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CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL'ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO "LUMEN FIDEI", 05.07.2013


CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL'ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO "LUMEN FIDEI"

● INTERVENTO DEL CARD. MARC. OUELLET, P.S.S.

● INTERVENTO DI S.E. MONS. GERHARD L. MÜLLER

● INTERVENTO DI S.E. MONS. RINO FISICHELLA INTERVENTO DI S.E. MONS. RINO FISICHELLA

Alle ore 11 di questa mattina nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si tiene la conferenza stampa di presentazione dell'Enciclica di Papa Francesco "Lumen fidei".

Intervengono: l’Em.mo Card. Marc Ouellet, P.S.S., Prefetto della Congregazione dei Vescovi; S.E. Mons. Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

● INTERVENTO DEL CARD. MARC. OUELLET, P.S.S.

 Testo in lingua italiana

 Testo in lingua francese Testo in lingua francese

 Testo in lingua inglese Testo in lingua inglese

 Testo in lingua italiana Testo in lingua italiana

Alla trilogia di Benedetto XVI sulle virtù teologali mancava un pilastro. La Provvidenza ha voluto che il pilastro mancante fosse un dono del Papa emerito al suo successore e nello stesso tempo un simbolo d’unità, poiché assumendo e portando a compimento l’opera intrapresa dal suo predecessore, Papa Francesco rende testimonianza con lui dell’unità della fede. La luce della fede è così consegnata dall’uno all’altro pontefice, come nelle corse allo stadio, grazie «al dono della successione apostolica» mediante la quale «è assicurata la continuità della memoria della Chiesa» come pure la «certezza di attingere alla sorgente pura dalla quale scaturisce la fede» (49).

Noi proviamo dunque una gioia particolare nel ricevere l’Enciclica Lumen Fidei, la cui modalità condivisa di trasmissione illustra in maniera straordinaria l’aspetto più fondamentale e originale da essa sviluppato, la dimensione della comunione nella fede. Questa enciclica parla in realtà esprimendosi in un "noi" che non è maiestatis ma bensì di comunione. Essa parla della fede come d’una esperienza di comunione, di dilatazione dell’io e di solidarietà nel cammino della Chiesa con Cristo per la salvezza dell’umanità. Io mi limiterò a illustrare questo punto di vista.

L’Enciclica presenta veramente la fede cristiana come una luce proveniente dall’ascolto della Parola di Dio nella storia. Una luce che mostra l’amore di Dio all’opera per stringere un’alleanza con l’umanità. Questa luce già si lascia percepire nelle opere del Creatore ma risplende come amore nella vita, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. In Lui, la luce dell’Amore irrompe nella storia e offre agli uomini una speranza che infonde il coraggio di camminare insieme verso un avvenire di piena comunione. «Cristo è colui che, avendo sopportato la sofferenza, "dà origine alla fede e la porta a compimento"», ci dice la Lettera agli Ebrei, ampiamente ripresa dall’Enciclica (Eb 12,2) (57).

Oggettivamente, la luce della fede orienta il senso della vita, porta conforto e consolazione ai cuori inquieti e abbattuti, ma impegna anche i credenti a porsi a servizio del bene comune dell’umanità attraverso l’annuncio e l’autentica condivisione della grazia ricevuta da Dio. Ecco dunque che la fede chiama i credenti ad abbracciare la sofferenza del mondo, come San Francesco e la Beata Madre Teresa, al fine di spargere in esso la luce di Cristo. «La fede non è una luce tale da dissolvere tutte le nostre tenebre, ma la lampada che guida i nostri passi nella notte, e ciò è quanto basta per il cammino», afferma l’Enciclica (57).

Soggettivamente, la fede è un’apertura all’Amore di Cristo, un accogliere, l’entrare in una relazione che allarga l’"io" alle dimensioni di un "noi" che non è soltanto umano, nella Chiesa, ma che è propriamente divino, e cioè una partecipazione autentica al "Noi" del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. L’Enciclica insiste su questo fondamento trinitario che costituisce la fede come realtà a un tempo personale ed ecclesiale: «Questa apertura al "noi" ecclesiale si verifica come l’apertura stessa dell’amore di Dio, che non è soltanto relazione tra Padre e Figlio, tra "me" e "te", ma che è anche nello Spirito un "noi", una comunione tra persone» (39).

In questa luce cristologica, trinitaria ed ecclesiale, la confessione della fede acquista la sua espressione concreta con la celebrazione dei sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’Eucaristia, in cui «il credente afferma che il centro dell’essere, il segreto più profondo d’ogni cosa, è la comunione divina» (45). Egli si trova allora «coinvolto nella verità da lui confessata» e per questo stesso fatto trasformato e «introdotto in una storia d’amore che lo afferra, che dilata il suo essere rendendolo membro d’una grande comunione», la Chiesa (45).

A partire da questo "Noi" trinitario che si prolunga nel "noi" ecclesiale, l’Enciclica si riallaccia in modo del tutto naturale al "noi" della famiglia che è il luogo per eccellenza di trasmissione della fede (43). Da un lato, ciò è ben chiaro nell’esperienza del battesimo dei bambini dove i genitori, il padrino e la madrina confessano la fede in nome del piccolo, accogliendolo così nella fede della Chiesa che sempre ci precede. Da un altro lato – ricorda l’Enciclica – sussistono profonde affinità tra la fede e l’amore senza fine che si promettono l’uomo e la donna che si uniscono in matrimonio. «Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri stessi progetti, che ci sostiene e ci permette di far dono alla persona amata dell’avvenire tutto intero» (52). Così, grazie alla fede, l’amore degli sposi ha più garanzia di durare e di unire le generazioni nella gioia della fedeltà e del servizio della vita. «La fede non è un rifugio per coloro che sono privi di coraggio, ma un’espansione della vita», conclude l’Enciclica, che vede la famiglia come «il primo ambito in cui la fede rischiara la città degli uomini» (52).

L’Enciclica aggiunge un considerevole sviluppo riguardo la pertinenza della fede per la vita sociale, per l’edificazione della città nella giustizia e nella pace, grazie al rispetto d’ogni persona e della sua libertà, grazie alle risorse di compassione e di riconciliazione da lei offerte per il conforto delle sofferenze e la composizione dei conflitti. «Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune» (51). La tendenza a confinare la fede nella sfera della vita privata si trova qui confutata in toni pacati, ma in maniera decisiva.

Molti aspetti in precedenza sviluppati dalle encicliche sulla carità e la speranza trovano il loro complemento in questa messa in luce della fede come comunione e servizio del bene comune. «Le mani della fede s’innalzano verso il cielo ma nello stesso tempo, nella carità, esse edificano una città, sulla base di rapporti che hanno a fondamento l’amore di Dio» (51). «Se togliamo la fede dalle nostre città, si indebolirà la confidenza tra di noi» (55). In breve, mediante la fede Dio vuole «rendere solide le relazioni tra gli uomini» (ib.), Egli spera che si realizzi la «grandezza della vita in comune ch’egli rende possibile» con la grazia della sua presenza (55).

In chiusura, l’Enciclica contempla Maria, la figura per eccellenza della fede, colei che ha ascoltato la Parola e l’ha conservata nel suo cuore, colei che ha seguito Gesù e che si è lasciata trasformare «entrando nello sguardo del Figlio di Dio incarnato» (58). Papa Francesco riafferma al termine con il suo predecessore una verità della fede messa in disparte e a volte in certi ambienti persino posta in dubbio: «Nella concezione verginale di Maria abbiamo un chiaro segno della filiazione divina di Cristo. L’origine eterna di Cristo è nel Padre, egli è il Figlio in un senso totale e unico; e per questo egli nasce nel tempo senza l’intervento di un uomo» (59).

Accogliamo dunque con grande gioia e gratitudine questa confessione di fede integrale sotto forma di catechesi a quattro mani dei successori di Pietro. Essi espongono insieme la fede della Chiesa nella sua bellezza che «si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti» (22).

[01015-01.01] [Texte original: Français]

 Testo in lingua francese

Il manquait un pilier à la trilogie de Benoît XVI sur les vertus théologales. La Providence a voulu que le pilier manquant soit un cadeau du Pape émérite à son successeur et en même temps un symbole d’unité, car en assumant et complétant l’œuvre entreprise par son prédécesseur, le Pape François témoigne avec lui de l’unité de la foi. La lumière de la foi est ainsi relayée d’un pontife à l’autre, comme dans les courses du stade, grâce « au don de la succession apostolique » par laquelle « la continuité de la mémoire de l’Église est assurée » de même que la « certitude d’atteindre la source pure d’où surgit la foi » (49).

Nous éprouvons donc une joie particulière à recevoir l’Encyclique Lumen Fidei, dont le mode partagé de transmission illustre d’une façon extraordinaire l’aspect le plus fondamental et original développé par l’Encyclique, la dimension de la communion dans la foi. Cette encyclique parle en effet sur un mode « nous » qui n’est pas de majesté mais bien de communion. Elle raconte la foi comme une expérience de communion, de dilatation du moi et de solidarité dans la marche de l’Église avec le Christ pour le salut de l’humanité. Je me limiterai à illustrer ce point de vue.

L’Encyclique présente en effet la foi chrétienne comme une lumière qui vient de l’écoute de la Parole de Dieu dans l’histoire. Une lumière qui fait voir l’amour de Dieu à l’œuvre pour faire alliance avec l’humanité. Cette lumière se laisse déjà percevoir dans les œuvres du Créateur mais elle resplendit comme amour dans la vie, la mort et la résurrection de Jésus Christ. En Lui, la lumière de l’Amour fait irruption dans l’histoire et offre aux humains une espérance qui donne le courage de marcher ensemble vers un avenir de pleine communion. « Le Christ est celui qui, en ayant supporté la souffrance, ‘est le chef de notre foi et la porte à la perfection’ » nous dit la Lettre aux Hébreux, largement reprise par l’Encyclique (He 12, 2) (57).

Objectivement, la lumière de la foi oriente le sens de la vie, elle réconforte et console les cœurs inquiets et meurtris, mais elle engage aussi les croyants à servir le bien commun de l’humanité par l’annonce et le partage authentique de la grâce reçue de Dieu. C’est pourquoi la foi appelle les croyants à embrasser la souffrance du monde, comme saint François et la Bienheureuse Mère Teresa, afin d’y répandre la lumière du Christ. « La foi n’est pas une lumière qui dissiperait toutes nos ténèbres, mais la lampe qui guide nos pas dans la nuit, et cela suffit pour le chemin », déclare (57) l’Encyclique.

Subjectivement, la foi est une ouverture à l’Amour du Christ, un accueil, l’entrée dans une relation qui élargit le ‘je’ aux dimensions d’un ‘nous’ qui n’est pas seulement humain, dans l’Église, mais qui est proprement divin, c'est-à-dire une participation authentique au ‘Nous’ du Père et du Fils dans le Saint Esprit. L’Encyclique insiste sur ce fondement trinitaire qui constitue la foi comme réalité à la fois personnelle et ecclésiale : « Cette ouverture au « nous » ecclésial se produit selon l’ouverture même de l’amour de Dieu, qui n’est pas seulement relation entre Père et Fils, entre « moi » et « toi », mais, qui est aussi dans l’Esprit un « nous », une communion de personnes » (39).

Dans cette lumière christologique, trinitaire et ecclésiale, la confession de la foi acquiert sa figure concrète par la célébration des sacrements du baptême, de la confirmation et de l’Eucharistie, où « le croyant affirme que le centre de l’être, le secret le plus profond de toute chose, c’est la communion divine » (45). Il se trouve alors « engagé dans la vérité qu’il confesse » et par là-même transformé et « introduit dans une histoire d’amour qui le saisit, qui dilate son être en le rendant membre d’une grande communion », l’Église.

De ce « Nous » trinitaire qui se prolonge dans le « nous » ecclésial, l’Encyclique enchaîne tout naturellement avec le « nous » de la famille qui est le lieu par excellence de la transmission de la foi (43). D’une part, cela est manifeste dans l’expérience du baptême des enfants où les parents, le parrain et la marraine confessent la foi au nom de l’enfant, l’accueillant ainsi dans la foi de l’Église qui nous précède toujours. D’autre part, rappelle l’Encyclique, il existe de profondes affinités entre la foi et l’amour définitif que se promettent l’homme et la femme qui se marient. « Promettre un amour qui soit pour toujours est possible quand on découvre un dessein plus grand que ses propres projets, qui nous soutient et nous permet de donner l’avenir tout entier à la personne aimée » (52). Ainsi, grâce à la foi, l’amour des époux a plus de chance de durer et d’unir les générations dans la joie de la fidélité et du service de la vie. « La foi n’est pas un refuge pour ceux qui sont sans courage, mais un épanouissement de la vie » conclut l’encyclique qui voit la famille comme « le premier environnement dans lequel la foi éclaire la cité des hommes » (52).

L’Encyclique ajoute un développement remarquable sur la pertinence de la foi pour la vie en société, pour l’édification de la cité dans la justice et la paix, grâce au respect de chaque personne et de sa liberté, grâce aux ressources de compassion et de réconciliation qu’elle offre pour le soulagement des souffrances et la résolution des conflits. « Oui la foi est un bien pour tous, elle est un bien commun » (51). La tendance à confiner la foi au domaine de la vie privée se trouve ici réfutée pacifiquement, mais d’une façon décisive.

Beaucoup d’aspects développés antérieurement dans les encycliques de Benoit XVI sur la charité et l’espérance trouvent leur complément dans cette mise en lumière de la foi comme communion et service du bien commun. « Les mains de la foi s’élèvent vers le ciel mais en même temps, dans la charité, elles édifient une cité, sur la base de rapports dont l’amour de Dieu est le fondement » (51). « Si nous ôtons la foi de nos villes, s’affaiblira la confiance entre nous » (55) Bref, par la foi Dieu veut « rendre solides les relations entre les hommes » (ib), Il espère que se réalise la « grandeur de la vie en commun qu’il rend possible » par la grâce de sa présence (55).

En conclusion, l’Encyclique contemple Marie, la figure par excellence de la foi, celle qui a écouté la Parole et l’a gardée dans son cœur, celle qui a suivi Jésus et qui s’est laissée transformer « en entrant dans le regard du Fils de Dieu incarné » (58). Le Pape François réaffirme à la fin avec son prédécesseur une vérité de la foi mise en veilleuse et parfois même mise en doute en certains milieux : « Dans la conception virginale de Marie nous avons un signe clair de la filiation divine du Christ. L’origine éternelle du Christ est dans le Père, il est le Fils dans un sens total et unique; et pour cela, il naît dans le temps sans l’intervention d’un homme » (59).

Nous accueillons donc avec grande joie et gratitude cette confession de foi intégrale en forme de catéchèse à quatre mains des successeurs de Pierre. Ils exposent ensemble la foi de l’Église en sa beauté qui « se confesse de l’intérieur du corps du Christ, comme communion concrète des croyants » (22).

[01015-03.01] [Texte original: Français]

 Testo in lingua inglese

A pillar was lacking in Benedict XVI’s trilogy on the theological virtues. Providence willed that this missing pillar should be both a gift from the Pope Emeritus to his successor and a symbol of unity. For in taking up and completing the work begun by his predecessor, Pope Francis bears witness with him to the unity of the faith. The light of faith is passed from one pontiff to another like a baton in a relay, thanks to "the gift of the apostolic succession." This gift assures "the continuity of the Church’s memory," as well as "certainty in attaining the pure source from which the faith flows" (49).

So we feel an altogether particular joy in receiving the encyclical Lumen Fidei. Its shared mode of transmission illustrates in an extraordinary way the most fundamental and original aspect of the encyclical: its development of the dimension of communion in faith. The encyclical in fact speaks not with a "royal ‘We,’" but with a "we" of communion. It describes faith as an experience of communion, of the expansion of the "I" and of solidarity in the Church’s journey with Christ for the salvation of the human race. I will limit myself here to illustrating this viewpoint.

The encyclical presents the Christian faith as a light that comes from listening to the Word of God in history. It is a light that allows us to see the love of God at work, establishing his covenant with humankind. This light can already be perceived in the works of the Creator, but it shines forth as love in the life, death and resurrection of Jesus Christ. In Him, the light of Love irrupts into history. It offers us human beings a hope that gives us the courage to journey together toward a future of full communion. "Christ, having endured suffering, is "the leader and perfecter of our faith," we hear in the Letter to the Hebrews, in a key passage of the encyclical (Heb 12:2; cf. LF, 57).

Objectively, the light of faith orients the meaning of life, comforts and consoles the broken and searching hearts, but it also commits believers to serving the common good of humanity through proclamation and an authentic sharing of the grace they received from God. This is why faith calls believers to embrace the world’s suffering, like St. Francis and Blessed Teresa of Calcutta, so as to radiate the light of Christ there. "Faith is not a light that dispels all our darkness, but the lamp that guides our feet in the night and that is enough for the way," the encyclical tells us (57).

Subjectively, faith is an opening to Christ’s Love, a welcome. It is entering into a relationship that broadens our "I" to the dimensions of a "we" in the Church. This "we" is not simply human, but properly divine. That is, it is an authentic participation in the "We" of the Father and the Son in the Holy Spirit. The encyclical insists on this Trinitarian foundation, which constitutes faith as a reality at once personal and ecclesial: "This opening to the ecclesial ‘we’ occurs according to the very opening of God’s love, which is not only the relation between Father and Son, between ‘I’ and ‘thou, ’but it is also, in the Spirit, a ‘we,’ a communion of Persons" (39).

In this Christological, Trinitarian and ecclesial light, confessing the faith acquires is concrete shape through the celebration of the sacraments of baptism, confirmation and the Eucharist, in which "the believer affirms that the center of being, the most profound secret of all that is, is the divine communion" (45). He thus finds himself "engaged in the truth he confesses." For this very reason, he is transformed and "introduced into a love story that seizes him and expands his being by making him a member of a great communion," the Church (45).

From this Trinitarian "We" that prolongs itself in the ecclesial "we," the encyclical follows very naturally with the "we" of the family, the place par excellence of the transmission of the faith (43). On the one hand, this is made manifest in the experience of infant baptism, in which the parents and godparents confess the faith on behalf of the child, welcoming him or her into the Church’s faith, which always precedes us. On the other hand, the encyclical reminds us, there are profound affinities between faith and the definitive love that a man and a woman promise to one another in marriage. "To promise a love that is forever, is possible when we discover a design greater than our own projects, which upholds us and allows us to give the entire future to the beloved person" (52). Thus, thanks to faith, the spouses’ love can last and unite the generations in the joy of fidelity and the service of life. "Faith is not a refuge for those who have no courage, but a blossoming of life," concludes the encyclical, which sees the family as "the first environment in which faith enlightens the city of men" (52).

The encyclical contains a further remarkable discussion of the pertinence of faith for life in society, that is, for building up "the city of men" in justice and peace. Faith does so thanks to a respect for each person and his or her freedom, as well as the resources of compassion and reconciliation it offers to relieve suffering and resolve conflicts. "Yes, faith is a good for all; it is a common good" (51). The tendency to confine faith to the domain of private life is here peacefully but decisively refuted.

Many of the aspects developed in Benedict XVI’s encyclicals on charity and hope find their complement in this light shed on faith as communion and service of the common good. "The hands of faith are raised toward heaven; but at the same time, in charity, they build a city on the basis of relationships that have the love of God as their foundation" (51). "If we remove faith from our cities, trust between us will weaken"(55). In brief, through faith, God wants to "make relationships between human beings solid" (ibid.). He hopes for the realization of the "greatness of the shared life that He makes possible" through the grace of His presence (55).

In conclusion, the encyclical contemplates Mary, the figure of faith par excellence: she who listened to the Word and kept it in her heart, who followed Jesus and allowed herself to be transformed by "entering into the gaze of the incarnate Son of God" (58). In the end, Pope Francis reaffirms with his predecessor a truth of the faith that has been set aside or even doubted in certain milieus: "In Mary’s virginal conception, we have a clear sign of Christ’s divine filiation. Christ’s eternal origin is in the Father. He is the Son in a total and unique sense; and for this reason, he is born in time without the intervention of a man" (59).

We welcome with great joy and gratitude this integral profession of faith, in the form of a catechesis written "by four hands" of the successors of Peter. Together, they show forth the Church’s faith in its beauty – the faith that "is confessed within the body of Christ as the concrete communion of believers" (22).

[01015-02.01] [Original text: French]

● INTERVENTO DI S.E. MONS. GERHARD L. MÜLLER

 Testo in lingua italiana

 Testo in lingua francese Testo in lingua francese

 Testo in lingua inglese Testo in lingua inglese

 Testo in lingua tedesca Testo in lingua tedesca

 Testo in lingua spagnola Testo in lingua spagnola

 Testo in lingua italiana Testo in lingua italiana

Nelle meditazioni che offre quotidianamente attraverso la sua predicazione, il Santo Padre Francesco spesso ci richiama che "tutto è grazia". Tale affermazione che, di fronte alla complessità e alle contraddizioni della vita, può sembrare a qualcuno ingenua o astratta, è invece un invito a riconoscere la positività ultima della realtà.

Proprio a questo ci vuole richiamare anche la Lettera enciclica Lumen fidei: la luce che proviene dalla fede, dalla Rivelazione che Dio fa di sé in Gesù Cristo e nel suo Spirito, illumina le profondità della realtà e ci aiuta a riconoscere che essa porta inscritti in sé i segni indelebili della iniziativa buona di Dio. La fede infatti, grazie alla luce che viene da Dio, è in grado di illuminare "tutto il percorso della strada" (n. 1), "tutta l'esistenza dell'uomo" (n. 4). Essa "non ci separa dalla realtà ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di sé" (n. 18).

È questo il messaggio centrale della Lettera enciclica, che riprende alcuni temi cari a Benedetto XVI. "Queste considerazioni sulla fede - così scrive Papa Francesco - intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi" (n. 7).

Si tratta di una circostanza fortunata che questo testo sia stato scritto, per così dire, con la mano di due Pontefici. Chi la legge può subito notare – al di là delle differenze di stile, di sensibilità e di accenti - la sostanziale continuità del messaggio di Papa Francesco con il magistero di Benedetto XVI.

All'origine di tutto c'è Dio e la fede in Lui è riconoscere questo fatto. Ciò dilata la ragione e il cuore dell'uomo, allarga i suoi orizzonti, lo rende sempre più vicino agli altri uomini e gli spalanca le porte di un'esistenza vissuta finalmente all'altezza della sua dignità. Sì, dobbiamo riconoscerlo: tutte le volte che non pensiamo, non agiamo, non amiamo rendendo operante la fede in Dio, non contribuiamo ad edificare un mondo più umano. Anzi, così facendo, spesso generiamo una contro-testimonianza a Dio e sfiguriamo il volto della stessa Chiesa.

Nella fede viva in Dio, a cui ci introduce il suo Figlio Unigenito Gesù Cristo mediante il suo Spirito, sta la nostra grande risorsa. A partire da qui, sta o cade ogni tentativo di riforma e non soltanto nella Chiesa, poiché a questo livello è in gioco un dono che la Chiesa non può tenere solo per sé. La fede, e la vita di grazia che essa ci offre, è infatti un tesoro di bene e di verità che riguarda tutti gli uomini, poiché tutti sono chiamati a vivere in amicizia con Dio e a scoprire gli orizzonti di libertà che si schiudono a chi si lascia prendere per mano da Lui.

La fede in quel Dio che ci rivela Gesù Cristo è la vera "roccia" su cui l'uomo è chiamato ad edificare la sua vita e quella del mondo. Si tratta di un dono che non può essere mai presupposto "come un fatto scontato" ma che deve essere continuamente "nutrito e rafforzato" (n. 6). Grazie alla fede possiamo riconoscere che ogni giorno ci viene offerto un "grande Amore", un amore che "ci trasforma, illumina il cammino del futuro e fa crescere in noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia" (n. 7). Grazie alla fede possiamo guardare con realismo al futuro che ci attende e nutrire una fiducia affidabile, senza lasciarci "rubare la speranza", come ripete in continuazione Papa Francesco. Fede, speranza e amore, "in un mirabile intreccio" costituiscono il dinamismo della vita dell'uomo che si apre ai doni provenienti da Dio (cf. n. 7).

Tutto ciò l'Enciclica Lumen fidei afferma dividendosi in quattro parti, che possiamo considerare come quattro quadri di un'unica grande "pala".

Nella prima parte, dalla fede di Abramo, l'uomo che nella voce di Dio "riconosce un appello profondo, iscritto da sempre nel profondo del suo essere" (n. 11), si passa alla fede del popolo di Israele. La storia della fede di Israele, a sua volta, è un continuo passaggio dalla "tentazione dell'incredulità" (n. 13) e dell'adorare gli idoli, "opera delle mani dell'uomo", alla confessione "dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse" (n. 12). Fino alla storia di Gesù, compendio della salvezza, in cui tutte le linee della storia di Israele si raccolgono e si concentrano.

Con Gesù possiamo dire definitivamente che "abbiamo conosciuto e creduto all'Amore che Dio ha per noi" (1Gv 14, 16), poiché egli è "la manifestazione piena dell'affidabilità di Dio" (n. 15). Con Lui la fede raggiunge la sua pienezza. Essa ci invita a riconoscere che Dio non è rimasto lontano nelle altezze del suo cielo ma si è fatto, e rimane, incontrabile in Gesù Cristo morto e risorto, presente in mezzo a noi.

Seguendo Gesù, tutta l'esistenza dell'uomo viene trasformata grazie alla fede. L'io, la personalità di colui che crede, aprendosi all'amore originario che gli è offerto nella fede (cf. n. 21), si dilata e "diventa esistenza ecclesiale" (n. 22). Aprendoci alla comunione con i fratelli e le sorelle, la fede non ci riduce "a mero elemento di un grande ingranaggio" (n. 22) ma ci aiuta a "guadagnare fino in fondo il [nostro] proprio essere" (n. 22). "Per chi è stato trasformato in questo modo, si apre un nuovo modo di vedere" (n. 22), e la fede diventa una autentica "luce" che invita a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio.

Nella seconda parte, l'Enciclica pone con forza la questione della verità come questione che si colloca "al centro della fede" (n. 23). La fede riguarda perciò anche la conoscenza della realtà, è evento conoscitivo: "senza verità, la fede non salva…resta una bella fiaba…oppure si riduce a un bel sentimento" (n. 24).

La domanda sulla verità e l’impegno fattivo per la ricerca della verità non possono essere eluse, così come non si può escludere a priori nella ricerca della verità il contributo offerto dalle principali tradizioni religiose, specie per quanto attiene alle grandi verità dell'esistenza umana.

Qual è il contributo che a questo riguardo offre la fede in Gesù Cristo? La fede, aprendoci all'amore che viene da Dio, trasforma il nostro modo di vedere le cose "in quanto l'amore stesso porta [in sé] una luce" (n. 26). Anche se all'uomo moderno non sembra che la questione dell'amore abbia a che fare con la verità - dato che l'amore è oggi relegato nella sfera dei sentimenti - "amore e verità non si possono separare" (n. 27).

L'amore è autentico quando ci lega alla verità e la verità stessa ci attira a sé con la forza dell'amore. "Questa scoperta dell'amore come fonte di conoscenza, che appartiene all'esperienza originaria di ogni uomo" ci viene testimoniata proprio "dalla concezione biblica della fede" (n. 28) ed è una delle sottolineature più belle e importanti di questa Enciclica.

Per il fatto che la fede attiene alla conoscenza ed è legata alla verità, Tommaso d'Aquino può parlare di oculata fides, della fede come evento che riguarda il "vedere" (cf. n. 30). La fede riguarda l'ascolto ma non soltanto, poiché essa è anche un "cammino dello sguardo" (n. 30) che cerca e riconosce la verità, un cammino nel quale "fede e ragione si rinforzano a vicenda" (n. 32). D’altronde già Agostino d'Ippona aveva "scoperto che tutte le cose hanno in sé una trasparenza" e possono "riflettere la bontà di Dio, il Bene" (n. 33). La fede ci aiuta dunque ad attingere in profondità i fondamenti del reale.

In questo senso, si può comprendere a che livello la luce della fede è in grado di "illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità" (n. 34), vale a dire le grandi domande che sorgono nel cuore umano di fronte alla realtà tutta, sia davanti alle sue bellezze, come di fronte ai suoi drammi. E poiché la verità, cui ci introduce la fede, è legata all'amore e viene dall'amore, non è una verità di cui aver paura, perché essa non si impone con la violenza ma mira a convincere profondamente, fortiter ac suaviter nello stesso tempo.

Ecco perché l'Enciclica non teme di affermare che "la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude" (n. 34) sia agli studi della scienza, come alla ricerca di ogni uomo sinceramente religioso. Proprio la fede ci rivela che chi si mette in cammino per cercare la verità e il bene "già si avvicina a Dio" ed è "sorretto dal suo aiuto" (n. 35) anche senza saperlo.

Non intendo riassumere la terza e la quarta parte dell’Enciclica ma vorrei solo richiamare la vostra attenzione, nel breve tempo che mi è concesso, su alcuni punti che, a mio avviso, sono di particolare rilievo. Anzitutto sul luogo genetico della fede, la quale, se è evento che tocca intimamente la persona, non rinchiude l’io in un isolato ed isolante "a-tu-per-tu" con Dio. Essa, infatti, "nasce da un incontro che accade nella storia" (n. 38) e "si trasmette…nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma" (n. 37).

La fede, cioè, si dà sempre all'interno di una trama di relazioni che ci precede e ci eccede, in un "noi" che ci invita a uscire dalla solitudine del nostro io per collocarci in un orizzonte e in un ambito sempre più grandi, in un dialogo ed in un cammino che non hanno mai termine. La stessa forma dialogata in cui è sorto il nostro Credo documenta questo fatto e questo movimento che ci collocano all’interno del "noi" ecclesiale, del nuovo soggetto cui apparteniamo attraverso la fede.

La Chiesa è il luogo in cui questo movimento della persona – che nasce dalla fede vissuta - si radica e da cui viene rilanciato senza sosta, aprendoci a Dio e agli altri e divenendo una nuova Weltanschauung, una peculiare visione del mondo: essa è infatti - secondo la bella citazione di Romano Guardini - "la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo" (n. 22).

La Chiesa è il luogo da cui la fede nasce ed in cui diventa esperienza che si può comunicare, cioè testimoniare in modo ragionevole e perciò affidabile: "ciò che si comunica nella Chiesa…è la luce nuova che nasce dall'incontro con il Dio vivo" (n. 40).

È proprio questo incontro con il Dio vivente ciò che la Chiesa rende possibile e che consente alla fede di esserne credibile testimonianza. Veicolo e segno efficace di questo incontro "sono i Sacramenti celebrati dalla liturgia della Chiesa" (n. 40). Perciò l'Enciclica afferma che "la fede ha una [essenziale] struttura sacramentale" (n. 40).

Da qui si può comprendere bene la natura del movimento inerente alla fede: essa ci muove, dal visibile e dal materiale, "verso il mistero [invisibile] dell'eterno" (n. 40). In questo movimento, il credente viene coinvolto con tutto se stesso nella verità che riconosce e confessa (cf. n. 45). Egli non può allora "pronunciare con verità le parole del Credo senza esserne per ciò stesso trasformato" (n. 45), poiché la fede sollecita un continuo cambiamento dell'uomo impedendogli di rinchiudersi in una accomodante tranquillità.

In secondo luogo, mi sta a cuore richiamare una citazione – presente nella terza parte dell’Enciclica - tratta dalle Omelie di San Leone Magno: "se la fede non è una, non è fede" (n. 47). Viviamo infatti in un mondo che nonostante tutte le sue connessioni e globalizzazioni è frammentato e sezionato in molti "mondi" che, sebbene in comunicazione, sono spesso e volentieri a sé stanti e in conflitto fra loro. L'unità della fede è perciò il bene prezioso che il Santo Padre e i suoi confratelli Vescovi sono chiamati a testimoniare, alimentare e garantire, come primizia di un’unità che vuole offrirsi come dono al mondo intero.

Si tratta di un'unità non monolitica, ricca e vivace di pluriformità – Dio stesso è uno e trino – e che si pone nello stesso tempo come origine e come missione della Chiesa, la quale per tal motivo è definita dal Concilio Vaticano II come "segno e strumento" (LG 1) dell'unità che viene da Dio ed è destinata a abbracciare tutto il genere umano.

È un'unità che a ragione viene definita "cattolica", poiché fondata sulla verità, che intende servire e valorizzare. Essa ha infatti il "potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione" (n. 48). Questa unità, poiché è fondata sulla verità, non ci depaupera di nulla, ma ci arricchisce dei doni che vengono dalla generosità del cuore di Dio e di ciascuno.

Proprio tale unità nella verità, cui ci introduce Dio - che è Padre di tutti noi - ci aiuta anche a ritrovare la radice della vera fraternità (cf. n. 53). Senza verità e senza Dio, il sogno dell'universale fratellanza, partorito dalla modernità, non ha possibilità di realizzarsi ed è destinato a replicare solo la triste esperienza di Babele. La fraternità, infatti, "privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere" (n. 54). La storia degli ultimi due secoli, purtroppo, ci offre copiosa documentazione di ciò.

Infine, un'ultima suggestione, ripresa letteralmente dal testo dell'Enciclica, nella sua quarta parte. Se è vero che la fede autentica riempie di gioia ed è "una dilatazione della vita" (n. 53) – ecco un richiamo che accomuna concretamente Papa Francesco e Benedetto XVI – "la luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo" (n. 57) ma ci apre ad una "presenza che accompagna, [ad] una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza, per aprire in essa un varco di luce" (n. 57). Solo la luce che viene da Dio - dal Dio incarnato che ha attraversato la morte e l’ha sconfitta - è in grado di offrire una speranza affidabile di fronte al male, di fronte ad ogni male che affligge la vita dell’uomo.

Insomma, l'Enciclica vuole riaffermare in modo nuovo che la fede in Gesù Cristo è un bene per l'uomo ed "è un bene per tutti, è un bene comune": "la sua luce non illumina solo l'interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell'aldilà; essa ci aiuta ad edificare le nostre società, in modo che camminiamo verso un futuro di speranza" (n. 51).

Sono questi dei brevi accenni che vorrebbero soltanto invogliare alla lettura di questo ricco documento ed invitare a gustarlo. Questa Lettera enciclica può ben considerarsi un "documento": essa non ci offre solo parole ma ci documenta la positività dello sguardo – ed è questa la luce della fede – di una vita che si lascia attrarre e coinvolgere totalmente da Dio. È questa d'altronde la testimonianza per cui siamo grati sia a Papa Francesco che a Benedetto XVI, due autentiche luci di fede e di speranza per l'uomo contemporaneo.

[00998-01.01] [Testo originale: Italiano]

 Testo in lingua francese

Au cours des méditations qu’il offre quotidiennement à travers sa prédication, le Saint-Père François nous rappelle que « tout est grâce ». Au vu de la complexité et des contradictions de la vie, une telle affirmation peut sembler naïve ou abstraite aux yeux de certains ; c’est au contraire une invitation à reconnaître la positivité ultime de la réalité.

C’est précisément cela que veut nous rappeler également la Lettre encyclique Lumen fidei : la lumière qui provient de la foi, de la Révélation que Dieu fait de lui-même en Jésus-Christ et dans son Esprit, illumine les profondeurs de la réalité et nous aide à reconnaître qu’elle porte inscrits en elle les signes indélébiles de la bonne initiative de Dieu. En effet, grâce à la lumière venant de Dieu, la foi est en mesure d’illuminer « tout le parcours de la route » (n° 1), « toute l’existence de l’homme » (n° 4). Elle « ne nous sépare pas de la réalité, mais nous permet d’accueillir son sens le plus profond, de découvrir combien Dieu aime ce monde et l’oriente sans cesse vers lui » (n° 18).

Voilà le message central de la Lettre encyclique, qui reprend certains thèmes chers à Benoît XVI. « Ces considérations sur la foi – affirme le Pape François – entendent s’ajouter à tout ce que Benoît XVI a écrit dans les encycliques sur la charité et sur l’espérance. Il avait déjà pratiquement achevé une première rédaction d’une Lettre encyclique sur la foi. Je lui en suis profondément reconnaissant et, dans la fraternité du Christ, j’assume son précieux travail, ajoutant au texte quelques contributions ultérieures » (n° 7).

Que ce texte ait été écrit par la main de deux Pontifes, pour ainsi dire, constitue une heureuse circonstance. Celui qui le lit peut relever immédiatement – au-delà des différences de style, de sensibilité et d’accents – la continuité substantielle du message du Pape François avec le magistère de Benoît XVI.

À l’origine de tout, il y a Dieu, et la foi en Lui est de reconnaître ce fait. Cela dilate la raison et le cœur de l’homme, élargit ses horizons, le rend toujours plus proche des autres hommes, et lui ouvre toutes grandes les portes d’une existence vécue finalement à la hauteur de sa dignité. Oui, nous devons le reconnaître : toutes les fois où nous ne pensons pas, n’agissons pas, n’aimons pas en rendant opérante la foi en Dieu, nous ne contribuons pas à édifier un monde plus humain. Au contraire, en agissant ainsi nous engendrons souvent un contre-témoignage à Dieu et nous défigurons le visage même de l’Église.

Notre grande ressource se trouve dans la foi vive en Dieu, à laquelle nous introduit son Fils unique Jésus-Christ dans la médiation de son Esprit. À partir de là tient ou tombe toute tentative de réforme, et pas seulement dans l’Église, parce qu’est en jeu un don que l’Église ne peut garder seulement pour elle. La foi – et la vie de grâce qu’elle nous offre – est de fait un trésor de bien et de vérité qui concerne tous les hommes, étant donné que tous sont appelés à vivre dans l’amitié avec Dieu et à découvrir les horizons de liberté qui s’ouvrent à celui qui se laisse prendre par la main par Lui.

La foi en ce Dieu que nous révèle Jésus-Christ est le véritable « rocher » sur lequel l’homme est appelé à édifier sa vie et celle du monde. Il s’agit d’un don qui ne peut jamais être présupposé « comme un fait acquis », mais qui doit être continuellement « nourri et renforcé » (n° 6). Grâce à la foi, nous pouvons reconnaître que chaque jour nous est offert un « grand Amour », un amour qui « nous transforme, éclaire le chemin de l’avenir et fait grandir en nous les ailes de l’espérance pour le parcourir avec joie » (n° 7). Grâce à la foi, nous pouvons regarder avec réalisme vers le futur qui nous attend et nourrir une espérance fiable, sans nous laisser « voler l’espérance », comme répète souvent le Pape François. « Dans un échange admirable », la foi, l’espérance et l’amour constituent le dynamisme de la vie de l’homme qui s’ouvre aux dons provenant de Dieu (cf. n° 7).

Tout cela est affirmé par l’encyclique Lumen fidei qui se subdivise en quatre parties, que nous pouvons considérer comme les quatre tableaux d’un unique « retable ».

Dans la première partie, de la foi d’Abraham, l’homme qui, dans la voix de Dieu, « reconnaît un appel profond, inscrit depuis toujours au cœur de son être » (n° 11), on passe à la foi du peuple d’Israël. L’histoire de la foi d’Israël, à son tour, est un passage constant de la « tentation de l’incrédulité » (n °13) et de l’adoration des idoles, « œuvre des mains de l’homme », à la confession « des bienfaits de Dieu et à l’accomplissement progressif de ses promesses » (n° 12), et cela jusqu’à l’histoire de Jésus, compendium du salut, dans lequel toutes les lignes de l’histoire d’Israël se rassemblent et se concentrent.

Avec Jésus, nous pouvons dire définitivement que « nous avons reconnu l’amour que Dieu a pour nous, et nous y avons cru » (1 Jn 4, 16), parce qu’il est « la pleine manifestation de la fiabilité de Dieu » (n° 15). Avec Lui, la foi parvient à sa plénitude. Elle nous invite à reconnaître que Dieu n’est pas resté au loin dans les hauteurs de son ciel, mais qu’il s’est fait, et demeure accessible en Jésus-Christ mort et ressuscité, présent au milieu de nous.

En suivant Jésus, toute l’existence de l’homme est transformée grâce à la foi. Le « je », la personnalité de celui qui croit, en s’ouvrant à l’amour originaire qui lui est offert dans la foi (cf. n° 21), se dilate et « devient existence ecclésiale » (n° 22). En nous ouvrant à la communion avec les frères et les sœurs, la foi ne nous réduit pas « à un simple élément d’un grand rouage » (n° 22), mais nous aide à « [rejoindre] le plus profond de [notre propre] être » (n° 22). « Pour celui qui, de cette manière, a été transformé, s’ouvre une nouvelle façon de voir » (n° 22), et la foi devient une authentique « lumière » qui invite à se laisser transformer toujours à nouveau par l’appel de Dieu.

Dans la seconde partie, l’encyclique pose avec force la question de la vérité comme se situant « au cœur de la foi » (n° 23). La foi concerne donc également la connaissance de la réalité, elle est un événement cognitif : « La foi, sans la vérité, ne sauve pas… reste un beau conte… ou bien elle se réduit à un beau sentiment » (n° 24).

La question touchant la vérité et l’engagement effectif pour la recherche de la vérité ne peuvent être exclus, de même qu’on ne peut exclure a priori dans la recherche de la vérité la contribution offerte par les principales traditions religieuses, en particulier pour ce qui est des grandes vérités de l’existence humaine.

Quelle est la contribution qu’offre à cet égard la foi en Jésus-Christ ? La foi, en nous ouvrant à l’amour qui vient de Dieu, transforme notre manière de voir les choses, « dans la mesure où l’amour même porte une lumière » (n° 26). Même si pour l’homme moderne il ne semble pas que la question de l’amour ait à voir avec la vérité – étant donné que l’amour est relégué aujourd’hui dans la sphère des sentiments –, « amour et vérité ne peuvent pas se séparer » (n° 27).

L’amour est authentique quand il nous relie à la vérité et la vérité elle-même nous attire à elle avec la force de l’amour. « Cette découverte de l’amour comme source de connaissance, qui appartient à l’expérience originelle de tout homme », nous est témoignée précisément « dans la conception biblique de la foi » (n° 28), et est un des points d’insistance les plus beaux et les plus importants de cette encyclique.

Du fait que la foi relève de la connaissance et est liée à la vérité, saint Thomas d’Aquin peut parler d’oculata fides, de la foi comme événement qui concerne le « voir » (cf. n° 30). La foi concerne l’écoute, mais pas seulement, parce qu’elle est également une « marche du regard » (n° 30) qui cherche et reconnaît la vérité, une marche dans laquelle « foi et raison se renforcent réciproquement » (n° 32). D’ailleurs, saint Augustin d’Hippone avait déjà « découvert que toutes les choses ont en soi une transparence » et peuvent « réfléchir la bonté de Dieu, le Bien » (n° 33). La foi nous aide donc à pénétrer en profondeur aux fondements du réel.

En ce sens, on peut comprendre à quel niveau la lumière de la raison est en mesure d’« illuminer les questions de notre temps sur la vérité » (n° 34), c’est-à-dire les grandes questions qui montent du cœur humain en face de la réalité entière, aussi bien devant ses beautés que devant ses drames. Et parce que la vérité, à laquelle nous introduit la foi, est liée à l’amour et provient de l’amour, elle n’est pas une vérité qui doit nous faire peur, parce qu’elle ne s’impose pas par la violence, mais vise à convaincre efficacement, tout à la fois fortiter ac suaviter.

Voilà pourquoi l’encyclique ne craint pas d’affirmer que « la foi élargit les horizons de la raison pour mieux éclairer le monde qui s’ouvre » (n° 34), tant sur les études de la science que sur la recherche de tout homme sincèrement religieux. Précisément la foi nous révèle que celui qui se met en route pour chercher la vérité et le bien « s’approche déjà de Dieu » et est « est déjà soutenu par son aide » (n. 35), même sans le savoir.

Dans le bref moment qui m’est accordé, je n’entends pas résumer la troisième et la quatrième partie de l’encyclique, mais voudrais seulement attirer votre attention sur certains points qui, à mon avis, sont particulièrement importants. Avant tout en ce qui concerne le lieu génétique de la foi, laquelle, si elle est un événement touchant intimement la personne, n’enferme pas le « je » dans un « face-à-face » isolé et isolant avec Dieu. En effet, elle « naît d’une rencontre qui se produit dans l’histoire » (n° 38) et « se transmet… par contact, de personne à personne, comme une flamme s’allume à une autre flamme » (n° 37).

La foi, par conséquent, se donne toujours au sein d’une trame de relations qui nous précède et nous dépasse, dans un « nous » qui nous invite à sortir de la solitude de notre « je » pour se situer dans un horizon et dans un contexte toujours plus vastes, dans un dialogue et dans un chemin qui n’ont jamais de terme. La forme dialoguée même, dans laquelle est né notre Credo, documente ce fait et ce mouvement qui nous placent à l’intérieur du « nous » ecclésial, du nouveau sujet auquel nous appartenons à travers la foi.

L’Église est le lieu dans lequel ce mouvement de la personne – qui naît de la foi vécue – s’enracine et à partir duquel il est relancé sans arrêt, nous ouvrant à Dieu et aux autres, et devenant une nouvelle Weltanschauung, une vision du monde spécifique : en effet l’Église est, selon la belle citation de Romano Guardini, « la porteuse historique du regard plénier du Christ sur le monde » (n° 22).

L’Église est le lieu d’où naît la foi et dans lequel elle devient expérience qui peut se communiquer, c’est-à-dire rendre témoignage de manière raisonnable et donc fiable : « Ce qui est communiqué dans l’Église…, c’est la nouvelle lumière qui naît de la rencontre avec le Dieu vivant » (n° 40).

C’est précisément cette rencontre avec le Dieu vivant que l’Église rend possible et qui permet à la foi d’en être un témoignage crédible. « Les sacrements, célébrés dans la liturgie de l’Église » (n° 40) sont le véhicule et le signe efficace de cette rencontre. C’est pourquoi l’encyclique affirme que « la foi a une structure [essentiellement] sacramentelle » (n° 40).

À partir de là, on peut bien comprendre la nature du mouvement inhérent à la foi : celle-ci se meut, à partir du visible et du matériel, vers le « le mystère [invisible] de l’éternité » (n° 40). Dans ce mouvement, le croyant est impliqué avec tout son être dans la vérité qu’il reconnaît et confesse (cf. n° 45). Il ne peut alors « prononcer en vérité les paroles du Credo sans être par cela-même transformé » (n° 45), parce que la foi appelle un changement continuel de l’homme, en l’empêchant de se renfermer dans une tranquillité commode.

En second lieu, il me tient à cœur de rappeler une citation – située dans la troisième partie de l’encyclique – tirée des Sermons de saint Léon le Grand : « Si la foi n’est pas une, elle n’est pas la foi » (n° 47). Nous vivons en effet dans un monde qui, nonobstant toutes ses connexions et globalisations, est fragmenté et sectionné en beaucoup de « mondes » qui, bien qu’étant en communication, sont souvent et volontiers autonomes, en conflit l’un par rapport à l’autre. L’unité de la foi est pour cette raison le bien précieux que le Saint-Père et ses confrères évêques sont invités à témoigner, à alimenter et à garantir, comme les prémices d’une unité qui veut s’offrir comme don au monde entier.

Il s’agit d’une unité non pas monolithique, mais riche et dynamique en pluriformité – Dieu lui-même est un et trine – et qui se pose en même temps comme origine et comme mission de l’Église, laquelle est définie pour cette raison par le Concile Vatican II comme le « signe et l’instrument » (LG 1) de l’unité qui vient de Dieu et est destinée à embrasser tout le genre humain.

C’est une unité qui est justement définie « catholique », parce que fondée sur la vérité, qu’elle entend servir et valoriser. Elle a en effet la « capacité d’assimiler tout ce qu’elle trouve dans les divers milieux où elle est présente et les différentes cultures qu’elle rencontre, purifiant toute chose et la portant à sa parfaite expression » (n° 48). Cette unité, parce qu’elle est fondée sur la vérité, ne nous prive de rien, mais nous enrichit des dons provenant de la générosité du cœur de Dieu et de chacun.

Précisément, une telle unité dans la vérité, à laquelle nous introduit Dieu – qui est Père de nous tous – nous aide aussi à retrouver la racine de la vraie fraternité (cf. n° 53). Sans vérité et sans Dieu, le rêve de la fraternité universelle, née de la modernité, n’a pas la possibilité de se réaliser et est seulement destiné à reproduire la triste expérience de Babel. La fraternité, en effet, « privée de la référence à un Père commun comme son fondement ultime, ne réussit pas à subsister » (n° 54). L’histoire des hommes des deux derniers siècles nous en offre malheureusement une abondante illustration.

Enfin une dernière suggestion, reprise littéralement du texte de l’encyclique, en sa quatrième partie. S’il est vrai que la foi authentique remplit de joie et est « un épanouissement de la vie » (n° 53) – voilà un rappel qui rapproche concrètement le Pape François et Benoît XVI – « la lumière de la foi ne nous fait pas oublier les souffrances du monde » (n° 57), mais nous ouvre à une « présence qui accompagne, [à] une histoire de bien qui s’unit à chaque histoire de souffrance pour ouvrir en elle une trouée de lumière » (n° 57). Seulement la lumière qui vient de Dieu – du Dieu incarné qui a traversé la mort et l’a vaincue – est en mesure d’offrir une espérance fiable en face du mal, en face de tout mal affligeant la vie de l’homme.

Bref, l’encyclique veut réaffirmer de manière nouvelle que la foi en Jésus-Christ est un bien pour l’homme, elle « est un bien pour tous, elle est un bien commun » : « sa lumière n’éclaire pas seulement l’intérieur de l’Église et ne sert pas seulement à construire une cité éternelle dans l’au-delà ; elle nous aide aussi à édifier nos sociétés, afin que nous marchions vers un avenir plein d’espérance » (n° 51).

Voilà les brèves considérations qui voudraient seulement inciter à la lecture de ce riche document et inviter à le goûter. Cette Lettre encyclique peut bien être considérée comme un « document » : elle nous offre non seulement des paroles, mais elle documente la positivité du regard – et c’est cela la lumière de la foi – d’une vie qui se laisse attirer et engager totalement par Dieu. Voilà d’ailleurs le témoignage pour lequel nous sommes reconnaissants à la fois au Pape François et à Benoît XVI, deux authentiques lumières de la foi et d’espérance pour l’homme contemporain.

[00998-03.01] [Texte original: Italien]

 Testo in lingua inglese

In the meditations that he offers us by way of his daily homilies, Pope Francis often reminds us that "all is grace." This affirmation, which in the face of all the complexities and contradictions of life might seem naïve or abstract, is in fact an invitation to recognise the ultimate goodness of reality.

This is the purpose of the encyclical letter Lumen fidei. the light that comes from faith, from the revelation of God in Jesus Christ and in his Spirit, illuminates the depths of reality and helps us to recognise that reality bears within itself the indelible signs that the work of God is good. Faith, because of the illumination that comes from God, in fact enables those who believe to see with a light that "illumines their entire journey" (n. 1), "every aspect of human existence" (n.4). Faith "far from divorcing us from reality…enables us to grasp reality’s deepest meaning and to see how much God loves this world and is constantly guiding it towards himself" (n. 18).

This is the central message of this encyclical letter which takes up some of the ideas that were dear to Benedict XVI. "These considerations on faith" writes Pope Francis "are meant to supplement what Benedict XVI had written in his encyclical letters on charity and hope. He himself had almost completed a first draft of an encyclical on faith. For this I am deeply grateful to him, and as his brother in Christ I have taken up his fine work and added a few contributions of my own" (n. 7).

It is a fortunate coincidence that this text was written, so to speak, by the hands of two Popes. Notwithstanding the differences of style, sensibility and accent, anyone who reads this encyclical will immediately note the substantial continuity of the message of Pope Francis with the teaching of Pope Benedict XVI.

The origin of all things is God – and faith in Him is a recognition of this fact. Faith opens up the mind and the heart of man, expands his horizons, brings him ever closer to his fellow man and throws open the doors to an existence commensurate with his dignity. Conversely, we must also recognise that every time we do not think, act or love in accordance with our faith in God, we do not contribute to building a more human world. In fact, acting in this way, we often give a counter- testimony to God and disfigure the face of the Church.

A living faith in God - through which we are led by His Spirit to His only begotten Son Jesus Christ – is our greatest resource. It is from this starting point that all attempts at reform and renewal must begin, and not only in the Church for at this level we are talking about a gift which the Church cannot keep for herself. Faith, and the life of grace that it offers us, is in fact a treasure of goodness and truth for all of humanity, because all are called to live in friendship with God and to discover the horizons of freedom that are opened to all who allow themselves to be guided by the hand of God.

Faith in the God who is revealed to us by Jesus Christ is the true "rock" upon which man is called to build his life and the life of the world. It is a gift which can never be presupposed or "taken for granted" but which must be continually "nourished and reinforced" (n. 6). It is through faith that we are able to recognise that every day we are offered a "great love", a love that "transforms us, lights up our way to the future and enables us joyfully to advance along the way on wings of hope" (n. 7). It is because of faith that we are able to face the future that awaits us with realism and realistic confidence, without allowing ourselves to be "robbed of hope," as Pope Francis continually reminds us. Faith, hope and love "wonderfully interwoven" constitute the dynamism of the life of man, opened to the gifts provided by God (cf. n. 7).

The encyclical Lumen fidei is divided into four parts, which can be seen as four aspects of one whole.

In the first part, we move from the faith of Abraham, the man who recognised in the voice of God "a profound call which was always present at the core of his being" (n. 11), to the faith of the People of Israel. The history of the faith of Israel, in its turn, is a continual passage from "the temptation to unbelief" (n. 13) and the adoration of idols, "works of the hands of man", to the confession "of God’s mighty deeds and the progressive fulfilment of his promises" (n. 12). This leads ultimately to the history of Jesus, a summary of salvation, in which all the diverse threads of the history of Israel are united and fulfilled.

In Jesus we are able to say definitively that "we know and believe the love that God has for us" (1 Jn 4:16) because he is "the complete manifestation of God’s reliability" (n. 15). In him faith reaches its fulfilment. It calls us to recognise that God does not remain far away in the heights of heaven, but has become, and remains, approachable in Jesus Christ, who died and rose again and who remains present among us.

In following Jesus, faith transforms the whole of human existence. The individual identity of the believer, the "I", once opened to the primordial love offered through faith (cf. n. 21) "becomes an ecclesial existence" (n. 22). By opening us to communion with our brothers and sisters, faith does not reduce us to "a mere cog in a great machine" (n. 22) but helps us to come into our own to the highest degree (cf. n. 22). "For those who have been transformed in this way, a new way of seeing opens up" (n. 22), and faith becomes an authentic "light" that invites us to allow ourselves to be transformed ever anew by the call of God.

In the second part, the encyclical forcefully raises the question of truth as one which is "central to faith" (n. 23). Because faith has to do with knowledge of reality it is intrinsically linked to truth: " faith without truth does not save… it remains a beautiful story…or it is reduced to a lofty sentiment" (n.24).

The question of truth and the imperative to seek the truth cannot be avoided. Neither can the role played by the major religious traditions in this search for truth be a priori excluded, especially when it comes to the great truths of human existence.

What, then, is the specific contribution offered by the Christian faith in this search? Faith, which opens us to the love of God, transforms the way we see things "because love itself brings enlightenment" (n. 26). Even if modern man does not always see the connection between love and truth – not least because today love is often relegated to a type of sentimentality – "love and truth are inseparable" (n. 27).

Love is authentic when it binds us to the truth and truth attracts us to itself with the force of love. "This discovery of love as a source of knowledge, which is part of the primordial experience of every man and woman" is confirmed for us in the "biblical understanding of faith" (n. 28) and is one of the most beautiful and important ideas emphasised in this encyclical.

It is because faith is both connected to knowledge and bound to the truth, that Thomas Aquinas was able to speak of oculata fides, of the act of faith as a type of "seeing" (cf. n. 30). Faith is not only about hearing because it is also "tied to sight" (n. 30) which looks for and recognises the truth, in an "interaction between faith and reason" (n.32). Already Augustine of Hippo had "discovered that all things have a certain transparency" and can therefore "reflect God’s goodness" (n. 33). Faith helps us to draw out the profound meaning of reality.

In this way we can understand how faith is able to "illuminate the questions of our own time about truth" (n. 34), the great questions which arise in the human heart when faced either with the beauty of reality or by its dramas. And because the truth, to which we are led in faith, is linked to and comes from love, it is not a truth which we must fear, for it does not impose itself with violence but seeks to persuade deeply, fortiter ac suaviter simultaneously.

This is why the encyclical does not hesitate to affirm that faith "broadens the horizons of reason to shed greater light on the world which discloses itself" (n. 34) both to scientific investigation and to any man or woman who is seeking with a sincere heart. It is precisely faith which reveals to us that any person who sets out to search for truth and goodness "is already drawing near to God" and is "already sustained by his help" (n. 35) even without knowing it.

I do not intend, in the brief time remaining to me, to summarise the third and forth sections of the encyclical, but would just like to draw attention to a few points which, in my opinion, are particularly important. Above all I would like to highlight the origin of faith, which if it profoundly touches the believer, is an event which does not close the person in on himself in an isolated and isolating "face-to-face" with God. Faith in fact "is born of an encounter which takes place in history" (n. 38) and "is passed on…by contact from one person to another, just as one candle is lighted from another" (n.37).

Faith arises out of a set of relationships which both precede and transcend us, from an "us" which invites us to emerge from the solitude of our "I" and to place ourselves within an ever larger environment and horizon, in a dialogue and on a journey that have no end. The dialogical form of the early baptismal formulas of the Church (which are the origin of our Creed) testify to this fact and to this dynamic which places us within an ecclesial "we", within a new subject to which we belong through faith.

The Church is the place in which this personal dynamic – which arises out of the vision of faith – is rooted and from which it is constantly re-launched, moving us towards God and to our neighbour, and becoming, therefore, a new Weltanschauung, and unique way of looking at the world: it is, in fact – as Romano Guardini beautifully put it – " the bearer within history of the plenary gaze of Christ on the world" (n. 22).

The Church is the place in which faith is born and in which it is able to be communicated, that is, the place in which it can be witnessed to in a rational, and therefore reliable, way: "what is communicated in the Church…is the new light born of an encounter with the true God" (n. 40).

It is precisely this encounter with the living God that is made possible by the Church and that renders faith credible. The vehicles and efficacious signs of this encounter "are the sacraments celebrated in the liturgy of the Church" (n. 40). Thus the encyclical affirms that "faith itself possesses a sacramental structure" (n. 40).

In this way we can easily understand the inherent dynamic of faith: it moves us from the visible and the material "to the mystery of the eternal" (n. 40). In this dynamic the believer in his whole being becomes involved in the truth that he recognises and confesses (cf. n 45). And so "he or she cannot truthfully recite the words of the creed without being changed" (n. 45) because faith demands a continual change; it prohibits the believer from closing his or herself in an accommodating sense of peace.

Another issue I would like to draw your attention to is a quotation from the Sermons of St. Leo the Great that is included in the third part of the encyclical: "If the faith is not one, then it is not faith" (n. 47). We live today in a world which, despite all its connectedness and globalisation, is fragmented and divided into many "worlds" that, even if in communication with one another, are often and intentionally isolated and in conflict. The unity of the faith is, therefore, the precious gift that the Holy Father and his fellow Bishops are called to foster, guarantee and witness to, as the first fruits of a unity that wants to give itself as a gift to the whole world.

What we are talking about is not a monolithic unity, but a rich and active pluriformity – God himself is Three in One – which is simultaneously both the origin and the mission of the Church. For this very reason the Church was defined by the Second Vatican Council as "the sign and instrument" (LG 1) of the unity that comes from God and which is destined to embrace the whole of humanity.

This unity is rightly called "catholic" because it is founded on the truth that it seeks to serve and promulgate. It has, in fact, the "power to assimilate everything that it meets in the various settings in which it becomes present and in the diverse cultures which it encounters, purifying all things and bringing them to their finest expression" (n. 48). This unity, because it is founded on the truth, deprives us of nothing – rather it enriches us with the gifts that come from the generosity of the heart of God.

This unity in truth, which leads us to God – the Father of us all – actually assists us in the rediscovery of the origins of true brotherhood (cf. n. 53). Without truth and without God, the modern dream of universal brotherhood will never be realised but is rather destined only to replicate the miserable experience of Babel. Indeed, brotherhood "lacking a reference to a common Father as its ultimate foundation, cannot endure" (n. 54) - a fact that is unfortunately all too manifest in the history of the last two centuries.

Finally, I would like to make one last suggestion taken from the fourth part of the encyclical. While it is true that authentic faith fills one with joy and "a desire to live life to the fullest" (n. 53) – here we see concretely the connection between the teaching of Pope Francis and Pope Benedict XVI – "the light of faith does not make us forget the sufferings of the world" (n. 57). Rather it opens us up to "an accompanying presence, a history of goodness which touches every story of suffering and opens up a ray of light" (n. 57). Only the light that comes form God – from the incarnate God who has encountered and defeated death – is able to offer a reliable hope in the face of evil, in the face of every type of suffering which afflicts the life of man.

In summery, the encyclical wishes to restate in a new way the truth that faith in Jesus Christ is a good for humanity "truly a good for everyone; a common good": "It’s light does not simply brighten the interior of the Church, nor does it serve solely to build an eternal city in the hereafter; it helps us build our societies in such a way that they can journey towards a future of hope" (n. 51).

These are just a few thoughts through which I want to encourage everyone to read and savour this beautiful document. Indeed, this encyclical letter can be rightly called a "document" because it is not just a collection of words but documents for us, in the light of faith, the Christian vision of life which draws us into a total participation in God. This, above all, is the witness for which we are grateful to both Pope Francis and Benedict XVI – two great witnesses of faith and hope for modern man.

[00998-02.01] [Original text: Italian]

 Testo in lingua tedesca

In seinen Meditationen, die er uns täglich durch seine Predigten schenkt, ruft Papst Franziskus oft in Erinnerung: „Alles ist Gnade". Angesichts der Komplexität und Widersprüchlichkeit des Lebens könnte dieses Wort manchem naiv oder abstrakt erscheinen. Es ist jedoch eine Einladung, den positiven Charakter alles Geschaffenen zu sehen.

Genau daran möchte uns die Enzyklika Lumen fidei erinnern: das Licht, das vom Glauben kommt, von der Selbstoffenbarung Gottes in Jesus Christus und in seinem Geist, erleuchtet die Tiefen der Wirklichkeit und hilft uns zu erkennen, dass es die unauslöschlichen Zeichen des Heilshandelns Gottes in sich eingeschrieben trägt. Dank des Lichtes, das von Gott kommt, kann der Glaube tatsächlich „die gesamte Wegstrecke" (Nr. 1), „das gesamte Sein des Menschen" (Nr. 4) erleuchten. Der Glaube „trennt uns nicht von der Wirklichkeit, sondern erlaubt uns, ihren tieferen Grund zu erfassen und zu entdecken, wie sehr Gott diese Welt liebt und sie unaufhörlich auf sich hin ausrichtet" (Nr. 18).

Dies ist die zentrale Botschaft der Enzyklika, die einige für Benedikt XVI. wichtige Themen aufgreift. „Diese Gedanken über den Glauben möchten", so schreibt Papst Franziskus, „eine Ergänzung zu dem sein, was Benedikt XVI. in den Enzykliken über die Liebe und die Hoffnung geschrieben hat. Er hatte eine erste Fassung einer Enzyklika über den Glauben schon nahezu fertig gestellt. Dafür bin ich ihm zutiefst dankbar. In der Brüderlichkeit in Christus übernehme ich seine wertvolle Arbeit und ergänze den Text durch einige weitere Beiträge" (Nr. 7).

Es ist eine glückliche Fügung, dass dieser Text, wenn man so will, der Feder zweier Päpste entstammt. Wer ihn liest, kann - abgesehen von Unterschieden im Stil, in der Wahrnehmung und in der Schwerpunktsetzung - sofort die grundlegende Kontinuität der Botschaft von Papst Franziskus mit den Lehräußerungen von Benedikt XVI. erkennen.

Am Ursprung von allem steht Gott. An Ihn glauben heißt diese Tatsache anerkennen. Das weitet den Verstand und das Herz des Menschen, eröffnet ihm neue Horizonte, bringt ihn näher zu den anderen Menschen und öffnet die Pforten hin zu einer Lebensweise, die der Höhe seiner Berufung entspricht. Ja, wir müssen es uns eingestehen: Jedes Mal wenn wir den Glauben an Gott durch unsere Gedankenlosigkeit, unser Nicht-Handeln, durch unsere Lieblosigkeit nicht leben, tragen wir nicht zum Aufbau einer menschlicheren Welt bei. Wenn wir so handeln, geben wir vielmehr ein Anti-Zeugnis von Gott und entstellen das Antlitz der Kirche.

Im lebendigen Glauben an Gott, zu dem uns sein eingeborener Sohn Jesus Christus durch seinen Geist hintreten lässt, liegt unsere große Ressource. Von hier aus steht oder fällt jeder Reformversuch nicht nur in der Kirche, denn hier handelt es sich um eine Gabe, die die Kirche nicht für sich allein behalten kann. Der Glaube und das Leben der Gnade, das er uns ermöglicht, sind wahrlich ein Schatz des Guten und Wahren für alle Menschen, denn alle sind gerufen, in Freundschaft mit Gott zu leben und die Horizonte der Freiheit zu erleben, die sich für den eröffnen, der sich von Ihm an der Hand nehmen lässt.

Der Glaube an Gott, den uns Jesus Christus offenbart, ist der wahre Fels, auf den der Mensch sein Leben und das Leben der Welt bauen kann. Beim Glauben handelt es sich um ein Geschenk, das „niemals als etwas Selbstverständliches" vorausgesetzt werden kann, sondern ununterbrochen „genährt und gestärkt werden muss" (Nr. 7). Dank des Glaubens können wir erkennen, dass uns jeden Tag eine „große Liebe" angeboten wird, eine Liebe, die uns verwandelt, den Weg in die Zukunft erhellt und uns die Flügel der Hoffnung wachsen lässt (vgl. Nr. 7). Dank des Glaubens, der uns mit einem tragfähigen Vertrauen beschenkt und dieses in uns nährt, können wir mit Realismus in die Zukunft blicken, ohne uns „die Hoffnung rauben" zu lassen, wie Papst Franziskus ständig wiederholt. „Glaube, Hoffnung und Liebe bilden in wunderbarer Verflechtung die Dynamik des christlichen Lebens" (Nr. 7), des Lebens eines Menschen, der sich öffnet für die Gaben Gottes.

All das unterstreicht die Enzyklika Lumen fidei, die in vier Teile gegliedert ist, die wir gleichsam als vier „Szenen" eines einzigen großen „Gemäldes" auffassen können.

Im ersten Teil wird der Weg aufgezeigt vom Glauben Abrahams als eines Menschen, der in der Stimme Gottes „einen tiefen Ruf, der von jeher in das Innerste seines Seins eingeschrieben ist"(Nr. 11), erkennt, hin zum Glauben des Volkes Israel. Das Volk Israel schwankt ständig zwischen der „Versuchung des Unglaubens" (Nr. 13) und der Anbetung der Götzen, die Werke von Menschenhand sind, und dem „Gedenken der Wohltaten Gottes und an die fortschreitende Erfüllung seiner Verheißungen" (Nr. 12). Die Geschichte Jesu bietet schließlich das Kompendium der Erlösung, in dem alle Linien der Heilsgeschichte Israels sich sammeln und bündeln.

Mit Jesus Christus können wir endgültig sagen, dass wir „die Liebe, die Gott zu uns hat, erkannt und gläubig angenommen" haben (1 Joh 4,16), denn er „ist der vollkommene Erweis der Verlässlichkeit Gottes" (Nr. 15). Mit Ihm erreicht der Glaube seine Vollendung. Dieser Glaube lädt uns ein anzuerkennen, dass Gott nicht in den fernen Höhen seines Himmels verblieben ist, sondern sich offenbart hat in Jesus Christus, der gestorben und auferstanden ist und der mitten unter uns gegenwärtig bleibt.

Wenn wir Jesus folgen, wird dank des Glaubens das ganze Sein des Menschen verwandelt. Das Ich, die Person des Glaubenden, öffnet sich für die ursprüngliche Liebe, die im Glauben geschenkt wird (vgl. Nr. 21), und weitet sich für „ein kirchliches Leben" (Nr. 22). Indem er uns öffnet für die Gemeinschaft mit unseren Brüdern und Schwestern, will der Glaube uns nicht reduzieren „auf ein einfaches Rädchen in einem großen Getriebe" (Nr. 22), sondern uns helfen, dass „jeder sein eigenes Sein bis ins Letzte" gewinnt" (Nr. 22). „Für den, der auf diese Weise verwandelt worden ist, öffnet sich eine neue Sichtweise" (Nr. 22) und der Glaube wird zum wahren „Licht", das einlädt, sich immer wieder neu vom Ruf Gottes verwandeln zu lassen.

Im zweiten Teil legt die Enzyklika mit Nachdruck die Frage nach der Wahrheit vor als die Frage im „Zentrum des Glaubens" (Nr. 23). Der Glaube berührt daher auch die Erkenntnis der Wirklichkeit. Er ist ein Akt der Erkenntnis: „Glaube ohne Wahrheit rettet nicht [...]. Er bleibt ein schönes Märchen [...]. Oder er reduziert sich auf ein schönes Gefühl" (Nr. 24).

Die Frage nach der Wahrheit und das tatkräftige Bemühen um die Wahrheitssuche können nicht umgangen werden, so wie man auch nicht a priori den Beitrag ausschießen kann, den die großen religiösen Traditionen zur Wahrheitssuche leisten, insbesondere insoweit sie sich auf die fundamentalen Wahrheiten des menschlichen Seins richten.

Was ist der Beitrag, den diesbezüglich der Glaube an Jesus Christus zu bieten vermag? Der Glaube öffnet uns für die Liebe, die von Gott kommt, er verwandelt unsere Sichtweise der Dinge, „weil die Liebe selber Licht bringt" (Nr. 26). Auch wenn es für den modernen Menschen scheint, dass die Frage nach der Liebe nichts mit der Wahrheitsfrage zu tun hat, da die Liebe heute bloß im Bereich der Gefühle angesiedelt wird, so gilt doch: „Liebe und Wahrheit kann man nicht voneinander trennen" (Nr. 27).

Die Liebe ist authentisch, wenn sie an die Wahrheit gebunden ist, und die Wahrheit lockt uns mit der Kraft der Liebe. „Diese Entdeckung der Liebe als Quelle der Erkenntnis, die zur ursprünglichen Erfahrung jedes Menschen gehört", wird uns „in der biblischen Auffassung des Glaubens" bezeugt (Nr. 28). Das ist vielleicht einer der wichtigsten und schönsten Aspekte der Enzyklika.

Aufgrund der Tatsache, dass der Glaube auf die Erkenntnis bezogen und an die Wahrheit gebunden ist, kann Thomas von Aquin von oculata fides sprechen, „vom sehenden Glauben", vom Glauben als einem Geschehen, das das „Sehen" betrifft (Nr. 30). Der Glaube betrifft das Hören, aber er ist auch „ein Entwicklungsprozess des Sehens" (Nr. 30), der die Wahrheit sucht und erkennt und bei dem „Glaube und Vernunft sich gegenseitig stärken" (Nr. 32). So hatte im Übrigen schon der heilige Augustinus von Hippo „entdeckt, dass alle Dinge eine Transparenz in sich tragen" und so „die Güte Gottes, das Gute widerspiegeln können" (Nr. 33). Der Glaube hilft uns also, die Fundamente der Wirklichkeit in ihrer Tiefe zu ergründen.

In diesem Sinn kann man verstehen, auf welcher Ebene das Licht des Glaubens „die Fragen unserer Zeit über die Wahrheit erhellen" kann (Nr. 34), also die großen Fragen, die im menschlichen Herzen aufsteigen angesichts der gesamten Wirklichkeit mit ihren Schönheiten, aber auch angesichts ihrer Dramen. Denn die Wahrheit - hier kommt der Glaube ins Spiel - ist gebunden an die Liebe und kommt von der Liebe. Die Wahrheit muss uns nicht Angst machen, denn sie drängt sich nicht mit Gewalt auf, sondern trachtet danach, wirklich zu überzeugen fortiter ac suaviter, kraftvoll und mild.

Das ist der Grund, warum die Enzyklika daran festhält, dass „der Glaube die Horizonte der Vernunft [weitet], um die Welt, die sich der wissenschaftlichen Forschung erschließt, besser zu durchleuchten" (Nr. 34). Dies gilt für die wissenschaftliche Forschung, aber auch für die Suche jedes wahrhaft religiösen Menschen. Denn der Glaube offenbart uns, dass derjenige, der die Wahrheit und das Gute zu suchen beginnt, sich bereits Gott nähert und schon von seiner Hilfe unterstützt wird (vgl. Nr. 35), auch ohne sich dessen bewusst zu sein.

Ich möchte keine Zusammenfassung des dritten und vierten Teils der Enzyklika geben, sondern nur auf einige wichtige Aspekte aufmerksam machen. Zum einen möchte ich kurz darauf verweisen, wie der Glaube entsteht. Er ist ein Geschehen, das die Person im Innersten berührt. Der Mensch ist nicht ein isoliertes und isolierendes Ich, das Gott gegenüber steht, sondern er ist in eine Gemeinschaft eingebunden. Der Glaube wird deshalb „in der Form des Kontakts von Person zu Person weitergegeben, wie eine Flamme sich an einer anderen entzündet" (Nr. 37).

Der Glaube ist eingebunden in ein Gewebe von Beziehungen, das uns vorausgeht und uns überschreitet, in ein „Wir", das uns einlädt, aus der Einsamkeit unseres Ichs auszubrechen, um uns einzuordnen in eine größere Sichtweise, in einen Dialog und einen Weg ohne Ende. Die dialogische Struktur, in der sich unser Credo zeigt, wird auch an dieser Tatsache und an dieser Bewegung deutlich, die im Inneren des kirchlichen „Wir" zu verorten ist, in dem neuen Subjekt, dem wir aufgrund des Glaubens angehören.

Die Kirche ist der Ort, in dem diese Bewegung der Person, die aus dem gelebten Glauben hervorgeht, gegründet ist und von dem aus sie ohne Unterlass angetrieben wird. Die Kirche öffnet uns für Gott und für die anderen. Sie wird so zu einer neuen Weltanschauung, einer besonderen Sichtweise der Welt. Sie ist, um das schöne Zitat von Romano Guardini aufzugreifen, „die geschichtliche Trägerin des vollen Blicks Christi auf die Welt" (Nr. 22).

Die Kirche ist der Ort, in dem Glaube entsteht und in dem er eine Erfahrung wird, die man anderen mitteilen und von der man in nachvollziehbarer und vertrauenswürdiger Weise Zeugnis geben kann. Denn „was in der Kirche mitgeteilt wird, […] ist das neue Licht, das aus der Begegnung mit dem lebendigen Gott kommt" (Nr. 40).

Diese Begegnung mit dem lebendigen Gott ermöglicht es der Kirche, von ihm glaubwürdig Zeugnis zu geben. Werkzeug und wirksame Zeichen dieser Begegnung „sind die Sakramente, die in der Liturgie der Kirche gefeiert werden" (Nr. 40). Deshalb betont die Enzyklika, dass der Glaube eine sakramentale Struktur hat.

Von hier aus kann man gut die dem Glauben eigene Bewegung verstehen: Er setzt an beim Sichtbaren und Materiellen, um uns „auf das Geheimnis der Ewigkeit hin" zu öffnen (Nr. 40). In diese Bewegung wird der Gläubige mit seinem ganzen Sein hineingenommen, in die Wahrheit, die er erkennt und bekennt (vgl. Nr. 45). Er kann daher „die Worte des Credos nicht in Wahrheit aussprechen, ohne dadurch verwandelt zu werden" (Nr. 45). Denn der Glaube drängt zu einem beständigen Wandel und verbietet es dem Menschen, sich in eine bequeme Gelassenheit einzuschließen.

Als Zweites liegt es mir am Herzen, ein Zitat, das sich im dritten Teil der Enzyklika findet und einer Predigt von Papst Leo dem Großen entnommen ist, anzuführen: „Wenn der Glaube nicht eins ist, ist er kein Glaube" (Nr. 47). Wir leben in einer Welt, die trotz aller Tendenzen zur Globalisierung gespalten und zerteilt ist. In den vielen verschiedenen „Welten" stehen die Menschen zwar miteinander in Verbindung, leben aber doch oft isoliert und nur zu oft im Konflikt miteinander. Die Einheit des Glaubens ist deshalb ein kostbares Gut, das der Papst und seine Mitbrüder im Bischofsamt bezeugen, nähren und schützen, und zwar als Vorbotin einer Einheit, die ein Geschenk für die ganze Welt sein möchte.

Dabei handelt es sich nicht um eine monolithische Einheit, sondern um eine Einheit in reicher und lebendiger Vielfalt. Gott selbst ist einer und zugleich dreifaltig. Das Zeugnis für die Einheit gehört zur Sendung der Kirche, die vom II. Vatikanischen Konzil als „Zeichen und Werkzeug" (Lumen gentium, Nr. 1) der Einheit, die von Gott kommt, bezeichnet wurde und deren Bestimmung es ist, die ganze Menschheit zu umfassen.

Diese Einheit wird mit Recht „katholisch" genannt, denn sie ist in der Wahrheit gegründet, der sie zu dienen hat und von der her sie zu bewerten ist. Sie vermag „alles in sich zu assimilieren, was sie in den verschiedenen Bereichen, wo sie hingelangt, und in den verschiedenen Kulturen, denen sie begegnet, vorfindet"(Nr. 48). Denn diese Einheit ist gegründet in der Wahrheit, so nimmt sie uns nichts weg, sondern bereichert uns mit den Gaben, die dem Großmut des göttlichen Herzens und jedes einzelnen Menschen entstammen.

Eben diese Einheit in der Wahrheit, zu der uns Gott, der Vater aller, führt, kann uns auch helfen, die wahre Wurzel der Brüderlichkeit zu entdecken (vgl. Nr. 53). Ohne Wahrheit und ohne Gott kann der Traum der universellen Brüderlichkeit, der am Anfang der Moderne steht, nicht Wirklichkeit werden, sondern nur die traurige Erfahrung von Babel wiederholen. Denn die Brüderlichkeit, „die des Bezugs auf einen gemeinsamen Vater als ihr letztes Fundament entbehrt", vermag „nicht zu bestehen" (Nr. 54). Die Geschichte der beiden vergangenen Jahrhunderte zeigt uns dies sehr deutlich.

Zum Abschluss möchte ich einen Aspekt aus dem vierten Teil der Enzyklika aufgreifen. Es stimmt, dass der echte Glaube mit Freude erfüllt und „das Leben weit" macht (Nr. 53). Das ist übrigens ein Gedanke, der Papst Franziskus eng mit Benedikt XVI. verbindet. Zugleich lässt uns das Licht des Glaubens aber „nicht die Leiden der Welt vergessen" (Nr. 57), sondern öffnet uns zu „einer begleitenden Gegenwart, einer Geschichte des Guten, die sich mit jeder Leidensgeschichte verbindet, um in ihr ein Tor zum Licht aufzutun" (Nr. 57). Nur das Licht, das von Gott kommt, dem menschgewordenen Gott, der den Tod durchlitten und besiegt hat, kann angesichts des vielfältigen Leids, welches das menschliche Leben bedrückt, eine glaubwürdige Hoffnung bieten.

Zusammenfassend könnte man sagen: Die Enzyklika will auf neue Weise bekräftigen, dass der Glaube an Jesus Christus ein Gut für den Menschen ist, und zwar für alle. Der Glaube „ist ein Gemeingut; sein Licht erleuchtet nicht nur das Innere der Kirche, noch dient er allein der Errichtung einer ewigen Stadt im Jenseits; er hilft uns, unsere Gesellschaften so aufzubauen, dass sie einer Zukunft voll Hoffnung entgegengehen" (Nr. 51).

Soweit einige kurze Hinweise, die nur dazu dienen wollen, zur Lektüre dieses reichhaltigen Dokuments anzuregen, gleichsam den Geschmack daran zu wecken. Diese Enzyklika kann wahrhaftig als ein „Dokument" bezeichnet werden: sie bietet uns nicht nur Worte, sondern sie dokumentiert uns den positiven Blick eines Lebens, das sich ganz von Gott anziehen und umfangen lässt. Das ist das Licht des Glaubens. Das ist im Übrigen auch das Zeugnis, für das wir Papst Franziskus und Benedikt XVI., zwei echte Leuchten des Glaubens und der Hoffnung für unsere Zeit, so dankbar sind.

[00998-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

 Testo in lingua spagnola

En las meditaciones que el Santo padre ofrece diariamente, con frecuencia se afirma que "todo es gracia". Esta afirmación, que de frente a la complejidad y contradicciones de la vida, puede parecer a alguien ingenua o abstracta, es en cambio una invitación a reconocer que la dimensión ultima de la realidad es de signo positivo.

Esta verdad es justamente aquello que quiere poner de relieve la carta encíclica Lumen fidei: la luz que proviene de la fe, de la revelación de Dios en Jesucristo y en su Espíritu, ilumina la profundidad de la realidad y nos ayuda a reconocer que ella lleva inscripta en sí misma los signos indelebles de la bondadosa iniciativa de Dios. Gracias a la luz que viene de Dios, la fe puede iluminar "todo el trayecto del camino" (n.1), "toda la existencia del hombre" (n.4). Ella "no nos separa de la realidad, sino nos permite captar su significado profundo, descubrir cuánto ama Dios a este mundo y cómo lo orienta incesantemente hacia sí" (n. 18).

Este es el mensaje central de la carta encíclica, que retoma algunos temas particularmente queridos por Benedicto XVI. "Estas consideraciones sobre la fe – escribe el Papa Francisco – en línea con todo lo que el Magisterio de la Iglesia ha declarado sobre esta virtud teologal,7 pretenden sumarse a lo que el Papa Benedicto XVI ha escrito en las Cartas encíclicas sobre la caridad y la esperanza. Él ya había completado prácticamente una primera redacción de esta Carta encíclica sobre la fe. Se lo agradezco de corazón y, en la fraternidad de Cristo, asumo su precioso trabajo, añadiendo al texto algunas aportaciones." (n. 7).

El hecho de que el presente texto haya sido escrito, por así decir, con la mano de dos pontífices, es una circunstancia feliz. Quien lo lea, podrá inmediatamente notar, más allá de las diferencias de estilo, sensibilidad y acentos, la sustancial continuidad del mensaje del Papa Francisco con el magisterio de Benedicto XVI.

En el origen de todo se encuentra Dios. La fe en Dios es justamente reconocer este hecho, que dilata la razón y el corazón del hombre, amplía sus horizontes, y lo hace siempre más cercano a los demás, mientras se le abre las puertas de una existencia vivida finalmente a la altura de su dignidad. Debemos reconocerlo: todas las veces que no pensamos, obramos y amamos para que actúe la fe en Dios, no contribuimos a edificar un mundo más humano. Por el contrario, frecuentemente damos uno contra testimonio de Dios y desfiguramos el rostro de la Iglesia.

En la fe viva en Dios, dentro de la cual nos introduce su Hijo Unigénito, Jesucristo, mediante su Espíritu, se encuentra nuestra mayor fuente de reservas. A partir de aquí, se levanta o cae todo tentativo de reforma, y esto, no solamente en la Iglesia, porque a este nivel de cosas está en juego un don que la Iglesia no puede guardarse sólo para sí. La fe y la vida de la gracia que la Iglesia nos ofrece, es de hecho un tesoro de bien y de verdad que toca a cada hombres, porque todos están llamados a vivir en amistad con Dios y a descubrir los horizontes de libertad que se abren a quien se deja tomar de la mano por Él.

La fe en Dios que nos revela a Jesucristo es la verdadera "roca" sobre la cual el hombre está llamado edificar su vida y la del mundo. Se trata de un don que nunca puede ser considerado "como un hecho descontado", sino que debe ser continuamente "alimentado y robustecido" (n. 6).

Gracias a la fe podemos reconocer que cada día se nos ofrece un "grande Amor", un amor que " nos transforma, ilumina el camino y hace crecer en nosotros las alas de la esperanza para poder recorrerlo con alegría" (n. 7). Gracias a la fe, podemos mirar con realismo el futuro y, llenos de confianza, cuidar que nadie nos "robe la esperanza", como repite continuamente el Papa Francisco. Fe, esperanza y amor, "en una admirable urdimbre", constituyen el dinamismo de la vida del hombre que se abre a los dones que provienen de Dios (cf. n. 7).

La carta encíclica Lumen fidei afirma estas verdades, dividiendo las temáticas en cuatro partes, que podemos considerar como cuatro cuadros de una única grande "pintura".

En la primera parte, a partir de la fe de Abraham, que presenta al hombre reconociendo en la voz de Dios "una llamada profunda, inscrita desde siempre en su corazón " (n. 11), se pasa a la fe del pueblo de Israel. La historia de la fe de Israel, a su vez, es un continuo pasaje de la "tentación de la incredulidad" (n. 13) y la adoración de los ídolos, "obras de las manos del hombre", a la confesión "de los beneficios de Dios y al cumplimiento progresivo de sus promesas (n. 12). Se llega así a la historia de Jesús, compendio de la salvación, en quien todas las líneas de la historia de Israel se unen y concentran.

Con Jesús podemos decir definitivamente que "hemos conocido y creído al amor que Dios tiene por nosotros" (1Jn 4,16), porque Él es "la manifestación plena de la fiabilidad de Dios" (n.15). Con Él la fe alcanza su plenitud. Ella implica reconocer que Dios no ha permanecido lejos, en su cielo inalcanzable, sino que ha querido que se lo pueda encontrar en Jesucristo, muerto y resucitado, presente en medio de nosotros.

Siguiendo a Jesús, toda la existencia del hombre se transforma gracias a la fe. El "yo", la personalidad de quien cree, abriéndose al amor originario que le es ofrecido en la fe (cf. n.21), se dilata y "se convierte en existencia eclesial" (n. 22). Abriéndonos a la comunión con los hermanos y las hermanas, la fe no nos reduce a "mera pieza de un grande engranaje" (n. 22), sino que además "cada uno alcanza hasta el fondo su propio ser" (n. 22). "

El que cree, aceptando el don de la fe, es transformado en una criatura nueva, recibe un nuevo ser" (n. 19), y la fe se convierten en una auténtica "luz" que invita a dejarse transformar siempre de nuevo por la llamada de Dios. "la fe, sin verdad, no salva… se queda en una bella fábula… se reduce a un sentimiento hermoso" (n .24).

En la segunda parte, la encíclica pone la verdad como una cuestione que se coloca "en el centro de la fe" (n. 23). La fe es un evento cognoscitivo relacionado con el conocimiento de la realidad: "sin la verdad, la fe no salva… permanece una hermosa fábula… o se reduce a un bello sentimiento" (n. 24).

La pregunta por la verdad y el compromiso de buscarla no pueden evitarse, del mismo modo que, en la búsqueda de la verdad, no puede excluirse a priori la contribución de las mayores tradiciones religiosas, sobre todo en lo que se refiere a las grandes verdades de la existencia humana.

En este sentido, ¿qué aporte ofrece la fe en Jesucristo? La fe, abriéndonos al amor que viene de Dios, transforma nuestro modo de ver las cosas "en cuanto el mismo amor trae una luz" (n. 26). Aun cuando el hombre moderno no parece creer que la cuestión del amor tenga relación con la verdad, habiendo sido relegado al esfera del sentimiento, "amor y verdad no se pueden separar" (n. 27).

El amor es auténtico cuando nos une a la verdad, mientras la verdad nos atrae a ella con la fuerza del amor. "Este descubrimiento del amor como fuente de conocimiento, que pertenece a la experiencia originaria de cada hombre", nos es testimoniada justamente "por la concepción bíblica de la fe" (n. 28) y constituye uno de los énfasis más bellos e importantes de esta Encíclica.

El hecho de que la fe atañe al conocimiento y esté vinculada a la verdad, hace que Tomás de Aquino hable de oculata fides, es decir, de la fe como evento que toca el "ver" (cf. n. 30). La fe se relaciona al acto de escuchar, pero no en forma exclusiva, porque ella es también un "camino de la mirada" (n. 30) que busca y reconoce la verdad; un camino en el que "fe y razón se refuerzan mutuamente" (n.32). Por otra parte ya Agustín de Hipona había "descubierto que todas las cosas tienen en sí una transparencia" y pueden "reflejar la bondad de Dios, el Bien" (n. 33). La fe nos ayuda por tanto a alcanzar en profundidad los fundamentos de la realidad.

En ese sentido, se puede comprender el nivel en el cual la luz de la fe puede "iluminar los interrogativos de nuestro tiempo en cuanto a la verdad" (n.34), es decir las grandes preguntas que surgen en el corazón humano frente a la totalidad de la realidad, sea en relación a su belleza que a sus aspectos dramáticos. La verdad a que nos introduce la fe está vinculada con el amor y proviene del amor. No es una verdad que atemoriza, porque no se impone con la violencia sino que busca convencernos en la profundidad de nuestro ser: fortiter ac suaviter al mismo tiempo.

Por esto la encíclica no teme afirmar que "la fe ensancha los horizontes de la razón para iluminar mejor el mundo que se presenta" (n. 34), tanto a los estudios de la ciencia como a la investigación del hombre sinceramente religioso. Es justamente la fe la que nos revela que quien se pone en camino para buscar la verdad y el bien "se acerca a Dios" y es "sostenido por su Él" (n. 35) aunque no lo sepa.

No me detengo a resumir la tercera y cuarta parte de la Encíclica, pero quisiera llamarles la atención, en el breve tiempo que tengo, sobre algunos puntos que creo particularmente relevantes. Antes que nada acerca del lugar genético de la fe. Ella es un evento que toca íntimamente la persona, pero no cierra el "yo" en un aislado y aislante "tú a tú" con Dios. De hecho, la fe "nace de un encuentro que se produce en la historia" (n. 38) y "se transmite… por contacto, de persona a persona, como una llama enciende otra llama (n. 37).

La fe ocurre siempre en el interior de una trama de relaciones que nos precede y nos excede, en un "nosotros" que nos invita a salir de la soledad de nuestro "yo" para ponernos en un horizonte, en un ámbito siempre más grande; en un diálogo y en un camino que no terminan jamás. La misma forma dialogada que ha dado lugar a nuestro credo documenta este hecho y este movimiento que nos colocan en el interior del "nosotros" eclesial, del nuevo sujeto al que pertenecemos a través de la fe.

La Iglesia es el lugar dentro del cual este movimiento de la persona, que nace a partir de la fe vivida, se radica para ser nuevamente lanzado una y otra vez, abriéndonos a Dios y a los demás, y convirtiéndose en una nueva Weltanschauung (Cosmovisión), una peculiar visión del mundo: es de hecho, según la hermosa cita de Romano Guardini, "la portadora histórica de la visión integral de Cristo sobre el mundo" (n. 22).

La Iglesia es el lugar donde nace la fe y se convierte en experiencia que se puede comunicar, es decir testimoniar en modo razonable y por lo tanto confiable: "lo que se comunica en la Iglesia… es la luz nueva que nace del encuentro con el Dios vivo" (n. 40).

La Iglesia hace justamente posible este encuentro con el Dios viviente, permitiendo que la fe sea un testimonio creíble. Vehículo y signo eficaz de este encuentro "son los sacramentos, celebrados en la liturgia de la Iglesia" (n.40). Por eso la Encíclica afirma que "la fe tiene una estructura sacramental" (n. 40).

Desde aquí se comprende bien la naturaleza del movimiento inherente a la fe: a partir de las cosas visibles y materiales ella nos mueve "al misterio [invisible] de lo eterno" (n. 40). En este movimiento, el creyente se sumerge con todo su ser para alcanzar la verdad que reconoce y confiesa (cf. n. 45). Éste no puede ya "pronunciar con verdad las palabras del Credo sin ser por eso mismo transformado" (n. 45), porque la fe exige un continuo cambio del hombre, que le impide cerrarse en una cómoda tranquilidad.

En segundo lugar, señalo con agrado una cita, presente en la tercera parte de la Encíclica, extraída de las Homilías de San León Magno: "si la fe no es una, no es fe" (n. 47). Vivimos de hecho en un "mundo" que, a pesar de sus conexiones y globalizaciones, está fragmentado y seccionado en muchos mundos, que si bien se encuentran en comunicación, se hallan con frecuencia en mutuo conflicto. Por esta razón la unidad de la fe es un bien precioso que el Santo Padre y sus hermanos obispos están llamados a testimoniar, alimentar y garantizar como primicias de una unidad que se ofrece al mundo entero como don.

Se trata de una unidad no monolítica, sino rica y de viva pluriformidad, que a la sombra del misterio del Dios Uno y Trino, se presenta al mismo tiempo como origen y misión de la Iglesia. Ésta ha sido definida por el Concilio Vaticano II como "signo e instrumento" (LG 1) de la unidad que viene de Dios y está destinada a abrazar a todo el género humano.

Es una unidad que con razón se define católica, porque está fundada sobre la verdad a la cual quiere servir y hacer valorar. Tiene de hecho el "poder de asimilar todo lo que encuentra en los diversos ámbitos en que se hace presente, en las culturas que halla, purificándolo todo a fin de que todo encuentre su mejor expresión" (n.48). Porque está fundada sobre la verdad, esta unidad no nos empobrece sino nos enriquece con los dones que nacen de la generosidad del corazón de Dios y del prójimo.

Esta unidad en la que nos introduce Dios, Padre de todos nosotros, nos ayuda también a encontrar la raíz de la verdadera fraternidad (cf. n. 53). Sin verdad y sin Dios, el sueño de una fraternidad universal, generado por la modernidad, no tiene posibilidad de realizarse y está destinado a reeditar la triste experiencia de Babel. De hecho la fraternidad, "sin regencia a una Padre común como fundamento último, no logra subsistir" (n. 54). La historia de los últimos dos siglos, nos ofrece una triste y amplia documentación de ello.

Por último, deseo referirme a un pasaje de la cuarta parte de la Encíclica. Si es verdad que la fe auténtica llena el corazón de alegría y "se ensancha la vida" (n.53) —afirmación que aúna concretamente al Papa Francisco y Benedicto XVI— "la luz de la fe no nos lleva a olvidarnos de los sufrimiento del mundo" (n.57) sino que nos abre "a una presencia que le acompaña, con una historia del bien que se une a toda historia de sufrimiento, para abrir en ella un resquicio de luz" (n.57). Sólo la luz que viene de Dios, del Dios encarnado que ha atravesado la muerte y la ha vencido, puede ofrecer una esperanza que inspire confianza frente al mal, ante cada mal que aflige la vida del hombre.

En resumen, la encíclica quiere reafirmar de modo nuevo, que la fe en Jesucristo es un bien para el hombre y "es un bien para todos, un bien común": "su luz no luce sólo dentro de la Iglesia, ni sirve únicamente para construir una ciudad eterna en el más allá; nos ayuda a edificar nuestras sociedades para que avancen hacia el futuro con esperanza" (n.51).

Éstas son las breves muestras de la Encíclica, que querrían inducir a la lectura de este rico documento e invitar a gustarlo. El presente texto puede muy bien considerarse un "documento": en él que se nos ofrecen no sólo palabras, sino que se nos documenta una mirada positiva, a la luz de la fe, sobre una vida que se deja atraer y envolver totalmente en Dios. Es este, por lo demás, el testimonio que agradecemos al Papa Francisco y a Benedicto XVI: dos auténticas luces de fe y de esperanza para el hombre contemporáneo.

[00998-04.01] [Texto original: Italiano]

● INTERVENTO DI S.E. MONS. RINO FISICHELLA

"Chi crede, vede". In questa espressione tanto incisiva quanto simbolica, si può racchiudere l’insegnamento di Papa Francesco in questa sua prima enciclica. Un testo posto nell’orizzonte del binomio luce e amore. Ciò che viene insegnato è un cammino che il Papa propone alla Chiesa per recuperare la sua missione nel mondo di oggi. La luce è una categoria determinante per la fede e per la vita della Chiesa. Essa ritorna con particolare efficacia in un momento come questo, spesso di forte travaglio, dovuto a una crisi di fede che per i problemi che comporta ha pochi precedenti nella nostra storia. Presentando la fede, l’enciclica chiede di fissare di nuovo lo sguardo sull’essenziale della Chiesa e di ogni credente. Questo è il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio che nella sua morte e risurrezione ha rivelato l’amore nella sua pienezza e profondità. I primi due capitoli, dalla prospettiva della riflessione teologica sono certamente tra le pagine più originali. Qui, infatti, partendo dal presupposto che la fede nasce dall’amore, si articola il rapporto tra conoscenza di fede e conoscenza di amore come un binomio inscindibile; dove l’amore, comunque, ha il suo primato indiscusso. La "luce della fede" si risolve nella "luce dell’amore" (Lf 34) e in essa trova il significato originario la verità e le vie per la sua comprensione coerente. Rileggere la fede in rapporto all’amore, inoltre, permette al Papa di evidenziare la natura stessa della verità a cui chi crede si abbandona. La verità illuminata dall’amore rende sicuro il cammino del credente nella sua ricerca di senso. Senza questa verità, invece, la critica di credere a una "bella fiaba" o di cedere alla "proiezione dei nostri desideri" (Lf 24) sarebbe sempre all’erta. La fede generata dall’amore ricerca la verità e la desidera come espressione di una conoscenza più profonda e più genuina.

Lumen fidei viene pubblicata nel bel mezzo dell’Anno della fede e, simbolicamente, porta la data del 29 giugno, festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo, primi testimoni della fede in questa Chiesa di Roma, dove il successore di Pietro è chiamato al servizio e alla responsabilità di confermare i fratelli nell’unità della fede di sempre. E’ utile sapere che in prospettiva dell’Anno della fede si era chiesto ripetutamente a Benedetto XVI di scrivere un’enciclica sulla fede che venisse in qualche modo a concludere la triade che egli aveva iniziato con Deus caritas est sull’amore, e Spe salvi sulla speranza. Il Papa non era convinto di dover sottoporsi a questa ulteriore fatica. L'insistenza, tuttavia, ebbe la meglio e Papa Benedetto decise che l’avrebbe scritta per offrirla a conclusione dell’Anno della Fede. La storia ha voluto diversamente. Questa enciclica ci viene offerta oggi da Papa Francesco con forte convinzione e come "programma" su come continuare a vivere questa esperienza che ha visto tutta la Chiesa impegnata per un anno intero in tante esperienze fortemente significative. Bisogna dire, comunque, senza esitazione che Lumen fidei, pur riprendendo alcune intuizioni e alcuni contenuti propri del magistero di Benedetto XVI, è pienamente un testo di Papa Francesco. Qui si ritrova il suo stile, e la peculiarità dei contenuti a cui ci ha abituato in questi primi mesi del suo pontificato, soprattutto con le sue Omelie quotidiane. L’immediatezza delle espressioni usate, la ricchezza delle immagini a cui fa riferimento e la peculiarità di alcune citazioni di autori antichi e moderni fanno di questo testo una vera introduzione al suo magistero e permettono di conoscere meglio lo stile pastorale che lo contraddistingue. Solo come esemplificazione, una lettura attenta di queste pagine mostrerà subito che ritornano con forza tre verbi che Papa Francesco aveva utilizzato nella sua prima Omelia ai Cardinali il giorno successivo della sua elezione: camminare, costruire, confessare. Per alcuni versi, si può dire che l’enciclica si struttura su questi tre verbi e ne specifica i contenuti.

Accogliamo, quindi, con particolare interesse questo insegnamento nell’Anno della Fede, anche come segno peculiare e contributo proprio che Papa Francesco intende offrire alla nuova evangelizzazione. Questo Anno, come scrive il Papa, è un "tempo di grazia che ci sta aiutando a sentire la grande gioia di credere, a ravvivare la percezione dell’ampiezza di orizzonti che la fede dischiude, per confessarla nella sua unità e integrità fedeli alla memoria del Signore" (Lf 5). Non sono dimenticate dal Papa le due scadenze che caratterizzano questo Anno: il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, e il ventesimo della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Per quanto comporta il primo evento, Papa Francesco ribadisce che è stato "un concilio sulla fede" (Lf 6), anche se i Padri conciliari non hanno prodotto nessun documento esplicito in proposito. Il Vaticano II, infatti, aveva lo scopo di riporre al centro della vita della Chiesa il primato di Dio e l’esigenza di dirlo oggi, in una società e cultura differenti, in modo comprensibile e credibile. Per quanto concerne il Catechismo, invece, l’enciclica ribadisce la sua validità come strumento attraverso il quale la Chiesa compie la sua opera di trasmissione della fede con la memoria viva dell’annuncio di Gesù Cristo. Merita di essere sottolineato, inoltre, che proprio in questo contesto Papa Francesco sottolinea il grande valore che possiede la Professione di fede, il Credo. Come si sa, uno dei temi dell’Anno della fede, già indicato in Porta fidei da Benedetto XVI, è quello di riproporre al cristiano come preghiera quotidiana il Credo. Ciò consente di sentire la fede come un fatto vivo ed efficace nella vita dei credenti, che spesso sperimentano un analfabetismo ingiustificato circa i contenuti della fede. In queste pagine, viene ribadito il profondo valore che il Credo possiede, non solo per ricordare la sintesi della fede, ma soprattutto per far comprendere l’impegno a cambiare la vita: "Nel Credo il credente viene invitato a entrare nel mistero che professa e a lasciarsi trasformare da ciò che professa… si vede coinvolto nella verità che confessa" (Lf 45). Come si nota, Papa Francesco non lascia le questioni alla mera teoria, ma provoca a verificare la pratica, la prassi che è indispensabile nella vita di fede per diventare testimonianza veritiera. Questo legame gli permette di sollecitare una presenza fattiva per la costruzione di una "città affidabile" (Lf 50), frutto dell’impegno della fede che diventa responsabilità per la società e la natura. Chi crede, insomma, è chiamato a vivere responsabilmente nel mondo mediante "un servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace" (Lf 51), consapevole che "La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto" (ibidem)

Lumen fidei è un’enciclica con una forte connotazione pastorale. Queste pagine saranno molto utili nell’impegno che toccherà le nostre comunità per dare continuità al grande lavoro intrapreso con l’Anno della fede. Papa Francesco, con la sua sensibilità di pastore, riesce a tradurre molte questioni di carattere prettamente teologico in tematiche che possono aiutare la riflessione e la catechesi. Per questo è importante cogliere l’invito che giunge a conclusione dell’enciclica: "Non facciamoci rubare la speranza" (Lf 57). Il Papa lo ha ripetuto più volte in questi mesi, soprattutto rivolgendosi ai giovani e ai ragazzi. Scrivendolo nella sua prima enciclica vuole indicare che nessuno dovrebbe avere paura di guardare ai grandi ideali e di perseguirli. La fede e l’amore sono i primi a dover essere proposti. In un periodo di debolezza culturale come il nostro un simile invito è una provocazione e una sfida che non possono trovarci indifferenti.

[01013-01.01][Testo originale: Italiano]

[B0448-XX.01]