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Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco a Cuba, negli Stati Uniti d’America e Visita alla sede dell’ONU, in occasione della partecipazione all’Incontro Mondiale delle Famiglie in Philadelphia (19-28 settembre 2015) – Incontro con i Vescovi degli Stati Uniti a Washington, 23.09.2015


Incontro con i Vescovi degli U.S.A. nella Cattedrale di St. Mattew the Apostle a Washington

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua inglese

Alle ore 12 di oggi, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Vescovi degli Stati Uniti nella Cattedrale di S. Matteo Apostolo a Washington.

L’incontro è iniziato con la recita della preghiera dell’Ora Media. Quindi, dopo gli indirizzi di saluto dell’Arcivescovo di Washington, Card. Donald W. Wuerl, e del Presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti (USCCB) S.E. Mons. Joseph Edward Kurtz, Arcivescovo di Louisville, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Carissimi fratelli nell’Episcopato,

prima di tutto vorrei inviare un saluto alla comunità ebraica, ai nostri fratelli ebrei, che oggi celebrano la festa dello Yom Kippur. Il Signore li benedica con la pace, e li faccia andare avanti nella via della santità, secondo questo che oggi abbiamo sentito dalla sua Parola: “Siate santi, perché io sono Santo” (Lv 19,2).

Sono lieto di incontrarvi in questo momento della missione apostolica che mi ha condotto nel vostro Paese. Ringrazio vivamente il Cardinale Wuerl e l’Arcivescovo Kurtz per le gentili parole che mi hanno rivolto anche a nome di tutti voi. Ricevete per favore la mia gratitudine per l’accoglienza e per la generosa disponibilità con la quale il mio soggiorno è stato programmato e organizzato.

Nell’abbracciare con lo sguardo e con il cuore i vostri volti di Pastori, vorrei abbracciare anche le Chiese che amorosamente portate sulle spalle; e vi prego di assicurare che la mia vicinanza umana e spirituale raggiunge, per mezzo di voi, l’intero Popolo di Dio disseminato su questa vasta terra.

Il cuore del Papa si dilata per includere tutti. Allargare il cuore per testimoniare che Dio è grande nel suo amore è la sostanza della missione del Successore di Pietro, Vicario di Colui che sulla croce ha abbracciato l’intera umanità. Che nessun membro del Corpo di Cristo della nazione americana si senta escluso dall’abbraccio del Papa. Ovunque affiori sulle labbra il nome di Gesù, lì risuoni pure la voce del Papa per assicurare: “E’ il Salvatore!”. Dalle vostre grandi metropoli della costa orientale alle pianure del midwest, dal profondo sud allo sconfinato ovest, dovunque la vostra gente si raccoglie nell’assemblea eucaristica, il Papa non sia un mero nome abitudinariamente pronunciato, ma una tangibile compagnia volta a sostenere la voce che si eleva dal cuore della Sposa: “Vieni Signore!”.

Quando una mano si tende per compiere il bene o portare al fratello la carità di Cristo, per asciugare una lacrima o fare compagnia ad una solitudine, per indicare la strada ad uno smarrito o risollevare un cuore ormai infranto, per chinarsi su uno che è caduto o insegnare a chi è assetato di verità, per offrire il perdono o guidare ad un nuovo inizio in Dio... sappiate che il Papa vi accompagna, e il Papa vi sostiene, poggia anch’Egli sulla vostra la sua mano ormai vecchia e rugosa ma, per grazia di Dio, ancora capace di sostenere e di incoraggiare.

La mia prima parola è di rendimento di grazie a Dio per il dinamismo del Vangelo che ha consentito la notevole crescita della Chiesa di Cristo in queste terre, e ha permesso il generoso contributo che essa ha offerto e continua ad offrire alla società statunitense e al mondo. Apprezzo vivamente e ringrazio commosso per la vostra generosità e solidarietà verso la Sede Apostolica e verso l’evangelizzazione in tante sofferenti parti del mondo. Sono lieto per l’indomito impegno della vostra Chiesa per la causa della vita e della famiglia, motivo preminente di questa mia visita. Seguo con attenzione lo sforzo ingente di accoglienza e di integrazione degli immigrati che continuano a guardare all’America con lo sguardo dei pellegrini che approdarono alla ricerca delle sue promettenti risorse di libertà e prosperità. Ammiro il lavoro con cui portate avanti la missione educativa nelle vostre scuole a tutti i livelli e l’opera caritativa nelle vostre numerose istituzioni. Sono attività condotte spesso senza che si comprenda il loro valore e senza appoggio e, in ogni caso, eroicamente mantenute con l’obolo dei poveri, perché tali iniziative scaturiscono da un mandato soprannaturale al quale non è lecito disobbedire. Sono consapevole del coraggio con cui avete affrontato momenti oscuri del vostro percorso ecclesiale senza temere autocritiche né risparmiare umiliazioni e sacrifici, senza cedere alla paura di spogliarsi di quanto è secondario pur di riacquistare l’autorevolezza e la fiducia richiesta ai Ministri di Cristo, come desidera l’anima del vostro popolo. So quanto ha pesato in voi la ferita degli ultimi anni, e ho accompagnato il vostro generoso impegno per guarire le vittime, consapevole che nel guarire siamo pur sempre guariti, e per continuare a operare affinché tali crimini non si ripetano mai più.

Vi parlo come Vescovo di Roma, già nella vecchiaia chiamato da Dio da una terra anch’essa americana, per custodire l’unità della Chiesa Universale e per incoraggiare nella carità il percorso di tutte le Chiese particolari, perché progrediscano nella conoscenza, nella fede e nell’amore di Cristo. Leggendo i vostri nomi e cognomi, osservando i vostri volti, conoscendo la misura alta della vostra consapevolezza ecclesiale e sapendo della devozione che avete sempre riservato al Successore di Pietro, devo dirvi che non mi sento tra voi un forestiero. Provengo, infatti, da una terra anch’essa vasta, sconfinata e non di rado informe che, come la vostra, ha ricevuto la fede dal bagaglio dei missionari. Ben conosco la sfida di seminare il Vangelo nel cuore di uomini provenienti da mondi diversi, spesso induriti dall’aspro cammino percorso prima di approdare. Non mi è estranea la storia della fatica di impiantare la Chiesa tra pianure, montagne, città e suburbi di un territorio spesso inospitale, dove le frontiere sono sempre provvisorie, le risposte ovvie non durano e la chiave d’ingresso richiede di saper coniugare lo sforzo epico dei pionieri esploratori con la prosaica saggezza e resistenza dei sedentari che presidiano lo spazio raggiunto. Come ha cantato un vostro poeta: “ali forti ed instancabili”, ma anche la saggezza di chi “conosce le montagne1

Non vi parlo da solo. La mia voce si pone in continuità con quanto i miei Predecessori vi hanno donato. Infatti, sin dagli albori della “nazione americana”, quando all’indomani della rivoluzione venne eretta la prima diocesi a Baltimora, la Chiesa di Roma vi è sempre stata vicina e non vi è mai mancata la sua costante assistenza ed il suo incoraggiamento. Negli ultimi decenni, tre dei miei venerati Predecessori vi hanno fatto visita, consegnandovi un notevole patrimonio d’insegnamento tuttora attuale, di cui avete fatto tesoro per orientare i lungimiranti programmi pastorali con cui guidare quest’amata Chiesa.

Non è mia intenzione tracciare un programma o delineare una strategia. Non sono venuto per giudicarvi o per impartirvi lezioni. Confido pienamente nella voce di Colui che “insegna ogni cosa” (cfr Gv 14,26). Consentitemi soltanto, con la libertà dell’amore, di poter parlare come un fratello tra fratelli. Non mi sta a cuore dirvi cosa fare, perché sappiamo tutti quanto ci chiede il Signore. Preferisco piuttosto ritornare ancora su quella fatica - antica e sempre nuova - di domandarsi circa le strade da percorrere, sui sentimenti da conservare mentre si opera, sullo spirito con cui agire. Senza la pretesa di essere esaustivo, condivido con voi alcune riflessioni che ritengo opportune per la nostra missione.

Siamo Vescovi della Chiesa, Pastori costituiti da Dio per pascere il suo gregge. La nostra gioia più grande è essere Pastori, nient’altro che Pastori, dal cuore indiviso ed una irreversibile consegna di sé. Bisogna custodire questa gioia senza lasciare che ce la rubino. Il maligno ruggisce come leone cercando di divorarla, rovinando così quanto siamo chiamati ad essere non per noi stessi, ma per dono, e al servizio del “Pastore delle nostre anime” (1 Pt 2,25).

L’essenza della nostra identità va cercata nell’assiduo pregare, nel predicare (cfr At 6,4) e nel pascere (cfr Gv 21,15-17; At 20,28-31).

Non una preghiera qualsiasi, ma l’unione famigliare con Cristo, dove incrociare quotidianamente il suo sguardo per sentire rivolta a noi la sua domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mc 3,32). E potergli serenamente rispondere: “Signore, ecco tua madre, ecco i tuoi fratelli! Te li consegno, sono quelli che Tu mi hai affidato”. Di una tale confidenza con Cristo si nutre la vita del Pastore.

Non una predicazione di complesse dottrine, ma l’annuncio gioioso di Cristo, morto e risorto per noi. Lo stile della nostra missione susciti in quanti ci ascoltano l’esperienza del “per noi” di quest’annuncio: la Parola doni senso e pienezza ad ogni frammento della loro vita, i Sacramenti li nutrano di quel cibo che non possono procurarsi, la vicinanza del Pastore risvegli in loro la nostalgia dell’abbraccio del Padre. Vegliate perché il gregge incontri sempre nel cuore del Pastore quella riserva di eternità che con affanno si cerca invano nelle cose del mondo. Trovino sempre sulle vostre labbra l’apprezzamento per la capacità di fare e costruire nella libertà e nella giustizia la prosperità di cui è prodiga questa terra. Non manchi però il sereno coraggio di confessare che bisogna procurarsi «non il cibo che perisce ma quello che dura per la vita eterna (Gv 6,27).

Non pascere sé stessi ma saper arretrare, abbassarsi, decentrarsi, per nutrire di Cristo la famiglia di Dio. Vegliare senza sosta, ergendosi alti per raggiungere con lo sguardo di Dio il gregge che solo a Lui appartiene. Elevarsi all’altezza della Croce del suo Figlio, il solo punto di vista che apre al Pastore il cuore del suo gregge.

Non guardare verso il basso nella propria autoreferenzialità, ma sempre verso gli orizzonti di Dio, che oltrepassano quanto noi siamo capaci di prevedere o pianificare. Vegliare pure su noi stessi, per sfuggire alla tentazione del narcisismo, che acceca gli occhi del Pastore, rende la sua voce irriconoscibile e il suo gesto sterile. Nelle molteplici strade che si aprono alla vostra sollecitudine pastorale, ricordate di conservare indelebile il nucleo che unifica tutte le cose: «lo avete fatto a me» (Mt 25,31-45).

Senz’altro è utile al Vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti. Al Vescovo è necessaria la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo. Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di sé stessi (Fil 2,1-11).

Non ci è estranea l’angoscia dei primi Undici, chiusi tra i loro muri, assediati e sgomenti, abitati dallo spavento delle pecore disperse perché il Pastore era stato colpito. Ma sappiamo che ci è stato donato uno spirito di coraggio e non di timidezza. Pertanto non ci è lecito lasciarci paralizzare dalla paura.

So bene che numerose sono le vostre sfide, e che spesso è ostile il campo nel quale seminate, e non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze.

E, tuttavia, siamo fautori della cultura dell’incontro. Siamo sacramenti viventi dell’abbraccio tra la ricchezza divina e la nostra povertà. Siamo testimoni dell’abbassamento e della condiscendenza di Dio che precede nell’amore anche la nostra primigenia risposta.

Il dialogo è il nostro metodo, non per astuta strategia, ma per fedeltà a Colui che non si stanca mai di passare e ripassare nelle piazze degli uomini fino all’undicesima ora per proporre il suo invito d’amore (Mt 20,1-16).

La via è pertanto il dialogo: dialogo tra di voi, dialogo nei vostri Presbiteri, dialogo con i laici, dialogo con le famiglie, dialogo con la società. Non mi stancherei di incoraggiarvi a dialogare senza paura. Tanto più è ricco il patrimonio, che con parresia avete da condividere, tanto più sia eloquente l’umiltà con la quale lo dovete offrire. Non abbiate paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro né capire fino in fondo che il fratello da raggiungere e riscattare, con la forza e la prossimità dell’amore, conta più di quanto contano le posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del Pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente.

Bisogna lasciare che perennemente risuoni nel nostro cuore la parola del Signore: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28-30). Il giogo di Gesù è giogo d’amore e perciò è garanzia di ristoro. Alle volte ci pesa la solitudine delle nostre fatiche, e siamo talmente carichi del giogo che non ricordiamo più di averlo ricevuto dal Signore. Ci sembra solo nostro e quindi ci trasciniamo come buoi stanchi nel campo arido, minacciati dalla sensazione di aver lavorato invano, dimentichi della pienezza del ristoro collegata indissolubilmente a Colui che ci ha fatto la promessa.

Imparare da Gesù; meglio ancora, imparare Gesù, mite e umile; entrare nella sua mitezza e nella sua umiltà mediante la contemplazione del suo agire. Introdurre le nostre Chiese e il nostro popolo, non di rado schiacciato dalla dura ansia di prestazione, alla soavità del giogo del Signore. Ricordare che l’identità della Chiesa di Gesù è assicurata non dal “fuoco dal cielo che consuma” (Lc 9,54), ma dal segreto calore dello Spirito che “sana ciò che sanguina, piega ciò che è rigido, drizza ciò che è sviato”.

La grande missione che il Signore ci affida, noi la svolgiamo in comunione, in modo collegiale. È già tanto dilaniato e diviso il mondo! La frammentazione è ormai di casa ovunque. Perciò, la Chiesa, “tunica inconsutile del Signore” non può lasciarsi dividere, frazionare o contendere.

La nostra missione episcopale è primariamente cementare l’unità, il cui contenuto è determinato dalla Parola di Dio e dall’unico Pane del Cielo, con cui ognuna delle Chiese a noi affidate resta Cattolica, perché aperta e in comunione con tutte le Chiese Particolari e con quella di Roma che “presiede nella carità”. È un imperativo, pertanto, vegliare per tale unità, custodirla, favorirla, testimoniarla come segno e strumento che, di là di ogni barriera, unisce nazioni, razze, classi, generazioni.

L’imminente Anno Santo della Misericordia, introducendoci nella profondità inesauribile del cuore divino, nel quale non abita alcuna divisione, sia per tutti occasione privilegiata per rafforzare la comunione, perfezionare l’unità, riconciliare le differenze, perdonarsi a vicenda e superare ogni divisione, così che risplenda la vostra luce come “la città costruita sul monte” (Mt 5,14).

Tale servizio all’unità è particolarmente importante per la vostra amata Nazione, le cui vastissime risorse materiali e spirituali, culturali e politiche, storiche e umane, scientifiche e tecnologiche impongono responsabilità morali non indifferenti in un mondo frastornato e faticosamente alla ricerca di nuovi equilibri di pace, prosperità ed integrazione. È, pertanto, parte essenziale della vostra missione offrire agli Stati Uniti d’America l’umile e potente lievito della comunione. Sappia l’umanità che l’essere abitata dal “sacramento di unità” (Lumen gentium, 1) è garanzia che il suo destino non è l’abbandono e la disgregazione.

E tale testimonianza è un faro che non può spegnersi. Infatti, nel denso buio della vita, gli uomini hanno bisogno di lasciarsi guidare dalla sua luce, per essere certi del porto che li aspetta, sicuri che le loro barche non si schianteranno sugli scogli né saranno in balia delle onde. Perciò, Fratelli, vi incoraggio ad affrontare le sfide del nostro tempo. Nel fondo di ciascuna di esse sta sempre la vita come dono e responsabilità. Il futuro della libertà e della dignità delle nostre società dipende dal modo in cui sapremo rispondere a tali sfide.

Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa.

Questi aspetti irrinunciabili della missione della Chiesa appartengono al nucleo di quanto ci è stato trasmesso dal Signore. Abbiamo perciò il dovere di custodirli e comunicarli, anche quando la mentalità del tempo si rende impermeabile e ostile a tale messaggio (cfr Evangelii gaudium, 34-39). Vi incoraggio ad offrire, con gli strumenti e la creatività dell’amore e con l’umiltà della verità, tale testimonianza. Essa ha bisogno non soltanto di proclami e annunci esterni, ma anche di conquistare spazio nel cuore degli uomini e nella coscienza della società.

A questo fine, è molto importante che la Chiesa negli Stati Uniti sia anche un focolare umile che attira gli uomini mediante il fascino della luce e il calore dell’amore. Come Pastori ben conosciamo il buio e il freddo che ancora c’è in questo mondo, la solitudine e l’abbandono di tanti – anche dove abbondano le risorse comunicative e le ricchezze materiali –, conosciamo anche la paura di fronte alla vita, le disperazioni e le molteplici fughe.

Perciò, solo una Chiesa che sa radunare attorno al “fuoco” resta capace di attirare. Non certo un fuoco qualsiasi, ma quello che si è acceso al mattino di Pasqua. È il Signore risorto che continua a interpellare i Pastori della Chiesa attraverso la voce timida di tanti fratelli: “Avete qualcosa da mangiare”? Si tratta di riconoscere la sua voce, come fecero gli Apostoli sulla riva del mare di Tiberiade (cfr Gv 21,4-12). Ed è ancora più decisivo consegnarsi alla certezza che le braci della sua presenza, accese al fuoco della passione, ci precedono e non si spengono mai. Venendo meno tale certezza, si rischia di diventare cultori di cenere e non custodi e dispensatori della vera luce e di quel calore che è capace di riscaldare il cuore (cfr Lc 24, 32).

Prima di concludere, consentitemi ancora di farvi due raccomandazioni che mi stanno a cuore. La prima si riferisce alla vostra paternità episcopale. Siate Pastori vicini alla gente, Pastori prossimi e servitori. Questa vicinanza si esprima in modo speciale verso i vostri sacerdoti. Accompagnateli affinché continuino a servire Cristo con cuore indiviso, perché solo la pienezza riempie i ministri di Cristo. Vi prego, pertanto, non lasciate che si accontentino delle mezze misure. Curate le loro sorgenti spirituali affinché non cadano nella tentazione di diventare notai e burocrati, ma siano espressione della maternità della Chiesa che genera e fa crescere i suoi figli. Vegliate affinché non si stanchino di alzarsi per rispondere a chi bussa nella notte, anche quando già si pensa di aver diritto al riposo (cfr Lc 11,5-8). Allenateli affinché siano pronti a fermarsi, chinarsi, versare balsamo, farsi carico e spendersi in favore di chi, “per caso”, si è trovato spogliato di quanto credeva di possedere (cfr Lc 10,29-37).

La mia seconda raccomandazione si riferisce agli immigrati. Chiedo scusa se in qualche modo parlo quasi “in causa propria”. La Chiesa statunitense conosce come poche le speranze dei cuori dei migranti. Da sempre avete imparato la loro lingua, sostenuto la loro causa, integrato i loro contributi, difeso i loro diritti, promosso la loro ricerca di prosperità, conservato accesa la fiamma della loro fede. Anche adesso nessuna istituzione americana fa di più per gli immigrati che le vostre comunità cristiane. Ora avete questa lunga ondata d’immigrazione latina che investe tante delle vostre diocesi. Non soltanto come Vescovo di Roma, ma anche come Pastore venuto dal sud, sento il bisogno di ringraziarvi e di incoraggiarvi. Forse non sarà facile per voi leggere la loro anima; forse sarete messi alla prova dalle loro diversità. Sappiate, comunque, che possiedono anche risorse da condividere. Perciò accoglieteli senza paura. Offrite loro il calore dell’amore di Cristo e decifrerete il mistero del loro cuore. Sono certo che, ancora una volta, questa gente arricchirà l’America e la sua Chiesa.

Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca! Grazie!

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1 Quando ero giovane, / avevo ali forti e instancabili, / ma non conoscevo le montagne. / Quando fui vecchio, / conobbi le montagne, / ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione. / Il genio è saggezza e gioventù (Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River).

[01503-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos Hermanos en el Episcopado

Quisiera ante todo enviar un saludo a la comunidad judía, a nuestros hermanos judíos, que hoy celebran la fiesta del Yom Kippur. Que el señor los bendiga con la paz y les haga seguir adelante por la vía de la santidad, según lo que hemos escuchado hoy de su Palabra: «Sean santos, porque yo, el Señor soy santo» (Lv 19,2).

Me alegra tener este encuentro con ustedes en este momento de la misión apostólica que me ha traído a su País. Agradezco de corazón al Cardenal Wuerl y al Arzobispo Kurtz las amables palabras que me han dirigido en nombre de todos. Muchas gracias por su acogida y por la generosa solicitud con que han programado y organizado mi estancia entre ustedes.

Viendo con los ojos y con el corazón sus rostros de Pastores, quisiera saludar también a las Iglesias que amorosamente llevan sobre sus hombros; y les ruego encarecidamente que, por medio de ustedes, mi cercanía humana y espiritual llegue a todo el Pueblo de Dios diseminado en esta vasta tierra.

El corazón del Papa se dilata para incluir a todos. Ensanchar el corazón para dar testimonio de que Dios es grande en su amor es la sustancia de la misión del Sucesor de Pedro, Vicario de Aquel que en la cruz extendió los brazos para acoger a toda la humanidad. Que ningún miembro del Cuerpo de Cristo y de la nación americana se sienta excluido del abrazo del Papa. Que, donde se pronuncie el nombre de Jesús, resuene también la voz del Papa para confirmar: «¡Es el Salvador!». Desde sus grandes metrópolis de la costa oriental hasta las llanuras del midwest, desde el profundo sur hasta el ilimitado oeste, en cualquier lugar donde su pueblo se reúna en asamblea eucarística, que el Papa no sea un nombre que se repite por fuerza de la costumbre, sino una compañía tangible destinada a sostener la voz que sale del corazón de la Esposa: «¡Ven, Señor!».

Cuando echan una mano para realizar el bien o llevar al hermano la caridad de Cristo, para enjugar una lágrima o acompañar a quien está solo, para indicar el camino a quien se siente perdido o para fortalecer a quien tiene el corazón destrozado, para socorrer a quien ha caído o enseñar a quien tiene sed de verdad, para perdonar o llevar a un nuevo encuentro con Dios… sepan que el Papa los acompaña y el Papa los ayuda, pone también él su mano –vieja y arrugada pero, gracias a Dios, capaz todavía de apoyar y animar– junto a las suyas.

Mi primera palabra es de agradecimiento a Dios por el dinamismo del Evangelio que ha hecho que la Iglesia de Cristo crezca con fuerza en estas tierras y le ha permitido ofrecer su aportación generosa, en el pasado y en la actualidad, a la sociedad estadounidense y al mundo. Aprecio vivamente y agradezco conmovido su generosidad y solidaridad con la Sede Apostólica y con la evangelización en tantas partes del mundo que sufren. Me alegro del firme compromiso de su Iglesia a favor de la vida y de la familia, motivo principal de mi visita. Sigo con atención el enorme esfuerzo que realizan para acoger e integrar a los inmigrantes que siguen llegando a Estados Unidos con la mirada de los peregrinos que se embarcan en busca de sus prometedores recursos de libertad y prosperidad. Admiro los esfuerzos que dedican a la misión educativa en sus escuelas a todos los niveles y a la caridad en sus numerosas instituciones. Son actividades llevadas a cabo muchas veces sin que se reconozca su valor y sin apoyo y, en todo caso, heroicamente sostenidas con la aportación de los pobres, porque esas iniciativas brotan de un mandato sobrenatural que no es lícito desobedecer. Conozco bien la valentía con que han afrontado momentos oscuros en su itinerario eclesial sin temer a la autocrítica ni evitar humillaciones y sacrificios, sin ceder al miedo de despojarse de cuanto es secundario con tal de recobrar la credibilidad y la confianza propia de los Ministros de Cristo, como desea el alma de su pueblo. Sé cuánto les ha hecho sufrir la herida de los últimos años, y he seguido de cerca su generoso esfuerzo por curar a las víctimas, consciente de que, cuando curamos, también somos curados, y por seguir trabajando para que esos crímenes no se repitan nunca más.

Les hablo como Obispo de Roma, llamado por Dios –siendo ya mayor– desde una tierra también americana, para custodiar la unidad de la Iglesia universal y para animar en la caridad el camino de todas las Iglesias particulares, para que progresen en el conocimiento, en la fe y en el amor a Cristo. Leyendo sus nombres y apellidos, viendo sus rostros, consciente de su alto sentido de la responsabilidad eclesial y de la devoción que han profesado siempre al Sucesor de Pedro, tengo que decirles que no me siento forastero entre ustedes. También yo vengo de una tierra vasta, inmensa y no pocas veces informe, que como la de ustedes, ha recibido la fe del bagaje de los misioneros. Conozco bien el reto de sembrar el Evangelio en el corazón de hombres procedentes de mundos diversos, a menudo endurecidos por el arduo camino recorrido antes de llegar. No me es ajeno el cansancio de establecer la Iglesia entre llanuras, montañas, ciudades y suburbios de un territorio a menudo inhóspito, en el que las fronteras siempre son provisionales, las respuestas obvias no perduran y la llave de entrada requiere conjugar el esfuerzo épico de los pioneros exploradores con la sabiduría prosaica y la resistencia de los sedentarios que controlan el territorio alcanzado. Como cantaba uno de sus poetas: «Alas fuertes e incansables», pero también la sabiduría de quien «conoce las montañas».1

No les hablo sólo yo. Mi voz está en continuidad con la de mis Predecesores. Desde los albores de la «nación americana», cuando apenas acabada la revolución fue erigida la primera diócesis en Baltimore, la Iglesia de Roma los ha acompañado y nunca les ha faltado su contante asistencia y su aliento. En los últimos decenios, tres de mis venerados Predecesores les han visitado, entregándoles un notable patrimonio de magisterio todavía actual, que ustedes han utilizado para orientar programas pastorales con visión de futuro, para guiar a esta querida Iglesia.

No es mi intención trazar un programa o delinear una estrategia. No he venido para juzgarles o para impartir lecciones. Confío plenamente en la voz de Aquel que «enseña todas las cosas» (cf. Jn 14,26). Permítanme tan sólo, con la libertad del amor, que les hable como un hermano entre hermanos. No pretendo decirles lo que hay que hacer, porque todos sabemos lo que el Señor nos pide. Prefiero más bien realizar de nuevo ese esfuerzo –antiguo y siempre nuevo– de preguntarnos por los caminos a seguir, los sentimientos que hemos de conservar mientras trabajamos, el espíritu con que tenemos que actuar. Sin ánimo de ser exhaustivo, comparto con ustedes algunas reflexiones que considero oportunas para nuestra misión.

Somos obispos de la Iglesia, pastores constituidos por Dios para apacentar su grey. Nuestra mayor alegría es ser pastores, y nada más que pastores, con un corazón indiviso y una entrega personal irreversible. Es preciso custodiar esta alegría sin dejar que nos la roben. El maligno ruge como un león tratando de devorarla, arruinando todo lo que estamos llamados a ser, no por nosotros mismos, sino por el don y al servicio del «Pastor y guardián de nuestras almas» (1 P 2,25).

La esencia de nuestra identidad se ha de buscar en la oración asidua, en la predicación (cf. Hch 6,4) y el apacentar (cf. Jn 21,15-17; Hch 20,28-31).

No una oración cualquiera, sino la unión familiar con Cristo, donde poder encontrar cotidianamente su mirada y escuchar la pregunta que nos dirige a todos: «¿Quién es mi madre y quiénes son mis hermanos?» (Mc 3,32). Y poderle responder serenamente: «Señor, aquí está tu madre, aquí están tus hermanos. Te los encomiendo, son aquellos que tú me has confiado». La vida del pastor se alimenta de esa intimidad con Cristo.

No una predicación de doctrinas complejas, sino el anuncio gozoso de Cristo, muerto y resucitado por nosotros. Que el estilo de nuestra misión suscite en cuantos nos escuchan la experiencia del «por nosotros» de este anuncio: que la Palabra dé sentido y plenitud a cada fragmento de su vida, que los sacramentos los alimenten con ese sustento que no se pueden proporcionar a sí mismos, que la cercanía del Pastor despierte en ellos la nostalgia del abrazo del Padre. Estén atentos a que la grey encuentre siempre en el corazón del Pastor esa reserva de eternidad que ansiosamente se busca en vano en las cosas del mundo. Que encuentren siempre en sus labios el reconocimiento de su capacidad de hacer y construir, en la libertad y la justicia, la prosperidad de la que esta tierra es pródiga. Pero que no falte sereno valor de confesar que es necesario buscar no «el alimento que perece, sino el que perdura para la vida eterna» (Jn 6,27).

No apacentarse a sí mismos, sino saber retroceder, abajarse, descentrarse, para alimentar con Cristo a la familia de Dios. Vigilar sin descanso, elevándose para abarcar con la mirada de Dios a la grey que sólo a él pertenece. Elevarse hasta la altura de la Cruz de su Hijo, el único punto de vista que abre al pastor el corazón de su rebaño.

No mirar hacia abajo, a la propia autoreferencialidad, sino siempre hacia el horizonte de Dios, que va más allá de lo que somos capaces de prever o planificar. Vigilar también sobre nosotros mismos, para alejar la tentación del narcisismo, que ciega los ojos del pastor, hace irreconocible su voz y su gesto estéril. En las muchas posibilidades que se abren en su solicitud pastoral, no olviden mantener indeleble el núcleo que unifica todas las cosas: «Conmigo lo hicieron» (cf. Mt 25,31-45).

Ciertamente es útil al obispo tener la prudencia del líder y la astucia del administrador, pero nos perdemos inexorablemente cuando confundimos el poder de la fuerza con la fuerza de la impotencia, a través de la cual Dios nos ha redimido. Es necesario que el obispo perciba lúcidamente la batalla entre la luz y la oscuridad que se combate en este mundo. Pero, ay de nosotros si convertimos la cruz en bandera de luchas mundanas, olvidando que la condición de la victoria duradera es dejarse despojarse y vaciarse de sí mismo (cf. Flp 2,1-11).

No nos resulta ajena la angustia de los primeros Once, encerrados entre cuatro paredes, asediados y consternados, llenos del pavor de las ovejas dispersas porque el pastor ha sido abatido. Pero sabemos que se nos ha dado un espíritu de valentía y no de timidez. Por tanto, no es lícito dejarnos paralizar por el miedo.

Sé bien que tienen muchos desafíos y que a menudo es hostil el campo donde siembran y no son pocas las tentaciones de encerrarse en el recinto de los temores, a lamerse las propias heridas, llorando por un tiempo que no volverá y preparando respuestas duras a las resistencias ya de por sí ásperas.

Y, sin embargo, somos artífices de la cultura del encuentro. Somos sacramento viviente del abrazo entre la riqueza divina y nuestra pobreza. Somos testigos del abajamiento y la condescendencia de Dios, que precede en el amor incluso nuestra primera respuesta.

El diálogo es nuestro método, no por astuta estrategia sino por fidelidad a Aquel que nunca se cansa de pasar una y otra vez por las plazas de los hombres hasta la undécima hora para proponer su amorosa invitación (cf. Mt 20,1-16).

Por tanto, la vía es el diálogo: diálogo entre ustedes, diálogo en sus Presbiterios, diálogo con los laicos, diálogo con las familias, diálogo con la sociedad. No me cansaré de animarlos a dialogar sin miedo. Cuanto más rico sea el patrimonio que tienen que compartir con parresía, tanto más elocuente ha de ser la humildad con que lo tienen que ofrecer. No tengan miedo de emprender el éxodo necesario en todo diálogo auténtico. De lo contrario no se puede entender las razones de los demás, ni comprender plenamente que el hermano al que llegar y rescatar, con la fuerza y la cercanía del amor, cuenta más que las posiciones que consideramos lejanas de nuestras certezas, aunque sean auténticas. El lenguaje duro y belicoso de la división no es propio del Pastor, no tiene derecho de ciudadanía en su corazón y, aunque parezca por un momento asegurar una hegemonía aparente, sólo el atractivo duradero de la bondad y del amor es realmente convincente.

Es preciso dejar que resuene perennemente en nuestro corazón la palabra del Señor: «Tomen mi yugo sobre ustedes y aprendan de mí, que soy manso y humilde de corazón, y encontrarán descanso para sus almas» (Mt 11,28-29). El yugo de Jesús es yugo de amor y, por tanto, garantía de descanso. A veces nos pesa la soledad de nuestras fatigas, y estamos tan cargados del yugo que ya no nos acordamos de haberlo recibido del Señor. Nos parece solamente nuestro y, por tanto, nos arrastramos como bueyes cansados en el campo árido, abrumados por la sensación de haber trabajado en vano, olvidando la plenitud del descanso vinculado indisolublemente a Aquel que hizo la promesa.

Aprender de Jesús; mejor aún, aprender a ser como Jesús, manso y humilde; entrar en su mansedumbre y su humildad mediante la contemplación de su obrar. Poner nuestras iglesias y nuestros pueblos, a menudo aplastados por la dura pretensión del rendimiento bajo el suave yugo del Señor. Recordar que la identidad de la Iglesia de Jesús no está garantizada por el «fuego del cielo que consume» (cf. Lc 9,54), sino por el secreto calor del Espíritu que «sana lo que sangra, dobla lo que es rígido, endereza lo que está torcido».

La gran misión que el Señor nos confía, la llevamos a cabo en comunión, de modo colegial. ¡Está ya tan desgarrado y dividido el mundo! La fragmentación es ya de casa en todas partes. Por eso, la Iglesia, «túnica inconsútil del Señor», no puede dejarse dividir, fragmentar o enfrentarse.

Nuestra misión episcopal consiste en primer lugar en cimentar la unidad, cuyo contenido está determinado por la Palabra de Dios y por el único Pan del Cielo, con el que cada una de las Iglesias que se nos ha confiado permanece Católica, porque está abierta y en comunión con todas las Iglesias particulares y con la de Roma, que «preside en la caridad». Es imperativo, por tanto, cuidar dicha unidad, custodiarla, favorecerla, testimoniarla como signo e instrumento que, más allá de cualquier barrera, une naciones, razas, clases, generaciones.

Que el inminente Año Santo de la Misericordia, al introducirnos en las profundidades inagotables del corazón divino, en el que no hay división alguna, sea para todos una ocasión privilegiada para reforzar la comunión, perfeccionar la unidad, reconciliar las diferencias, perdonarnos unos a otros y superar toda división, de modo que alumbre su luz como «la ciudad puesta en lo alto de un monte» (Mt 5,14).

Este servicio a la unidad es particularmente importante para su amada nación, cuyos vastísimos recursos materiales y espirituales, culturales y políticos, históricos y humanos, científicos y tecnológicos requieren responsabilidades morales no indiferentes en un mundo abrumado y que busca con afán nuevos equilibrios de paz, prosperidad e integración. Por tanto, una parte esencial de su misión es ofrecer a los Estados Unidos de América la levadura humilde y poderosa de la comunión. Que la humanidad sepa que contar con el «sacramento de unidad» (Lumen gentium, 1) es garantía de que su destino no es el abandono y la disgregación.

Y este testimonio es un faro que no se puede apagar. En efecto, en la densa oscuridad de la vida, los hombres necesitan dejarse guiar por su luz, para tener la certidumbre del puerto al que acudir, seguros de que sus barcas no se estrellarán en los escollos ni quedarán a merced de las olas. Por eso, hermanos, les animo a hacer frente a los desafíos de nuestro tiempo. En el fondo de cada uno de ellos está siempre la vida como don y responsabilidad. El futuro de la libertad y la dignidad de nuestra sociedad dependen del modo en que sepamos responder a estos desafíos.

Las víctimas inocentes del aborto, los niños que mueren de hambre o bajo las bombas, los inmigrantes se ahogan en busca de un mañana, los ancianos o los enfermos, de los que se quiere prescindir, las víctimas del terrorismo, de las guerras, de la violencia y del tráfico de drogas, el medio ambiente devastado por una relación predatoria del hombre con la naturaleza, en todo esto está siempre en juego el don de Dios, del que somos administradores nobles, pero no amos. No es lícito por tanto eludir dichas cuestiones o silenciarlas. No menos importante es el anuncio del Evangelio de la familia que, en el próximo Encuentro Mundial de las Familias en Filadelfia, tendré ocasión de proclamar con fuerza junto a ustedes y a toda la Iglesia.

Estos aspectos irrenunciables de la misión de la Iglesia pertenecen al núcleo de lo que nos ha sido transmitido por el Señor. Por eso tenemos el deber de custodiarlos y comunicarlos, aun cuando la mentalidad del tiempo se hace impermeable y hostil a este mensaje (Evangelii gaudium, 34-39). Los animo a ofrecer este testimonio con los medios y la creatividad del amor y la humildad de la verdad. Esto no sólo requiere proclamas y anuncios externos, sino también conquistar espacio en el corazón de los hombres y en la conciencia de la sociedad.

Para ello, es muy importante que la Iglesia en los Estados Unidos sea también un hogar humilde que atraiga a los hombres por el encanto de la luz y el calor del amor. Como pastores, conocemos bien la oscuridad y el frío que todavía hay en este mundo, la soledad y el abandono de muchos –incluso donde abundan los recursos comunicativos y la riqueza material–, conocemos también el miedo ante la vida, la desesperación y las múltiples fugas.

Por eso, solamente una Iglesia que sepa reunir en torno al «fuego» es capaz de atraer. Ciertamente, no un fuego cualquiera, sino aquel que se ha encendido en la mañana de Pascua. El Señor resucitado es el que sigue interpelando a los Pastores de la Iglesia a través de la voz tímida de tantos hermanos: «¿Tienen algo que comer?». Se trata de reconocer su voz, como lo hicieron los Apóstoles a orillas del mar de Tiberíades (cf. Jn 21,4-12). Y es todavía más decisivo conservar la certeza de que las brasas de su presencia, encendidas en el fuego de la pasión, nos preceden y no se apagarán nunca. Si falta esta certeza, se corre el riesgo de convertirse en guardianes de cenizas y no custodios y en dispensadores de la verdadera luz y de ese calor que es capaz de hacer arder el corazón (cf. Lc 24,32).

Antes de concluir, permítanme hacerles aún dos recomendaciones que considero importantes. La primera se refiere a su paternidad episcopal. Sean Pastores cercanos a la gente, Pastores próximos y servidores. Esta cercanía ha de expresarse de modo especial con sus sacerdotes. Acompáñenles para que sirvan a Cristo con un corazón indiviso, porque sólo la plenitud llena a los ministros de Cristo. Les ruego, por tanto, que no dejen que se contenten de medias tintas. Cuiden sus fuentes espirituales para que no caigan en la tentación de convertirse en notarios y burócratas, sino que sean expresión de la maternidad de la Iglesia que engendra y hace crecer a sus hijos. Estén atentos a que no se cansen de levantarse para responder a quien llama de noche, aun cuando ya crean tener derecho al descanso (cf. Lc 11,5-8). Prepárenles para que estén dispuestos para detenerse, abajarse, rociar bálsamo, hacerse cargo y gastarse en favor de quien, «por casualidad», se vio despojado de todo lo que creía poseer (cf. Lc 10,29-37).

Mi segunda recomendación se refiere a los inmigrantes. Pido disculpas si hablo en cierto modo casi in causa propia. La iglesia en Estados Unidos conoce como nadie las esperanzas del corazón de los inmigrantes. Ustedes siempre han aprendido su idioma, apoyado su causa, integrado sus aportaciones, defendido sus derechos, promovido su búsqueda de prosperidad, mantenido encendida la llama de su fe. Incluso ahora, ninguna institución estadounidense hace más por los inmigrantes que sus comunidades cristianas. Ahora tienen esta larga ola de inmigración latina en muchas de sus diócesis. No sólo como Obispo de Roma, sino también como un Pastor venido del sur, siento la necesidad de darles las gracias y de animarles. Tal vez no sea fácil para ustedes leer su alma; quizás sean sometidos a la prueba por su diversid. En todo caso, sepan que también tienen recursos que compartir. Por tanto, acójanlos sin miedo. Ofrézcanles el calor del amor de Cristo y descifrarán el misterio de su corazón. Estoy seguro de que, una vez más, esta gente enriquecerá a su País y a su Iglesia.

Que Dios los bendiga y la Virgen los cuide. Gracias.

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1 «En la juventud, / yo tenía alas fuertes e infatigables, / pero no conocía las montañas. / Con la edad, / conocí las montañas, / pero mis alas fatigadas no podían seguir mi visión. / El genio es sabiduría y juventud» (Edgar Lee Masters, Antología de Spoon River).

[01503-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brother Bishops,

First of all, I wish to send a greeting to the Jewish community, our Jewish brothers and sisters, who today are celebrating Yom Kippur. May the Lord bless them with peace and help them to advance on the path of holiness, as we heard today in his word: “You shall be holy, for I am holy” (Lev 19:2).

I am pleased that we can meet at this point in the apostolic mission which has brought me to your country. I thank Cardinal Wuerl and Archbishop Kurtz for their kind words in your name. I am very appreciative of your welcome and the generous efforts made to help plan and organize my stay.

As I look out with affection at you, their pastors, I would like to embrace all the local Churches over which you exercise loving responsibility. I would ask you to share my affection and spiritual closeness with the People of God throughout this vast land.

The heart of the Pope expands to include everyone. To testify to the immensity of God’s love is the heart of the mission entrusted to the Successor of Peter, the Vicar of the One who on the cross embraced the whole of mankind. May no member of Christ’s Body and the American people feel excluded from the Pope’s embrace. Wherever the name of Jesus is spoken, may the Pope’s voice also be heard to affirm that: “He is the Savior”! From your great coastal cities to the plains of the Midwest, from the deep South to the far reaches of the West, wherever your people gather in the Eucharistic assembly, may the Pope be not simply a name but a felt presence, sustaining the fervent plea of the Bride: “Come, Lord!”

Whenever a hand reaches out to do good or to show the love of Christ, to dry a tear or bring comfort to the lonely, to show the way to one who is lost or to console a broken heart, to help the fallen or to teach those thirsting for truth, to forgive or to offer a new start in God… know that the Pope is at your side, the Pope supports you. He puts his hand on your own, a hand wrinkled with age, but by God’s grace still able to support and encourage.

My first word to you is one of thanksgiving to God for the power of the Gospel which has brought about remarkable growth of Christ’s Church in these lands and enabled its generous contribution, past and present, to American society and to the world. I thank you most heartily for your generous solidarity with the Apostolic See and the support you give to the spread of the Gospel in many suffering areas of our world. I appreciate the unfailing commitment of the Church in America to the cause of life and that of the family, which is the primary reason for my present visit. I am well aware of the immense efforts you have made to welcome and integrate those immigrants who continue to look to America, like so many others before them, in the hope of enjoying its blessings of freedom and prosperity. I also appreciate the efforts which you are making to fulfill the Church’s mission of education in schools at every level and in the charitable services offered by your numerous institutions. These works are often carried out without appreciation or support, often with heroic sacrifice, out of obedience to a divine mandate which we may not disobey.

I am also conscious of the courage with which you have faced difficult moments in the recent history of the Church in this country without fear of self-criticism and at the cost of mortification and great sacrifice. Nor have you been afraid to divest whatever is unessential in order to regain the authority and trust which is demanded of ministers of Christ and rightly expected by the faithful. I realize how much the pain of recent years has weighed upon you and I have supported your generous commitment to bring healing to victims – in the knowledge that in healing we too are healed – and to work to ensure that such crimes will never be repeated.

I speak to you as the Bishop of Rome, called by God in old age, and from a land which is also American, to watch over the unity of the universal Church and to encourage in charity the journey of all the particular Churches toward ever greater knowledge, faith and love of Christ. Reading over your names, looking at your faces, knowing the extent of your churchmanship and conscious of the devotion which you have always shown for the Successor of Peter, I must tell you that I do not feel a stranger in your midst. I am a native of a land which is also vast, with great open ranges, a land which, like your own, received the faith from itinerant missionaries. I too know how hard it is to sow the Gospel among people from different worlds, with hearts often hardened by the trials of a lengthy journey. Nor am I unaware of the efforts made over the years to build up the Church amid the prairies, mountains, cities and suburbs of a frequently inhospitable land, where frontiers are always provisional and easy answers do not always work. What does work is the combination of the epic struggle of the pioneers and the homely wisdom and endurance of the settlers. As one of your poets has put it, “strong and tireless wings” combined with the wisdom of one who “knows the mountains”.1

I do not speak to you with my voice alone, but in continuity with the words of my predecessors. From the birth of this nation, when, following the American Revolution, the first diocese was erected in Baltimore, the Church of Rome has always been close to you; you have never lacked its constant assistance and encouragement. In recent decades, three Popes have visited you and left behind a remarkable legacy of teaching. Their words remain timely and have helped to inspire the long-term goals which you have set for the Church in this country.

It is not my intention to offer a plan or to devise a strategy. I have not come to judge you or to lecture you. I trust completely in the voice of the One who “teaches all things” (Jn 14:26). Allow me only, in the freedom of love, to speak to you as a brother among brothers. I have no wish to tell you what to do, because we all know what it is that the Lord asks of us. Instead, I would turn once again to the demanding task – ancient yet never new – of seeking out the paths we need to take and the spirit with which we need to work. Without claiming to be exhaustive, I would share with you some reflections which I consider helpful for our mission.

We are bishops of the Church, shepherds appointed by God to feed his flock. Our greatest joy is to be shepherds, and only shepherds, pastors with undivided hearts and selfless devotion. We need to preserve this joy and never let ourselves be robbed of it. The evil one roars like a lion, anxious to devour it, wearing us down in our resolve to be all that we are called to be, not for ourselves but in gift and service to the “Shepherd of our souls” (1 Pet 2:25).

The heart of our identity is to be sought in constant prayer, in preaching (Acts 6:4) and in shepherding the flock entrusted to our care (Jn 21:15-17; Acts 20:28-31).

Ours must not be just any kind of prayer, but familiar union with Christ, in which we daily encounter his gaze and sense that he is asking us the question: “Who is my mother? Who are my brothers?” (Mk 3:31-34). One in which we can calmly reply: “Lord, here is your mother, here are your brothers! I hand them over to you; they are the ones whom you entrusted to me”. Such trusting union with Christ is what nourishes the life of a pastor.

It is not about preaching complicated doctrines, but joyfully proclaiming Christ who died and rose for our sake. The “style” of our mission should make our hearers feel that the message we preach is meant “for us”. May the word of God grant meaning and fullness to every aspect of their lives; may the sacraments nourish them with that food which they cannot procure for themselves; may the closeness of the shepherd make them them long once again for the Father’s embrace. Be vigilant that the flock may always encounter in the heart of their pastor that “taste of eternity” which they seek in vain in the things of this world. May they always hear from you a word of appreciation for their efforts to confirm in liberty and justice the prosperity in which this land abounds. At the same time, may you never lack the serene courage to proclaim that “we must work not for the food which perishes, but for the food which endures for eternal life” (Jn 6:27).

Shepherds who do not pasture themselves but are able to step back, away from the center, to “decrease”, in order to feed God’s family with Christ. Who keep constant watch, standing on the heights to look out with God’s eyes on the flock which is his alone. Who ascend to the height of the cross of God’s Son, the sole standpoint which opens to the shepherd the heart of his flock.

Shepherds who do not lower our gaze, concerned only with our concerns, but raise it constantly toward the horizons which God opens before us and which surpass all that we ourselves can foresee or plan. Who also watch over ourselves, so as to flee the temptation of narcissism, which blinds the eyes of the shepherd, makes his voice unrecognizable and his actions fruitless. In the countless paths which lie open to your pastoral concern, remember to keep focused on the core which unifies everything: “You did it unto me” (Mt 25:31-45).

Certainly it is helpful for a bishop to have the farsightedness of a leader and the shrewdness of an administrator, but we fall into hopeless decline whenever we confuse the power of strength with the strength of that powerlessness with which God has redeemed us. Bishops need to be lucidly aware of the battle between light and darkness being fought in this world. Woe to us, however, if we make of the cross a banner of worldly struggles and fail to realize that the price of lasting victory is allowing ourselves to be wounded and consumed (Phil 2:1-11).

We all know the anguish felt by the first Eleven, huddled together, assailed and overwhelmed by the fear of sheep scattered because the shepherd had been struck. But we also know that we have been given a spirit of courage and not of timidity. So we cannot let ourselves be paralyzed by fear.

I know that you face many challenges, and that the field in which you sow is unyielding and that there is always the temptation to give in to fear, to lick one’s wounds, to think back on bygone times and to devise harsh responses to fierce opposition.

And yet we are promoters of the culture of encounter. We are living sacraments of the embrace between God’s riches and our poverty. We are witnesses of the abasement and the condescension of God who anticipates in love our every response.

Dialogue is our method, not as a shrewd strategy but out of fidelity to the One who never wearies of visiting the marketplace, even at the eleventh hour, to propose his offer of love (Mt 20:1-16).

The path ahead, then, is dialogue among yourselves, dialogue in your presbyterates, dialogue with lay persons, dialogue with families, dialogue with society. I cannot ever tire of encouraging you to dialogue fearlessly. The richer the heritage which you are called to share with parrhesia, the more eloquent should be the humility with which you should offer it. Do not be afraid to set out on that “exodus” which is necessary for all authentic dialogue. Otherwise, we fail to understand the thinking of others, or to realize deep down that the brother or sister we wish to reach and redeem, with the power and the closeness of love, counts more than their positions, distant as they may be from what we hold as true and certain. Harsh and divisive language does not befit the tongue of a pastor, it has no place in his heart; although it may momentarily seem to win the day, only the enduring allure of goodness and love remains truly convincing.

We need to let the Lord’s words echo constantly in our hearts: “Take my yoke upon you, and learn from me, who am meek and humble of heart, and you will find refreshment for your souls” (Mt 11:28-30). Jesus’ yoke is a yoke of love and thus a pledge of refreshment. At times in our work we can be burdened by a sense of loneliness, and so feel the heaviness of the yoke that we forget that we have received it from the Lord. It seems to be ours alone, and so we drag it like weary oxen working a dry field, troubled by the thought that we are laboring in vain. We can forget the profound refreshment which is indissolubly linked to the One who has made us the promise.

We need to learn from Jesus, or better to learn Jesus, meek and humble; to enter into his meekness and his humility by contemplating his way of acting; to lead our Churches and our people – not infrequently burdened by the stress of everyday life – to the ease of the Lord’s yoke. And to remember that Jesus’ Church is kept whole not by “consuming fire from heaven” (Lk 9:54), but by the secret warmth of the Spirit, who “heals what is wounded, bends what is rigid, straightens what is crooked”.

The great mission which the Lord gives us is one which we carry out in communion, collegially. The world is already so torn and divided, brokenness is now everywhere. Consequently, the Church, “the seamless garment of the Lord” cannot allow herself to be rent, broken or fought over.

Our mission as bishops is first and foremost to solidify unity, a unity whose content is defined by the Word of God and the one Bread of Heaven. With these two realities each of the Churches entrusted to us remains Catholic, because open to, and in communion with, all the particular Churches and with the Church of Rome which “presides in charity”. It is imperative, therefore, to watch over that unity, to safeguard it, to promote it and to bear witness to it as a sign and instrument which, beyond every barrier, unites nations, races, classes and generations.

May the forthcoming Holy Year of Mercy, by drawing us into the fathomless depths of God’s heart in which no division dwells, be for all of you a privileged moment for strengthening communion, perfecting unity, reconciling differences, forgiving one another and healing every rift, that your light may shine forth like “a city built on a hill” (Mt 5:14).

This service to unity is particularly important for this nation, whose vast material and spiritual, cultural and political, historical and human, scientific and technological resources impose significant moral responsibilities in a world which is seeking, confusedly and laboriously, new balances of peace, prosperity and integration. It is an essential part of your mission to offer to the United States of America the humble yet powerful leaven of communion. May all mankind know that the presence in its midst of the “sacrament of unity” (Lumen Gentium, 1) is a guarantee that its fate is not decay and dispersion.

This kind of witness is a beacon whose light can reassure men and women sailing through the dark clouds of life that a sure haven awaits them, that they will not crash on the reefs or be overwhelmed by the waves. I encourage you, then, my brothers, to confront the challenging issues of our time. Ever present within each of them is life as gift and responsibility. The future freedom and dignity of our societies depends on how we face these challenges.

The innocent victim of abortion, children who die of hunger or from bombings, immigrants who drown in the search for a better tomorrow, the elderly or the sick who are considered a burden, the victims of terrorism, wars, violence and drug trafficking, the environment devastated by man’s predatory relationship with nature – at stake in all of this is the gift of God, of which we are noble stewards but not masters. It is wrong, then, to look the other way or to remain silent. No less important is the Gospel of the Family, which in the World Meeting of Families in Philadelphia I will emphatically proclaim together with you and the entire Church.

These essential aspects of the Church’s mission belong to the core of what we have received from the Lord. It is our duty to preserve and communicate them, even when the tenor of the times becomes resistent and even hostile to that message (Evangelii Gaudium, 34-39). I urge you to offer this witness, with the means and creativity born of love, and with the humility of truth. It needs to be preached and proclaimed to those without, but also to find room in people’s hearts and in the conscience of society.

To this end, it is important that the Church in the United States also be a humble home, a family fire which attracts men and women through the attractive light and warmth of love. As pastors, we know well how much darkness and cold there is in this world; we know the loneliness and the neglect experienced by many people, even amid great resources of communication and material wealth. We also know their fear in the face of life, their despair and the many forms of escapism to which it gives rise.

Consequently, only a Church which can gather around the family fire remains able to attract others. And not any fire, but the one which blazed forth on Easter morn. The risen Lord continues to challenge the Church’s pastors through the quiet plea of so many of our brothers and sisters: “Have you something to eat?” We need to recognize the Lord’s voice, as the apostles did on the shore of the lake of Tiberius (Jn 21:4-12). It becomes even more urgent to grow in the certainty that the embers of his presence, kindled in the fire of his passion, precede us and will never die out. Whenever this certainty weakens, we end up being caretakers of ash, and not guardians and dispensers of the true light and the warmth which causes our hearts to burn within us (Lk 24:32).

Before concluding, allow me to offer two recommendations which are close to my heart. The first refers to your fatherhood as bishops. Be pastors close to people, pastors who are neighbors and servants. Let this closeness be expressed in a special way towards your priests. Support them, so that they can continue to serve Christ with an undivided heart, for this alone can bring fulfillment to ministers of Christ. I urge you, then, not to let them be content with half-measures. Find ways to encourage their spiritual growth, lest they yield to the temptation to become notaries and bureaucrats, but instead reflect the motherhood of the Church, which gives birth to and raises her sons and daughters. Be vigilant lest they tire of getting up to answer those who knock on their door by night, just when they feel entitled to rest (Lk 11:5-8). Train them to be ready to stop, care for, soothe, lift up and assist those who, “by chance” find themselves stripped of all they thought they had (Lk 10:29-37).

My second recommendation has to do with immigrants. I ask you to excuse me if in some way I am pleading my own case. The Church in the United States knows like few others the hopes present in the hearts of these “pilgrims”. From the beginning you have learned their languages, promoted their cause, made their contributions your own, defended their rights, helped them to prosper, and kept alive the flame of their faith. Even today, no American institution does more for immigrants than your Christian communities. Now you are facing this stream of Latin immigration which affects many of your dioceses. Not only as the Bishop of Rome, but also as a pastor from the South, I feel the need to thank and encourage you. Perhaps it will not be easy for you to look into their soul; perhaps you will be challenged by their diversity. But know that they also possess resources meant to be shared. So do not be afraid to welcome them. Offer them the warmth of the love of Christ and you will unlock the mystery of their heart. I am certain that, as so often in the past, these people will enrich America and its Church.

May God bless you and Our Lady watch over you! Thank you!

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1 “In youth my wings were strong and tireless, / But I did not know the mountains. / In age I know the mountains / But my weary wings could not follow my vision – / Genius is wisdom and youth.” (Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology, “Alexander Throckmorton”).

[01503-EN.02] [Original text: Italian]

A conclusione dell’incontro, dopo la benedizione delle Medaglie commemorative del Viaggio Apostolico e la presentazione individuale dei Cardinali presenti, del Permanent Council della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti e di alcuni suoi dirigenti, Papa Francesco ha salutato nella “Thomas Sin Lee Memorial Hall” alcuni benefattori e collaboratori della Cattedrale. Quindi è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Washington.

[B0710-XX.02]