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SANTA MESSA DELLA NOTTE NELLA SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE, 24.12.2010


Alle ore 22, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte per la Solennità del Natale del Signore 2010.
Nel corso della celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

„Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" – con questa parola del Salmo secondo, la Chiesa inizia la liturgia della Notte Santa. Essa sa che questa parola originariamente apparteneva al rituale dell’incoronazione dei re d’Israele. Il re, che di per sé è un essere umano come gli altri uomini, diventa "figlio di Dio" mediante la chiamata e l’insediamento nel suo ufficio: è una specie di adozione da parte di Dio, un atto di decisione, mediante il quale Egli dona a quell’uomo una nuova esistenza, lo attrae nel suo proprio essere. In modo ancora più chiaro la lettura tratta dal profeta Isaia, che abbiamo appena ascoltato, presenta lo stesso processo in una situazione di travaglio e di minaccia per Israele: "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere" (9,5). L’insediamento nell’ufficio del re è come una nuova nascita. Proprio come nuovo nato dalla decisione personale di Dio, come bambino proveniente da Dio, il re costituisce una speranza. Sulle sue spalle poggia il futuro. Egli è il detentore della promessa di pace. Nella notte di Betlemme, questa parola profetica è diventata realtà in un modo che al tempo di Isaia sarebbe stato ancora inimmaginabile. Sì, ora è veramente un bambino Colui sulle cui spalle è il potere. In Lui appare la nuova regalità che Dio istituisce nel mondo. Questo bambino è veramente nato da Dio. È la Parola eterna di Dio, che unisce l’una all’altra umanità e divinità. Per questo bambino valgono i titoli di dignità che il cantico d’incoronazione di Isaia gli attribuisce: Consigliere mirabile – Dio potente – Padre per sempre – Principe della pace (9,5). Sì, questo re non ha bisogno di consiglieri appartenenti ai sapienti del mondo. Egli porta in se stesso la sapienza e il consiglio di Dio. Proprio nella debolezza dell’essere bambino Egli è il Dio forte e ci mostra così, di fronte ai poteri millantatori del mondo, la fortezza propria di Dio.

Le parole del rituale dell’incoronazione in Israele, in verità, erano sempre soltanto rituali di speranza, che prevedevano da lontano un futuro che sarebbe stato donato da Dio. Nessuno dei re salutati in questo modo corrispondeva alla sublimità di tali parole. In loro, tutte le parole sulla figliolanza di Dio, sull’insediamento nell’eredità delle genti, sul dominio delle terre lontane (Sal 2,8) restavano solo rimando a un avvenire – quasi cartelli segnaletici della speranza, indicazioni che conducevano verso un futuro che in quel momento era ancora inconcepibile. Così l’adempimento della parola che inizia nella notte di Betlemme è al contempo immensamente più grande e – dal punto di vista del mondo – più umile di ciò che la parola profetica lasciava intuire. È più grande, perché questo bambino è veramente Figlio di Dio, veramente "Dio da Dio, Luce da Luce, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre". L’infinita distanza tra Dio e l’uomo è superata. Dio non si è soltanto chinato verso il basso, come dicono i Salmi; Egli è veramente "disceso", entrato nel mondo, diventato uno di noi per attrarci tutti a sé. Questo bambino è veramente l’Emmanuele – il Dio-con-noi. Il suo regno si estende veramente fino ai confini della terra. Nella vastità universale della santa Eucaristia, Egli ha veramente eretto isole di pace. Ovunque essa viene celebrata si ha un’isola di pace, di quella pace che è propria di Dio. Questo bambino ha acceso negli uomini la luce della bontà e ha dato loro la forza di resistere alla tirannia del potere. In ogni generazione Egli costruisce il suo regno dal di dentro, a partire dal cuore. Ma è anche vero che "il bastone dell’aguzzino" non è stato spezzato. Anche oggi marciano rimbombanti i calzari dei soldati e sempre ancora e sempre di nuovo c’è il "mantello intriso di sangue" (Is 9,3s). Così fa parte di questa notte la gioia per la vicinanza di Dio. Ringraziamo perché Dio, come bambino, si dà nelle nostre mani, mendica, per così dire, il nostro amore, infonde la sua pace nel nostro cuore. Questa gioia, tuttavia, è anche una preghiera: Signore, realizza totalmente la tua promessa. Spezza i bastoni degli aguzzini. Brucia i calzari rimbombanti. Fa che finisca il tempo dei mantelli intrisi di sangue. Realizza la promessa: "La pace non avrà fine" (Is 9,6). Ti ringraziamo per la tua bontà, ma ti preghiamo anche: mostra la tua potenza. Erigi nel mondo il dominio della tua verità, del tuo amore – il "regno della giustizia, dell’amore e della pace".

"Maria diede alla luce il suo figlio primogenito" (Lc 2,7). Con questa frase, san Luca racconta, in modo assolutamente privo di pathos, il grande evento che le parole profetiche nella storia di Israele avevano intravisto in anticipo. Luca qualifica il bambino come "primogenito". Nel linguaggio formatosi nella Sacra Scrittura dell’Antica Alleanza, "primogenito" non significa il primo di una serie di altri figli. La parola "primogenito" è un titolo d’onore, indipendentemente dalla questione se poi seguono altri fratelli e sorelle o no. Così, nel Libro dell’Esodo (Es 4,22), Israele viene chiamato da Dio "il mio figlio primogenito", e con ciò si esprime la sua elezione, la sua dignità unica, l’amore particolare di Dio Padre. La Chiesa nascente sapeva che in Gesù questa parola aveva ricevuto una nuova profondità; che in Lui sono riassunte le promesse fatte ad Israele. Così la Lettera agli Ebrei chiama Gesù "il primogenito" semplicemente per qualificarLo, dopo le preparazioni nell’Antico Testamento, come il Figlio che Dio manda nel mondo (cfr Eb 1,5-7). Il primogenito appartiene in modo particolare a Dio, e per questo egli – come in molte religioni – doveva essere in modo particolare consegnato a Dio ed essere riscattato mediante un sacrificio sostitutivo, come san Luca racconta nell’episodio della presentazione di Gesù al tempio. Il primogenito appartiene a Dio in modo particolare, è, per così dire, destinato al sacrificio. Nel sacrificio di Gesù sulla croce, la destinazione del primogenito si compie in modo unico. In se stesso, Egli offre l’umanità a Dio e unisce uomo e Dio in modo tale che Dio sia tutto in tutti. San Paolo, nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini, ha ampliato ed approfondito l’idea di Gesù come primogenito: Gesù, ci dicono tali Lettere, è il Primogenito della creazione – il vero archetipo dell’uomo secondo cui Dio ha formato la creatura uomo. L’uomo può essere immagine di Dio, perché Gesù è Dio e Uomo, la vera immagine di Dio e dell’uomo. Egli è il primogenito dei morti, ci dicono inoltre queste Lettere. Nella Risurrezione, Egli ha sfondato il muro della morte per tutti noi. Ha aperto all’uomo la dimensione della vita eterna nella comunione con Dio. Infine, ci viene detto: Egli è il primogenito di molti fratelli. Sì, ora Egli è tuttavia il primo di una serie di fratelli, il primo, cioè, che inaugura per noi l’essere in comunione con Dio. Egli crea la vera fratellanza – non la fratellanza, deturpata dal peccato, di Caino ed Abele, di Romolo e Remo, ma la fratellanza nuova in cui siamo la famiglia stessa di Dio. Questa nuova famiglia di Dio inizia nel momento in cui Maria avvolge il "primogenito" in fasce e lo pone nella mangiatoia. Preghiamolo: Signore Gesù, tu che hai voluto nascere come primo di molti fratelli, donaci la vera fratellanza. Aiutaci perché diventiamo simili a te. Aiutaci a riconoscere nell’altro che ha bisogno di me, in coloro che soffrono o che sono abbandonati, in tutti gli uomini, il tuo volto, ed a vivere insieme con te come fratelli e sorelle per diventare una famiglia, la tua famiglia.

Il Vangelo di Natale ci racconta, alla fine, che una moltitudine di angeli dell’esercito celeste lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama." (Lc 2,14). La Chiesa ha amplificato, nel Gloria, questa lode, che gli angeli hanno intonato di fronte all’evento della Notte Santa, facendone un inno di gioia sulla gloria di Dio. "Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa". Ti rendiamo grazie per la bellezza, per la grandezza, per la tua bontà, che in questa notte diventano visibili a noi. L’apparire della bellezza, del bello, ci rende lieti senza che dobbiamo interrogarci sulla sua utilità. La gloria di Dio, dalla quale proviene ogni bellezza, fa esplodere in noi lo stupore e la gioia. Chi intravede Dio prova gioia, e in questa notte vediamo qualcosa della sua luce. Ma anche degli uomini parla il messaggio degli angeli nella Notte Santa: "Pace agli uomini che egli ama". La traduzione latina di tale parola, che usiamo nella liturgia e che risale a Girolamo, suona diversamente: "Pace agli uomini di buona volontà". L’espressione "gli uomini di buona volontà" proprio negli ultimi decenni è entrata in modo particolare nel vocabolario della Chiesa. Ma quale traduzione è giusta? Dobbiamo leggere ambedue i testi insieme; solo così comprendiamo la parola degli angeli in modo giusto. Sarebbe sbagliata un’interpretazione che riconoscesse soltanto l’operare esclusivo di Dio, come se Egli non avesse chiamato l’uomo ad una risposta libera di amore. Sarebbe sbagliata, però, anche un’interpretazione moralizzante, secondo cui l’uomo con la sua buona volontà potrebbe, per così dire, redimere se stesso. Ambedue le cose vanno insieme: grazia e libertà; l’amore di Dio, che ci previene e senza il quale non potremmo amarLo, e la nostra risposta, che Egli attende e per la quale, nella nascita del suo Figlio, addirittura ci prega. L’intreccio di grazia e libertà, l’intreccio di chiamata e risposta non lo possiamo scindere in parti separate l’una dall’altra. Ambedue sono inscindibilmente intessute tra loro. Così questa parola è insieme promessa e chiamata. Dio ci ha prevenuto con il dono del suo Figlio. Sempre di nuovo Dio ci previene in modo inatteso. Non cessa di cercarci, di sollevarci ogniqualvolta ne abbiamo bisogno. Non abbandona la pecora smarrita nel deserto in cui si è persa. Dio non si lascia confondere dal nostro peccato. Egli ricomincia sempre nuovamente con noi. Tuttavia aspetta il nostro amare insieme con Lui. Egli ci ama affinché noi possiamo diventare persone che amano insieme con Lui e così possa esservi pace sulla terra.

Luca non ha detto che gli angeli hanno cantato. Egli scrive molto sobriamente: l’esercito celeste lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli…" (Lc 2,13s). Ma da sempre gli uomini sapevano che il parlare degli angeli è diverso da quello degli uomini; che proprio in questa notte del lieto messaggio esso è stato un canto in cui la gloria sublime di Dio ha brillato. Così questo canto degli angeli è stato percepito fin dall’inizio come musica proveniente da Dio, anzi, come invito ad unirsi nel canto, nella gioia del cuore per l’essere amati da Dio. Cantare amantis est, dice sant’Agostino: cantare è cosa di chi ama. Così, lungo i secoli, il canto degli angeli è diventato sempre nuovamente un canto di amore e di gioia, un canto di coloro che amano. In quest’ora noi ci associamo pieni di gratitudine a questo cantare di tutti i secoli, che unisce cielo e terra, angeli e uomini. Sì, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa. Ti ringraziamo per il tuo amore. Fa che diventiamo sempre di più persone che amano insieme con te e quindi persone di pace. Amen.

[01846-01.02]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers Frères et Sœurs !

« Tu es mon Fils, moi, aujourd’hui, je t’ai engendré » – par ces paroles du Psaume deuxième, l’Église commence la liturgie de la Nuit Sainte. Elle sait qu’à à l’origine ces paroles appartenaient au rituel du couronnement des rois d’Israël. Le roi, qui en soi est un être humain comme les autres hommes, devient " fils de Dieu" par l’appel et l’installation dans sa charge : c’est une espèce d’adoption de la part de Dieu, un acte de décision, par lequel il donne à cet homme une nouvelle existence, l’attire dans son propre être. De façon encore plus claire, la lecture tirée du prophète Isaïe, que nous venons d’entendre, présente le même procédé dans une situation de tourment et de menace pour Israël : "Un enfant nous est né, un fils nous a été donné ; l’insigne du pouvoir est sur son épaule" (9, 5). L’installation dans la charge du roi est comme une nouvelle naissance. Justement comme nouveau né de la décision personnelle de Dieu, comme un petit enfant venant de Dieu, le roi constitue une espérance. Sur ses épaules repose l’avenir. Il est le détenteur de la promesse de paix. Dans la nuit de Bethléem, cette parole prophétique est devenue réalité d’une manière qui au temps d’Isaïe aurait encore été inimaginable. Oui, aujourd’hui c’est vraiment un petit enfant celui sur les épaules duquel est le pouvoir. En lui apparaît la nouvelle royauté que Dieu établit dans le monde. Ce petit enfant est vraiment né de Dieu. Il est la Parole éternelle de Dieu, qui unit l’une à l’autre humanité et divinité. Pour ce petit enfant valent les titres de dignité que le cantique de couronnement d’Isaïe lui attribue : Merveilleux Conseiller – Dieu-Fort – Père-à-jamais – Prince de la Paix (9, 5). Oui, ce roi n’a pas besoin de conseillers appartenant aux sages du monde. Il porte en lui-même la sagesse et le conseil de Dieu. Justement dans la faiblesse du fait d’être un petit enfant il est le Dieu fort et il nous montre ainsi, devant les pouvoirs prétentieux du monde, la force propre de Dieu.

Les paroles du rituel du couronnement en Israël, en vérité, étaient toujours seulement des rituels d’espérance, qui prévoyaient de loin un avenir qui aurait été donné par Dieu. Aucun des rois salués de cette façon ne correspondait à la sublimité de ces paroles. En eux, toutes les paroles sur la filiation de Dieu, sur l’installation dans l’héritage des nations, sur la domination des terres lointaines (Ps 2, 8) restaient seulement un renvoi à un avenir – presque des panneaux signalétiques de l’espérance, des indications qui conduisaient vers un avenir qui en ce moment là était encore inconcevable. Ainsi l’accomplissement des paroles qui commence dans la nuit de Bethléem est en même temps immensément plus grand et – du point de vue du monde – plus humble que ce que les paroles prophétiques laissaient entrevoir. Il est plus grand, parce que ce petit enfant est vraiment Fils de Dieu, vraiment " Dieu né de Dieu, lumière née de la lumière, engendré, non pas créé, de même nature que le Père". L’infinie distance entre Dieu et l’homme est dépassée. Dieu ne s’est pas seulement penché vers en bas, comme disent les Psaumes ; il est vraiment "descendu", entré dans le monde, devenu l’un de nous pour nous attirer tous à lui. Ce petit enfant est vraiment l’Emmanuel, "le Dieu-avec-nous". Son royaume s’étend vraiment jusqu’aux confins de la terre. Dans l’étendue universelle de la sainte Eucharistie, il a vraiment érigé des îlots de paix. Partout où elle est célébrée, on a un îlot de paix, de cette paix qui est propre à Dieu. Ce petit enfant a allumé parmi les hommes la lumière de la bonté et leur a donné la force de résister à la tyrannie du pouvoir. En chaque génération il construit son royaume de l’intérieur, à partir du cœur. Mais il est vrai aussi que "le bâton du tortionnaire" n’a pas été brisé. Aujourd’hui aussi marchent, bruyantes, les chaussures des soldats et toujours encore et toujours de nouveau il y a le "manteau couvert de sang" (Is 9, 3s). Ainsi la joie pour la proximité de Dieu fait partie de cette nuit. Nous rendons grâce parce que Dieu, comme un petit enfant, se donne entre nos mains, il mendie, pour ainsi dire, notre amour, il répand sa paix dans notre cœur. Cette joie, toutefois, est aussi une prière : Seigneur, réalise totalement ta promesse. Brise les bâtons des tortionnaires. Brûle les chaussures bruyantes. Fais que finissent le temps des manteaux couverts de sang. Réalise la promesse : "La paix sera sans fin" (Is 9, 6). Nous te rendons grâce pour ta bonté, mais nous te prions encore : montre ta puissance. Établis dans le monde la domination de ta vérité, de ton amour – le « royaume de la justice, de l’amour et de la paix ».

"Marie mit au monde son fils premier-né" (Lc 2, 7). Avec cette phrase, saint Luc raconte, de manière absolument privée de pathos, le grand événement que les paroles prophétiques dans l’histoire d’Israël avaient entrevu par avance. Luc qualifie le petit enfant de "premier-né". Dans le langage qui s’est formé dans la Sainte Écriture de l’Ancienne Alliance, "premier-né" ne signifie pas le premier d’une série d’autres enfants. La parole "premier-né" est un titre d’honneur, indépendamment de la question de savoir si ensuite suivent d’autres frères et sœurs ou non. Ainsi dans le Livre de l’Exode (4, 22), Israël est appelé par Dieu "mon fils premier-né", et ainsi s’exprime son élection, sa dignité unique, l’amour particulier de Dieu Père. L’Église naissante savait qu’en Jésus cette parole avait reçu une nouvelle profondeur ; qu’en lui sont résumées les promesses faites à Israël. Ainsi la Lettre aux Hébreux appelle Jésus "le premier-né", simplement pour le qualifier, après les préparations de l’Ancien Testament, comme le Fils que Dieu envoie dans le monde (cf. He 1, 5-7). Le premier-né appartient de façon particulière à Dieu, et pour cela – comme dans de nombreuses religions – il devait être de façon particulière remis à Dieu et être racheté par un sacrifice substitutif, comme saint Luc le raconte dans l’épisode de la présentation de Jésus au temple. Le premier-né appartient à Dieu de façon particulière, il est, pour ainsi dire, destiné au sacrifice. Dans le sacrifice de Jésus sur la croix, la destination du premier-né s’accomplit de façon unique. En lui-même, il offre l’humanité à Dieu et unit homme et Dieu de manière telle que Dieu soit tout en tous. Saint Paul, dans les Lettres aux Colossiens et aux Éphésiens, a développé et approfondi l’idée de Jésus comme premier-né : Jésus, nous disent ces Lettres, est le Premier-né de la création – le véritable archétype de l’homme selon lequel Dieu a formé la créature homme. L’homme peut être image de Dieu parce que Jésus est Dieu et Homme, la véritable image de Dieu et de l’homme. Il est le premier-né d’entre les morts, nous disent en outre ces Lettres. Dans la Résurrection, il a abattu le mur de la mort pour nous tous. Il a ouvert à l’homme la dimension de la vie éternelle dans la communion avec Dieu. Enfin, il nous est dit : il est le premier-né de nombreux frères. Oui, aujourd’hui il est cependant le premier d’une série de frères, le premier, c’est-à-dire, qui inaugure pour nous l’être en communion avec Dieu. Il crée la véritable fraternité – non la fraternité, défigurée par le péché, de Caïn et Abel, de Romulus et Remus, mais la fraternité nouvelle dans laquelle nous sommes la famille même de Dieu. Cette nouvelle famille de Dieu commence au moment où Marie enveloppe le "premier-né" dans les langes et le dépose dans la mangeoire. Prions-le : Seigneur Jésus, toi qui as voulu naître comme premier de nombreux frères, donne-nous la vraie fraternité. Aide-nous à devenir semblables à toi. Aide-nous à reconnaître dans l’autre qui a besoin de moi, en ceux qui souffrent ou qui sont abandonnés, en tous les hommes, ton visage, et à vivre avec toi comme des frères et des sœurs pour devenir une famille, ta famille.

L’Évangile de Noël nous raconte, à la fin, qu’une multitude d’anges de la troupe céleste louait Dieu et disait : "Gloire à Dieu au plus haut des cieux, et paix sur la terre aux hommes qu’il aime" (Lc 2, 14). Dans le chant du Gloria, l’Église a amplifié cette louange, que les anges ont entonnée devant l’événement de la Nuit Sainte, en en faisant une hymne de joie sur la gloire de Dieu. "Nous te rendons grâce pour ton immense gloire". Nous te rendons grâce pour la beauté, pour la grandeur, pour ta bonté, qui en cette nuit nous deviennent visibles. L’apparition de la beauté, du beau, nous rend joyeux sans que nous devions nous interroger sur son utilité. La gloire de Dieu, d’où provient toute beauté, fait exploser en nous l’étonnement et la joie. Celui qui entrevoit Dieu éprouve de la joie, et en cette nuit nous voyons quelque chose de sa lumière. Mais le message des anges dans la Nuit sainte parle aussi des hommes : "Paix aux hommes qu’il aime". La traduction latine de cette parole, que nous utilisons dans la liturgie et qui remonte à Jérôme, résonne autrement : "Paix aux hommes de bonne volonté". L’expression "les hommes de bonne volonté" dans les dernières décennies est entrée de façon particulière dans le vocabulaire de l’Église. Mais quelle traduction est juste ? Nous devons lire les deux textes ensemble ; nous comprenons seulement ainsi la parole des anges de façon juste. Serait erronée une interprétation qui reconnaîtrait seulement l’œuvre exclusive de Dieu, comme s’il n’avait pas appelé l’homme à une réponse d’amour qui soit libre. Serait aussi erronée, cependant, une interprétation moralisante, selon laquelle l’homme avec sa bonne volonté pourrait, pour ainsi dire, se racheter lui-même. Les deux choses vont ensemble : grâce et liberté ; l’amour de Dieu, qui nous précède et sans lequel nous ne pourrions pas l’aimer, et notre réponse, qu’il attend et pour laquelle, dans la naissance de son Fils, il nous prie même. L’enchevêtrement de grâce et de liberté, l’enchevêtrement d’appel et de réponse, nous ne pouvons pas le scinder en parties séparées l’une de l’autre. Les deux sont indissolublement tressés entre eux. Ainsi cette parole est en même temps promesse et appel. Dieu nous a précédés par le don de son Fils. Toujours de nouveau Dieu nous précède de façon inattendue. Il ne cesse pas de nous chercher, de nous relever chaque fois que nous en avons besoin. Il n’abandonne pas la brebis égarée dans le désert où elle s’est perdue. Dieu ne se laisse pas troubler par notre péché. Il recommence toujours à nouveau avec nous. Toutefois il attend en retour notre amour. Il nous aime pour que nous puissions devenir des personnes qui aiment avec lui et ainsi il peut y avoir la paix sur la terre.

Luc n’a pas dit que les anges ont chanté. Il écrit très sobrement : la troupe céleste louait Dieu et disait : "Gloire à Dieu au plus haut des cieux…" (Lc 2, 13s). Mais depuis toujours les hommes savaient que le parler des anges est différent de celui des hommes ; que justement en cette nuit du joyeux message, il a été un chant dans lequel la gloire sublime de Dieu a brillé. Ainsi ce chant des anges a été perçu depuis le commencement comme une musique provenant de Dieu, et bien plus, comme une invitation à s’unir dans le chant, dans la joie du cœur pour le fait d’être aimés de Dieu. Cantare amantis est, dit Saint Augustin : chanter est le propre de celui qui aime. Ainsi, au long des siècles, le chant des anges est devenu toujours de nouveau un chant d’amour et de joie, un chant de ceux qui aiment. En ce moment, nous nous associons pleins de gratitude à ce chant de tous les siècles, qui unit ciel et terre, anges et hommes. Oui, nous te rendons grâce pour ton immense gloire. Nous te remercions pour ton amour. Fais que nous devenions toujours plus des personnes qui aiment avec toi et donc des personnes de paix. Amen.

[01846-03.02]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters!

"You are my son, this day I have begotten you" – with this passage from Psalm 2 the Church begins the liturgy of this holy night. She knows that this passage originally formed part of the coronation rite of the kings of Israel. The king, who in himself is a man like others, becomes the "Son of God" through being called and installed in his office. It is a kind of adoption by God, a decisive act by which he grants a new existence to this man, drawing him into his own being. The reading from the prophet Isaiah that we have just heard presents the same process even more clearly in a situation of hardship and danger for Israel: "To us a child is born, to us a son is given. The government will be upon his shoulder" (Is 9:6). Installation in the office of king is like a second birth. As one newly born through God’s personal choice, as a child born of God, the king embodies hope. On his shoulders the future rests. He is the bearer of the promise of peace. On that night in Bethlehem this prophetic saying came true in a way that would still have been unimaginable at the time of Isaiah. Yes indeed, now it really is a child on whose shoulders government is laid. In him the new kingship appears that God establishes in the world. This child is truly born of God. It is God’s eternal Word that unites humanity with divinity. To this child belong those titles of honour which Isaiah’s coronation song attributes to him: Wonderful Counsellor, Mighty God, Everlasting Father, Prince of Peace (Is 9:6). Yes, this king does not need counsellors drawn from the wise of this world. He bears in himself God’s wisdom and God’s counsel. In the weakness of infancy, he is the mighty God and he shows us God’s own might in contrast to the self-asserting powers of this world.

Truly, the words of Israel’s coronation rite were only ever rites of hope which looked ahead to a distant future that God would bestow. None of the kings who were greeted in this way lived up to the sublime content of these words. In all of them, those words about divine sonship, about installation into the heritage of the peoples, about making the ends of the earth their possession (Ps 2:8) were only pointers towards what was to come – as it were signposts of hope indicating a future that at that moment was still beyond comprehension. Thus the fulfilment of the prophecy, which began that night in Bethlehem, is both infinitely greater and in worldly terms smaller than the prophecy itself might lead one to imagine. It is greater in the sense that this child is truly the Son of God, truly "God from God, light from light, begotten not made, of one being with the Father". The infinite distance between God and man is overcome. God has not only bent down, as we read in the Psalms; he has truly "come down", he has come into the world, he has become one of us, in order to draw all of us to himself. This child is truly Emmanuel – God-with-us. His kingdom truly stretches to the ends of the earth. He has truly built islands of peace in the world-encompassing breadth of the holy Eucharist. Wherever it is celebrated, an island of peace arises, of God’s own peace. This child has ignited the light of goodness in men and has given them strength to overcome the tyranny of might. This child builds his kingdom in every generation from within, from the heart. But at the same time it is true that the "rod of his oppressor" is not yet broken, the boots of warriors continue to tramp and the "garment rolled in blood" (Is 9:4f) still remains. So part of this night is simply joy at God’s closeness. We are grateful that God gives himself into our hands as a child, begging as it were for our love, implanting his peace in our hearts. But this joy is also a prayer: Lord, make your promise come fully true. Break the rods of the oppressors. Burn the tramping boots. Let the time of the garments rolled in blood come to an end. Fulfil the prophecy that "of peace there will be no end" (Is 9:7). We thank you for your goodness, but we also ask you to show forth your power. Establish the dominion of your truth and your love in the world – the "kingdom of righteousness, love and peace".

"Mary gave birth to her first-born son" (Lk 2:7). In this sentence Saint Luke recounts quite soberly the great event to which the prophecies from Israel’s history had pointed. Luke calls the child the "first-born". In the language which developed within the sacred Scripture of the Old Covenant, "first-born" does not mean the first of a series of children. The word "first-born" is a title of honour, quite independently of whether other brothers and sisters follow or not. So Israel is designated by God in the Book of Exodus (4:22) as "my first-born Son", and this expresses Israel’s election, its singular dignity, the particular love of God the Father. The early Church knew that in Jesus this saying had acquired a new depth, that the promises made to Israel were summed up in him. Thus the Letter to the Hebrews calls Jesus "the first-born", simply in order to designate him as the Son sent into the world by God (cf. 1:5-7) after the ground had been prepared by Old Testament prophecy. The first-born belongs to God in a special way – and therefore he had to be handed over to God in a special way – as in many religions – and he had to be ransomed through a vicarious sacrifice, as Saint Luke recounts in the episode of the Presentation in the Temple. The first-born belongs to God in a special way, and is as it were destined for sacrifice. In Jesus’ sacrifice on the Cross this destiny of the first-born is fulfilled in a unique way. In his person he brings humanity before God and unites man with God in such a way that God becomes all in all. Saint Paul amplified and deepened the idea of Jesus as first-born in the Letters to the Colossians and to the Ephesians: Jesus, we read in these letters, is the first-born of all creation – the true prototype of man, according to which God formed the human creature. Man can be the image of God because Jesus is both God and man, the true image of God and of man. Furthermore, as these letters tell us, he is the first-born from the dead. In the resurrection he has broken down the wall of death for all of us. He has opened up to man the dimension of eternal life in fellowship with God. Finally, it is said to us that he is the first-born of many brothers. Yes indeed, now he really is the first of a series of brothers and sisters: the first, that is, who opens up for us the possibility of communing with God. He creates true brotherhood – not the kind defiled by sin as in the case of Cain and Abel, or Romulus and Remus, but the new brotherhood in which we are God’s own family. This new family of God begins at the moment when Mary wraps her first-born in swaddling clothes and lays him in a manger. Let us pray to him: Lord Jesus, who wanted to be born as the first of many brothers and sisters, grant us the grace of true brotherhood. Help us to become like you. Help us to recognize your face in others who need our assistance, in those who are suffering or forsaken, in all people, and help us to live together with you as brothers and sisters, so as to become one family, your family.

At the end of the Christmas Gospel, we are told that a great heavenly host of angels praised God and said: "Glory to God in the highest and on earth peace among men with whom he is pleased!" (Lk 2:14). The Church, in the Gloria, has extended this song of praise, which the angels sang in response to the event of the holy night, into a hymn of joy at God’s glory – "we praise you for your glory". We praise you for the beauty, for the greatness, for your goodness, which becomes visible to us this night. The appearing of beauty, of the beautiful, makes us happy without our having to ask what use it can serve. God’s glory, from which all beauty derives, causes us to break out in astonishment and joy. Anyone who catches a glimpse of God experiences joy, and on this night we see something of his light. But the angels’ message on that holy night also spoke of men: "Peace among men with whom he is pleased". The Latin translation of the angels’ song that we use in the liturgy, taken from Saint Jerome, is slightly different: "peace to men of good will". The expression "men of good will" has become an important part of the Church’s vocabulary in recent decades. But which is the correct translation? We must read both texts together; only in this way do we truly understand the angels’ song. It would be a false interpretation to see this exclusively as the action of God, as if he had not called man to a free response of love. But it would be equally mistaken to adopt a moralizing interpretation as if man were so to speak able to redeem himself by his good will. Both elements belong together: grace and freedom, God’s prior love for us, without which we could not love him, and the response that he awaits from us, the response that he asks for so palpably through the birth of his son. We cannot divide up into independent entities the interplay of grace and freedom, or the interplay of call and response. The two are inseparably woven together. So this part of the angels’ message is both promise and call at the same time. God has anticipated us with the gift of his Son. God anticipates us again and again in unexpected ways. He does not cease to search for us, to raise us up as often as we might need. He does not abandon the lost sheep in the wilderness into which it had strayed. God does not allow himself to be confounded by our sin. Again and again he begins afresh with us. But he is still waiting for us to join him in love. He loves us, so that we too may become people who love, so that there may be peace on earth.

Saint Luke does not say that the angels sang. He states quite soberly: the heavenly host praised God and said: "Glory to God in the highest" (Lk 2:13f.). But men have always known that the speech of angels is different from human speech, and that above all on this night of joyful proclamation it was in song that they extolled God’s heavenly glory. So this angelic song has been recognized from the earliest days as music proceeding from God, indeed, as an invitation to join in the singing with hearts filled with joy at the fact that we are loved by God. Cantare amantis est, says Saint Augustine: singing belongs to one who loves. Thus, down the centuries, the angels’ song has again and again become a song of love and joy, a song of those who love. At this hour, full of thankfulness, we join in the singing of all the centuries, singing that unites heaven and earth, angels and men. Yes, indeed, we praise you for your glory. We praise you for your love. Grant that we may join with you in love more and more and thus become people of peace. Amen.

[01846-02.02]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern!

„Mein Sohn bist du, heute habe ich dich gezeugt" – mit diesem Wort aus Psalm 2 eröffnet die Kirche die Liturgie der Heiligen Nacht. Sie weiß, daß dieses Wort ursprünglich zum Krönungsritual der Könige von Israel gehörte. Der König, der von sich aus ein Mensch ist wie andere Menschen, wird „Sohn Gottes" durch die Berufung und Einsetzung in sein Amt. Sie ist eine Art Adoption durch Gott, ein Akt der Entscheidung, durch den er diesem Menschen eine neue Existenz schenkt, ihn in sein eigenes Sein hineinzieht. Die Lesung aus dem Propheten Jesaja, die wir eben gehört haben, stellt denselben Vorgang in einer Situation der Not und der Bedrohung Israels noch leuchtender dar: „Ein Kind ist uns geboren, ein Sohn ist uns geschenkt. Die Herrschaft liegt auf seiner Schulter" (Jes 9, 5). Die Einsetzung ins Königsamt ist wie eine neue Geburt. Gerade als Neugeborener aus Gottes eigenem Entscheid, als Kind von Gott her ist der König Hoffnung. Auf seinen Schultern ruht die Zukunft. Er ist Träger der Verheißung des Friedens. In der Nacht zu Bethlehem ist dieses prophetische Wort auf eine Weise Wahrheit geworden, die in der Stunde des Jesaja noch nicht vorstellbar gewesen wäre. Ja, nun ist es wirklich ein Kind, auf dessen Schultern die Herrschaft liegt. In ihm erscheint das neue Königtum, das Gott in der Welt aufrichtet. Dieses Kind ist wirklich aus Gott geboren. Es ist Gottes ewiges Wort, das Menschsein und Gottsein einander verbindet. Von diesem Kind gelten die Würdetitel, die das Krönungslied des Propheten ihm zulegt: Wunderbarer Ratgeber – Starker Gott – Vater in Ewigkeit – Fürst des Friedens (Jes 9, 5). Ja, dieser König braucht nicht Ratgeber aus den Weisen der Welt. Es trägt Gottes Weisheit und Rat in sich selbst. Er ist gerade in der Schwäche des Kindseins der starke Gott und zeigt uns so gegenüber den auftrumpfenden Mächten dieser Welt Gottes eigene Stärke.

Die Worte des Krönungsrituals in Israel waren immer in Wahrheit nur Rituale der Hoffnung, die auf eine von Gott zu schenkende Zukunft vorausschauten. Keiner der Könige, die auf diese Weise begrüßt wurden, entsprach der Größe dieser Worte. In ihnen allen blieben die Worte von der Sohnschaft Gottes, von der Einsetzung ins Erbe der Völker, vom Eigentum bis ans Ende der Erde (Ps 2, 8) nur Verweise auf Kommendes – gleichsam Wegzeichen der Hoffnung, die auf eine Zukunft hinführen, die in jenem Augenblick noch unverstehbar war. So ist die Erfüllung des Wortes, die in der Nacht zu Bethlehem beginnt, zugleich unendlich größer und weltlich gesehen geringer, als das prophetische Wort ahnen ließ. Sie ist größer, denn dieses Kind ist wirklich Gottes Sohn, wirklich „Gott von Gott, Licht vom Licht, gezeugt nicht geschaffen, eines Wesens mit dem Vater". Die unendliche Entfernung zwischen Gott und Mensch ist überbrückt. Gott hat sich nicht nur herabgebeugt, wie die Psalmen es beten; er ist wirklich „herabgestiegen", in die Welt eingegangen, einer von uns geworden, um uns alle an sich zu ziehen. Dieses Kind ist wirklich Emmanuel – Gott mit uns. Sein Reich geht wirklich bis an die Enden der Erde. Er hat Inseln des Friedens aufgebaut in der weltumspannenden Weite der heiligen Eucharistie. Wo immer sie gefeiert wird, ist eine Insel des Friedens von Gottes eigenem Frieden. Dieses Kind hat das Licht der Güte in den Menschen entzündet und ihnen Kraft gegeben, der Tyrannei der Macht zu widerstehen. Es baut in jeder Generation sein Reich von innen her, vom Herzen her. Aber zugleich ist wahr, daß der „Stock des Treibers" nicht zerbrochen ist. Daß auch heute Stiefel dröhnend daherstampfen und daß es immer noch und immer wieder den „blutbefleckten Mantel" gibt (Jes 9, 3f). So gehört zu dieser Nacht die Freude über Gottes Nähe. Wir danken dafür, daß Gott als Kind sich in unsere Hände gibt, um unsere Liebe gleichsam bettelt, uns seinen Frieden ins Herz senkt. Aber diese Freude ist doch auch Bitte: Herr, mache deine Verheißung ganz wahr. Zerbrich die Stöcke der Treiber. Verbrenne die dröhnenden Stiefel. Laß die Zeit der blutbefleckten Mäntel zu Ende gehen. Laß es wahr werden: „Der Friede hat kein Ende" (Jes 9, 6). Wir danken dir für deine Güte, aber wir bitten dich auch: Zeige deine Macht. Richte die Herrschaft deiner Wahrheit und deiner Liebe auf in der Welt – das „Reich der Gerechtigkeit, der Liebe und des Friedens".

„Maria gebar ihren Sohn, den Erstgeborenen" (Lk 2, 7). Mit diesem Satz erzählt der heilige Lukas ganz ohne Pathos das große Ereignis, auf das die prophetischen Worte in der Geschichte Israels vorausgeschaut hatten. Lukas nennt das Kind den „Erstgeborenen". In der Sprache, die sich in der Heiligen Schrift des Alten Bundes geformt hatte, bedeutet „Erstgeborener" nicht den Anfang einer Reihe von anderen Kindern. Das Wort „Erstgeborener" ist ein Würdetitel, ganz unabhängig davon, ob weitere Geschwister folgen oder nicht. So wird Israel von Gott im Buch Exodus (4, 22) als „mein erstgeborener Sohn" bezeichnet, und damit wird seine Erwählung, seine einzigartige Würde, die besondere Liebe Gottes des Vaters ausgedrückt. Die werdende Kirche wußte, daß in Jesus dieses Wort eine neue Tiefe empfangen hatte; daß die Verheißungen Israels in ihm zusammengefaßt sind. So nennt der Hebräer-Brief Jesus den Erstgeborenen, einfach um ihn nach den Vorbereitungen im Alten Testament als den Sohn zu bezeichnen, den Gott in die Welt sendet (Hebr 1, 5 – 7). Der Erstgeborene gehört in besonderer Weise Gott, und daher mußte er in besonderer Weise – wie in vielen Religionen – Gott übergeben und durch ein stellvertretendes Opfer abgelöst werden, wie es auch der heilige Lukas in der Geschichte von der Darstellung Jesu im Tempel erzählt. Der Erstgeborene gehört Gott in besonderer Weise, ist gleichsam zum Opfer bestimmt. Im Kreuzesopfer Jesu erfüllt sich in einzigartiger Weise die Bestimmung des Erstgeborenen. Er bringt in sich selbst die Menschheit Gott dar und vereinigt so Mensch und Gott, daß Gott alles in allem sei. Der heilige Paulus hat in den Briefen an die Kolosser und die Epheser den Gedanken Jesu als des Erstgeborenen ausgeweitet und vertieft: Jesus, so sagen uns die Briefe, ist der Erstgeborene der Schöpfung – das eigentliche Urbild des Menschen, nach dem Gott die Kreatur Mensch geschaffen hat. Der Mensch kann Gottes Bild sein, weil Jesus Gott und Mensch, das wahre Bild Gottes und des Menschen ist. Er ist der Erstgeborene von den Toten, sagen uns diese Briefe des weiteren. Er hat in der Auferstehung die Mauer des Todes durchbrochen, für uns alle. Er hat dem Menschen den Raum des ewigen Lebens in der Gemeinschaft mit Gott eröffnet. Endlich wird uns gesagt: Er ist der Erstgeborene unter vielen Brüdern. Ja, er ist nun doch der erste einer Reihe von Geschwistern: der erste, der uns das Mitsein mit Gott eröffnet. Er schafft die wahre Brüderlichkeit – nicht die von der Sünde entstellte Brüderlichkeit von Kain und Abel, von Romulus und Remus, sondern die neue Brüderlichkeit, in der wir Gottes eigene Familie sind. Diese neue Familie Gottes beginnt in dem Augenblick, da Maria den „Erstgeborenen" mit Windeln umwickelt und in die Krippe legt. Bitten wir ihn: Herr Jesus, der du als der erste unter vielen Geschwistern geboren werden wolltest, schenk uns die wahre Geschwisterlichkeit. Hilf uns, daß wir dir ähnlich werden. Hilf uns in dem anderen, der meiner bedarf, in denen, die leidend oder verlassen sind, in allen Menschen dein Gesicht zu erkennen und mit dir als Brüder und Schwestern zu leben, um zu einer Familie, zu deiner Familie zu werden.

Das Weihnachtsevangelium erzählt uns am Ende, daß ein großes himmlisches Heer von Engeln Gott lobte und sprach: „Ehre sei Gott in der Höhe und auf Erden Friede den Menschen seiner Gnade." (Lk 2, 14). Die Kirche hat im Gloria diesen Lobpreis, den die Engel angesichts des Ereignisses der Heiligen Nacht angestimmt haben, zu einem Hymnus der Freude über Gottes Herrlichkeit ausgeweitet. „Wir danken dir für deine Herrlichkeit." Wir danken dir für die Schönheit, für die Größe, für deine, die uns in dieser Nacht sichtbar werden. Das Erscheinen der Schönheit, des Schönen, macht froh, ohne daß wir nach seiner Nützlichkeit fragen müßten. Gottes Herrlichkeit, aus der alle Schönheit stammt, läßt uns in Staunen und Freude ausbrechen. Wer Gottes ansichtig wird, wird froh, und in dieser Nacht sehen wir etwas von seinem Licht. Aber auch von den Menschen spricht das Engelswort der Heiligen Nacht: „Pace agli uomini che egli ama." Die lateinische Übersetzung des Engelsworts, die wir in der Liturgie gebrauchen und die auf Hieronymus zurückgeht, lautet anders: „Friede den Menschen, die eines guten Willens sind." Das Wort von den Menschen des guten Willens ist gerade in den letzten Jahrzehnten auf besondere Weise in den kirchlichen Sprachschatz eingegangen. Welche Übersetzung aber ist richtig? Wir müssen beide Texte zusammenlesen; nur so verstehen wir das Engelswort recht. Falsch wäre eine Auslegung, die nur Gottes alleiniges Wirken gelten läßt, als ob er den Menschen nicht zu einer freien Antwort der Liebe gerufen hätte. Falsch wäre aber auch eine moralisierende Auslegung, nach der der Mensch sich gleichsam mit seinem guten Willen erlösen könnte. Beides gehört zusammen: Gnade und Freiheit; Gottes zuvorkommende Liebe, ohne die wir ihn nicht lieben könnten, und unsere Antwort, auf die er wartet, um die er uns in der Geburt seines Sohnes förmlich bittet. Das Ineinander von Gnade und Freiheit, das Ineinander von Ruf und Antwort können wir nicht in voneinander getrennte Teile auseinandernehmen. Beides ist unlösbar ineinander verwoben. So ist dieses Wort Verheißung und Anruf zugleich. Gott ist uns zuvorgekommen im Geschenk seines Sohnes. Gott kommt uns immer wieder auf unerwartete Weise zuvor. Er läßt nicht nach, uns zu suchen, uns aufzuheben, sooft wir es nötig haben. Er läßt das verlorene Schaf nicht in der Öde, in die es sich verirrt hat. Gott läßt sich durch unsere Sünde nicht beirren. Er fängt immer wieder neu mit uns an. Aber er wartet doch auf unser Mitlieben. Er liebt uns, damit wir Mitliebende werden und so Friede auf Erden sein könne.

Lukas hat nicht gesagt, daß die Engel gesungen haben. Er schreibt ganz nüchtern: Das himmlische Heer lobte Gott und sprach: Ehre sei Gott in der Höhe… (Lk 2, 13f). Aber immer wußten die Menschen, daß das Sprechen der Engel anders ist als das Reden der Menschen. Daß es gerade in dieser Nacht der freudigen Botschaft ein Singen gewesen ist, in dem Gottes hohe Herrlichkeit aufstrahlte. So ist dieses Lied der Engel von Anfang an als Musik von Gott her gehört worden, ja, als Einladung mitzusingen in der Freude des Herzens über das Geliebtsein von Gott. Cantare amantis est, sagt der heilige Augustinus: Singen ist Sache des Liebenden. So ist das Lied der Engel die Jahrhunderte hindurch immer neu Gesang der Liebe und Freude, Gesang der Liebenden geworden. In dieser Stunde stimmen wir voll Dankbarkeit in dieses Singen aller Jahrhunderte ein, das Himmel und Erde, Engel und Menschen verbindet. Ja, wir danken dir für deine Herrlichkeit. Wir danken für deine Liebe. Laß uns immer mehr Mitliebende mit dir und so Menschen des Friedens werden. Amen.

[01846-05.02]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

«Tú eres mi hijo, yo te he engendrado hoy». La Iglesia comienza la liturgia del Noche Santa con estas palabras del Salmo segundo. Ella sabe que estas palabras pertenecían originariamente al rito de la coronación de los reyes de Israel. El rey, que de por sí es un ser humano como los demás hombres, se convierte en «hijo de Dios» mediante la llamada y la toma de posesión de su cargo: es una especie de adopción por parte de Dios, un acto de decisión, por el que confiere a ese hombre una nueva existencia, lo atrae en su propio ser. La lectura tomada del profeta Isaías, que acabamos de escuchar, presenta de manera todavía más clara el mismo proceso en una situación de turbación y amenaza para Israel: «Un hijo se nos ha dado: lleva sobre sus hombros el principado» (9,5). La toma de posesión de la función de rey es como un nuevo nacimiento. Precisamente como recién nacido por decisión personal de Dios, como niño procedente de Dios, el rey constituye una esperanza. El futuro recae sobre sus hombros. Él es el portador de la promesa de paz. En la noche de Belén, esta palabra profética se ha hecho realidad de un modo que habría sido todavía inimaginable en tiempos de Isaías. Sí, ahora es realmente un niño el que lleva sobre sus hombros el poder. En Él aparece la nueva realeza que Dios establece en el mundo. Este niño ha nacido realmente de Dios. Es la Palabra eterna de Dios, que une la humanidad y la divinidad. Para este niño valen los títulos de dignidad que el cántico de coronación de Isaías le atribuye: Consejero admirable, Dios poderoso, Padre por siempre, Príncipe de la paz (9,5). Sí, este rey no necesita consejeros provenientes de los sabios del mundo. Él lleva en sí mismo la sabiduría y el consejo de Dios. Precisamente en la debilidad como niño Él es el Dios fuerte, y nos muestra así, frente a los poderes presuntuosos del mundo, la fortaleza propia de Dios.

A decir verdad, las palabras del rito de coronación en Israel eran siempre sólo ritos de esperanza, que preveían a lo lejos un futuro que sería otorgado por Dios. Ninguno de los reyes saludados de este modo se correspondía con lo sublime de dichas palabras. En ellos, todas las palabras sobre la filiación de Dios, sobre su designación como heredero de las naciones, sobre el dominio de las tierras lejanas (Sal 2,8), quedaron sólo como referencia a un futuro; casi como carteles que señalan la esperanza, indicaciones que guían hacia un futuro, que en aquel entonces era todavía inconcebible. Por eso, el cumplimiento de la palabra que da comienzo en la noche de Belén es a la vez inmensamente más grande y —desde el punto de vista del mundo— más humilde que lo que la palabra profética permitía intuir. Es más grande, porque este niño es realmente Hijo de Dios, verdaderamente «Dios de Dios, Luz de Luz, engendrado, no creado, de la misma naturaleza del Padre». Ha quedado superada la distancia infinita entre Dios y el hombre. Dios no solamente se ha inclinado hacia abajo, como dicen los Salmos; Él ha «descendido» realmente, ha entrado en el mundo, haciéndose uno de nosotros para atraernos a todos a sí. Este niño es verdaderamente el Emmanuel, el Dios-con-nosotros. Su reino se extiende realmente hasta los confines de la tierra. En la magnitud universal de la santa Eucaristía, Él ha hecho surgir realmente islas de paz. En cualquier lugar que se celebra hay una isla de paz, de esa paz que es propia de Dios. Este niño ha encendido en los hombres la luz de la bondad y les ha dado la fuerza de resistir a la tiranía del poder. Él construye su reino desde dentro, partiendo del corazón, en cada generación. Pero también es cierto que no se ha roto la «vara del opresor». También hoy siguen marchando con estruendo las botas de los soldados y todavía hoy, una y otra vez, queda la «túnica empapada de sangre» (Is 9,3s). Así, forma parte de esta noche la alegría por la cercanía de Dios. Damos gracias porque el Dios niño se pone en nuestras manos, mendiga, por decirlo así, nuestro amor, infunde su paz en nuestro corazón. Esta alegría, sin embargo, es también una oración: Señor, cumple por entero tu promesa. Quiebra las varas de los opresores. Quema las botas resonantes. Haz que termine el tiempo de las túnicas ensangrentadas. Cumple la promesa: «La paz no tendrá fin» (Is 9,6). Te damos gracias por tu bondad, pero también te pedimos: Muestra tu poder. Erige en el mundo el dominio de tu verdad, de tu amor; el «reino de justicia, de amor y de paz».

«María dio a la luz a su hijo primogénito» (Lc 2,7). San Lucas describe con esta frase, sin énfasis alguno, el gran acontecimiento que habían vislumbrado con antelación las palabras proféticas en la historia de Israel. Designa al niño como «primogénito». En el lenguaje que se había ido formando en la Sagrada Escritura de la Antigua Alianza, «primogénito» no significa el primero de otros hijos. «Primogénito» es un título de honor, independientemente de que después sigan o no otros hermanos y hermanas. Así, en el Libro del Éxodo (Ex 4,22), Dios llama a Israel «mi hijo primogénito», expresando de este modo su elección, su dignidad única, el amor particular de Dios Padre. La Iglesia naciente sabía que esta palabra había recibido una nueva profundidad en Jesús; que en Él se resumen las promesas hechas a Israel. Así, la Carta a los Hebreos llama a Jesús simplemente «el primogénito», para identificarlo como el Hijo que Dios envía al mundo después de los preparativos en el Antiguo Testamento (cf. Hb 1,5-7). El primogénito pertenece de modo particular a Dios, y por eso —como en muchas religiones— debía ser entregado de manera especial a Dios y ser rescatado mediante un sacrificio sustitutivo, como relata san Lucas en el episodio de la presentación de Jesús en templo. El primogénito pertenece a Dios de modo particular; está destinado al sacrificio, por decirlo así. El destino del primogénito se cumple de modo único en el sacrificio de Jesús en la cruz. Él ofrece en sí mismo la humanidad a Dios, y une al hombre y a Dios de tal modo que Dios sea todo en todos. San Pablo ha ampliado y profundizado la idea de Jesús como primogénito en las Cartas a los Colosenses y a los Efesios: Jesús, nos dicen estas Cartas, es el Primogénito de la creación: el verdadero arquetipo del hombre, según el cual Dios ha formado la criatura hombre. El hombre puede ser imagen de Dios, porque Jesús es Dios y Hombre, la verdadera imagen de Dios y el Hombre. Él es el primogénito de los muertos, nos dicen además estas Cartas. En la Resurrección, Él ha desfondado el muro de la muerte para todos nosotros. Ha abierto al hombre la dimensión de la vida eterna en la comunión con Dios. Finalmente, se nos dice: Él es el primogénito de muchos hermanos. Sí, con todo, Él es ahora el primero de más hermanos, es decir, el primero que inaugura para nosotros el estar en comunión con Dios. Crea la verdadera hermandad: no la hermandad deteriorada por el pecado, la de Caín y Abel, de Rómulo y Remo, sino la hermandad nueva en la que somos de la misma familia de Dios. Esta nueva familia de Dios comienza en el momento en el que María envuelve en pañales al «primogénito» y lo acuesta en el pesebre. Pidámosle: Señor Jesús, tú que has querido nacer como el primero de muchos hermanos, danos la verdadera hermandad. Ayúdanos para que nos parezcamos a ti. Ayúdanos a reconocer tu rostro en el otro que me necesita, en los que sufren o están desamparados, en todos los hombres, y a vivir junto a ti como hermanos y hermanas, para convertirnos en una familia, tu familia.

El Evangelio de Navidad nos relata al final que una multitud de ángeles del ejército celestial alababa a Dios diciendo: «Gloria a Dios en el cielo, y en la tierra paz a los hombres que Dios ama» (Lc 2,14). La Iglesia ha amplificado en el Gloria esta alabanza, que los ángeles entonaron ante el acontecimiento de la Noche Santa, haciéndola un himno de alegría sobre la gloria de Dios. «Por tu gloria inmensa, te damos gracias». Te damos gracias por la belleza, por la grandeza, por tu bondad, que en esta noche se nos manifiestan. La aparición de la belleza, de lo hermoso, nos hace alegres sin tener que preguntarnos por su utilidad. La gloria de Dios, de la que proviene toda belleza, hace saltar en nosotros el asombro y la alegría. Quien vislumbra a Dios siente alegría, y en esta noche vemos algo de su luz. Pero el mensaje de los ángeles en la Noche Santa habla también de los hombres: «Paz a los hombres que Dios ama». La traducción latina de estas palabras, que usamos en la liturgia y que se remonta a Jerónimo, suena de otra manera: «Paz a los hombres de buena voluntad». La expresión «hombres de buena voluntad» ha entrado en el vocabulario de la Iglesia de un modo particular precisamente en los últimos decenios. Pero, ¿cuál es la traducción correcta? Debemos leer ambos textos juntos; sólo así entenderemos la palabra de los ángeles del modo justo. Sería equivocada una interpretación que reconociera solamente el obrar exclusivo de Dios, como si Él no hubiera llamado al hombre a una libre respuesta de amor. Pero sería también errónea una interpretación moralizadora, según la cual, por decirlo así, el hombre podría con su buena voluntad redimirse a sí mismo. Ambas cosas van juntas: gracia y libertad; el amor de Dios, que nos precede, y sin el cual no podríamos amarlo, y nuestra respuesta, que Él espera y que incluso nos ruega en el nacimiento de su Hijo. El entramado de gracia y libertad, de llamada y respuesta, no lo podemos dividir en partes separadas una de otra. Las dos están indisolublemente entretejidas entre sí. Así, esta palabra es promesa y llamada a la vez. Dios nos ha precedido con el don de su Hijo. Una y otra vez, nos precede de manera inesperada. No deja de buscarnos, de levantarnos cada vez que lo necesitamos. No abandona a la oveja extraviada en el desierto en que se ha perdido. Dios no se deja confundir por nuestro pecado. Él siempre vuelve a comenzar con nosotros. No obstante, espera que amemos con Él. Él nos ama para que nosotros podamos convertirnos en personas que aman junto con Él y así haya paz en la tierra.

Lucas no dice que los ángeles cantaran. Él escribe muy sobriamente: el ejército celestial alababa a Dios diciendo: «Gloria a Dios en el cielo... » (Lc 2,13s). Pero los hombres siempre han sabido que el hablar de los ángeles es diferente al de los hombres; que precisamente esta noche del mensaje gozoso ha sido un canto en el que ha brillado la gloria sublime de Dios. Por eso, este canto de los ángeles ha sido percibido desde el principio como música que viene de Dios, más aún, como invitación a unirse al canto, a la alegría del corazón por ser amados por Dios. Cantare amantis est, dice san Agustín: cantar es propio de quien ama. Así, a lo largo de los siglos, el canto de los ángeles se ha convertido siempre en un nuevo canto de amor y alegría, un canto de los que aman. En esta hora, nosotros nos asociamos llenos de gratitud a este cantar de todos los siglos, que une cielo y tierra, ángeles y hombres. Sí, te damos gracias por tu gloria inmensa. Te damos gracias por tu amor. Haz que seamos cada vez más personas que aman contigo y, por tanto, personas de paz. Amén.

[01846-04.02]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs!

«Tu és meu filho, Eu hoje te gerei» – com estas palavras do Salmo segundo, a Igreja dá início à liturgia da Noite Santa. Ela sabe que esta frase pertencia, originariamente, ao rito da coroação do rei de Israel. O rei, que por si só é um ser humano como os outros homens, torna-se «filho de Deus» por meio do chamamento e entronização na sua função: trata-se de uma espécie de adopção por parte de Deus, uma acta da decisão, pela qual Ele concede a este homem uma nova existência, atraindo-o para o seu próprio ser. De modo ainda mais claro, a leitura tirada do profeta Isaías, que acabámos de ouvir, apresenta o mesmo processo numa situação de tribulação e ameaça para Israel: «Um menino nasceu para nós, um filho nos foi concedido. Tem o poder sobre os ombros» (9, 5). A entronização na função régia é como um novo nascimento. E, precisamente como recém-nascido por decisão pessoal de Deus, como menino proveniente de Deus, o rei constitui uma esperança. O futuro assenta sobre os seus ombros. É o detentor da promessa de paz. Na noite de Belém, esta palavra profética realizou-se de um modo que, no tempo de Isaías, teria ainda sido inimaginável. Sim, agora Aquele sobre cujos ombros está o poder é verdadeiramente um menino. N’Ele aparece a nova realeza que Deus institui no mundo. Este menino nasceu verdadeiramente de Deus. É a Palavra eterna de Deus, que une mutuamente humanidade e divindade. Para este menino, são válidos os títulos de dignidade que lhe atribui o cântico de coroação de Isaías: Conselheiro admirável, Deus forte, Pai para sempre, Príncipe da paz (9, 5). Sim, este rei não precisa de conselheiros pertencentes aos sábios do mundo. Em Si mesmo traz a sapiência e o conselho de Deus. Precisamente na fragilidade de menino que é, Ele é o Deus forte e assim nos mostra, face aos pretensiosos poderes do mundo, a fortaleza própria de Deus.

Na verdade, as palavras do rito da coroação em Israel não passavam de palavras rituais de esperança, que de longe previam um futuro que haveria de ser dado por Deus. Nenhum dos reis, assim homenageados, correspondia à sublimidade de tais palavras. Neles, todas as expressões sobre a filiação de Deus, sobre a entronização na herança dos povos, sobre o domínio das terras distantes (Sal 2, 8) permaneciam apenas presságio de um futuro – como se fossem painéis sinalizadores da esperança, indicações apontando para um futuro que então era ainda inconcebível. Assim o cumprimento da palavra, que tem início na noite de Belém, é ao mesmo tempo imensamente maior e – do ponto de vista do mundo – mais humilde do que a palavra profética deixava intuir. É maior, porque este menino é verdadeiramente Filho de Deus, é verdadeiramente «Deus de Deus, Luz da Luz, gerado, não criado, consubstancial ao Pai». Fica superada a distância infinita entre Deus e o homem. Deus não Se limitou a inclinar o olhar para baixo, como dizem os Salmos; Ele «desceu» verdadeiramente, entrou no mundo, tornou-Se um de nós para nos atrair a todos para Si. Este menino é verdadeiramente o Emanuel, o Deus-connosco. O seu reino estende-se verdadeiramente até aos confins da terra. Na imensidão universal da Sagrada Eucaristia, Ele verdadeiramente instituiu ilhas de paz. Em todo o lado onde ela é celebrada, temos uma ilha de paz, daquela paz que é própria de Deus. Este menino acendeu, nos homens, a luz da bondade e deu-lhes a força para resistir à tirania do poder. Em cada geração, Ele constrói o seu reino a partir de dentro, a partir do coração. Mas é verdade também que «o bastão do opressor» não foi quebrado. Também hoje marcha o calçado ruidoso dos soldados e temos ainda incessantemente a «veste manchada de sangue» (Is 9, 3-4). Assim faz parte desta noite o júbilo pela proximidade de Deus. Damos graças porque Deus, como menino, Se confia às nossas mãos, por assim dizer mendiga o nosso amor, infunde a sua paz no nosso coração. Mas este júbilo é também uma prece: Senhor, realizai totalmente a vossa promessa. Quebrai o bastão dos opressores. Queimai o calçado ruidoso. Fazei com que o tempo das vestes manchadas de sangue acabe. Realizai a promessa de «uma paz sem fim» (Is 9, 6). Nós Vos agradecemos pela vossa bondade, mas pedimos-Vos também: mostrai a vossa força. Instituí no mundo o domínio da vossa verdade, do vosso amor – o «reino da justiça, do amor e da paz».

«Maria deu à luz o seu filho primogénito» (Lc 2, 7). Com esta frase, São Lucas narra, de modo absolutamente sóbrio, o grande acontecimento que as palavras proféticas, na história de Israel, tinham com antecedência vislumbrado. Lucas designa o menino como «primogénito». Na linguagem que se foi formando na Sagrada Escritura da Antiga Aliança, «primogénito» não significa o primeiro de uma série de outros filhos. A palavra «primogénito» é um título de honra, independentemente do facto se depois se seguem outros irmãs e irmãs ou não. Assim, no Livro do Êxodo, Israel é chamado por Deus «o meu filho primogénito» (Ex 4, 22), exprimindo-se deste modo a sua eleição, a sua dignidade única, o particular amor de Deus Pai. A Igreja nascente sabia que esta palavra ganhara uma nova profundidade em Jesus; que n’Ele estão compendiadas as promessas feitas a Israel. Assim a Carta aos Hebreus chama Jesus «o primogénito» simplesmente para O qualificar, depois das preparações no Antigo Testamento, como o Filho que Deus manda ao mundo (cf. Heb 1, 5-7). O primogénito pertence de maneira especial a Deus, e por isso – como sucede em muitas religiões – devia ser entregue de modo particular a Deus e resgatado com um sacrifício de substituição, como São Lucas narra no episódio da apresentação de Jesus no templo. O primogénito pertence a Deus de modo particular, é por assim dizer destinado ao sacrifício. No sacrifício de Jesus na cruz, realiza-se de uma forma única o destino do primogénito. Em Si mesmo, Jesus oferece a humanidade a Deus, unindo o homem e Deus de uma maneira tal que Deus seja tudo em todos. São Paulo, nas Cartas aos Colossenses e aos Efésios, ampliou e aprofundou a ideia de Jesus como primogénito: Jesus – dizem-nos as referidas Cartas – é o primogénito da criação, o verdadeiro arquétipo segundo o qual Deus formou a criatura-homem. O homem pode ser imagem de Deus, porque Jesus é Deus e Homem, a verdadeira imagem de Deus e do homem. Ele é o primogénito dos mortos: dizem-nos ainda aquelas Cartas. Na Ressurreição, atravessou o muro da morte por todos nós. Abriu ao homem a dimensão da vida eterna na comunhão com Deus. Por fim, é-nos dito: Ele é o primogénito de muitos irmãos. Sim, agora Ele também é o primeiro duma série de irmãos, isto é, o primeiro que inaugura para nós a vida em comunhão com Deus. Cria a verdadeira fraternidade: não a fraternidade, deturpada pelo pecado, de Caim e Abel, de Rómulo e Remo, mas a fraternidade nova na qual somos a própria família de Deus. Esta nova família de Deus começa no momento em que Maria envolve o «primogénito» em faixas e O reclina na manjedoura. Supliquemos-Lhe: Senhor Jesus, Vós que quisestes nascer como o primeiro de muitos irmãos, dai-nos a verdadeira fraternidade. Ajudai-nos a tornarmo-nos semelhantes a Vós. Ajudai-nos a reconhecer no outro que tem necessidade de mim, naqueles que sofrem ou estão abandonados, em todos os homens, o vosso rosto, e a viver, juntamente convosco, como irmãos e irmãs para nos tornarmos uma família, a vossa família.

No fim, o Evangelho de Natal narra-nos que uma multidão de anjos do exército celeste louvava a Deus e dizia: «Glória a Deus nas alturas, e paz na terra aos homens que Ele ama» (Lc 2, 14). A Igreja ampliou, no hino «Glória…», este louvor que os anjos entoaram à vista do acontecimento da Noite Santa, fazendo dele um hino de júbilo sobre a glória de Deus. «Nós Vos damos graças por vossa imensa glória». Nós Vos damos graças pela beleza, pela grandeza, pela tua bondade, que, nesta noite, se tornam visíveis para nós. A manifestação da beleza, do belo, torna-nos felizes sem que devamos interrogar-nos sobre a sua utilidade. A glória de Deus, da qual provém toda a beleza, faz explodir em nós o deslumbramento e a alegria. Quem vislumbra Deus, sente alegria; e, nesta noite, vemos algo da sua luz. Mas a mensagem dos anjos na Noite Santa também fala dos homens: «Paz aos homens que Ele ama». A tradução latina desta frase, que usamos na Liturgia e remonta a São Jerónimo, interpreta diversamente: «Paz aos homens de boa vontade». Precisamente nos últimos decénios, esta expressão «os homens de boa vontade» entrou de modo particular no vocabulário da Igreja. Mas qual é a tradução justa? Devemos ler, juntas, as duas versões; só assim compreendemos rectamente a frase dos anjos. Seria errada uma interpretação que reconhecesse apenas o agir exclusivo de Deus, como se Ele não tivesse chamado o homem a uma resposta livre e amorosa. Mas seria errada também uma resposta moralizante, segundo a qual o homem com a sua boa vontade poder-se-ia, por assim dizer, redimir a si próprio. As duas coisas andam juntas: graça e liberdade; o amor de Deus, que nos precede e sem o qual não O poderemos amar, e a nossa resposta, que Ele espera e até no-la suplica no nascimento do seu Filho. O entrelaçamento de graça e liberdade, o entrelaçamento de apelo e resposta não podemos dividi-lo em partes separadas uma da outra. Ambas estão indivisivelmente entrançadas entre si. Assim esta frase é simultaneamente promessa e apelo. Deus precedeu-nos com o dom do seu Filho. E, sempre de novo e de forma inesperada, Deus nos precede. Não cessa de nos procurar, de nos levantar todas as vezes que o necessitamos. Não abandona a ovelha extraviada no deserto, onde se perdeu. Deus não se deixa confundir pelo nosso pecado. Sempre de novo recomeça connosco. Todavia espera que amemos juntamente com Ele. Ama-nos para que nos seja possível tornarmo-nos pessoas que amam juntamente com Ele e, assim, possa haver paz na terra.

Lucas não disse que os anjos cantaram. Muito sobriamente, escreve que o exército celeste louvava a Deus e dizia: «Glória a Deus nas alturas…» (Lc 2, 13-14). Mas desde sempre os homens souberam que o falar dos anjos é diverso do dos homens; e que, precisamente nesta noite da jubilosa mensagem, tal falar foi um canto no qual brilhou a glória sublime de Deus. Assim, desde o início, este canto dos anjos foi entendido como música vinda de Deus, mais ainda, como convite a unirmo-nos ao canto com o coração em júbilo pelo facto de sermos amados por Deus. Diz Santo Agostinho: Cantare amantis est – cantar é próprio de quem ama. Assim ao longo dos séculos, o canto dos anjos tornou-se sempre de novo um canto de amor e de júbilo, um canto daqueles que amam. Nesta hora, associemo-nos, cheios de gratidão, a este cantar de todos os séculos, que une céu e terra, anjos e homens. Sim, Senhor, nós Vos damos graças por vossa imensa glória. Nós Vos damos graças pelo vosso amor. Fazei que nos tornemos cada vez mais pessoas que amam juntamente convosco e, consequentemente, pessoas de paz. Amen.

[01846-06.02]

[B0802-XX.02]