Incontro con i Vescovi dell’Asia, nel Santuario di Haemi
Sacramento del Battesimo amministrato dal Papa nella Nunziatura Apostolica di Seoul
Incontro con i Vescovi dell’Asia, nel Santuario di Haemi
Discorso del Santo Padre
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua spagnola
Questa mattina il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica di Seoul e dall’eliporto di Yongsan è decollato, alle ore 10.00, alla volta del Santuario di Haemi per l’incontro con i Vescovi dell’Asia.
Al suo arrivo al Santuario di Haemi, detto anche "Santuario del martire ignoto"- perché l’identità della maggior parte dei 132 martiri uccisi in quel luogo non è nota - Papa Francesco è stato accolto dal Rettore all’ingresso principale della chiesa nel cui interno si trovavano i Vescovi provenienti da tutta l’Asia ed i Vescovi ospiti.
Dopo la preghiera dell’Ora Media e l’indirizzo di saluto del Presidente della Federazione delle Conferenze Episcopali d’Asia (FABC) e Arcivescovo di Mumbay, Card. Oswald Gracias, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Desidero rivolgervi un fraterno e cordiale saluto nel Signore, mentre siamo radunati in questo luogo santo, nel quale numerosi cristiani hanno donato la loro vita per la fedeltà a Cristo. Mi dicevano che ci sono i martiri senza nome, perché noi non ne conosciamo i nomi: sono santi senza nome. Ma questo mi fa pensare a tanti, tanti cristiani santi, nelle nostre chiese: bambini, ragazzi, uomini, donne, vecchietti… tanti! Non conosciamo i nomi, ma sono santi. Ci fa bene pensare a questa gente semplice che porta avanti la sua vita cristiana, e soltanto il Signore conosce la sua santità. La loro testimonianza di carità ha portato grazie e benedizioni alla Chiesa in Corea ed anche al di là dei suoi confini: le loro preghiere ci aiutino ad essere pastori fedeli delle anime affidate alla nostra cura. Ringrazio il cardinale Gracias per le gentili parole di benvenuto e per il lavoro svolto dalla Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia nel dare impulso alla solidarietà e promuovere l’azione pastorale nelle vostre Chiese locali.
In questo vasto Continente, nel quale abita una grande varietà di culture, la Chiesa è chiamata ad essere versatile e creativa nella sua testimonianza al Vangelo, mediante il dialogo e l’apertura verso tutti. Questa è la sfida vostra! In verità, il dialogo è parte essenziale della missione della Chiesa in Asia (cfr Ecclesia in Asia, 29). Ma nell’intraprendere il cammino del dialogo con individui e culture, quale dev’essere il nostro punto di partenza e il nostro punto di riferimento fondamentale che ci guida alla nostra meta? Certamente esso è la nostra identità propria, la nostra identità di cristiani. Non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità. Dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza non si può dialogare, non si può incominciare a dialogare. E, d’altra parte, non può esserci dialogo autentico se non siamo capaci di aprire la mente e il cuore, con empatia e sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo. E’ un’attenzione, e nell’attenzione ci guida lo Spirito Santo. Un chiaro senso dell’identità propria di ciascuno e una capacità di empatia sono pertanto il punto di partenza per ogni dialogo. Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo, ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Egli richiede da noi. E se la nostra comunicazione non vuole essere un monologo, dev’esserci apertura di mente e di cuore per accettare individui e culture. Senza paura: la paura è nemica di queste aperture.
Il compito di appropriarci della nostra identità e di esprimerla si rivela tuttavia non sempre facile, poiché, dal momento che siamo peccatori, saremo sempre tentati dallo spirito del mondo, che si manifesta in modi diversi. Vorrei qui segnalarne tre. Il primo di essi è l’abbaglio ingannevole del relativismo, che oscura lo splendore della verità e, scuotendo la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione. È una tentazione che nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che «al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Gaudium et spes, 10; cfr Eb 13,8). Non parlo qui del relativismo inteso solamente come un sistema di pensiero, ma di quel relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità.
Un secondo modo attraverso il quale il mondo minaccia la solidità della nostra identità cristiana è la superficialità: la tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano (cfr Fil 1,10). In una cultura che esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione e di fuga, ciò presenta un serio problema pastorale. Per i ministri della Chiesa, questa superficialità può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie, a scapito dell’incontro diretto e fruttuoso con i nostri fedeli, e anche con i non-fedeli, specialmente i giovani, che hanno invece bisogno di una solida catechesi e di una sicura guida spirituale. Senza un radicamento in Cristo, le verità per le quali viviamo finiscono per incrinarsi, la pratica delle virtù diventa formalistica e il dialogo viene ridotto ad una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo. Quell’accordo sul disaccordo… perché le acque non si muovano… Questa superficialità che ci fa tanto male.
C’è poi una terza tentazione, che è l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti. Gesù ha lottato tanto con questa gente che si nascondeva dietro le leggi, i regolamenti, le risposte facili… Li ha chiamati ipocriti. La fede per sua natura non è centrata su se stessa, la fede tende ad "andare fuori". Cerca di farsi comprendere, fa nascere la testimonianza, genera la missione. In questo senso, la fede ci rende capaci di essere al tempo stesso coraggiosi e umili nella nostra testimonianza di speranza e di amore. San Pietro ci dice che dobbiamo essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). La nostra identità di cristiani consiste in definitiva nell’impegno di adorare Dio solo e di amarci gli uni gli altri, di essere al servizio gli uni degli altri e di mostrare attraverso il nostro esempio non solo in che cosa crediamo, ma anche in che cosa speriamo e chi è Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cfr 2 Tm 1,12).
Per riassumere, è la fede viva in Cristo che costituisce la nostra identità più profonda, cioè essere radicati nel Signore. E se c’è questo, tutto il resto è secondario. È da questa identità profonda, la fede viva in Cristo nella quale siamo radicati, da questa realtà profonda che prende avvio il nostro dialogo, ed è questa che siamo chiamati a condividere in modo sincero, onesto, senza presunzione, attraverso il dialogo della vita quotidiana, il dialogo della carità e in tutte quelle occasioni più formali che possono presentarsi. Poiché Cristo è la nostra vita (cfr Fil 1,21), parliamo di Lui e a partire da Lui, senza esitazione o paura. La semplicità della sua parola diventa evidente nella semplicità della nostra vita, nella semplicità del nostro modo di comunicare, nella semplicità delle nostre opere di servizio e carità verso i nostri fratelli e sorelle.
Vorrei ora fare riferimento ad un ulteriore elemento della nostra identità di cristiani: essa è feconda. Poiché continuamente nasce e si nutre della grazia del nostro dialogo con il Signore e degli impulsi dello Spirito, essa porta un frutto di giustizia, bontà e pace. Permettetemi quindi di farvi una domanda circa i frutti che l’identità di cristiani sta portando nella vostra vita e nella vita delle comunità affidate alla vostra cura pastorale. L’identità cristiana delle vostre Chiese particolari appare chiaramente nei vostri programmi di catechesi e di pastorale giovanile, nel vostro servizio ai poveri e a coloro che languiscono ai margini delle nostre ricche società e nei vostri sforzi di alimentare le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa? Appare in questa fecondità? Questa è una domanda che faccio, e ognuno di voi può pensarci.
Infine, assieme ad un chiaro senso della nostra propria identità di cristiani, il dialogo autentico richiede anche una capacità di empatia. Perché ci sia dialogo, dev’esserci questa empatia. La sfida che ci si pone è quella di non limitarci al ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore. Tale empatia dev’essere frutto del nostro sguardo spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad "ascoltare", attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori desiderano comunicare. In questo senso, il dialogo richiede da noi un autentico spirito "contemplativo": spirito contemplativo di apertura e di accoglienza dell’altro. Io non posso dialogare se sono chiuso all’altro. Apertura? Di più: accoglienza! Vieni a casa mia, tu, nel mio cuore. Il mio cuore ti accoglie. Vuole ascoltarti. Questa capacità di empatia ci rende capaci di un vero dialogo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’esperienza di fraternità e di umanità condivisa. Se vogliamo andare al fondamento teologico di questo, andiamo al Padre: ci ha creato tutti. Siamo figli dello stesso Padre. Questa capacità di empatia conduce ad un genuino incontro – dobbiamo andare verso questa cultura dell’incontro – in cui il cuore parla al cuore. Siamo arricchiti dalla sapienza dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà. "Ma, fratello Papa, noi facciamo questo, ma forse non convertiamo nessuno o pochi…". Intanto tu fai questo: con la tua identità, ascolta l’altro. Qual è stato il primo comandamento di Dio Padre al nostro padre Abramo? "Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile". E così, con la mia identità e con la mia empatia, apertura, cammino con l’altro. Non cerco di portarlo dalla mia parte, non faccio proselitismo. Papa Benedetto ci ha detto chiaramente: "La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione". Nel contempo, camminiamo nella presenza del Padre, siamo irreprensibili: compiamo questo primo comandamento. E lì si farà l’incontro, il dialogo. Con l’identità, con l’apertura. E’ un cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà. Come ha osservato giustamente San Giovanni Paolo II, il nostro impegno per il dialogo si fonda sulla logica stessa dell’incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato con la nostra lingua (cfr Ecclesia in Asia, 29). In tale spirito di apertura agli altri, spero fermamente che i Paesi del vostro Continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti. Non mi riferisco soltanto al dialogo politico, ma al dialogo fraterno… "Ma questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi". E il Signore farà la grazia: talvolta muoverà i cuori, qualcuno chiederà il battesimo, altre volte no. Ma sempre camminiamo insieme. Questo è il nocciolo del dialogo.
Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra accoglienza fraterna e cordiale. Quando guardiamo al grande Continente asiatico, con la sua vasta estensione di terre, le sue antiche culture e tradizioni, siamo consapevoli che, nel piano di Dio, le vostre comunità cristiane sono davvero un pusillus grex, un piccolo gregge, al quale tuttavia è stata affidata la missione di portare la luce del Vangelo fino ai confini della terra. E’ proprio il seme di senape! Piccolino… Il Buon Pastore, che conosce e ama ciascuna delle sue pecore, guidi e irrobustisca i vostri sforzi nel radunarle in unità con Lui e con tutti gli altri membri del suo gregge sparso per il mondo. Adesso, tutti insieme, affidiamo alla Madonna le vostre Chiese, il Continente asiatico, perché come Madre ci insegni quello che soltanto una mamma sa insegnare: chi sei, come ti chiami e come si cammina con gli altri nella vita. Preghiamo la Madonna insieme.
[01277-01.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
I offer you a warm and fraternal greeting in the Lord as we gather together at this holy site where so many Christians gave their lives in fidelity to Christ. I have been told that some are nameless martyrs, since we do not know all their names: they are saints without a name. But this makes me think about the many, many holy Christians in our churches: children and young people, men, women, elderly persons… so very many of them! We do not know their names, but they are saints. It is good for us to think of these ordinary people who are persevering in their lives as Christians, and the Lord alone recognizes their sanctity. Their testimony of charity has brought blessings and graces not only to the Church in Korea but also beyond; may their prayers help us to be faithful shepherds of the souls entrusted to our care. I thank Cardinal Gracias for his kind words of welcome and for the work of the Federation of Asian Bishops’ Conferences in fostering solidarity and promoting effective pastoral outreach in your local Churches.
On this vast continent which is home to a great variety of cultures, the Church is called to be versatile and creative in her witness to the Gospel through dialogue and openness to all. This is the challenge before you! Dialogue, in fact, is an essential part of the mission of the Church in Asia (cf. Ecclesia in Asia, 29).
But in undertaking the path of dialogue with individuals and cultures, what should be our point of departure and our fundamental point of reference, which guides us to our destination? Surely it is our own identity, our identity as Christians. We cannot engage in real dialogue unless we are conscious of our own identity. We can’t dialogue, we can’t start dialoguing from nothing, from zero, from a foggy sense of who we are. Nor can there be authentic dialogue unless we are capable of opening our minds and hearts, in empathy and sincere receptivity, to those with whom we speak. In other words, an attentiveness in which the Holy Spirit is our guide. A clear sense of one’s own identity and a capacity for empathy are thus the point of departure for all dialogue. If we are to speak freely, openly and fruitfully with others, we must be clear about who we are, what God has done for us, and what it is that he asks of us. And if our communication is not to be a monologue, there has to be openness of heart and mind to accepting individuals and cultures. Fearlessly, for fear is the enemy of this kind of openness.
The task of appropriating and expressing our identity does not always prove easy, however, since – being sinners – we will always be tempted by the spirit of the world, which shows itself in a variety of ways. I would like to point to three of these. One is the deceptive light of relativism, which obscures the splendor of truth and, shaking the earth beneath our feet, pulls us toward the shifting sands of confusion and despair. It is a temptation which nowadays also affects Christian communities, causing people to forget that in a world of rapid and disorienting change, "there is much that is unchanging, much that has its ultimate foundation in Christ, who is the same yesterday, and today, and forever" (Gaudium et Spes, 10; cf. Heb 13:8). Here I am not speaking about relativism merely as a system of thought, but about that everyday practical relativism which almost imperceptibly saps our sense of identity.
A second way in which the world threatens the solidity of our Christian identity is superficiality, a tendency to toy with the latest fads, gadgets and distractions, rather than attending to the things that really matter (cf. Phil 1:10). In a culture which glorifies the ephemeral, and offers so many avenues of avoidance and escape, this can present a serious pastoral problem. For the ministers of the Church, it can also make itself felt in an enchantment with pastoral programs and theories, to the detriment of direct, fruitful encounter with our faithful, and others too, especially the young who need solid catechesis and sound spiritual guidance. Without a grounding in Christ, the truths by which we live our lives can gradually recede, the practice of the virtues can become formalistic, and dialogue can be reduced to a form of negotiation or an agreement to disagree. An agreement to disagree… so as not to make waves… This sort of superficiality does us great harm.
Then too, there is a third temptation: that of the apparent security to be found in hiding behind easy answers, ready formulas, rules and regulations. Jesus clashed with people who would hide behind laws, regulations and easy answers… He called them hypocrites. Faith by nature is not self-absorbed; it "goes out". It seeks understanding; it gives rise to testimony; it generates mission. In this sense, faith enables us to be both fearless and unassuming in our witness of hope and love. Saint Peter tells us that we should be ever ready to respond to all who ask the reason for the hope within us (cf. 1 Pet 3:15). Our identity as Christians is ultimately seen in our quiet efforts to worship God alone, to love one another, to serve one another, and to show by our example not only what we believe, but also what we hope for, and the One in whom we put our trust (cf. 2 Tim 1:12).
Once again, it is our living faith in Christ which is our deepest identity, our being rooted in the Lord. If we have this, everything else is secondary. It is from this deep identity – our being grounded in a living faith in Christ – it is from this profound reality that our dialogue begins, and this is what we are asked to share, sincerely, honestly and without pretence, in the dialogue of everyday life, in the dialogue of charity, and in those more formal opportunities which may present themselves. Because Christ is our life (cf. Phil 1:21), let us speak "from him and of him" readily and without hesitation or fear. The simplicity of his word becomes evident in the simplicity of our lives, in the simplicity of our communication, in the simplicity of our works of loving service to our brothers and sisters.
I would now touch on one further aspect of our Christian identity. It is fruitful. Because it is born of, and constantly nourished by, the grace of our dialogue with the Lord and the promptings of his Spirit, it bears a harvest of justice, goodness and peace. Let me ask you, then, about the fruits which it is bearing in your own lives and in the lives of the communities entrusted to your care. Does the Christian identity of your particular Churches shine forth in your programs of catechesis and youth ministry, in your service to the poor and those languishing on the margins of our prosperous societies, and in your efforts to nourish vocations to the priesthood and the religious life? Does it make itself felt in their fruitfulness? This is a question I raise, for each of you to think about.
Finally, together with a clear sense of our own Christian identity, authentic dialogue also demands a capacity for empathy. For dialogue to take place, there has to be this empathy. We are challenged to listen not only to the words which others speak, but to the unspoken communication of their experiences, their hopes and aspirations, their struggles and their deepest concerns. Such empathy must be the fruit of our spiritual insight and personal experience, which lead us to see others as brothers and sisters, and to "hear", in and beyond their words and actions, what their hearts wish to communicate. In this sense, dialogue demands of us a truly contemplative spirit of openness and receptivity to the other. I cannot engage in dialogue if I am closed to others. Openness? Even more: acceptance! Come to my house, enter my heart. My heart welcomes you. It wants to hear you. This capacity for empathy enables a true human dialogue in which words, ideas and questions arise from an experience of fraternity and shared humanity. If we want to get to the theological basis of this, we have to go to the Father: he created us all; all of us are children of one Father. This capacity for empathy leads to a genuine encounter – we have to progress toward this culture of encounter – in which heart speaks to heart. We are enriched by the wisdom of the other and become open to travelling together the path to greater understanding, friendship and solidarity. "But, brother Pope, this is what we are doing, but perhaps we are converting no one or very few people…" But you are doing it anyway: with your identity, you are hearing the other. What was the first commandment of God our Father to our father Abraham? "Walk in my presence and be blameless". And so, with my identity and my empathy, my openness, I walk with the other. I don’t try to make him come over to me, I don’t proselytize. Pope Benedict told us clearly: "The Church does not grow by proselytizing, but by attracting". In the meantime, let us walk in the Father’s presence, let us be blameless; let us practice this first commandment. That is where encounter, dialogue, will take place. With identity, with openness. It is a path to greater knowledge, friendship and solidarity. As Saint John Paul II rightly recognized, our commitment to dialogue is grounded in the very logic of the incarnation: in Jesus, God himself became one of us, shared in our life and spoke to us in our own language (cf. Ecclesia in Asia, 29). In this spirit of openness to others, I earnestly hope that those countries of your continent with whom the Holy See does not yet enjoy a full relationship, may not hesitate to further a dialogue for the benefit of all. I am not referring to political dialogue alone, but to fraternal dialogue… "But these Christians don’t come as conquerors, they don’t come to take away our identity: they bring us their own, but they want to walk with us". And the Lord will grant his grace: sometimes he will move hearts and someone will ask for baptism, sometimes not. But always let us walk together. This is the heart of dialogue.
Dear brothers, I thank you for your warm and fraternal welcome. When we look out at the great Asian continent, with its vast expanses of land, its ancient cultures and traditions, we are aware that, in God’s plan, your Christian communities are indeed a pusillus grex, a small flock which nonetheless is charged to bring the light of the Gospel to the ends of the earth. A true mustard seed! A very small seed… May the Good Shepherd, who knows and loves each of his sheep, guide and strengthen your efforts to build up their unity with him and with all the members of his flock throughout the world. And now, together, let us entrust your Churches, and the continent of Asia, to Our Lady, so that as our Mother she may teach us what only a mother can teach: who you are, what your name is, and how you get along with others in life. Let us all pray to Our Lady.
[01277-02.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua spagnola
Reciban mi saludo cordial y fraterno en el Señor ahora que estamos reunidos en este lugar santo donde muchos cristianos dieron sus vidas por fidelidad a Cristo. Me han dicho que hay mártires sin nombre, porque no conocemos sus nombres: son santos sin nombre. Pero esto me lleva a pensar en tantos, tantos cristianos santos, en nuestras iglesias: niños, jóvenes, hombres, mujeres, ancianos… ¡tantos! No conocemos sus nombres, pero son santos. Nos hace mucho bien pensar en esta gente sencilla que lleva adelante su vida cristiana, y sólo el Señor conoce su santidad. Su testimonio de caridad ha traído gracias y bendiciones no sólo a la Iglesia en Corea sino también más allá de sus confines; que sus oraciones nos ayuden a ser pastores fieles de las almas confiadas a nuestros cuidados. Agradezco al Cardenal Gracias sus amables palabras de bienvenida y la labor de la Federación de las Conferencias Episcopales de Asia en orden a impulsar la solidaridad y promover la acción pastoral en sus Iglesias locales.
En este vasto continente, en el que conviven una gran variedad de culturas, la Iglesia está llamada a ser versátil y creativa en su testimonio del Evangelio, mediante el diálogo y la apertura a todos. ¡Éste es su desafío! Verdaderamente, el diálogo es una parte esencial de la misión de la Iglesia en Asia (cf. Ecclesia in Asia, 29). Pero al emprender el camino del diálogo con personas y culturas, ¿cuál debe ser nuestro punto de partida y nuestro punto de referencia fundamental para llegar a nuestra meta? Ciertamente, ha de ser el de nuestra propia identidad, nuestra identidad de cristianos. No podemos comprometernos propiamente a un diálogo si no tenemos clara nuestra identidad. Desde la nada, desde una autoconciencia nebulosa no se puede dialogar, no se puede empezar a dialogar. Y, por otra parte, no puede haber diálogo auténtico si no somos capaces de tener la mente y el corazón abiertos a aquellos con quienes hablamos, con empatía y sincera acogida. Se trata de atender, y en esa atención nos guía el Espíritu Santo. Tener clara la propia identidad y ser capaces de empatía son, por tanto, el punto de partida de todo diálogo. Si queremos hablar con los otros, con libertad, abierta y fructíferamente, hemos de tener bien claro lo que somos, lo que Dios ha hecho por nosotros y lo que espera de nosotros. Y, si nuestra comunicación no quiere ser un monólogo, hemos de tener apertura de mente y de corazón para aceptar a las personas y a las culturas. Sin miedo: el miedo es enemigo de estas aperturas.
No siempre es fácil asumir nuestra identidad y expresarla, puesto que, como pecadores que somos, siempre estamos tentados por el espíritu del mundo, que se manifiesta de diversos modos. Quisiera señalar tres. El primero es el deslumbramiento engañoso del relativismo, que oculta el esplendor de la verdad y, removiendo la tierra bajo nuestros pies, nos lleva a las arenas movedizas de la confusión y la desesperación. Es una tentación que hoy en día afecta también a las comunidades cristianas, haciéndonos olvidar que «bajo la superficie de lo cambiante hay muchas cosas permanentes, que tienen su último fundamento en Cristo, quien existe ayer, hoy y para siempre» (Gaudium et spes, 10; cf. Hb 13,8). No hablo aquí del relativismo únicamente como sistema de pensamiento, sino de ese relativismo práctico de cada día que, de manera casi imperceptible, debilita nuestro sentido de identidad.
Un segundo modo mediante el cual el mundo amenaza la solidez de nuestra identidad cristiana es la superficialidad: la tendencia a entretenernos con las últimas modas, artilugios y distracciones, en lugar de dedicarnos a las cosas que realmente son importantes (cf. Flp 1,10). En una cultura que exalta lo efímero y ofrece tantas posibilidades de evasión y de escape, esto puede representar un serio problema pastoral. Para los ministros de la Iglesia, esta superficialidad puede manifestarse en quedar fascinados por los programas pastorales y las teorías, en detrimento del encuentro directo y fructífero con nuestros fieles, y también con los que no lo son, especialmente con los jóvenes, que tienen necesidad de una sólida catequesis y de una buena dirección espiritual. Si no estamos enraizados en Cristo, las verdades que nos hacen vivir acaban por resquebrajarse, la práctica de las virtudes se vuelve formalista y el diálogo queda reducido a una especie de negociación o a estar de acuerdo en el desacuerdo. El acuerdo en el desacuerdo… para que las aguas no se muevan… Esa superficialidad nos hace mucho daño.
Hay una tercera tentación: la aparente seguridad que se esconde tras las respuestas fáciles, frases hechas, normas y reglamentos. Jesús luchó mucho con esa gente que se escondía detrás de las normas, los reglamentos, las respuestas fáciles… Los llamó hipócritas. La fe, por su naturaleza, no está centrada en sí misma, la fe tiende a "salir fuera". Quiere hacerse entender, da lugar al testimonio, genera la misión. En este sentido, la fe nos hace al mismo tiempo audaces y humildes en nuestro testimonio de esperanza y de amor. San Pedro nos dice que tenemos que estar dispuestos a dar razón de nuestra esperanza a quien nos lo pidiere (cf. 1 P 3,15). Nuestra identidad de cristianos consiste, en definitiva, en el compromiso de adorar sólo a Dios y amarnos mutuamente, de estar al servicio los unos de los otros y de mostrar mediante nuestro ejemplo no sólo lo que creemos sino también lo que esperamos y quién es Aquel en quien hemos puesto nuestra confianza (cf. 2 Tm 1,12).
Así pues, la fe viva en Cristo constituye nuestra identidad más profunda, es decir, estar enraizados en el Señor. Y si se da esto, lo demás es secundario. A partir de esta identidad profundad, la fe viva en Cristo en la que estamos radicados, a partir de esta realidad profunda, comienza nuestro diálogo y eso es lo que debemos compartir, sincera y honestamente, sin fingimientos, mediante el diálogo de la vida cotidiana, el diálogo de la caridad y en todas aquellas ocasiones más formales que puedan presentarse. Ya que Cristo es nuestra vida (cf. Flp 1,21), hablemos de él y a partir de él, con decisión y sin miedo. La sencillez de su palabra se transparenta en la sencillez de nuestra vida, la sencillez de nuestro modo de hablar, la sencillez de nuestras obras de servicio y caridad con los hermanos y hermanas.
Quisiera añadir un aspecto más de nuestra identidad como cristianos: su fecundidad. Naciendo y nutriéndose continuamente de la gracia de nuestro diálogo con el Señor y de los impulsos del Espíritu, da frutos de justicia, bondad y paz. Permítanme, por tanto, que les pregunte por los frutos de la identidad cristiana en su vida y en la vida de las comunidades confiadas a su atención pastoral. ¿La identidad cristiana de sus Iglesias particulares queda claramente reflejada en sus programas de catequesis y de pastoral juvenil, en su solicitud por los pobres y los que se consumen al margen de nuestras ricas sociedades y en sus desvelos por fomentar las vocaciones al sacerdocio y a la vida religiosa? ¿Se manifiesta con esta fecundidad? És una pregunta que les hago, y sobre la que cada uno de ustedes puede reflexionar.
Finalmente, junto a un claro sentido de la propia identidad cristiana, un auténtico diálogo requiere también capacidad de empatía. Para que haya diálogo tiene que darse esta empatía. Se trata de escuchar no sólo las palabras que pronuncia el otro, sino también la comunicación no verbal de sus experiencias, de sus esperanzas, de sus aspiraciones, de sus dificultades y de lo que realmente le importa. Esta empatía debe ser fruto de nuestro discernimiento espiritual y de nuestra experiencia personal, que nos hacen ver a los otros como hermanos y hermanas, y "escuchar", en sus palabras y sus obras, y más allá de ellas, lo que sus corazones quieren decir. En este sentido, el diálogo requiere por nuestra parte un auténtico espíritu "contemplativo": espíritu contemplativo de apertura y acogida del otro. No puedo dialogar si estoy cerrado al otro. ¿Apertura? Más: ¡Acogida! Ven a mi casa, tú, a mi corazón. Mi corazón te acoge. Quiere escucharte. Esta capacidad de empatía posibilita un verdadero diálogo humano, en el que las palabras, ideas y preguntas surgen de una experiencia de fraternidad y de humanidad compartida. Si queremos llegar al fundamento teológico de esto, vayamos al Padre: él nos ha creado a todos. Somos hijos del mismo Padre. Esta capacidad de empatía lleva a un auténtico encuentro, –tenemos que caminar hacia esta cultura del encuentro–, en que se habla de corazón a corazón. Nos enriquece con la sabiduría del otro y nos dispone a recorrer juntos el camino de un mayor conocimiento, amistad y solidaridad. "Pero, hermano Papa, nosotros hacemos eso, pero probablemente no convertiremos a ninguno o a unos pocos…". Por lo pronto tú haz eso: con tu identidad, escucha al otro. ¿Cuál fue el primer mandamiento de Dios Padre a nuestro padre Abrahán? "Camina en mi presencia y sé irreprensible". Y así, con mi identidad y con mi empatía, apertura, camino con el otro. No busco que se pase a mi bando, no hago proselitismo. El Papa Benedicto nos dijo claramente: "La Iglesia no crece mediante el proselitismo sino por atracción". Al mismo tiempo, caminemos en la presencia del Padre, seamos irreprensibles: cumplamos este primer mandamiento. Y allí se realizará el encuentro, el diálogo. Con la identidad, con la apertura. Se trata de un camino hacia un conocimiento, una amistad y una solidaridad más profunda. Como dijo justamente san Juan Pablo II, nuestro compromiso por el diálogo se basa en la lógica de la encarnación: en Jesús, Dios mismo se ha hecho uno de nosotros, ha compartido nuestra existencia y nos ha hablado con un lenguaje humano (cf. Ecclesia in Asia, 29). En este espíritu de apertura a los otros, tengo la total confianza de que los países de este continente con los que la Santa Sede no tiene aún una relación plena avancen sin vacilaciones en un diálogo que a todos beneficiará. No me refiero solamente al diálogo político, sino al diálogo fraterno… "Pero estos cristianos no vienen como conquistadores, no vienen a quitarnos nuestra identidad: nos traen la suya, pero quieren caminar con nosotros". Y el Señor realizará la gracia: alguna vez moverá los corazones, alguno pedirá el bautismo, otras veces no. Pero siempre caminamos juntos. Éste es el núcleo del diálogo.
Queridos hermanos, les agradezco su acogida fraterna y cordial. Viendo este gran continente asiático, su vasta extensión de tierra, sus antiguas culturas y tradiciones, nos damos cuenta de que, en el plan de Dios, las comunidades cristianas son verdaderamente un pusillus grex, un pequeño rebaño, al que, sin embargo, se le ha confiado la misión de llevar la luz del Evangelio hasta los confines del mundo. Es precisamente el grano de mostaza. Pequeño… El Buen Pastor, que conoce y ama a cada una de sus ovejas, guíe y fortalezca sus desvelos por congregar a todos en la unidad con él y con los miembros de su rebaño extendido por el mundo. Ahora, todos juntos, confiemos a la Virgen sus Iglesias, el Continente Asiático, para que como Madre nos enseñe lo que sólo una mamá puede enseñar: quién eres, cómo te llamas y cómo se camina por la vida con los demás. Recemos juntos a la Virgen.
[01277-04.02] [Texto original: Italiano]
Al termine dell’incontro, dopo la presentazione individuale dei Vescovi presenti, il Papa si è recato alla Residenza del Santuario dove ha pranzato con i Vescovi dell’Asia e con i Membri del Seguito papale.
Sacramento del Battesimo amministrato dal Papa nella Nunziatura Apostolica di Seoul
Pubblichiamo di seguito una nota informativa sul Battesimo amministrato dal Santo Padre Francesco questa mattina nella Nunziatura Apostolica di Seoul:
Questa mattina (17 agosto) nella Cappella della Nunziatura alle ore 7 il signor Lee Ho Jin ha ricevuto il battesimo. Egli è padre di uno dei giovani morti nel naufragio del traghetto Sewol e aveva chiesto al Papa di essere battezzato in occasione dell'incontro fra il Papa e sopravvissuti e familiari della tragedia presso lo stadio di Daejeon. Il battezzando era accompagnato da un figlio e una figlia e dal sacerdote che lo aveva presentato al Papa a Daejeon. Padrino è stato un membro laico del personale della nunziatura. La celebrazione si è svolta in forma semplice ed è stata guidata in coreano dal padre John Chong Che-chon, S.I., che assiste il papa nel viaggio come interprete per la lingua coreana.
Il Papa è intervenuto personalmente per l'atto del Battesimo con l'infusione dell'acqua e l'unzione con il Sacro Crisma. Al battezzato è stato imposto il nome di Francesco. Il Papa è stato felice di poter partecipare così - in modo precedentemente non previsto - al grande ministero di amministrazione del battesimo di adulti della Chiesa in Corea.
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