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Udienza ai partecipanti al Congresso Mondiale promosso dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (degli Istituti di Studi) (Roma, 18-21 novembre 2015), 21.11.2015


Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti al Congresso Mondiale Educare oggi e domani. Una passione che si rinnova (Roma, 18-21 novembre 2015), promosso dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (degli Istituti di Studi) per commemorare il 50° anniversario di Gravissimum educationis (Dichiarazione del Concilio Vaticano II sull’educazione cristiana) ed il 25° di Ex corde Ecclesiae (Costituzione Apostolica sulle università cattoliche).

Nel corso dell’incontro si sono alternate diverse testimonianze da scuole e università cattoliche del mondo, quindi il Santo Padre ha risposto a braccio a tre domande rivoltegli da un dirigente scolastico, da un religioso docente universitario e da una religiosa preside di Facoltà.

Pubblichiamo di seguito la trascrizione delle domande e delle risposte di Papa Francesco:

Dialogo con il Santo Padre

Prof. Roberto Zappalà, dirigente scolastico dell’Istituto Gonzaga di Milano

Le istituzioni educative cattoliche sono presenti in una grande diversità di nazioni e contesti: nazioni più ricche, nazioni in via di sviluppo, nelle città, nelle zone rurali, in nazioni a maggioranza cattolica e in Paesi in cui il cattolicesimo invece è una minoranza. In questa grande varietà di situazioni, che cosa, secondo Lei, fa sì che una istituzione sia veramente cristiana?

Papa Francesco

Anche noi cristiani siamo in minoranza. E mi viene in mente quello che ha detto un grande pensatore: “Educare è introdurre nella totalità della verità”. Non si può parlare di educazione cattolica senza parlare di umanità, perché precisamente l’identità cattolica è Dio che si è fatto uomo. Andare avanti negli atteggiamenti, nei valori umani, pieni, apre la porta al seme cristiano. Poi viene la fede. Educare cristianamente non è soltanto fare una catechesi: questa è una parte. Non è soltanto fare proselitismo – non fate mai proselitismo nelle scuole! Mai! – Educare cristianamente è portare avanti i giovani, i bambini nei valori umani in tutta la realtà, e una di queste realtà è la trascendenza. Oggi c’è la tendenza ad un neopositivismo, cioè educare nelle cose immanenti, al valore delle cose immanenti, e questo sia nei Paesi di tradizione cristiana sia nei Paesi di tradizione pagana. E questo non è introdurre i ragazzi, i bambini nella realtà totale: manca la trascendenza. Per me, la crisi più grande dell’educazione, nella prospettiva cristiana, è questa chiusura alla trascendenza. Siamo chiusi alla trascendenza. Occorre preparare i cuori perché il Signore si manifesti, ma nella totalità; cioè, nella totalità dell’umanità che ha anche questa dimensione di trascendenza. Educare umanamente ma con orizzonti aperti. Ogni sorta di chiusura non serve per l’educazione.

Fr. Juan Antonio Ojeda, docente all’Università di Malaga

[domanda in spagnolo]

Santo Padre, nei Suoi discorsi, Lei fa riferimento alla rottura dei vincoli tra la scuola, la famiglia e le altre istituzioni della società. Peraltro Lei, Santità, ci invita spesso a promuovere e a vivere personalmente una cultura dell'incontro. Cosa significa questo per tutti i soggetti impegnati nella promozione dell'educazione?

Papa Francesco

E’ vero che non solo i vincoli educativi si sono rotti, ma l’educazione è diventata anche troppo selettiva ed elitaria. Sembra che abbiano diritto all’educazione soltanto i popoli o le persone che hanno un certo livello o una certa capacità; ma certamente non hanno diritto all’educazione tutti i bambini, tutti i giovani. Questa è una realtà mondiale che ci fa vergognare. E’ una realtà che ci porta verso una selettività umana, e che invece di avvicinare i popoli, li allontana; allontana anche i ricchi dai poveri; allontana una cultura dall’altra... Ma questo accade anche nel piccolo: il patto educativo tra la famiglia e la scuola, è rotto! Si deve ri-cominciare. Anche il patto educativo tra la famiglia e lo Stato: è rotto. A meno che ci sia uno Stato ideologico che vuole approfittare dell’educazione per portare avanti la propria ideologia: come quelle dittature che noi abbiamo visto nel secolo scorso. E’ brutto. Fra i lavoratori più malpagati ci sono gli educatori: cosa vuol dire, questo? Questo vuol dire che lo Stato non ha interesse, semplicemente. Se l’avesse, le cose non andrebbero così. Il patto educativo è rotto. E qui viene il nostro lavoro, di cercare strade nuove.

La testimonianza dal Senegal, di padre… [si rivolge a lui] tu, che hai parlato: cercare di fare ciò che ha fatto don Bosco. Don Bosco, ai tempi della più brutta massoneria del Nord Italia, ha cercato una “educazione di emergenza”. E oggi ci vuole una “educazione di emergenza”, bisogna puntare sull’ “educazione informale”, perché l’educazione formale si è impoverita a causa dell’eredità del positivismo. Concepisce soltanto un tecnicismo intellettualista e il linguaggio della testa. E per questo, si è impoverita. Bisogna rompere questo schema. E ci sono esperienze, con l’arte, con lo sport… L’arte, lo sport, educano! Bisogna aprirsi a nuovi orizzonti, creare nuovi modelli… Ci sono tante esperienze: voi conoscete quella che è stata presentata da voi, Scholas occurrentes, che cerca proprio di aprire, di aprire l’orizzonte a un’educazione che non sia soltanto di concetti in testa. Ci sono tre linguaggi: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore, il linguaggio delle mani. L’educazione deve muoversi su queste tre strade. Insegnare a pensare, aiutare a sentire bene e accompagnare nel fare, cioè che i tre linguaggi siano in armonia; che il bambino, il ragazzo pensi quello che sente e che fa, senta quello che pensa e che fa, e faccia quello che pensa e sente. E così, un’educazione diventa inclusiva perché tutti hanno un posto; inclusiva anche umanamente. Il patto educativo è stato rotto per il fenomeno dell’esclusione. Noi troviamo i migliori, i più selettivi – che siano i più intelligenti, o siano quelli che hanno più soldi per pagare la scuola o l’università migliore – e lasciamo da parte gli altri. Il mondo non può andare avanti con un’educazione selettiva, perché non c’è un patto sociale che accomuni tutti. E questa è una sfida: cercare strade di educazione informale. Quella dell’arte, dello sport, tante, tante… Un grande educatore brasiliano – ci sono brasiliani, qui? –, uno dei vostri diceva che nella scuola – nella scuola formale – si doveva evitare di cadere soltanto in un insegnamento di concetti. La vera scuola deve insegnare concetti, abitudini e valori; e quando una scuola non è capace di fare questo insieme, questa scuola è selettiva ed esclusiva e per pochi.

Credo che la situazione di un patto educativo rotto, come quella di oggi, sia grave, è grave. Perché porta a selezionare i “super-uomini”, ma soltanto con il criterio della testa e soltanto con il criterio dell’interesse. Dietro a questo, c’è sempre il fantasma dei soldi - sempre! - che rovinano la vera umanità. Una cosa che aiuta è anche una certa e sana informalità rispettosa; e questo fa bene, nell’educazione. Perché si confonde formalità con rigidità. E torno alla prima domanda: dove c’è rigidità non c’è umanesimo, e dove non c’è umanesimo, non può entrare Cristo! Ha le porte chiuse! Il dramma della chiusura incomincia nelle radici della rigidità. E il popolo vuole un’altra cosa, e quando dico “popolo” dico la gente, tutti noi, le famiglie… Vogliono convivenza, vogliono dialogo – il cardinale Versaldi ha sottolineato questo: vogliono dialogo. Ma quando il patto educativo è rotto e c’è la rigidità, non c’è posto per il dialogo: io penso la mia, tu pensi la tua e non c’è posto per una universalità e una fratellanza. Nelle due esperienze che io ho fatto qui, in Vaticano, parlando, collegandomi con studenti dei cinque continenti – è stato organizzato da Scholas occurrentes – ho visto il bisogno di unità; e oggi il progetto che viene offerto è precisamente il progetto della separazione, non dell’unità. Anche della selettività.

Cosa significa questo per i soggetti impegnati nella promozione dell’educazione?”: così finiva la domanda. Significa rischiare. Un educatore che non sa rischiare, non serve per educare. Un papà e una mamma che non sanno rischiare, non educano bene il figlio. Rischiare in modo ragionevole. Cosa significa questo? Insegnare a camminare. Quando tu insegni a un bambino a camminare, gli insegni che una gamba deve essere ferma, sul pavimento che conosce; e con l’altra, cercare di andare avanti. Così se scivola può difendersi. Educare è questo. Tu sei sicuro in questo punto, ma questo non è definitivo. Devi fare un altro passo. Forse scivoli, ma ti alzi, e avanti… Il vero educatore dev’essere un maestro di rischio, ma di rischio ragionevole, si capisce. Come ho tentato di spiegare adesso. Non so. Credo di avere risposto alla domanda…

Suor Pina Del Core, preside della Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium di Roma

Santo Padre, quali sfide si aprono per gli educatori ai tempi della “terza guerra mondiale a pezzi”, al fine di non chiudersi in sé stessi ma di essere e divenire pazienti costruttori di pace? Quale incoraggiamento vuole offrire a tutti gli educatori che si dedicano con passione a una missione tanto delicata?

Papa Francesco

Prima di tutto, vorrei dare una testimonianza nei confronti di quello che la Madre generale della Congregazione di Gesù e Maria ha appena detto. Quando io ero rettore dell’Università, la mia segretaria era una suora di quella Congregazione - ancora vive, madre Asunción, vecchietta -; ma questa suora faceva il lavoro di segretaria all’università, e dopo, il pomeriggio, mangiava un panino, prendeva la macchina e andava in periferia, a fare la direttrice di una scuola dei poveri. La segretaria di una università, della facoltà di teologia, andava dai poveri. Tante congregazioni come questa non hanno perduto mai questa idea. Forse in alcuni momenti hanno sottolineato più il lavoro tra le élite della città, ma hanno la vocazione ad andare in periferia, da dove sono nate… E quante fondatrici, quante fondatrici di congregazioni religiose sono nate per aiutare le ragazze, o quanti fondatori per aiutare i ragazzi di strada, i ragazzi poveri! Ho parlato di Don Bosco… E’ capitata la coincidenza che la madre fosse qui, e vorrei pubblicamente ringraziare la sua Congregazione e tutte le congregazioni, maschili e femminili, che mai hanno dimenticato le strade di periferia!

Qualcuno può dire: “Ma noi, noi dobbiamo formare dirigenti! Noi dobbiamo formare gente che pensi, che faccia… Questo è vero, lo si deve fare. Ma quando sono andato in Paraguay, in una scuola di periferia avevano fatto un incontro di alcuni giorni, i giovani, giovani non dirò di strada, ma giovani di periferia, poveri, senza l’essenziale; e questi giovani, ragazzi e ragazze tra i 14 e i 16 anni, hanno scelto di parlare su alcuni temi, alcuni temi forti. E io ho sentito la discussione fra loro, e le conclusioni delle discussioni su uno dei temi: la gravidanza adolescente. Io ho pensato: come mai questi, che vivono così, che vivono sulla riva di un fiume che va e viene [spesso straripa], che hanno poco da mangiare, sono capaci di pensare così? Perché hanno avuto un metodo e un educatore o un’educatrice che li ha portati per mano. Nessuno, nessuno può essere escluso dalla possibilità di ricevere valori, nessuno! E per questo, ecco la prima sfida che vi dico: lasciate i posti dove ci sono tanti educatori e andate alle periferie. Cercate lì. O almeno, lasciatene la metà! Cercate lì i bisognosi, i poveri. E loro hanno una cosa che non hanno i giovani dei quartieri più ricchi – non per colpa loro, ma è una realtà sociologica: hanno l’esperienza della sopravvivenza, anche della crudeltà, anche della fame, anche delle ingiustizie. Hanno una umanità ferita. E penso che la nostra salvezza venga dalle ferite di un uomo ferito sulla croce. Loro, da quelle ferite, traggono sapienza, se c’è un educatore bravo che li porti avanti. Non si tratta di andare là per fare beneficienza, per insegnare a leggere, per dare da mangiare…, no! Questo è necessario, ma è provvisorio. E’ il primo passo. La sfida – e io vi incoraggio – è andare là per farli crescere in umanità, in intelligenza, in valori, in abitudini, perché possano andare avanti e portare agli altri esperienze che non conoscono.

In questa stessa sala, quindici giorni fa – credo – abbiamo ricevuto, come oggi, 7.000 zingari, di tutta Europa. Rom. E la presentazione l’ha fatta uno che è cresciuto in un quartiere rom e adesso è un parlamentare slovacco. E può dare un’esperienza diversa a quelli che non conoscono le periferie. E le realtà si capiscono meglio dalle periferie che dal centro, perché tu dal centro sei sempre coperto, tu nel centro sei sempre difeso…

Patto educativo rotto, selettività, esclusione, eredità di un positivismo selettivo: queste cose si devono risolvere. E andare avanti, andare avanti con questa sfida. A una congregazione di suore che ha una speciale vocazione in Argentina, per il Sud dell’Argentina, per la Patagonia, ho detto: “Per favore, chiudere la metà dei collegi della capitale di Buenos Aires e mandate le suore là, in quella periferia della Patria”; perché di là verranno i nuovi contributi, i nuovi valori, e verranno anche le persone capaci di rinnovare il mondo. Andare alla periferia. Ma questo voglio sottolineare: andare in periferia non è soltanto fare beneficienza. E’, in educazione, portare per mano per la strada fino a dove possono. Ai Salesiani, a Torino, ho detto: “Fate quello che ha fatto Don Bosco, in quel tempo, dove c’erano tanti bambini di strada, tanti. Educazione d’emergenza. Educazione variegata”.

Un’altra cosa, perché nella domanda la suora chiedeva “quali sfide si aprono agli educatori ai tempi della ‘terza guerra mondiale a pezzi’”. Qual è la tentazione più grande delle guerre, in questo momento? I muri. Difendersi, i muri. Il fallimento più grande che può avere un educatore, è educare “entro i muri”. Educare dentro i muri: muri di una cultura selettiva, i muri di una cultura di sicurezza, i muri di un settore sociale che è benestante e non va più avanti.

Vorrei finire invitando, proprio su questa domanda, gli educatori e le educatrici a ripensare – è un compito da fare a casa! ma da fare in comunità! – a ripensare le opere di misericordia, le 14 opere di misericordia; ripensare come farle, ma nell’educazione. Io non chiederei a voi di alzare le mani, quelli che le conoscono bene, a memoria, no. L’ho fatto una volta in questa sala: era piena… E hanno alzato la mano soltanto una ventina…. Ma pensare: in quest’anno della Misericordia, misericordia è soltanto dare elemosina?, o nell’educazione, come posso fare io le opere di misericordia? Cioè, sono le opere dell’Amore del Padre; la prima parola detta dal cardinale Versaldi: le opere dell’Amore. Come posso fare perché questo Amore del Padre che viene specialmente sottolineato in quest’Anno della Misericordia, arrivi nelle nostre opere educative?

E ringrazio tanto voi, educatori ed educatrici - malpagati -, ringrazio per quello che voi fate. Dobbiamo ri-educare tante civiltà. Dobbiamo ri-educare l’Europa. Mi diceva il rettore gesuita di un collegio quanto costi a lui cambiare mentalità, per ri-educare sulla strada che la Chiesa vuole oggi. E così si può arrivare anche a quelli che non credono. E voglio ringraziare anche un educatore che è diventato educatore attraverso la strada del diritto canonico - non so come si possa, ma lui lo è diventato -: il cardinale Grocholewski. Lui è presente qui. E lui è un esempio che risponde alla prima domanda: lui ha fatto accordi con università di tutto il mondo, cattoliche e non cattoliche. Perché? Perché la passione dell’educazione porta a questo: a “umanizzare” la gente. E anche a lui, pubblicamente dico: Grazie, Eminenza.

Non so come continua il programma… E’ finito? Grazie tante per il vostro lavoro. E vi auguro buon pranzo.

E adesso preghiamo insieme la Madonna: Ave o Maria,

[02028-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0906-XX.02]