Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA, 05.04.2012


Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri - circa 1600, tra diocesani e religiosi - presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi vengono benedetti l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il crisma.
Riportiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo "consacrati nella verità" (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui. "Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?". Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi? Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?

Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.

Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.

Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a "traduzioni" in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una "traduzione" dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali "traduzioni" della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come "dono e mistero". I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.

Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale. C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – "amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento, il munus docendi, che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso. Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.

Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: "La mia dottrina non è mia" (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: Che cosa è tanto mio quanto me stesso? E che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore. Amen.

[00460-01.02] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers frères et sœurs !

En cette messe nos pensées se tournent vers le moment où l’Évêque, par l’imposition des mains et la prière, nous a fait entrer dans le sacerdoce de Jésus Christ, de sorte que nous soyons « consacrés dans la vérité » (Jn 17, 19), comme Jésus, dans sa Prière sacerdotale, a demandé pour nous à son Père. Il est lui-même la Vérité. Il nous a consacrés, c’est-à-dire remis pour toujours à Dieu, afin que, à partir de Dieu et en vue de lui, nous puissions servir les hommes. Mais sommes-nous aussi consacrés dans la réalité de notre vie ? Sommes-nous des hommes qui agissent à partir de Dieu et en communion avec Jésus Christ ? Avec cette question le Seigneur se tient devant nous, et nous nous tenons devant lui. « Voulez-vous vivre toujours plus unis au Seigneur Jésus et chercher à lui ressembler, en renonçant à vous-mêmes, en étant fidèles aux engagements attachés à la charge ministérielle que vous avez reçue au jour de votre Ordination sacerdotale ? » C’est ainsi qu’après cette homélie, j’interrogerai individuellement chacun de vous et aussi moi-même. Par là, deux choses s’expriment surtout : ce qui est demandé c’est un lien intérieur, ou mieux, une configuration au Christ, et en ceci nécessairement un dépassement de nous-mêmes, un renoncement à ce qui est seulement nôtre, à la si vantée autoréalisation. Il est demandé que nous, que moi, je ne revendique pas ma vie pour moi-même, mais que je la mette à la disposition d’un autre – du Christ. Que je ne demande pas : qu’est-ce que j’en retire pour moi ?, mais : qu’est-ce que je peux donner moi pour lui et ainsi pour les autres ? Ou encore plus concrètement : comment doit se réaliser cette configuration au Christ, lequel ne domine pas, mais sert ; il ne prend pas, mais il donne – comment doit-elle se réaliser dans la situation souvent dramatique de l'Église d’aujourd’hui ? Récemment, un groupe de prêtres dans un pays européen a publié un appel à la désobéissance, donnant en même temps aussi des exemples concrets sur le comment peut s’exprimer cette désobéissance, qui devrait ignorer même des décisions définitives du Magistère – par exemple sur la question de l’Ordination des femmes, à propos de laquelle le bienheureux Pape Jean-Paul II a déclaré de manière irrévocable que l’Église, à cet égard, n’a reçu aucune autorisation de la part du Seigneur. La désobéissance est-elle un chemin pour renouveler l’Église ? Nous voulons croire les auteurs de cet appel, quand ils affirment être mus par la sollicitude pour l’Église ; être convaincus qu’on doit affronter la lenteur des Institutions par des moyens drastiques pour ouvrir des chemins nouveaux – pour ramener l’Église à la hauteur d’aujourd’hui. Mais la désobéissance est-elle vraiment un chemin ? Peut-on percevoir en cela quelque chose de la configuration au Christ, qui est la condition nécessaire de tout vrai renouvellement, ou non pas plutôt seulement l’élan désespéré pour faire quelque chose, pour transformer l’Église selon nos désirs et nos idées ?

Mais ne simplifions pas trop le problème. Le Christ n’a-t-il pas corrigé les traditions humaines qui menaçaient d’étouffer la parole et la volonté de Dieu ? Oui, il l’a fait, pour réveiller de nouveau l’obéissance à la vraie volonté de Dieu, à sa parole toujours valable. La vraie obéissance lui tenait justement à cœur, contre l’arbitraire de l’homme. Et n’oublions pas : il était le Fils, avec l’autorité et la responsabilité singulières de révéler l’authentique volonté de Dieu, pour ouvrir ainsi la route de la parole de Dieu vers le monde des gentils. Et enfin : il a concrétisé son envoi par sa propre obéissance et son humilité jusqu’à la Croix, rendant ainsi sa mission crédible. Non pas la mienne, mais ta volonté : c’est la parole qui révèle le Fils, son humilité et en même temps sa divinité, et qui nous indique la route.

Laissons-nous interroger encore une fois : est-ce qu’avec de telles considérations n’est pas défendu, en fait, l’immobilisme, le durcissement de la tradition ? Non. Celui qui regarde l’histoire de l’époque post-conciliaire, peut reconnaître la dynamique du vrai renouvellement, qui a souvent pris des formes inattendues dans des mouvements pleins de vie et qui rend presque tangibles la vivacité inépuisable de la sainte Église, la présence et l’action efficace du Saint Esprit. Et si nous regardons les personnes, dont sont nés et naissent ces fleuves frais de vie, nous voyons aussi que pour une nouvelle fécondité il est nécessaire d’être remplis de la joie de la foi ; sont aussi nécessaires la radicalité de l’obéissance, la dynamique de l’espérance et la force de l’amour.

Chers amis, il reste clair que la configuration au Christ est la condition nécessaire et la base de tout renouvellement. Mais peut-être que la figure du Christ nous apparaît parfois trop élevée et trop grande, pour pouvoir oser en prendre les mesures. Le Seigneur le sait. C’est pourquoi, il a pourvu à des « traductions » dans des ordres de grandeur plus accessibles et plus proches de nous. Pour cette raison justement, Paul sans timidité a dit à ses communautés : imitez-moi, mais j’appartiens au Christ. Il était pour ses fidèles une « traduction » du style de vie du Christ, qu’ils pouvaient voir et à laquelle ils pouvaient adhérer. À partir de Paul, tout au long de l’histoire il y a eu continuellement de telles « traductions » du chemin de Jésus en figures historiques vivantes. Nous prêtres nous pouvons penser à une grande foule de saints prêtres, qui nous précèdent pour nous indiquer la route : à commencer par Polycarpe de Smyrne et Ignace d’Antioche, en passant par les grands pasteurs comme Ambroise, Augustin et Grégoire le Grand, jusqu’à Ignace de Loyola, Charles Borromée, Jean-Marie Vianney, jusqu’aux prêtres martyrs du vingtième siècle et enfin jusqu’au Pape Jean-Paul II qui dans l’action et dans la souffrance nous a été un exemple dans la configuration au Christ, comme « don et mystère ». Les saints nous indiquent comment fonctionne le renouvellement et comment nous pouvons nous mettre à son service. Et ils nous font aussi comprendre que Dieu ne regarde pas aux grands nombres et aux succès extérieurs, mais rapporte ses victoires dans l’humble signe du grain de moutarde.

Chers amis, je voudrais encore brièvement m’arrêter à deux mots-clés du renouvellement des promesses sacerdotales, qui devraient nous pousser à réfléchir en ce moment de la vie de l'Église et de notre vie personnelle. Il y a avant tout le souvenir du fait que nous sommes – comme s’exprime Paul – « intendants des mystères de Dieu » (1 Co 4, 1), et que nous incombe le ministère de l’enseignement, le munus docendi, qui est une partie de cette intendance des mystères de Dieu, où il nous montre son visage et son cœur, pour se donner lui-même à nous. Dans la rencontre des Cardinaux à l’occasion du récent Consistoire, divers Pasteurs, sur la base de leur expérience, ont parlé d’un analphabétisme religieux qui se répand dans notre société si intelligente. Les éléments fondamentaux de la foi, que dans le passé chaque enfant connaissait, sont toujours moins connus. Mais pour pouvoir vivre et aimer notre foi, pour pouvoir aimer Dieu et donc devenir capables de l’écouter de façon juste, nous devons savoir ce que Dieu nous a dit ; notre raison et notre cœur doivent être touchés par sa parole. L’Année de la foi, le souvenir de l’ouverture du Concile Vatican II, il y a 50 ans, doivent être pour nous une occasion d’annoncer le message de la foi avec un zèle nouveau et avec une nouvelle joie. Naturellement, nous le trouvons de manière fondamentale et essentielle dans la Sainte Écriture, que nous ne lirons et méditerons jamais assez. Mais en cela nous faisons tous l’expérience d’avoir besoin d’aide pour la transmettre avec rectitude dans le présent, afin qu’elle touche vraiment notre cœur. Cette aide nous la trouvons en premier lieu dans la parole de l’Église enseignante : les textes du Concile Vatican II et le Catéchisme de l’Église catholique sont des instruments essentiels qui nous indiquent de manière authentique ce que l’Église croit à partir de la Parole de Dieu. Et naturellement en fait partie aussi tout le trésor des documents que le Pape Jean-Paul II nous a donné et qui est encore loin d’avoir été exploité jusqu’au bout.

Toute notre annonce doit se mesurer sur la parole de Jésus Christ : « Mon enseignement n’est pas le mien » (Jn 7, 16). Nous n’annonçons pas des théories et des opinions privées, mais la foi de l’Église dont nous sommes des serviteurs. Mais ceci naturellement ne doit pas signifier que je ne soutiens pas cette doctrine de tout mon être et que je ne suis pas fixé solidement en elle. Dans ce contexte me vient souvent à l’esprit la parole de saint Augustin : qu’est ce qui est aussi mien que moi-même ? qu’est-ce qui est aussi peu mien que moi-même ? Je ne m’appartiens pas à moi-même et je deviens moi-même justement par le fait que je vais au-delà de moi-même et par le dépassement de moi-même je réussis à m’insérer dans le Christ et dans son Corps qui est l’Église. Si nous ne nous annonçons pas nous-mêmes et si intérieurement nous sommes devenus tout un avec Celui qui nous a appelés comme ses messagers si bien que nous sommes modelés par la foi et que nous la vivons, alors notre prédication sera crédible. Je ne fais pas de la réclame pour moi-même, mais je me donne moi-même. Le Curé d’Ars n’était pas un savant, un intellectuel, nous le savons. Mais par son annonce il a touché les cœurs des gens, parce que lui-même avait été touché au cœur.

Le dernier mot-clé que je voudrais encore évoquer s’appelle le zèle pour les âmes (animarum zelus). C’est une expression démodée qui aujourd’hui n’est presque plus utilisée. Dans certains milieux, le mot âme est même considéré comme un mot prohibé, parce que – dit-on – il exprimerait un dualisme entre corps et âme, divisant l’homme à tort. L’homme est certainement une unité, destiné avec son corps et son âme à l’éternité. Mais ceci ne peut signifier que nous n’avons plus une âme, un principe constitutif qui garantit l’unité de l’homme dans sa vie et au-delà de sa mort terrestre. Et naturellement comme prêtres nous nous préoccupons de l’homme tout entier, justement aussi de ses nécessités physiques – des affamés, des malades, des sans-toit. Toutefois, nous ne nous préoccupons pas seulement du corps, mais aussi des besoins de l’âme de l’homme : des personnes qui souffrent en raison de la violation du droit ou d’un amour détruit ; des personnes qui se trouvent dans l’obscurité à propos de la vérité ; qui souffrent de l’absence de vérité et d’amour. Nous nous préoccupons du salut des hommes dans leur corps et dans leur âme. Et en tant que prêtres de Jésus Christ, nous le faisons avec zèle. Les personnes ne doivent jamais avoir la sensation que nous accomplissons consciencieusement notre horaire de travail, mais qu’avant et après nous nous appartenons seulement à nous-mêmes. Un prêtre ne s’appartient jamais à lui-même. Les personnes doivent percevoir notre zèle, par lequel nous donnons un témoignage crédible pour l’Évangile de Jésus Christ. Prions le Seigneur de nous remplir de la joie de son message, afin qu’avec un zèle joyeux nous puissions servir sa vérité et son amour. Amen.

[00460-03.02] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

At this Holy Mass our thoughts go back to that moment when, through prayer and the laying on of hands, the bishop made us sharers in the priesthood of Jesus Christ, so that we might be "consecrated in truth" (Jn 17:19), as Jesus besought the Father for us in his high-priestly prayer. He himself is the truth. He has consecrated us, that is to say, handed us over to God for ever, so that we can offer men and women a service that comes from God and leads to him. But does our consecration extend to the daily reality of our lives – do we operate as men of God in fellowship with Jesus Christ? This question places the Lord before us and us before him. "Are you resolved to be more united with the Lord Jesus and more closely conformed to him, denying yourselves and confirming those promises about sacred duties towards Christ’s Church which, prompted by love of him, you willingly and joyfully pledged on the day of your priestly ordination?" After this homily, I shall be addressing that question to each of you here and to myself as well. Two things, above all, are asked of us: there is a need for an interior bond, a configuration to Christ, and at the same time there has to be a transcending of ourselves, a renunciation of what is simply our own, of the much-vaunted self-fulfilment. We need, I need, not to claim my life as my own, but to place it at the disposal of another – of Christ. I should be asking not what I stand to gain, but what I can give for him and so for others. Or to put it more specifically, this configuration to Christ, who came not to be served but to serve, who does not take, but rather gives – what form does it take in the often dramatic situation of the Church today? Recently a group of priests from a European country issued a summons to disobedience, and at the same time gave concrete examples of the forms this disobedience might take, even to the point of disregarding definitive decisions of the Church’s Magisterium, such as the question of women’s ordination, for which Blessed Pope John Paul II stated irrevocably that the Church has received no authority from the Lord. Is disobedience a path of renewal for the Church? We would like to believe that the authors of this summons are motivated by concern for the Church, that they are convinced that the slow pace of institutions has to be overcome by drastic measures, in order to open up new paths and to bring the Church up to date. But is disobedience really a way to do this? Do we sense here anything of that configuration to Christ which is the precondition for all true renewal, or do we merely sense a desperate push to do something to change the Church in accordance with one’s own preferences and ideas?

But let us not oversimplify matters. Surely Christ himself corrected human traditions which threatened to stifle the word and the will of God? Indeed he did, so as to rekindle obedience to the true will of God, to his ever enduring word. His concern was for true obedience, as opposed to human caprice. Nor must we forget: he was the Son, possessed of singular authority and responsibility to reveal the authentic will of God, so as to open up the path for God’s word to the world of the nations. And finally: he lived out his task with obedience and humility all the way to the Cross, and so gave credibility to his mission. Not my will, but thine be done: these words reveal to us the Son, in his humility and his divinity, and they show us the true path.

Let us ask again: do not such reflections serve simply to defend inertia, the fossilization of traditions? No. Anyone who considers the history of the post-conciliar era can recognize the process of true renewal, which often took unexpected forms in living movements and made almost tangible the inexhaustible vitality of holy Church, the presence and effectiveness of the Holy Spirit. And if we look at the people from whom these fresh currents of life burst forth and continue to burst forth, then we see that this new fruitfulness requires being filled with the joy of faith, the radicalism of obedience, the dynamic of hope and the power of love.

Dear friends, it is clear that configuration to Christ is the precondition and the basis for all renewal. But perhaps at times the figure of Jesus Christ seems too lofty and too great for us to dare to measure ourselves by him. The Lord knows this. So he has provided "translations" on a scale that is more accessible and closer to us. For this same reason, Saint Paul did not hesitate to say to his communities: Be imitators of me, as I am of Christ. For his disciples, he was a "translation" of Christ’s manner of life that they could see and identify with. Ever since Paul’s time, history has furnished a constant flow of other such "translations" of Jesus’ way into historical figures. We priests can call to mind a great throng of holy priests who have gone before us and shown us the way: from Polycarp of Smyrna and Ignatius of Antioch, from the great pastors Ambrose, Augustine and Gregory the Great, through to Ignatius of Loyola, Charles Borromeo, John Mary Vianney and the priest-martyrs of the 20th century, and finally Pope John Paul II, who gave us an example, through his activity and his suffering, of configuration to Christ as "gift and mystery". The saints show us how renewal works and how we can place ourselves at its service. And they help us realize that God is not concerned so much with great numbers and with outward successes, but achieves his victories under the humble sign of the mustard seed.

Dear friends, I would like briefly to touch on two more key phrases from the renewal of ordination promises, which should cause us to reflect at this time in the Church’s life and in our own lives. Firstly, the reminder that – as Saint Paul put it – we are "stewards of the mysteries of God" (1 Cor 4:1) and we are charged with the ministry of teaching, the munus docendi, which forms a part of this stewardship of God’s mysteries, through which he shows us his face and his heart, in order to give us himself. At the meeting of Cardinals on the occasion of the recent Consistory, several of the pastors of the Church spoke, from experience, of the growing religious illiteracy found in the midst of our sophisticated society. The foundations of faith, which at one time every child knew, are now known less and less. But if we are to live and love our faith, if we are to love God and to hear him aright, we need to know what God has said to us – our minds and hearts must be touched by his word. The Year of Faith, commemorating the opening of the Second Vatican Council fifty years ago, should provide us with an occasion to proclaim the message of faith with new enthusiasm and new joy. We find it of course first and foremost in sacred Scripture, which we can never read and ponder enough. Yet at the same time we all experience the need for help in accurately expounding it in the present day, if it is truly to touch our hearts. This help we find first of all in the words of the teaching Church: the texts of the Second Vatican Council and the Catechism of the Catholic Church are essential tools which serve as an authentic guide to what the Church believes on the basis of God’s word. And of course this also includes the whole wealth of documents given to us by Pope John Paul II, still far from being fully explored.

All our preaching must measure itself against the saying of Jesus Christ: "My teaching is not mine" (Jn 7:16). We preach not private theories and opinions, but the faith of the Church, whose servants we are. Naturally this should not be taken to mean that I am not completely supportive of this teaching, or solidly anchored in it. In this regard I am always reminded of the words of Saint Augustine: what is so much mine as myself? And what is so little mine as myself? I do not own myself, and I become myself by the very fact that I transcend myself, and thereby become a part of Christ, a part of his body the Church. If we do not preach ourselves, and if we are inwardly so completely one with him who called us to be his ambassadors, that we are shaped by faith and live it, then our preaching will be credible. I do not seek to win people for myself, but I give myself. The Curé of Ars was no scholar, no intellectual, we know that. But his preaching touched people’s hearts because his own heart had been touched.

The last keyword that I should like to consider is "zeal for souls": animarum zelus. It is an old-fashioned expression, not much used these days. In some circles, the word "soul" is virtually banned because – ostensibly – it expresses a body-soul dualism that wrongly compartmentalizes the human being. Of course the human person is a unity, destined for eternity as body and soul. And yet that cannot mean that we no longer have a soul, a constituent principle guaranteeing our unity in this life and beyond earthly death. And as priests, of course, we are concerned for the whole person, including his or her physical needs – we care for the hungry, the sick, the homeless. And yet we are concerned not only with the body, but also with the needs of the soul: with those who suffer from the violation of their rights or from destroyed love, with those unable to perceive the truth, those who suffer for lack of truth and love. We are concerned with the salvation of men and women in body and soul. And as priests of Jesus Christ we carry out our task with enthusiasm. No one should ever have the impression that we work conscientiously when on duty, but before and after hours we belong only to ourselves. A priest never belongs to himself. People must sense our zeal, through which we bear credible witness to the Gospel of Jesus Christ. Let us ask the Lord to fill us with joy in his message, so that we may serve his truth and his love with joyful zeal. Amen.

[00460-02.02] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Schwestern und Brüder!

In dieser heiligen Messe gehen unsere Gedanken zurück in die Stunde, in der der Bischof uns mit Handauflegung und Gebet in das Priestertum Jesu Christi hineingenommen hat, so daß wir „in der Wahrheit geheiligt sind" (Joh 17, 19), wie Jesus in seinem hohepriesterlichen Gebet es für uns vom Vater erbetet hat. Er selbst ist die Wahrheit. Er hat uns geheiligt, das heißt für immer an Gott übergeben, damit wir von Gott her und auf ihn hin den Menschen dienen können. Aber sind wir auch in der Wirklichkeit unseres Lebens geheiligt – Menschen, die von Gott her in der Gemeinschaft mit Jesus Christus wirken? Mit dieser Frage steht der Herr vor uns, stehen wir vor ihm. „Wollt ihr dem Herrn Jesus Christus enger verbunden und gleichgestaltet werden, auf euch selbst verzichten und die Versprechen erneuern, eure heiligen Pflichten, die ihr am Weihetag mit Freude übernommen habt?" So werde ich nach dieser Homilie jeden einzelnen und auch mich selbst fragen. Zweierlei wird da vor allem gesagt: Es geht um eine innere Verbindung, ja, um Gleichgestaltung mit Christus, und dabei geht es notwendig um ein Überschreiten unserer selbst, um den Verzicht auf das bloß Eigene, auf die viel beschworene Selbstverwirklichung. Es geht darum, daß wir, daß ich mein Leben gerade nicht für mich selbst beanspruche, sondern es einem anderen – Christus – zur Verfügung stelle. Daß ich nicht frage: Was habe ich davon, sondern frage: Was kann ich für ihn und so für die anderen geben? Oder noch konkreter: Wie muß diese Gleichgestaltung mit Christus, der nicht herrscht, sondern dient; der nicht nimmt, sondern gibt – wie muß sie in der oft dramatischen Situation der Kirche von heute aussehen? Vor kurzem hat eine Gruppe von Priestern in einem europäischen Land einen Aufruf zum Ungehorsam veröffentlicht und dabei gleichzeitig auch konkrete Beispiele angeführt, wie dieser Ungehorsam aussehen kann, der sich auch über endgültige Entscheidungen des kirchlichen Lehramtes hinwegsetzen soll wie zum Beispiel in der Frage der Frauenordination, zu der der selige Papst Johannes Paul II. in unwiderruflicher Weise erklärt hat, daß die Kirche dazu keine Vollmacht vom Herrn erhalten hat. Ist Ungehorsam ein Weg, um die Kirche zu erneuern? Wir wollen den Autoren dieses Aufrufs glauben, daß sie die Sorge um die Kirche umtreibt; daß sie überzeugt sind, der Trägheit der Institutionen mit drastischen Mitteln begegnen zu müssen, um neue Wege zu öffnen – die Kirche wieder auf die Höhe des Heute zu bringen. Aber ist Ungehorsam wirklich ein Weg? Spüren wir darin etwas von der Gleichgestaltung mit Christus, die die Voraussetzung jeder wirklichen Erneuerung ist oder nicht doch nur den verzweifelten Drang, etwas zu machen, die Kirche nach unseren Wünschen und Vorstellungen umzuwandeln?

Aber machen wir es uns nicht zu leicht. Hat nicht Christus die menschlichen Traditionen korrigiert, die das Wort und den Willen Gottes zu überwuchern drohten? Ja, er hat es getan, um den Gehorsam zum wirklichen Willen Gottes, zu seinem immer gültigen Wort neu zu wecken. Es ging ihm gerade um den wahren Gehorsam, gegen die Eigenwilligkeit des Menschen. Und vergessen wir nicht: Er war der Sohn, mit der einzigartigen Vollmacht und Verantwortung, den reinen Gotteswillen freizulegen, um so den Weg von Gottes Wort in die Welt der Völker zu eröffnen. Und endlich: Er hat seinen Auftrag mit seinem eigenen Gehorsam und seiner Demut bis ans Kreuz hin konkretisiert und so seine Sendung beglaubigt. Nicht mein, sondern dein Wille: Dies ist das Wort, das den Sohn, seine Demut und seine Göttlichkeit zugleich zeigt und uns den Weg weist.

Lassen wir uns noch einmal fragen: Wird mit solchen Erwägungen nicht doch der Immobilismus, die Erstarrung der Traditionen verteidigt? Nein. Wer auf die Geschichte der Nachkonzilszeit hinschaut, der kann die Dynamik der wahren Erneuerung erkennen, die in lebendigen Bewegungen oft unerwartete Gestalten angenommen hat und die unerschöpfliche Lebendigkeit der heiligen Kirche, die Anwesenheit und die Wirksamkeit des Heiligen Geistes geradezu greifbar werden läßt. Und wenn wir auf die Menschen hinschauen, von denen diese frischen Ströme des Lebens ausgingen und ausgehen, dann sehen wir auch, daß zu neuer Fruchtbarkeit das Erfülltsein von der Freude des Glaubens, die Radikalität des Gehorsams, die Dynamik der Hoffnung und die Kraft der Liebe gehören.

Liebe Freunde, es bleibt dabei: Die Gleichgestaltung mit Christus ist Voraussetzung und Grund aller Erneuerung. Aber vielleicht erscheint uns manchmal die Gestalt Jesu Christi zu hoch und zu groß, als daß wir wagen könnten, daran Maß zu nehmen. Der Herr weiß das. Deshalb hat er für Übersetzungen in Größenordnungen gesorgt, die uns zugänglicher und näher sind. Paulus hat aus eben diesem Grund seinen Gemeinden ohne Scheu gesagt: Ahmt mich nach, ich aber gehöre Christus. Er war für seine Gläubigen eine Übersetzung von Christi Lebensstil, die sie sehen und der sie sich anschließen konnten. Seit Paulus hat es die ganze Geschichte hindurch immerfort solche Übersetzungen von Jesu Weg in geschichtliche Lebensgestalten hinein gegeben. Wir Priester können an eine große Schar heiliger Priester denken, die uns als Wegweiser vorangehen: von Polykarp von Smyrna und Ignatius von Antiochien angefangen, über die großen Seelsorger Ambrosius, Augustinus und Gregor dem Großen bis hin zu Ignatius von Loyola, Karl Borromäus und bis zu Johannes Maria Vianney und den Priestermärtyrern des 20. Jahrhunderts und schließlich bis zu Papst Johannes Paul II., der im Tun und Leiden die Gleichgestaltung mit Christus uns als „Gabe und Geheimnis" vorgelebt hat. Die Heiligen zeigen uns, wie Erneuerung geht und wie wir ihr dienen können. Und sie lassen uns auch wissen, daß Gott nicht auf die große Zahl und auf die äußeren Erfolge schaut, sondern seine Siege im demütigen Zeichen des Senfkorns erringt.

Liebe Freunde, ganz kurz möchte ich noch zwei Stichworte aus der Erneuerung des Weiheversprechens berühren, die uns in dieser Stunde der Kirche und unseres eigenen Lebens zu denken geben sollten. Da ist zunächst die Erinnerung daran, daß wir – wie Paulus es ausgedrückt hat – „Ausspender der Geheimnisse Gottes sind" (1 Kor 4, 1) und daß uns der Dienst der Lehre, der munus docendi obliegt, der ein Teil dieses Ausspendens von Gottes Geheimnissen ist, in denen er uns sein Gesicht und sein Herz zeigt, um uns sich selber zu schenken. In der Begegnung der Kardinäle anläßlich des jüngsten Konsistoriums haben mehrere der Hirten der Kirche aus ihrer Erfahrung von einem religiösen Analphabetismus gesprochen, der sich mitten in unserer gescheiten Gesellschaft ausbreitet. Die Grundlagen des Glaubens, die früher jedes Kind wußte, werden immer weniger gekannt. Aber damit wir unseren Glauben leben und lieben können, damit wir Gott lieben können und damit recht auf ihn zu hören fähig werden, müssen wir wissen, was Gott uns gesagt hat; muß unser Verstand und unser Herz von seinem Wort berührt werden. Das Jahr des Glaubens, das Gedenken an die Eröffnung des II. Vatikanischen Konzils vor 50 Jahren soll uns ein Anlaß sein, mit neuem Eifer und neuer Freude die Botschaft des Glaubens zu verkündigen. Die finden wir natürlich grundlegend und zuallererst in der Heiligen Schrift, die wir nicht genug lesen und bedenken können. Aber dabei machen wir alle die Erfahrung, daß wir Hilfe brauchen, um sie recht in die Gegenwart zu übertragen; daß sie uns wirklich ins Herz trifft. Diese Hilfe finden wir zuallererst im Wort der lehrenden Kirche: Die Texte des II. Vaticanums und der Katechismus der Katholischen Kirche sind die wesentlichen Instrumente, die uns unverfälscht zeigen, was die Kirche vom Wort Gottes her glaubt. Und natürlich gehört der ganze, noch längst nicht ausgeschöpfte Schatz der Dokumente dazu, die uns Papst Johannes Paul II. geschenkt hat.

All unsere Verkündigung muß Maß nehmen an dem Wort Jesu Christi: „Meine Lehre ist nicht meine Lehre" (Joh 7, 16). Wir verkündigen nicht private Theorien und Meinungen, sondern den Glauben der Kirche, deren Diener wir sind. Aber das darf natürlich nicht heißen, daß ich nicht mit meinem ganzen Ich hinter dieser Lehre und in ihr stehen würde. Ich muß dabei immer an das Wort des heiligen Augustinus denken: Was ist so sehr mein wie ich selbst? Und was ist so wenig mein wie ich selbst? Ich gehöre nicht mir selbst, und ich werde ich selber gerade dadurch, daß ich mich überschreite und durch die Überschreitung meiner selbst in Christus und in seinen Leib, die Kirche, hineinfinde. Wenn wir nicht uns selbst verkündigen und wenn wir inwendig ganz eins geworden sind mit dem, der uns gerufen hat als seine Botschafter, so daß wir vom Glauben geformt sind und ihn leben, dann wird unsere Predigt glaubhaft werden. Ich werbe nicht für mich selbst, sondern ich gebe mich selbst. Der Pfarrer von Ars war kein Gelehrter, kein Intellektueller, das wissen wir. Aber er hat die Menschen ins Herz getroffen mit seiner Verkündigung, weil er selbst ins Herz getroffen war.

Das letzte Stichwort, das ich noch anrühren möchte, heißt Seeleneifer (animarum zelus). Es ist ein altmodischer Ausdruck, der heute kaum noch gebraucht wird. Das Wort Seele gilt in manchen Kreisen geradezu als ein verbotenes Wort, weil es angeblich einen Dualismus zwischen Leib und Seele ausdrücke, den Menschen zu Unrecht zerteile. Natürlich ist der Mensch nur einer, mit Leib und Seele zur Ewigkeit bestimmt. Aber das kann doch nicht bedeuten, daß wir nun keine Seele mehr hätten, kein konstitutives Prinzip, das die Einheit des Menschen in seinem Leben und über seinen irdischen Tod hinaus gewährleistet. Und natürlich sorgen wir uns als Priester um den ganzen Menschen, gerade auch um dessen leibliche Nöte – um die Hungernden, um die Kranken, um die Obdachlosen. Aber wir sorgen uns nicht nur um den Leib, sondern gerade auch um die seelischen Nöte des Menschen: um die Menschen, die unter der Zerstörung des Rechts oder unter zerstörter Liebe leiden; um die Menschen, die sich im Wahrheitsdunkel befinden; die unter der Abwesenheit von Wahrheit und Liebe leiden. Wir sorgen uns um das Heil der Menschen an Leib und Seele. Und als Priester Jesu Christi tun wir es mit Eifer. Die Menschen dürfen nie das Gefühl haben, daß wir unsere Pflichtstunden gewissenhaft ableisten, aber zuvor und danach nur uns selbst gehören. Ein Priester gehört nie sich selbst. Die Menschen müssen unseren Eifer spüren, durch den wir glaubhaft das Evangelium Jesu Christi bezeugen. Bitten wir den Herrn, daß er uns mit Freude an seiner Botschaft erfülle und daß wir so mit freudigem Eifer seiner Wahrheit und seiner Liebe dienen dürfen. Amen.

[00460-05.02] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

En esta Santa Misa, nuestra mente retorna hacia aquel momento en el que el Obispo, por la imposición de las manos y la oración, nos introdujo en el sacerdocio de Jesucristo, de forma que fuéramos «santificados en la verdad» (Jn 17,19), como Jesús había pedido al Padre para nosotros en la oración sacerdotal. Él mismo es la verdad. Nos ha consagrado, es decir, entregado para siempre a Dios, para que pudiéramos servir a los hombres partiendo de Dios y por él. Pero, ¿somos también consagrados en la realidad de nuestra vida? ¿Somos hombres que obran partiendo de Dios y en comunión con Jesucristo? Con esta pregunta, el Señor se pone ante nosotros y nosotros ante él: «¿Queréis uniros más fuertemente a Cristo y configuraros con él, renunciando a vosotros mismos y reafirmando la promesa de cumplir los sagrados deberes que, por amor a Cristo, aceptasteis gozosos el día de vuestra ordenación para el servicio de la Iglesia?». Así interrogaré singularmente a cada uno de vosotros y también a mí mismo después de la homilía. Con esto se expresan sobre todo dos cosas: se requiere un vínculo interior, más aún, una configuración con Cristo y, con ello, la necesidad de una superación de nosotros mismos, una renuncia a aquello que es solamente nuestro, a la tan invocada autorrealización. Se pide que nosotros, que yo, no reclame mi vida para mí mismo, sino que la ponga a disposición de otro, de Cristo. Que no me pregunte: ¿Qué gano yo?, sino más bien: ¿Qué puedo dar yo por él y también por los demás? O, todavía más concretamente: ¿Cómo debe llevarse a cabo esta configuración con Cristo, que no domina, sino que sirve; que no recibe, sino que da?; ¿cómo debe realizarse en la situación a menudo dramática de la Iglesia de hoy? Recientemente, un grupo de sacerdotes ha publicado en un país europeo una llamada a la desobediencia, aportando al mismo tiempo ejemplos concretos de cómo se puede expresar esta desobediencia, que debería ignorar incluso decisiones definitivas del Magisterio; por ejemplo, en la cuestión sobre la ordenación de las mujeres, sobre la que el beato Papa Juan Pablo II ha declarado de manera irrevocable que la Iglesia no ha recibido del Señor ninguna autoridad sobre esto. Pero la desobediencia, ¿es un camino para renovar la Iglesia? Queremos creer a los autores de esta llamada cuando afirman que les mueve la solicitud por la Iglesia; su convencimiento de que se deba afrontar la lentitud de las instituciones con medios drásticos para abrir caminos nuevos, para volver a poner a la Iglesia a la altura de los tiempos. Pero la desobediencia, ¿es verdaderamente un camino? ¿Se puede ver en esto algo de la configuración con Cristo, que es el presupuesto de toda renovación, o no es más bien sólo un afán desesperado de hacer algo, de transformar la Iglesia según nuestros deseos y nuestras ideas?

Pero no simplifiquemos demasiado el problema. ¿Acaso Cristo no ha corregido las tradiciones humanas que amenazaban con sofocar la palabra y la voluntad de Dios? Sí, lo ha hecho para despertar nuevamente la obediencia a la verdadera voluntad de Dios, a su palabra siempre válida. A él le preocupaba precisamente la verdadera obediencia, frente al arbitrio del hombre. Y no lo olvidemos: Él era el Hijo, con la autoridad y la responsabilidad singular de desvelar la auténtica voluntad de Dios, para abrir de ese modo el camino de la Palabra de Dios al mundo de los gentiles. Y, en fin, ha concretizado su mandato con la propia obediencia y humildad hasta la cruz, haciendo así creíble su misión. No mi voluntad, sino la tuya: ésta es la palabra que revela al Hijo, su humildad y a la vez su divinidad, y nos indica el camino.

Dejémonos interrogar todavía una vez más. Con estas consideraciones, ¿acaso no se defiende de hecho el inmovilismo, el agarrotamiento de la tradición? No. Mirando a la historia de la época post-conciliar, se puede reconocer la dinámica de la verdadera renovación, que frecuentemente ha adquirido formas inesperadas en momentos llenos de vida y que hace casi tangible la inagotable vivacidad de la Iglesia, la presencia y la acción eficaz del Espíritu Santo. Y si miramos a las personas, por las cuales han brotado y brotan estos ríos frescos de vida, vemos también que, para una nueva fecundidad, es necesario estar llenos de la alegría de la fe, de la radicalidad de la obediencia, del dinamismo de la esperanza y de la fuerza del amor.

Queridos amigos, queda claro que la configuración con Cristo es el presupuesto y la base de toda renovación. Pero tal vez la figura de Cristo nos parece a veces demasiado elevada y demasiado grande como para atrevernos a adoptarla como criterio de medida para nosotros. El Señor lo sabe. Por eso nos ha proporcionado «traducciones» con niveles de grandeza más accesibles y más cercanos. Precisamente por esta razón, Pablo decía sin timidez a sus comunidades: Imitadme a mí, pero yo pertenezco a Cristo. Él era para sus fieles una «traducción» del estilo de vida de Cristo, que ellos podían ver y a la cual se podían asociar. Desde Pablo, y a lo largo de la historia, se nos han dado continuamente estas «traducciones» del camino de Jesús en figuras vivas de la historia. Nosotros, los sacerdotes, podemos pensar en una gran multitud de sacerdotes santos, que nos han precedido para indicarnos la senda: comenzando por Policarpo de Esmirna e Ignacio de Antioquia, pasando por grandes Pastores como Ambrosio, Agustín y Gregorio Magno, hasta Ignacio de Loyola, Carlos Borromeo, Juan María Vianney, hasta los sacerdotes mártires del s. XX y, por último, el Papa Juan Pablo II que, en la actividad y en el sufrimiento, ha sido un ejemplo para nosotros en la configuración con Cristo, como «don y misterio». Los santos nos indican cómo funciona la renovación y cómo podemos ponernos a su servicio. Y nos permiten comprender también que Dios no mira los grandes números ni los éxitos exteriores, sino que remite sus victorias al humilde signo del grano de mostaza.

Queridos amigos, quisiera mencionar brevemente todavía dos palabras clave de la renovación de las promesas sacerdotales, que deberían inducirnos a reflexionar en este momento de la Iglesia y de nuestra propia vida. Ante todo, el recuerdo de que somos – como dice Pablo – «administradores de los misterios de Dios» (1Co 4,1) y que nos corresponde el ministerio de la enseñanza , el munus docendi, que es una parte de esa administración de los misterios de Dios, en los que él nos muestra su rostro y su corazón, para entregarse a nosotros. En el encuentro de los cardenales con ocasión del último consistorio, varios Pastores, basándose en su experiencia, han hablado de un analfabetismo religioso que se difunde en medio de nuestra sociedad tan inteligente. Los elementos fundamentales de la fe, que antes sabía cualquier niño, son cada vez menos conocidos. Pero para poder vivir y amar nuestra fe, para poder amar a Dios y llegar por tanto a ser capaces de escucharlo del modo justo, debemos saber qué es lo que Dios nos ha dicho; nuestra razón y nuestro corazón han de ser interpelados por su palabra. El Año de la Fe, el recuerdo de la apertura del Concilio Vaticano II hace 50 años, debe ser para nosotros una ocasión para anunciar el mensaje de la fe con un nuevo celo y con una nueva alegría. Naturalmente, este mensaje lo encontramos primaria y fundamentalmente en la Sagrada Escritura, que nunca leeremos y meditaremos suficientemente. Pero todos tenemos experiencia de que necesitamos ayuda para transmitirla rectamente en el presente, de manera que mueva verdaderamente nuestro corazón. Esta ayuda la encontramos en primer lugar en la palabra de la Iglesia docente: los textos del Concilio Vaticano II y el Catecismo de la Iglesia Católica son los instrumentos esenciales que nos indican de modo auténtico lo que la Iglesia cree a partir de la Palabra de Dios. Y, naturalmente, también forma parte de ellos todo el tesoro de documentos que el Papa Juan Pablo II nos ha dejado y que todavía están lejos de ser aprovechados plenamente.

Todo anuncio nuestro debe confrontarse con la palabra de Jesucristo: «Mi doctrina no es mía» (Jn 7,16). No anunciamos teorías y opiniones privadas, sino la fe de la Iglesia, de la cual somos servidores. Pero esto, naturalmente, en modo alguno significa que yo no sostenga esta doctrina con todo mi ser y no esté firmemente anclado en ella. En este contexto, siempre me vienen a la mente aquellas palabras de san Agustín: ¿Qué es tan mío como yo mismo? ¿Qué es tan menos mío como yo mismo? No me pertenezco y llego a ser yo mismo precisamente por el hecho de que voy más allá de mí mismo y, mediante la superación de mí mismo, consigo insertarme en Cristo y en su cuerpo, que es la Iglesia. Si no nos anunciamos a nosotros mismos e interiormente hemos llegado a ser uno con aquél que nos ha llamado como mensajeros suyos, de manera que estamos modelados por la fe y la vivimos, entonces nuestra predicación será creíble. No hago publicidad de mí, sino que me doy a mí mismo. El Cura de Ars, lo sabemos, no era un docto, un intelectual. Pero con su anuncio llegaba al corazón de la gente, porque él mismo había sido tocado en su corazón.

La última palabra clave a la que quisiera aludir todavía se llama celo por las almas (animarum zelus). Es una expresión fuera de moda que ya casi no se usa hoy. En algunos ambientes, la palabra alma es considerada incluso un término prohibido, porque – se dice – expresaría un dualismo entre el cuerpo y el alma, dividiendo falsamente al hombre. Evidentemente, el hombre es una unidad, destinada a la eternidad en cuerpo y alma. Pero esto no puede significar que ya no tengamos alma, un principio constitutivo que garantiza la unidad del hombre en su vida y más allá de su muerte terrena. Y, como sacerdotes, nos preocupamos naturalmente por el hombre entero, también por sus necesidades físicas: de los hambrientos, los enfermos, los sin techo. Pero no sólo nos preocupamos de su cuerpo, sino también precisamente de las necesidades del alma del hombre: de las personas que sufren por la violación de un derecho o por un amor destruido; de las personas que se encuentran en la oscuridad respecto a la verdad; que sufren por la ausencia de verdad y de amor. Nos preocupamos por la salvación de los hombres en cuerpo y alma. Y, en cuanto sacerdotes de Jesucristo, lo hacemos con celo. Nadie debe tener nunca la sensación de que cumplimos concienzudamente nuestro horario de trabajo, pero que antes y después sólo nos pertenecemos a nosotros mismos. Un sacerdote no se pertenece jamás a sí mismo. Las personas han de percibir nuestro celo, mediante el cual damos un testimonio creíble del evangelio de Jesucristo. Pidamos al Señor que nos colme con la alegría de su mensaje, para que con gozoso celo podamos servir a su verdad y a su amor. Amén.

[00460-04.02] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs!

Nesta Santa Missa, o nosso pensamento volta àquela hora em que o Bispo, através da imposição das mãos e da oração consacratória, nos integrou no sacerdócio de Jesus Cristo, para sermos «consagrados na verdade» (Jo 17, 19), como Jesus pediu ao Pai na sua Oração Sacerdotal. Ele mesmo é a Verdade. Consagrou-nos, isto é, entregou-nos para sempre a Deus, a fim de que, a partir de Deus e em vista d’Ele, pudéssemos servir os homens. Mas somos também consagrados na realidade da nossa vida? Somos homens que actuam a partir de Deus e em comunhão com Jesus Cristo? Com esta pergunta, o Senhor está diante de nós, e nós diante d’Ele. «Quereis viver mais intimamente unidos a Cristo e configurar-vos com Ele, renunciando a vós mesmos e permanecendo fiéis aos compromissos que, por amor de Cristo e da sua Igreja, aceitastes alegremente no dia da vossa Ordenação Sacerdotal?» Tal é a pergunta que, depois desta homilia, será dirigida singularmente a cada um de vós e a mim mesmo. Nela, são pedidas sobretudo duas coisas: uma união íntima, mais ainda, uma configuração a Cristo e, condição necessária para isso mesmo, uma superação de nós mesmos, uma renúncia àquilo que é exclusivamente nosso, à tão falada auto-realização. É-nos pedido que não reivindique a minha vida para mim mesmo, mas a coloque à disposição de outrem: de Cristo. Que não pergunte: Que ganho eu com isso? Mas sim: Que posso eu doar a Ele e, por Ele, aos outros? Ou mais concretamente ainda: Como se deve realizar esta configuração a Cristo, que não domina mas serve, não toma mas dá. Como se deve realizar na situação tantas vezes dramática da Igreja de hoje? Recentemente, num país europeu, um grupo de sacerdotes publicou um apelo à desobediência, referindo ao mesmo tempo também exemplos concretos de como exprimir esta desobediência, que deveria ignorar até mesmo decisões definitivas do Magistério, como, por exemplo, na questão relativa à Ordenação das mulheres, a propósito da qual o beato Papa João Paulo II declarou de maneira irrevogável que a Igreja não recebeu, da parte do Senhor, qualquer autorização para o fazer. Será a desobediência um caminho para renovar a Igreja? Queremos dar crédito aos autores deste apelo quando dizem que é a solicitude pela Igreja que os move, quando afirmam estar convencidos de que se deve enfrentar a lentidão das Instituições com meios drásticos para abrir novos caminhos, para colocar a Igreja à altura dos tempos de hoje. Mas será verdadeiramente um caminho a desobediência? Nela pode-se intuir algo daquela configuração a Cristo que é o pressuposto para toda a verdadeira renovação, ou, pelo contrário, não é apenas um impulso desesperado de fazer qualquer coisa, de transformar a Igreja segundo os nossos desejos e as nossas ideias?

Mas o problema não é assim tão simples. Porventura Cristo não corrigiu as tradições humanas que ameaçavam sufocar a palavra e a vontade de Deus? É verdade que o fez, mas para despertar novamente a obediência à verdadeira vontade de Deus, à sua palavra sempre válida. O que Ele tinha a peito era precisamente a verdadeira obediência, contra o arbítrio do homem. E não esqueçamos que Ele era o Filho, com a singular autoridade e responsabilidade de desvendar a autêntica vontade de Deus, para deste modo abrir a estrada da palavra de Deus rumo ao mundo dos gentios. E, por fim, Ele concretizou o seu mandato através da sua própria obediência e humildade até à Cruz, tornando assim credível a sua missão. Não se faça a minha vontade, mas a tua: esta é a palavra que revela o Filho, a sua humildade e conjuntamente a sua divindade, e nos indica a estrada.

Deixemo-nos interpelar por mais uma questão: Não será que, com tais considerações, o que na realidade se defende é o imobilismo, a rigidez da tradição? Não! Quem observa a história do período pós-conciliar pode reconhecer a dinâmica da verdadeira renovação, que frequentemente assumiu formas inesperadas em movimentos cheios de vida e que tornam quase palpável a vivacidade inexaurível da santa Igreja, a presença e a acção eficaz do Espírito Santo. E se olharmos para as pessoas de quem dimanaram, e dimanam, estes rios pujantes de vida, vemos também que, para uma nova fecundidade, se requer o transbordar da alegria da fé, a radicalidade da obediência, a dinâmica da esperança e a força do amor.

Queridos amigos, daqui se vê claramente que a configuração a Cristo é o pressuposto e a base de toda a renovação. Mas talvez a figura de Cristo nos apareça por vezes demasiado alta e grande para podermos ousar tomar as suas medidas. O Senhor sabe-o. Por isso providenciou «traduções» em ordens de grandeza mais acessíveis e próximas de nós. Precisamente por este motivo, São Paulo resolutamente diz às suas comunidades: Imitai-me, mas eu pertenço a Cristo. Ele era para os seus fiéis uma «tradução» do estilo de vida de Cristo, que eles podiam ver e à qual podiam aderir. A partir de Paulo e ao longo de toda a história, existiram continuamente tais «traduções» do caminho de Jesus em figuras históricas vivas. Nós, sacerdotes, podemos pensar numa série imensa de sacerdotes santos que vão à nossa frente para nos apontar a estrada, a começar por Policarpo de Esmirna e Inácio de Antioquia, passando por grandes Pastores como Ambrósio, Agostinho e Gregório Magno, depois Inácio de Loiola, Carlos Borromeu, João Maria Vianney, até chegar aos sacerdotes mártires do século XX e, finalmente, ao Papa João Paulo II, que, na acção e no sofrimento, nos serviu de exemplo na configuração a Cristo, como «dom e mistério». Os Santos indicam-nos como funciona a renovação e como podemos servi-la. E fazem-nos compreender também que Deus não olha para os grandes números nem para os êxitos exteriores, mas consegue as suas vitórias sob o sinal humilde do grão de mostarda.

Queridos amigos, queria ainda, brevemente, acenar a duas palavras-chave da renovação das promessas sacerdotais, que deveriam induzir-nos a reflectir nesta hora da Igreja e da nossa vida pessoal. Em primeiro lugar, é-nos recordado o facto de sermos – como se exprime Paulo - «dispensadores dos mistérios de Deus» (1 Cor 4, 1) e que nos incumbe o ministério de ensinar, o munus docendi, que constitui precisamente uma parte desta distribuição dos mistérios de Deus, onde Ele nos mostra o seu rosto e o seu coração, para Se dar a Si mesmo. No encontro dos Cardeais por ocasião do recente Consistório, diversos Pastores, baseando-se na sua experiência, falaram dum analfabetismo religioso que cresce no meio desta nossa sociedade tão inteligente. Os elementos fundamentais da fé, que no passado toda e qualquer criança sabia, são cada vez menos conhecidos. Mas, para se poder viver e amar a nossa fé, para se poder amar a Deus e, consequentemente, tornar-se capaz de O ouvir correctamente, devemos saber aquilo que Deus nos disse; a nossa razão e o nosso coração devem ser tocados pela sua palavra. O Ano da Fé, a comemoração da abertura do Concílio Vaticano II há 50 anos, deve ser uma ocasião para anunciarmos a mensagem da fé com novo zelo e nova alegria. Esta mensagem, na sua forma fundamental e primária, encontramo-la naturalmente na Sagrada Escritura, que não leremos nem meditaremos jamais suficientemente. Nisto, porém, todos sentimos necessidade de um auxílio para a transmitir rectamente no presente, de modo que toque verdadeiramente o nosso coração. Este auxílio encontramo-lo, em primeiro lugar, na palavra da Igreja docente: os textos do Concílio Vaticano II e o Catecismo da Igreja Católica são os instrumentos essenciais que nos indicam, de maneira autêntica, aquilo que a Igreja acredita a partir da Palavra de Deus. E naturalmente faz parte de tal auxílio todo o tesouro dos documentos que o Papa João Paulo II nos deu e que está ainda longe de ser cabalmente explorado.

Todo o nosso anúncio se deve confrontar com esta palavra de Jesus Cristo: «A minha doutrina não é minha» (Jo 7, 16). Não anunciamos teorias nem opiniões privadas, mas a fé da Igreja da qual somos servidores. Isto, porém, não deve naturalmente significar que eu não sustente esta doutrina com todo o meu ser e não esteja firmemente ancorado nela. Neste contexto, sempre me vem à mente o seguinte texto de Santo Agostinho: Que há de mais meu do que eu próprio? E no entanto que há de menos meu do que o sou eu mesmo? Não me pertenço a mim próprio e torno-me eu mesmo precisamente pelo facto de me ultrapassar a mim próprio e é através da superação de mim próprio que consigo inserir-me em Cristo e no seu Corpo que é a Igreja. Se não nos anunciamos a nós mesmos e se, intimamente, nos tornamos um só com Aquele que nos chamou para sermos seus mensageiros de tal modo que sejamos plasmados pela fé e a vivamos, então a nossa pregação será credível. Não faço publicidade de mim mesmo, mas dou-me a mim mesmo. Como sabemos, o Cura d’Ars não era um erudito, um intelectual. Mas, com o seu anúncio, tocou os corações das pessoas, porque ele mesmo fora tocado no coração.

A última palavra-chave, a que ainda queria aludir, designa-se zelo das almas (animarum zelus). É uma expressão fora de moda, que hoje já quase não se usa. Nalguns ambientes, o termo «alma» é até considerado como palavra proibida, porque – diz-se – exprimiria um dualismo entre corpo e alma, cometendo o erro de dividir o homem. Certamente o homem é uma unidade, destinada com corpo e alma à eternidade. Mas isso não pode significar que já não temos uma alma, um princípio constitutivo que garante a unidade do homem durante a sua vida e para além da sua morte terrena. E, enquanto sacerdotes, preocupamo-nos naturalmente com o homem inteiro, incluindo precisamente as suas necessidades físicas: com os famintos, os doentes, os sem-abrigo; contudo, não nos preocupamos apenas com o corpo, mas também com as necessidades da alma do homem: com as pessoas que sofrem devido à violação do direito ou por um amor desfeito; com as pessoas que, relativamente à verdade, se encontram na escuridão; que sofrem por falta de verdade e de amor. Preocupamo-nos com a salvação dos homens em corpo e alma. E, enquanto sacerdotes de Jesus Cristo, fazemo-lo com zelo. As pessoas não devem jamais ter a sensação de que o nosso horário de trabalho cumprimo-lo conscienciosamente, mas antes e depois pertencemo-nos apenas a nós mesmos. Um sacerdote nunca se pertence a si mesmo. As pessoas devem notar o nosso zelo, através do qual testemunhamos de modo credível o Evangelho de Jesus Cristo. Peçamos ao Senhor que nos encha com a alegria da sua mensagem, a fim de podermos servir, com jubiloso zelo, a sua verdade e o seu amor. Amen.

[00460-06.02] [Texto original: Italiano]

 TRADUZIONE IN LINGUA POLACCA

Drodzy bracia i siostry,

Podczas tej Mszy świętej nasze myśli powracają do godziny, w której biskup przez nałożenie rąk i modlitwę wprowadził nas w kapłaństwo Jezusa Chrystusa, abyśmy „byli uświęceni w prawdzie" (J 17, 19), jak Jezus modlił się za nas do Ojca w swojej Modlitwie Arcykapłańskiej. On sam jest prawdą. On nas uświęcił, to znaczy powierzył na zawsze Bogu, abyśmy mogli służyć ludziom wychodząc od Boga i ze względu na Niego. Czy jesteśmy jednak naprawdę uświęceni w rzeczywistości naszego życia? Czy jesteśmy ludźmi, którzy działają wychodząc od Boga, w komunii z Jezusem Chrystusem? Z tym pytaniem staje przed nami Pan, a my stajemy przed Nim. „Czy chcesz coraz ściślej jednoczyć się z Chrystusem, Najwyższym Kapłanem i razem z Nim samego siebie poświęcić Bogu oraz odnowić przyrzeczenia z radością złożone w dniu święceń?" Tak po tej homilii zapytam każdego z was z osobna i siebie samego. W ten sposób wyrażają się przede wszystkim dwie rzeczy: chodzi o wewnętrzną więź, wręcz utożsamienie z Chrystusem, a w tym przekroczenie samych siebie, rezygnacja z tego, co jest tylko nasze własne, tak często przywoływana samorealizacja. Chodzi w tym o to, abyśmy, abym ja nie rościł sobie prawa do mojego życia, ale oddał je do dyspozycji innego – Chrystusa. Abym nie pytał: co będę z tego miał, lecz: co mogę dać dla Ciebie i w ten sposób dla innych? Lub jeszcze bardziej konkretnie: jak powinno dokonywać się to utożsamienie z Chrystusem, który nie panuje, lecz służy, nie bierze lecz daje – jak powinno dokonywać się w często dramatycznej sytuacji współczesnego Kościoła? Ostatnio, grupa kapłanów w jednym z krajów europejskich opublikowała wezwanie do nieposłuszeństwa, przedstawiając jednocześnie konkretne przykłady, jak to nieposłuszeństwo mogłoby wyglądać. Nie miałoby ono zważać na definitywne decyzje Magisterium Kościoła, jak na przykład kwestia święcenia kobiet. W sprawie tej bł. Papież Jan Paweł II wyjaśnił w sposób nieodwołalny, że Kościół w tej kwestii nie otrzymał od Pana żadnego upoważnienia. Czy nieposłuszeństwo jest drogą do odnowy Kościoła? Pragniemy wierzyć autorom tego apelu, kiedy mówią, że pobudza ich troska o Kościół, że są przekonani, iż inercję instytucji trzeba potraktować za pomocą drastycznych środków, żeby otworzyć nowe drogi – aby Kościół ponownie odpowiadał wyzwaniom współczesności. Czyż nieposłuszeństwo jest jednak rzeczywiście jakąś drogą? Czy można w nim wyczuć coś z utożsamienia się z Chrystusem, które stanowi warunek wstępny każdej autentycznej odnowy, czy też raczej jedynie rozpaczliwe parcie, żeby coś zrobić, żeby przeobrazić Kościół według naszych życzeń i wyobrażeń?

Nie upraszczajmy jednak zbytnio problemu. Czyż Chrystus nie korygował ludzkich tradycji, które groziły przysłanianiem słowa i woli Bożej? Tak, uczynił tak, aby rozbudzić na nowo posłuszeństwo wobec autentycznej woli Bożej, Jego zawsze obowiązującemu słowu. Zależało mu na prawdziwym posłuszeństwie, przeciw samowoli człowieka. I nie zapominajmy: był On synem, posiadającym wyjątkowe pełnomocnictwa i odpowiedzialność za ujawnianie autentycznej woli Bożej, aby w ten sposób otworzyć Słowu Bożemu drogę do świata pogan. I wreszcie: skonkretyzował On swoją misję poprzez swoje własne posłuszeństwo i pokorę aż do krzyża, i w ten sposób ją uwiarygodniając. Nie moja, lecz Twoja wola niech się stanie: to jest słowo, które pokazuje nam Syna, jego pokorę a jednocześnie i Jego bóstwo, a także wskazuje nam drogę.

Zapytajmy raz jeszcze: czy przez takie rozważania nie broni się przypadkiem bezruchu, zesztywnienia tradycji? Nie, ten kto spogląda na historię okresu posoborowego może rozpoznać dynamikę prawdziwej odnowy, która przybrała często formy nieoczekiwane w ruchach pełnych życia i sprawia, że niemal namacalna staje się niewyczerpalna żywotność Kościoła świętego, obecność i skuteczne działanie Ducha Świętego. A jeśli patrzymy na ludzi, z których wypłynęły i wypływają te świeże strumienie życia widzimy też, że nowa płodność wymaga wypełnienia radością wiary, radykalnością posłuszeństwa, dynamiką nadziei i mocą miłości.

Drodzy przyjaciele, pozostaje faktem: utożsamienie z Chrystusem jest warunkiem wstępnym i podstawą wszelkiej odnowy. Ale może czasem postać Jezusa Chrystusa wydaje się nam zbyt szlachetna i zbyt wielka, abyśmy odważyli się czerpać z Niego wzór. Pan to wie, dlatego zatroszczył się o „przełożenie" na rząd wielkości bardziej dla nas dostępny i bliższy. Właśnie z tego powodu Paweł powiedział bez wstydu swoim wspólnotom: naśladujcie mnie, ale ja należę do Chrystusa. Był on dla swoich wiernych „przełożeniem" stylu życia Chrystusa, który mogli widzieć i do którego mogli dołączyć. Począwszy od Pawła przez całe dzieje nieustannie były takie „przełożenia" drogi Jezusa w żywych postaciach historycznych. My kapłani możemy pomyśleć o wielkiej rzeszy świętych kapłanów, którzy nas poprzedzili, aby wskazać nam drogę: począwszy od Polikarpa ze Smyrny i Ignacego z Antiochii poprzez wielkich duszpasterzy, jak Ambroży, Augustyn, i Grzegorz Wielki aż po Ignacego z Loyoli, Karola Boromeusza i Jana Vianneya i wreszcie po kapłanów-męczenników XX wieku i na samym końcu po papieża Jana Pawła II, który w czynie i cierpieniu utożsamienie z Chrystusem przeżywał jako „dar i tajemnicę". Święci wskazują nam, jak dokonuje się odnowa i jak możemy jej służyć. Pozwalają nam też poznać, że Bóg nie patrzy na wielkie liczby i sukcesy zewnętrzne, lecz osiąga swoje zwycięstwa w pokornym znaku ziarnka gorczycy.

Drodzy przyjaciele, chciałbym jeszcze bardzo krótko wspomnieć o dwóch kluczowych słowach przyrzeczeń kapłańskich, które powinny nas prowadzić do zastanowienia się nad obecną godziną Kościoła i nad naszym życiem osobistym. Jest to nade wszystko pamiętanie o fakcie, że – jak mówi św. Paweł – jesteśmy „szafarzami tajemnic Bożych"( 1 Kor 4,1) i że spoczywa na nas posługa nauczania (munus docendi), która jest częścią takiego szafarstwa tajemnic Bożych, w której Bóg ukazuje nam swoje oblicze i serce, aby dać nam siebie. Podczas spotkania kardynałów z okazji niedawnego konsystorza różni pasterze, na podstawie swego doświadczenia mówili o analfabetyzmie religijnym, upowszechniającym się pośród naszego, tak bardzo inteligentnego społeczeństwa. Podstawowe elementy wiary, które w przeszłości znało każde dziecko, są coraz mniej znane. Lecz aby żyć i kochać naszą wiarę, aby móc kochać Boga, a więc stać się zdolnymi do słuchania Go we właściwy sposób, musimy wiedzieć, co Bóg nam powiedział; nasz rozum i serce muszą być poruszone Jego słowem. Rok wiary - wspomnienie otwarcia II Soboru Watykańskiego przed pięćdziesięciu laty, powinien być dla nas okazją do głoszenia orędzia wiary z nową gorliwością i radością. Znajdujemy je oczywiście zasadniczo i przede wszystkim w Piśmie Świętym, którego nigdy nie będziemy wystarczająco czytali i rozważali. Ale doświadczmy w tym wszyscy, że potrzebujemy pomocy, aby poprawnie je przekazywać we współczesności, aby naprawdę dotknęło naszych serc. Pomoc tę znajdujemy przede wszystkim w słowie Kościoła nauczającego: teksty II Soboru Watykańskiego i „Katechizm Kościoła Katolickiego" są istotnymi narzędziami, wskazującymi nam w sposób autentyczny to, w co Kościół wierzy na podstawie Słowa Bożego. Oczywiście częścią tego Magisterium jest cała długo jeszcze niewyczerpalna skarbnica dokumentów, jakie dał nam papież Jan Paweł II.

Wszelkie nasze przepowiadanie musi czerpać wzór ze słów Jezusa Chrystusa: „Moja nauka nie jest moją" (J 7, 16). Nie głosimy prywatnych teorii i opinii, ale wiarę Kościoła, którego jesteśmy sługami. Nie może to jednak oczywiście oznaczać, abym nie wspierał tej nauki całym sobą i nie był w niej mocno zakotwiczony. W tym kontekście zawsze przychodzą mi na myśl słowa św. Augustyna: Co jest tak bardzo moje jak ja sam? I co jest tak mało moje jak ja sam? Nie należę do siebie samego, a staję się sobą właśnie przez fakt, że przekraczam siebie i przez przekraczanie odnajduję siebie samego w Chrystusie i w obrębie Jego Ciała – Kościoła. Kiedy nie głosimy samych siebie i kiedy wewnętrznie stajemy się jedno z Tym, który nas powołał jako swych posłańców, tak że stajemy się ukształtowani przez wiarę i żyjemy tą wiarą, to wówczas nasze kaznodziejstwo będzie wiarygodne. Nie reklamuję samego siebie, lecz daję siebie samego. Wiemy, że Proboszcz z Ars nie był uczonym ani intelektualistą. Ale swoim przepowiadaniem poruszył ludzkie serca, bo jego serce było poruszone.

Ostatnie słowo-klucz, o którym chciałbym jeszcze wspomnieć to gorliwość o dusze (zelus animarum). Jest to wyrażenie staromodne, którego dziś już się niemal nie używa. W niektórych kręgach słowo dusza jest niemal zakazane, ponieważ, jak się powiada, miałoby rzekomo wyrażać dualizm między duszą a ciałem, dzieląc niesłusznie człowieka. Oczywiście człowiek jest jednością, jest przeznaczony do wieczności z ciałem i duszą. Nie może to jednak oznaczać, że obecnie nie mamy już duszy, zasady konstytutywnej, gwarantującej jedność człowieka w jego życiu, także poza jego doczesną śmiercią. Oczywiście jako kapłani troszczymy się o całego człowieka, także właśnie o jego potrzeby fizyczne - o głodujących, chorych, bezdomnych. Ale troszczymy się nie tylko o ciało, ale też o potrzeby ludzkiej duszy: o osoby cierpiące z powodu pogwałcenia prawa lub z powodu zniszczonej miłości; o ludzi znajdujących się w ciemności odnośnie do prawdy; którzy cierpią z powodu braku prawdy i miłości. Troszczymy się o zbawienie ludzi na ciele i na duszy. I jako kapłani Jezusa Chrystusa robimy to gorliwie. Ludzie nigdy nie mogą mieć wrażenia, że skrupulatnie wypełniamy nasze dyżury, ale wcześniej i później należymy wyłączenie do samych siebie. Kapłan nigdy nie należy do siebie. Ludzie muszą dostrzec naszą gorliwość, poprzez którą dajemy wiarygodne świadectwo Ewangelii Jezusa Chrystusa. Prośmy Pana, aby nas napełnił radością Swego orędzia, abyśmy mogli z radosną gorliwością służyć Jego prawdzie i Jego miłości. Amen.

[00460-09.02] [Testo originale: Italiano]

[B0202-XX.02]