Na sinagoga de Nazaré, ao escutarem dos lábios de Jesus – depois que Ele leu o trecho de Isaías – as palavras «cumpriu-se hoje mesmo este passo da Escritura que acabais de ouvir» (Lc 4, 21), poderia muito bem ter irrompido uma salva de palmas; em seguida, com íntima alegria, teriam podido chorar suavemente como chorava o povo quando Neemias e o sacerdote Esdras liam o livro da Lei, que tinham encontrado ao reconstruir as muralhas. Mas os Evangelhos dizem-nos que os sentimentos surgidos nos conterrâneos de Jesus situavam-se no lado oposto: afastaram-No e fecharam-Lhe o coração. Ao princípio, «todos davam testemunho em seu favor e se admiravam com as palavras repletas de graça que saíam da sua boca» (Lc 4, 22); mas depois uma pergunta insidiosa começou a circular entre eles: «Não é este o filho de José, o carpinteiro?» E, por fim, «encheram-se de furor» (Lc 4, 28); queriam precipitá-Lo do cimo do penhasco... Cumpria-se assim aquilo que o velho Simeão profetizara a Nossa Senhora: será «sinal de contradição» (Lc 2, 34). Com as suas palavras e os seus gestos, Jesus faz com que se revele aquilo que cada homem e mulher traz no coração.
E precisamente onde o Senhor anuncia o evangelho da Misericórdia incondicional do Pai para com os mais pobres, os mais marginalizados e oprimidos, aí somos chamados a escolher, a «combater o bom combate da fé» (1 Tim 6, 12). A luta do Senhor não é contra os seres humanos, mas contra o demónio (cf. Ef 6, 12), inimigo da humanidade. Assim o Senhor, «passando pelo meio» daqueles que queriam liquidá-Lo, «seguiu o seu caminho» (cf. Lc 4, 30). Jesus não combate para consolidar um espaço de poder. Se destrói recintos e põe as seguranças em questão, é para abrir uma brecha à torrente da Misericórdia que deseja, com o Pai e o Espírito, derramar sobre a terra. Uma Misericórdia que move de bem para melhor, anuncia e traz algo de novo: cura, liberta e proclama o ano de graça do Senhor.
A Misericórdia do nosso Deus é infinita e inefável; e expressamos o dinamismo deste mistério como uma Misericórdia «sempre maior», uma Misericórdia em caminho, uma Misericórdia que todos os dias procura fazer avançar um passo, um pequeno passo mais além, avançando na terra de ninguém, onde reinavam a indiferença e a violência.
Foi esta a dinâmica do bom Samaritano, que «usou de misericórdia» (cf. Lc 10, 37): comoveu-se, aproximou-se do ferido, faixou as suas feridas, levou-o para a pousada, pernoitou e prometeu voltar para pagar o que tivessem gasto a mais. Esta é a dinâmica da Misericórdia, que encadeia um pequeno gesto noutro e, sem ofender nenhuma fragilidade, vai-se alargando aos poucos na ajuda e no amor. Cada um de nós, contemplando a própria vida com o olhar bom de Deus, pode fazer um exercício de memória descobrindo como o Senhor usou de misericórdia para connosco, como foi muito mais misericordioso do que pensávamos, e assim encorajar-nos a pedir-Lhe que faça um pequeno passo mais, que Se mostre muito mais misericordioso no futuro. «Mostrai-nos, Senhor, a vossa misericórdia» (Sal 85/84, 8). Esta forma paradoxal de suplicar um Deus sempre mais misericordioso ajuda a romper aqueles esquemas estreitos onde muitas vezes acomodamos a superabundância do seu Coração. Faz-nos bem sair dos nossos recintos, porque é próprio do coração de Deus transbordar de misericórdia, inundar, espalhando de tal modo a sua ternura que sempre abunde, porque o Senhor prefere ver alguma coisa desperdiçada antes que faltar uma gota, prefere que muitas sementes acabem comidas pelas aves em vez de faltar à sementeira uma única semente, visto que todas têm a capacidade de dar fruto abundante, ora 30, ora 60, e até mesmo 100 por uma.
Como sacerdotes, somos testemunhas e ministros da Misericórdia cada vez maior do nosso Pai; temos a doce e reconfortante tarefa de a encarnar como fez Jesus que «andou de lugar em lugar, fazendo o bem e curando» (At 10, 38), de mil e uma maneiras, para que chegue a todos. Podemos contribuir para inculturá-la, a fim de que cada pessoa a receba na sua experiência pessoal de vida e possa, assim, compreendê-la e praticá-la – de forma criativa – no modo de ser próprio do seu povo e da sua família.
Hoje, nesta Quinta-feira Santa do Ano Jubilar da Misericórdia, gostaria de falar de dois âmbitos onde o Senhor Se excede na sua misericórdia. E, uma vez que é Ele quem dá o exemplo, não devemos ter medo de nos excedermos nós também: um âmbito é o do encontro; o outro, o do seu perdão que nos faz envergonhar e nos dá dignidade.
O primeiro âmbito onde vemos que Deus Se excede numa Misericórdia cada vez maior, é o do encontro. Ele dá-Se totalmente e de um modo tal que, em cada encontro, passa diretamente à celebração duma festa. Na parábola do Pai Misericordioso, ficamos estupefactos ao ver aquele homem que corre, comovido, a lançar-se ao pescoço de seu filho; vendo como o abraça e beija e se preocupa por lhe pôr o anel que o faz sentir-se igual, e as sandálias próprias de quem é filho e não um assalariado; e como, em seguida, põe tudo em movimento, mandando que se organize uma festa. Ao contemplarmos, sempre maravilhados, esta superabundância de alegria do Pai, a quem o regresso do filho consente de expressar livremente o seu amor, sem hesitações nem distâncias, não devemos ter medo de exagerar no nosso agradecimento. A justa atitude, podemos apreendê-la daquele pobre leproso que, vendo-se curado, deixa os seus nove companheiros que vão cumprir o que ordenou Jesus e regressa para se ajoelhar aos pés do Senhor, glorificando e dando graças a Deus em alta voz.
A misericórdia restaura tudo e restitui as pessoas à sua dignidade originária. Por isso, a justa resposta é uma efusiva gratidão: é preciso iniciar imediatamente a festa, vestir o traje, eliminar os ressentimentos do filho mais velho, alegrar-se e festejar... Porque só assim, participando plenamente naquele clima festivo, será possível depois pensar bem, pedir perdão e ver mais claramente como se pode reparar o mal cometido. Pode fazer-nos bem questionarmo-nos: depois de me ter confessado, festejo? Ou passo rapidamente para outra coisa, como quando, depois de ter ido ao médico, vemos que as análises não deram um resultado assim tão ruim e fechamo-las de novo no envelope, e passamos a outra coisa. E, quando dou esmola, deixo tempo a quem a recebe para expressar o seu agradecimento, festejo o seu sorriso e aquelas bênçãos que nos dão os pobres, ou continuo apressado com as minhas coisas depois de «ter deixado cair a moeda»?
O outro âmbito onde vemos que Deus excede numa Misericórdia cada vez maior, é o próprio perdão. Não só perdoa dívidas incalculáveis, como fez com o servo que lhe suplica e, em seguida, se mostra mesquinho com o seu companheiro, mas faz-nos passar diretamente da vergonha mais envergonhada para a dignidade mais alta, sem qualquer etapa intermédia. O Senhor deixa que a pecadora perdoada Lhe lave, familiarmente, os pés com as suas lágrimas. Logo que Simão Pedro se confessa pecador pedindo-Lhe para Se afastar dele, Jesus eleva-o à dignidade de pescador de homens. Nós, ao contrário, tendemos a separar as duas atitudes: quando nos envergonhamos do pecado, escondemo-nos e caminhamos com os olhos em terra, como Adão e Eva, e, quando somos elevados a qualquer dignidade, procuramos cobrir os pecados e gostamos de nos mostrar, de quase nos pavonearmos.
A nossa resposta ao perdão superabundante do Senhor deveria consistir em manter-nos sempre naquela saudável tensão entre uma vergonha dignificante e uma dignidade que sabe envergonhar-se: atitude de quem procura, por si mesmo, humilhar-se e abaixar-se, mas é capaz de aceitar que o Senhor o eleve para benefício da missão, sem se comprazer. O modelo que o Evangelho consagra e nos pode ser útil quando nos confessamos é o de Pedro, que se deixa interrogar longamente sobre o seu amor e, ao mesmo tempo, renova a sua aceitação do ministério de apascentar as ovelhas que o Senhor lhe confia.
Para entrar mais profundamente nesta «dignidade que sabe envergonhar-se», que nos salva de nos crermos mais ou menos do que somos por graça, pode-nos ajudar ver que – na passagem de Isaías, que o Senhor lê hoje na sua sinagoga de Nazaré – o profeta continua dizendo: «E vós sereis chamados “sacerdotes do Senhor”, e nomeados “ministros do nosso Deus”» (61, 6). É o povo pobre, faminto, prisioneiro de guerra, sem futuro, um resto descartado, que o Senhor transforma em povo sacerdotal.
Nós, como sacerdotes, identifiquemo-nos com aquele povo descartado, que o Senhor salva, e lembremo-nos de que existem multidões inumeráveis de pessoas pobres, ignorantes, prisioneiras, que estão naquela situação porque outros as oprimem. Mas lembremo-nos também de que cada um de nós sabe em que medida tantas vezes somos cegos, estamos privados da luz maravilhosa da fé, e não porque nos falte o Evangelho ao alcance da mão, mas por um excesso de teologias complicadas. Sentimos que a nossa alma morre sedenta de espiritualidade, e não por falta de Água Viva – que nos limitamos a sorver aos goles – mas por um excesso de espiritualidades sem compromisso, espiritualidades superficiais. Sentimo-nos também prisioneiros, não cercados – como tantos povos – por muros intransponíveis de pedra ou barreiras de aço, mas por um mundanismo virtual que se abre e fecha com um simples clique. Somos oprimidos, não por ameaças e empurrões, como muitas pessoas pobres, mas pelo fascínio de mil e uma propostas de consumo a que não conseguimos renunciar para caminhar, livres, pelas sendas que nos conduzem ao amor dos nossos irmãos, ao rebanho do Senhor, às ovelhas que aguardam pela voz dos seus pastores.
E Jesus vem resgatar-nos, fazer-nos sair, para nos transformar de pobres e cegos, de prisioneiros e oprimidos em ministros de misericórdia e consolação. Diz-nos Ele, com as palavras do profeta Ezequiel ao povo que se prostituíra, traindo gravemente o seu Senhor: «Eu lembrar-Me-ei da minha aliança que fiz contigo no tempo da tua juventude (…). Ao recordares a tua conduta, sentirás vergonha, quando receberes as tuas irmãs, as que são mais velhas e as que são mais novas do que tu, pois Eu dou-tas como filhas, mas não em virtude da tua aliança. Porque Eu estabelecerei contigo a minha aliança e, então, saberás que Eu sou o Senhor, a fim de que te lembres de Mim e sintas vergonha, não abras mais a boca no meio da tua confusão, quando Eu te perdoar tudo o que fizeste – oráculo do Senhor Deus» (Ez 16, 60-63).
Neste Ano Jubilar, celebremos, com toda a gratidão de que seja capaz o nosso coração, o nosso Pai e supliquemos-Lhe que «Se recorde sempre da sua Misericórdia»; recebamos, com aquela dignidade que sabe envergonhar-se, a Misericórdia na carne ferida de nosso Senhor Jesus Cristo, e peçamos-Lhe que nos lave de todo o pecado e livre de todo o mal; e, com a graça do Espírito Santo, comprometamo-nos a comunicar a Misericórdia de Deus a todos os homens, praticando as obras que o Espírito suscita em cada um para o bem comum de todo o povo fiel de Deus.
[00458-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Słysząc w ustach Jezusa słowa Izajasza: „Dziś spełniły się te słowa Pisma, któreście słyszeli” (Łk 4,21), w synagodze w Nazarecie można by oczekiwać wybuchu aplauzu. Mógłby też pojawić się cichy płacz, z głęboką radością, jak wówczas, kiedy płakał lud, gdy Nehemiasz i kapłan Ezdrasz czytali księgę Prawa, którą odkryli odbudowując mury Jerozolimy. Ale Ewangelie mówią nam, że wśród rodaków Jezusa zrodziły się uczucia przeciwne: wyrzucili Go z miasta i zamknęli swoje serca. Początkowo „wszyscy przyświadczali Mu i dziwili się pełnym wdzięku słowom, które płynęły z ust Jego” (Łk 4,22); ale później coraz bardziej powszechne stało się podstępne pytanie: „Czy nie jest to syn Józefa?”. I wreszcie: „wszyscy w synagodze unieśli się gniewem” (Łk 4,28). Chcieli Go strącić z urwiska ... Tak wypełniło się to, co starzec Symeon przepowiedział Matce Bożej: będzie „znakiem, któremu sprzeciwiać się będą” (Łk 2,34). Jezus swoimi słowami i gestami sprawia, że objawia się to, co każdy mężczyzna i każda kobieta nosi w swoim sercu.
A tam, gdzie Pan głosi Ewangelię bezwarunkowego miłosierdzia Ojca wobec najuboższych, najbardziej oddalonych i uciskanych, właśnie tam jesteśmy wezwani do walki „w dobrych zawodach o wiarę” (1 Tm 6,12). Walka Pana nie jest walką przeciwko ludziom, ale przeciwko diabłu (por. Ef 6,12), wrogowi rodzaju ludzkiego. Jednakże Pan „przechodzi pośród” tych, którzy próbują Go powstrzymać „i kontynuuje swoją drogę” (por. Łk 4,30). Jezus nie walczy o umocnienie przestrzeni władzy. Jeśli łamie ogrodzenia i poddaje w wątpliwość zabezpieczenia, to czyni to, aby otworzyć wyłom dla potoku Miłosierdzia, który wraz z Ojcem i Duchem, pragnie wylać na ziemię. Miłosierdzia, które przechodzi od dobrego ku lepszemu: ogłasza i przynosi coś nowego: leczy, wyzwala i obwieszcza rok łaski od Pana.
Miłosierdzie naszego Boga jest nieskończone i niezwykłe. Wyrażamy dynamizm tej tajemnicy jako miłosierdzie „coraz większe”, czyli Miłosierdzie w drodze, Miłosierdzie, które każdego dnia stara się znaleźć sposoby, aby uczynić krok do przodu, mały krok naprzód na ziemi niczyjej, gdzie panowały obojętność i przemoc.
Ten dynamizm cechował Miłosiernego Samarytanina, który „czynił miłosierdzie” (por. Łk 10,37): wzruszył się, podszedł do poranionego, opatrzył mu rany, zabrał go do gospody, zatrzymał się tej nocy i obiecał, że wracając zapłaci, gdyby trzeba było coś więcej wydać. To jest dynamika Miłosierdzia, które wiąże mały gest z innym, i nie urażając wszelkiej kruchości rozszerza się nieco bardziej w pomocy i miłości. Każdy z nas, patrząc na swoje własne życie dobrym spojrzeniem Boga, może sięgnąć pamięcią i odkryć jak Pan okazał nam miłosierdzie, że był znacznie bardziej miłosierny niż myśleliśmy, zachęcając siebie, byśmy Go prosili o dokonanie jeszcze jednego kroku, aby w przyszłości okazał się jeszcze bardziej miłosierny: „Okaż nam, Panie, swoją łaskawość” (Ps 85,8). Ten paradoksalny sposób modlitwy do Boga coraz bardziej miłosiernego pomaga rozbić te wąskie systemy, w których wielokrotnie szufladkujemy niezwykłą obfitość Jego Serca. Dobrze, abyśmy wyszli z naszych ograniczeń, bowiem właściwością Serca Bożego jest przeobfitość miłosierdzia, wykraczającego poza brzegi, rozlewającego Jego czułość, w taki sposób, że zawsze jej zbywa, ponieważ Pan woli, aby coś się zatraciło, niż gdyby miało zabraknąć jednej kropli, woli aby wiele ziaren wydziobały ptaki, niż aby glebie zabrakło choćby jednego ziarna, ponieważ każde może przynieść plon obfity, trzydziesto-, sześćdziesięcio-, a nawet stokrotny.
Jako kapłani jesteśmy świadkami i szafarzami coraz większego Miłosierdzia naszego Ojca. Posiadamy słodkie i pocieszające zadanie ucieleśniania go, podobnie jak Jezus, który „przeszedł dobrze czyniąc i uzdrawiając” (Dz 10,38), na tysiąc sposobów, aby mogło dotrzeć do każdego człowieka. Możemy pomóc w jego inkulturacji, aby każda osoba otrzymała je w swoim własnym osobistym doświadczeniu życiowym i mogła je w ten sposób twórczo zrozumieć i czynić, w sposób bycia właściwy Jego ludowi i Jego rodzinie.
Dzisiaj, w Wielki Czwartek Roku Jubileuszowego Miłosierdzia chciałbym powiedzieć o dwóch obszarach, w których Pan przewyższa w Swoim miłosierdziu. Ponieważ to On daje nam przykład, nie powinniśmy się bać, abyśmy i my także przewyższali: jednym obszarem jest spotkanie; drugim zaś jest Jego przebaczenie, które nas zawstydza i obdarza godnością.
Pierwszym obszarem, w którym widzimy, że Bóg przewyższa w coraz większym miłosierdziu jest dziedzina spotkania. Daje się On całkowicie i w taki sposób, że natychmiast przechodzi do sprawowania uczty. W przypowieści o miłosiernym Ojcu jesteśmy oszołomieni w obliczu tego człowieka, który wzruszony biegnie, aby rzucić się na szyję swego syna; widząc, jak go obejmuje i całuje, dbając o to, aby nałożyć mu pierścień, który sprawia, że czuje się równym i sandały, właściwe temu który jest synem a nie pracownikiem; a następnie, jak wszystkich mobilizuje i każe wyprawić ucztę. Kontemplując nieustannie w zdumieniu tę przeobfitość radości Ojca, któremu powrót syna pozwala na swobodne wyrażenie swojej miłości, bez oporów czy dystansu, nie powinniśmy się lękać przesady w naszym dziękczynieniu. Właściwej postawy możemy nauczyć się od owego biednego trędowatego, który widząc, że został uzdrowiony, zostawia swoich dziewięciu towarzyszy, którzy idą uczynić to, co nakazuje Jezus i wraca, by uklęknąć przed Panem, chwaląc i dziękując Bogu donośnym głosem.
Miłosierdzie wszystko odbudowuje i przywraca osoby do ich pierwotnej godności. Dlatego właściwą odpowiedzią jest wylewna wdzięczność: trzeba natychmiast rozpocząć ucztę, ubrać szatę, usunąć żale starszego syna, radować się i świętować ... Bo tylko w ten sposób, w pełni uczestnicząc w klimacie uroczystości, można dobrze myśleć, można prosić o przebaczenie i widzieć jaśniej, jak naprawić popełnione zło. Warto, abyśmy postawili sobie pytanie: czy świętuję po wyspowiadaniu się? Czy może szybko przechodzę do czegoś innego, jak po wizycie u lekarza, gdy widzimy, że analizy nie wypadły całkiem źle, zamykamy je w kopercie i myślimy o czymś innym. Czy też kiedy czynię jałmużnę, poświęcam czas temu, kto ją otrzymuje, by wyrazić swoje podziękowanie, świętuję jego uśmiech i te błogosławieństwa jakimi obdarzają nas ubodzy, czy też kontynuuję pospiesznie moje sprawy, „rzuciwszy monetę”?
Innym obszarem, w którym widzimy, że Bóg przewyższa w coraz większym Miłosierdziu jest samo przebaczenie. Nie tylko odpuszcza nieobliczalne długi, jak słudze, który Go błaga, a następnie okazuje się małostkowym wobec swego współtowarzysza, ale sprawia, że przechodzimy wprost od najbardziej haniebnej niesławy do najwyższej godności, bez etapów pośrednich. Pan pozwala, aby grzesznica, której odpuścił grzech swoimi łzami obmyła mu z zażyłością nogi swoimi łzami. Skoro tylko Szymon Piotr wyznał Jemu swój grzech i poprosił, aby od niego odszedł, On go wyniósł do godności rybaka ludzi. Natomiast my mamy skłonność do oddzielania dwóch postaw: kiedy jesteśmy zawstydzeni grzechem, chowamy się i odchodzimy z opuszczoną głową, jak Adam i Ewa, a kiedy jesteśmy wyniesieni do jakiejś godności staramy się ukryć nasze grzechy i lubimy, aby nas podziano, jakby się pusząc.
Naszą odpowiedzią na przeobfite przebaczenie Pana powinno być zawsze zachowanie owego zdrowego napięcia pomiędzy godnym wstydem a godnością, która potrafi się wstydzić: postawa kogoś, kto sam z siebie stara się upokorzyć i uniżyć, ale jest zdolny do zaakceptowania, aby Pan go wyniósł dla dobra misji, unikając samozadowolenia z tego powodu. Wzór jaki uświęca Ewangelia i który może nam się przydać, gdy się spowiadamy, to przykład Piotra, który pozwala, by Pan Jezus długo pytał go o jego miłość, a jedocześnie ponawia swoją akceptację misji pasienia owiec, które powierza mu Pan.
W owym wejściu głębiej w tę „godność, która potrafi się wstydzić”, ocalającą nas od uważania siebie za więcej lub mniej, niż to, czym jesteśmy przez łaskę, może nam dopomóc dostrzeżenie, że we fragmencie, który z proroka Izajasza czyta dziś Pan w synagodze w Nazarecie, prorok mówi dalej: „Wy zaś będziecie nazywani kapłanami Pana, mienić was będą sługami Boga naszego” (61,6). Jest to lud biedny, wygłodniały, zniewolony na skutek wojny, bez przyszłości, będący resztą i odrzucony, który Pan przemienia w lud kapłański.
Jako kapłani utożsamiamy się z tym odrzuconym ludem, ocalonym przez Pana i przypominamy sobie, że są niezliczone rzesze ubogich, niewykształconych, więźniów, którzy są w takiej sytuacji, ponieważ inni ich uciskają. Ale pamiętajmy także, iż każdy z nas wie, ile razy jesteśmy ślepi, pozbawieni pięknego światła wiary, nie dlatego, że nie mamy Ewangelii w zasięgu ręki, ale z powodu nadmiaru skomplikowanych teologii. Odczuwamy, że nasza dusza jest w końcu spragniona duchowości, ale nie z powodu braku wody żywej, popijanej tylko łykami, ale przez nadmiar duchowości „musującej” duchowości w wersji „light”. Czujemy się też uwięzieni, nie jak wiele narodów przez nie do przebycia mury kamienne czy ogrodzenia stalowe, ale przez światowość wirtualną, która się otwiera i zamyka za pomocą jednego kliknięcia. Jesteśmy uciskani, ale nie przez zagrożenia i mocne popchnięcia, jak wielu biednych ludzi, ale przez urok tysiąca propozycji konsumpcji, z których nie możemy się otrząsnąć, aby podążać jako ludzie wolni drogami prowadzącymi nas ku miłości naszych braci, do owczarni Pańskiej, do owiec oczekujących na głos ich pasterzy.
A Jezus przychodzi, aby nas ocalić, aby nas wyprowadzić, aby nas przemienić z biednych i ślepych, z więźniów i uciśnionych w szafarzy miłosierdzia i pocieszenia. I mówi nam, posługując się słowami proroka Ezechiela skierowanymi do ludu, którzy uprawiał nierząd i poważnie zdradził swego Pana: „Ja jednak wspomnę na przymierze, które z tobą zawarłem za dni twojej młodości, [...] Ty zaś ze swej strony wspomnisz na swoje postępowanie i zawstydzisz się, kiedy przyjąwszy siostry twoje tak starsze, jak młodsze od ciebie, dam ci je za córki w myśl zawartego z tobą przymierza. Odnowię bowiem moje przymierze z tobą i poznasz, że Ja jestem Pan, abyś pamiętała i wstydziła się, i abyś ze wstydu ust swoich nie otwarła wówczas, gdy ci przebaczę wszystko, coś uczyniła» - wyrocznia Pana Boga” (Ez 16,60-63).
W tym Roku Jubileuszowym, z całą wdzięcznością, do jakiej jest zdolne nasze serce, oddajemy cześć naszemu Ojcu, i prosimy Go, aby „zawsze pamiętał o swym miłosierdziu”. Przyjmijmy z godnością, która potrafi się zawstydzić Miłosierdzie w zranionym ciele naszego Pana Jezusa Chrystusa, i prośmy Go, aby nas obmył z wszelkiego grzechu i uwolnił nas od wszelkiego zła. Oraz z łaską Ducha Świętego podejmijmy trud przekazania Bożego miłosierdzia wszystkim ludziom, wypełniając dzieła, które Duch wzbudza w każdym dla dobra wspólnego całego wiernego ludu Bożego.
[00458-PL.01] [Testo originale: Italiano]
[B0211-XX.02]