Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


SANTA MESSA DELLA NOTTE NELLA SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE, 24.12.2009


Alle ore 22, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte per la Solennità del Natale del Signore 2009.

Nel corso della celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

"Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio" (Is 9, 5). Ciò che Isaia, guardando da lontano verso il futuro, dice a Israele come consolazione nelle sue angustie ed oscurità, l’Angelo, dal quale emana una nube di luce, lo annuncia ai pastori come presente: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore" (Lc 2, 11). Il Signore è presente. Da questo momento, Dio è veramente un "Dio con noi". Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel mondo. È il Vicino. Il Cristo risorto lo ha detto ai suoi, a noi: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 20). Per voi è nato il Salvatore: ciò che l’Angelo annunciò ai pastori, Dio ora lo richiama a noi per mezzo del Vangelo e dei suoi messaggeri. È questa una notizia che non può lasciarci indifferenti. Se è vera, tutto è cambiato. Se è vera, essa riguarda anche me. Allora, come i pastori, devo dire anch’io: Orsù, voglio andare a Betlemme e vedere la Parola che lì è accaduta. Il Vangelo non ci racconta senza scopo la storia dei pastori. Essi ci mostrano come rispondere in modo giusto a quel messaggio che è rivolto anche a noi. Che cosa ci dicono allora questi primi testimoni dell’incarnazione di Dio?

Dei pastori è detto anzitutto che essi erano persone vigilanti e che il messaggio poteva raggiungerli proprio perché erano svegli. Noi dobbiamo svegliarci, perché il messaggio arrivi fino a noi. Dobbiamo diventare persone veramente vigilanti. Che significa questo? La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare. Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri. Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti. Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato. L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri. Svegliatevi, ci dice il Vangelo. Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio. Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza. Ci sono persone che dicono di essere "religiosamente prive di orecchio musicale". La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata. E in effetti – la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci "privi di orecchio musicale" per Lui. E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo. Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere "privi di questo orecchio musicale" e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti. Il grande teologo Origene ha detto: se io avessi la grazia di vedere come ha visto Paolo, potrei adesso (durante la Liturgia) contemplare una grande schiera di Angeli (cfr in Lc 23, 9). Infatti – nella Sacra Liturgia, gli Angeli di Dio e i Santi ci circondano. Il Signore stesso è presente in mezzo a noi. Signore, apri gli occhi dei nostri cuori, affinché diventiamo vigilanti e veggenti e così possiamo portare la tua vicinanza anche ad altri!

Torniamo al Vangelo di Natale. Esso ci racconta che i pastori, dopo aver ascoltato il messaggio dell’Angelo, si dissero l’un l’altro: "'Andiamo fino a Betlemme' … Andarono, senza indugio" (Lc 2, 15s.). "Si affrettarono" dice letteralmente il testo greco. Ciò che era stato loro annunciato era così importante che dovevano andare immediatamente. In effetti, ciò che lì era stato detto loro andava totalmente al di là del consueto. Cambiava il mondo. È nato il Salvatore. L’atteso Figlio di Davide è venuto al mondo nella sua città. Che cosa poteva esserci di più importante? Certo, li spingeva anche la curiosità, ma soprattutto l’agitazione per la grande cosa che era stata comunicata proprio a loro, i piccoli e uomini apparentemente irrilevanti. Si affrettarono – senza indugio. Nella nostra vita ordinaria le cose non stanno così. La maggioranza degli uomini non considera prioritarie le cose di Dio, esse non ci incalzano in modo immediato. E così noi, nella stragrande maggioranza, siamo ben disposti a rimandarle. Prima di tutto si fa ciò che qui ed ora appare urgente. Nell’elenco delle priorità Dio si trova spesso quasi all’ultimo posto. Questo – si pensa – si potrà fare sempre. Il Vangelo ci dice: Dio ha la massima priorità. Se qualcosa nella nostra vita merita fretta senza indugio, ciò è, allora, soltanto la causa di Dio. Una massima della Regola di san Benedetto dice: "Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino)". La Liturgia è per i monaci la prima priorità. Tutto il resto viene dopo. Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo. Dio è importante, la realtà più importante in assoluto nella nostra vita. Proprio questa priorità ci insegnano i pastori. Da loro vogliamo imparare a non lasciarci schiacciare da tutte le cose urgenti della vita quotidiana. Da loro vogliamo apprendere la libertà interiore di mettere in secondo piano altre occupazioni – per quanto importanti esse siano – per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo. Il tempo impegnato per Dio e, a partire da Lui, per il prossimo non è mai tempo perso. È il tempo in cui viviamo veramente, in cui viviamo lo stesso essere persone umane.

Alcuni commentatori fanno notare che per primi i pastori, le anime semplici, sono venuti da Gesù nella mangiatoia e hanno potuto incontrare il Redentore del mondo. I sapienti venuti dall’Oriente, i rappresentanti di coloro che hanno rango e nome, vennero molto più tardi. I commentatori aggiungono: questo è del tutto ovvio. I pastori, infatti, abitavano accanto. Essi non dovevano che "attraversare" (cfr Lc 2, 15) come si attraversa un breve spazio per andare dai vicini. I sapienti, invece, abitavano lontano. Essi dovevano percorrere una via lunga e difficile, per arrivare a Betlemme. E avevano bisogno di guida e di indicazione. Ebbene, anche oggi esistono anime semplici ed umili che abitano molto vicino al Signore. Essi sono, per così dire, i suoi vicini e possono facilmente andare da Lui. Ma la maggior parte di noi uomini moderni vive lontana da Gesù Cristo, da Colui che si è fatto uomo, dal Dio venuto in mezzo a noi. Viviamo in filosofie, in affari e occupazioni che ci riempiono totalmente e dai quali il cammino verso la mangiatoia è molto lungo. In molteplici modi Dio deve ripetutamente spingerci e darci una mano, affinché possiamo trovare l’uscita dal groviglio dei nostri pensieri e dei nostri impegni e trovare la via verso di Lui. Ma per tutti c’è una via. Per tutti il Signore dispone segnali adatti a ciascuno. Egli chiama tutti noi, perché anche noi si possa dire: Orsù, "attraversiamo", andiamo a Betlemme – verso quel Dio, che ci è venuto incontro. Sì, Dio si è incamminato verso di noi. Da soli non potremmo giungere fino a Lui. La via supera le nostre forze. Ma Dio è disceso. Egli ci viene incontro. Egli ha percorso la parte più lunga del cammino. Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo. Venite e vedete che io sono qui. Transeamus usque Bethleem, dice la Bibbia latina. Andiamo di là! Oltrepassiamo noi stessi! Facciamoci viandanti verso Dio in molteplici modi: nell’essere interiormente in cammino verso di Lui. E tuttavia anche in cammini molto concreti – nella Liturgia della Chiesa, nel servizio al prossimo, in cui Cristo mi attende.

Ascoltiamo ancora una volta direttamente il Vangelo. I pastori si dicono l’un l’altro il motivo per cui si mettono in cammino: "Vediamo questo avvenimento". Letteralmente il testo greco dice: "Vediamo questa Parola, che lì è accaduta". Sì, tale è la novità di questa notte: la Parola può essere guardata. Poiché si è fatta carne. Quel Dio di cui non si deve fare alcuna immagine, perché ogni immagine potrebbe solo ridurlo, anzi travisarlo, quel Dio si è reso, Egli stesso, visibile in Colui che è la sua vera immagine, come dice Paolo (cfr 2 Cor 4, 4; Col 1, 15). Nella figura di Gesù Cristo, in tutto il suo vivere ed operare, nel suo morire e risorgere, possiamo guardare la Parola di Dio e quindi il mistero dello stesso Dio vivente. Dio è così. L’Angelo aveva detto ai pastori: "Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia" (Lc 2, 12; cfr 16). Il segno di Dio, il segno che viene dato ai pastori e a noi, non è un miracolo emozionante. Il segno di Dio è la sua umiltà. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo; diventa bambino; si lascia toccare e chiede il nostro amore. Quanto desidereremmo noi uomini un segno diverso, imponente, inconfutabile del potere di Dio e della sua grandezza. Ma il suo segno ci invita alla fede e all’amore, e pertanto ci dà speranza: così è Dio. Egli possiede il potere ed è la Bontà. Ci invita a diventare simili a Lui. Sì, diventiamo simili a Dio, se ci lasciamo plasmare da questo segno; se impariamo, noi stessi, l’umiltà e così la vera grandezza; se rinunciamo alla violenza ed usiamo solo le armi della verità e dell’amore. Origene, seguendo una parola di Giovanni Battista, ha visto espressa l’essenza del paganesimo nel simbolo delle pietre: paganesimo è mancanza di sensibilità, significa un cuore di pietra, che è incapace di amare e di percepire l’amore di Dio. Origene dice dei pagani: "Privi di sentimento e di ragione, si trasformano in pietre e in legno" (in Lc 22, 9). Cristo, però, vuole darci un cuore di carne. Quando vediamo Lui, il Dio che è diventato un bambino, ci si apre il cuore. Nella Liturgia della Notte Santa Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani. Ascoltiamo ancora Origene: "In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20)" (in Lc 22, 3).

Sì, per questo vogliamo pregare in questa Notte Santa. Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima. Trasformami. Rinnovami. Fa’ che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato. Amen.

[01936-01.01] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers Frères et Sœurs,

«Un enfant nous est né, un fils nous a été donné » (Is 9, 5). Ce qu’Isaïe, regardant de loin vers l’avenir, dit à Israël comme consolation dans ses angoisses et dans l’obscurité, l’Ange, nimbé de lumière, l’annonce aux bergers comme présent : « Aujourd’hui vous est né un Sauveur, dans la ville de David. Il est le Messie, le Seigneur » (Lc 2, 11). Le Seigneur est présent. À partir de ce moment, Dieu est vraiment un « Dieu avec nous ». Il n’est plus le Dieu lointain qui, à travers la création et au moyen de la conscience, peut de quelque façon être entrevu de loin. Il est entré dans le monde. Il est le Proche. Le Christ ressuscité l’a dit aux siens, à nous : « Et moi, je suis avec vous tous les jours jusqu’à la fin du monde » (Mt 28, 20). Pour vous est né le Sauveur : ce que l’Ange a annoncé aux bergers, Dieu aujourd’hui nous le rappelle par l’Évangile et par ses messagers. C’est une nouvelle qui ne peut nous laisser indifférents. Si elle est vraie, tout est changé. Si elle est vraie, elle me concerne moi aussi. Alors, comme les bergers, je dois dire moi aussi : Allez, je veux aller à Bethléem et voir la Parole qui, là, est advenue. L’Évangile ne nous raconte pas sans raison l’histoire des bergers. Ces derniers nous montrent comment répondre de façon juste à ce message qui nous est aussi adressé. Que nous disent alors ces premiers témoins de l’incarnation de Dieu ?

Des bergers, il est dit avant tout qu’ils étaient des personnes vigilantes et que le message pouvait les rejoindre précisément parce qu’ils étaient éveillés. Nous devons nous réveiller, parce que le message est arrivé jusqu’à nous. Nous devons devenir des personnes vraiment vigilantes. Qu’est-ce que cela signifie ? La différence entre celui qui rêve et celui qui est éveillé consiste tout d’abord dans le fait que celui rêve se trouve dans un monde particulier. Avec son moi, il est enfermé dans ce monde du rêve qui, justement, n’est que le sien et ne le relie pas aux autres. Se réveiller signifie sortir de cet état particulier du moi et entrer dans la réalité commune, dans la vérité qui, seule, nous unit tous. Les conflits dans le monde, les difficultés relationnelles proviennent du fait que nous sommes enfermés dans nos propres intérêts et dans nos opinions personnelles, dans notre minuscule monde intérieur. L’égoïsme, celui du groupe comme celui de l’individu, nous tient prisonnier de nos intérêts et de nos désirs, qui s’opposent à la vérité et nous séparent les uns des autres. Réveillez-vous, nous dit l’Évangile. Venez dehors pour entrer dans la grande vérité commune, dans la communion de l’unique Dieu. Se réveiller signifie ainsi développer sa sensibilité pour Dieu, pour les signes silencieux par lesquels il veut nous guider, pour les multiples indices de sa présence. Il y a des personnes qui disent être « religieusement privées d’oreille musicale ». L’aptitude à percevoir Dieu semble presque un don qui est refusé à certains. Et en effet – notre manière de penser et d’agir, la mentalité du monde contemporain, l’éventail de nos diverses expériences sont de nature à affaiblir la sensibilité à Dieu, à nous « priver d’oreille musicale » pour Lui. Et pourtant dans toute âme est présente, de façon cachée ou ouverte, l’attente de Dieu, la capacité de le rencontrer. Pour obtenir cette vigilance, cet éveil à l’essentiel, nous voulons prier, pour nous-mêmes et pour les autres, pour ceux qui semblent être « privés d’oreille musicale » et chez qui, cependant, le désir que Dieu se manifeste est vif. Le grand théologien Origène a dit : si j’avais eu la grâce de voir comme a vu Paul, je pourrais à présent (durant la Liturgie) contempler une multitude d’anges (cf. in Lc 23, 9). En effet – dans la sainte Liturgie, les anges de Dieu et les saints nous entourent. Le Seigneur lui-même est présent au milieu de nous. Seigneur, ouvre les yeux de nos cœurs, afin que nous devenions vigilants et voyants et qu’ainsi nous puissions aussi porter ta proximité aux autres.

Revenons à l’Évangile de Noël. Celui-ci nous raconte que les bergers, après avoir entendu le message de l’ange, se dirent l’un à l’autre : « Allons jusqu’à Bethléem … Ils y allèrent, sans délai » (Lc 2, 15ss). « Il se hâtèrent » dit littéralement le texte grec. Ce qui leur avait été annoncé était si important qu’ils devaient se mettre en route immédiatement. En effet, ce qui leur avait été dit là, allait absolument au-delà de l’ordinaire. Cela changeait le monde. Le Sauveur est né. Le Fils de David attendu est venu au monde dans sa ville. Que pouvait-il y avoir de plus important ? Bien sûr, la curiosité les poussait aussi, mais par-dessus tout la fébrilité liée à la grande réalité qui leur avait été communiquée précisément à eux, des petits et des hommes apparemment insignifiants. Ils se pressèrent – sans hésitation. Dans notre vie ordinaire, il n’en va pas ainsi. La majorité des hommes ne considère pas comme prioritaires les affaires de Dieu, celles-ci ne nous pressent pas immédiatement. Et nous aussi, pour l’immense majorité, nous sommes disposés à les renvoyer à plus tard. Avant tout nous faisons ce qui, ici et maintenant, apparaît urgent. Dans la liste des priorités, Dieu se retrouve souvent presqu’à la dernière place. Il sera toujours temps – pense-t-on – de s’en préoccuper. L’Évangile nous dit : Dieu a la plus grande priorité. Si quelque chose dans notre vie mérite urgence, c’est, alors, seulement la cause de Dieu. Une maxime de la Règle de saint Benoît dit : « Ne rien placer avant l’œuvre de Dieu (c’est-à-dire avant l’office divin) ». La Liturgie est, pour les moines, la priorité première. Tout le reste vient après. Toutefois, au fond, cette phrase vaut pour chaque homme. Dieu est important, il est dans l’absolu la réalité la plus importante de notre vie. C’est précisément cette priorité que nous enseignent les bergers. Nous voulons apprendre d’eux à ne pas nous laisser écraser par toutes les choses urgentes de la vie quotidienne. Nous voulons apprendre d’eux la liberté intérieure de mettre au second plan les autres occupations – pour importantes qu’elles soient – pour nous approcher de Dieu, pour le laisser entrer dans notre vie et dans notre temps. Le temps consacré à Dieu et, à partir de Lui, à notre prochain n’est jamais du temps perdu. C’est le temps dans lequel nous vivons vraiment, dans lequel nous vivons en tant que personnes humaines.

Certains commentateurs font remarquer que ce sont, en premier lieu, les bergers, les âmes simples qui sont venus auprès de Jésus dans la crèche et qui ont pu rencontrer le Rédempteur du monde. Les sages venus d’Orient, les représentants de ceux qui ont rang et renommée, viendront beaucoup plus tard. Les commentateurs ajoutent : ceci va de soi. Les bergers, en effet, habitaient à côté. Ceux-ci n’avaient qu’à « traverser » (cf. Lc 2, 15) comme on parcourt une courte distance pour se rendre chez les voisins. Les savants, en revanche, habitaient loin. Ceux-ci devaient parcourir un chemin long et difficile, pour arriver à Bethléem. Et ils avaient besoin d’un guide et d’indication. Eh bien, aujourd’hui encore, existent des âmes simples et humbles qui demeurent toutes proches du Seigneur. Celles-ci sont, pour ainsi dire, ses voisins et peuvent facilement aller chez Lui. Mais la majeure partie de nous, hommes modernes, vit loin de Jésus Christ, de Celui qui s’est fait homme, du Dieu venu au milieu de nous. Nous vivons dans les réflexions, dans les affaires et dans les occupations qui nous absorbent entièrement et depuis lesquelles le chemin vers la crèche est très long. De multiples manières, Dieu doit sans cesse nous pousser et nous aider, afin que nous puissions sortir de l’enchevêtrement de nos pensées et de nos engagements et trouver le chemin qui va vers Lui. Mais pour tous, il y a un chemin. Pour tous, le Seigneur dispose des signes adaptés à chacun. Il nous appelle tous, pour que nous aussi puissions dire : Allons, « traversons », allons jusqu’à Bethléem – vers ce Dieu, qui est venu à notre rencontre. Oui, Dieu s’est mis en chemin vers nous. De nous-mêmes, nous ne pourrions le rejoindre. Le chemin dépasse nos forces. Mais Dieu est descendu. Il vient à notre rencontre. Il a parcouru la plus grande partie du chemin. Maintenant, il nous demande : Venez et voyez combien je vous aime. Venez et voyez que je suis ici. Transeamus usque Bethleem, dit la Bible latine. Allons ! Dépassons-nous nous-mêmes ! Faisons-nous, de mille manières, voyageurs vers Dieu en étant intérieurement en route vers Lui. Mais aussi par des chemins très concrets – dans la Liturgie de l’Église, dans le service du prochain, où le Christ m’attend.

Écoutons encore une fois directement l’Évangile. Les bergers se dirent l’un à l’autre la raison pour laquelle ils se mettent en chemin : « Voyons ce qui est arrivé ». Littéralement, le texte grec dit : « Voyons cette Parole, qui, là, est advenue ». Oui, telle est la nouveauté de cette nuit : la Parole peut être contemplée. Puisqu’elle s’est faite chair. Ce Dieu dont on ne doit faire aucune image, parce que toute image ne pourrait que l’amoindrir, et même le déformer, ce Dieu s’est rendu, Lui-même, visible en Celui qui est sa véritable image, comme dit Paul (cf. 2 Co 4, 4 ; Col 1, 15). Dans la figure de Jésus Christ, dans toute sa vie et son agir, dans sa mort et dans sa résurrection, nous pouvons regarder la Parole de Dieu et donc le mystère du Dieu vivant Lui-même. Dieu est ainsi. L’ange avait dit aux bergers : « Voilà le signe qui vous est donné : vous trouverez un nouveau-né emmailloté et couché dans une mangeoire » (Lc 2, 12 ; cf. 16). Le signe de Dieu, le signe qui est donné aux bergers et à nous, n’est pas un miracle bouleversant. Le signe de Dieu est son humilité. Le signe de Dieu est qu’Il se fait petit ; devient enfant ; se laisse toucher et sollicite notre amour. Comme nous désirerions, nous les hommes, un signe différent, un signe imposant, irréfutable du pouvoir de Dieu et de sa grandeur. Mais son signe nous invite à la foi et à l’amour, et en conséquence, nous donne l’espérance : ainsi est Dieu. Il possède le pouvoir et Il est la Bonté. Il nous invite à devenir semblables à Lui. Oui, nous devenons semblables à Dieu, si nous nous laissons façonner par ce signe ; si nous apprenons, nous-mêmes, l’humilité et ainsi la vraie grandeur ; si nous renonçons à la violence et ne recourrons qu’aux seules armes de la vérité et de l’amour. Origène, suivant une parole de Jean-Baptiste, a vu l’expression de l’essence du paganisme dans le symbole de la pierre : le paganisme est un manque de sensibilité, il signifie un cœur de pierre qui est incapable d’aimer et de percevoir l’amour de Dieu. Origène dit des païens : « Privés de sentiment et de raison, ils se transforment en pierres et en bois » (in Lc 22,9). Le Christ veut, cependant, nous donner un cœur de chair. Quand nous le voyons Lui, le Dieu qui est devenu enfant, notre cœur s’ouvre. Dans la Liturgie de la Sainte Nuit, Dieu vient à nous en tant qu’homme, afin que nous devenions vraiment humains. Écoutons encore Origène : « En effet, à quoi bon pour toi que le Christ soit venu une fois dans la chair, s’Il ne venait pas jusqu’en ton âme ? Prions pour qu’il vienne quotidiennement à nous et que nous puissions dire : je vis, mais ce n’est plus moi, c’est le Christ qui vit en moi (Ga 2, 20) » (in Lc 22,3).

Oui, nous voulons prier pour cela au cours de cette Sainte Nuit. Seigneur Jésus Christ, toi qui es né à Bethléem, viens à nous ! Entre en moi, dans mon âme. Transforme-moi. Renouvelle-moi. Fais que moi et nous tous, de pierre et de bois, devenions des personnes vivantes, dans lesquelles ton amour se rende présent et le monde soit transformé.

[01936-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters!

"A child is born for us, a son is given to us" (Is 9:5). What Isaiah prophesied as he gazed into the future from afar, consoling Israel amid its trials and its darkness, is now proclaimed to the shepherds as a present reality by the Angel, from whom a cloud of light streams forth: "To you is born this day in the city of David a Saviour, who is Christ the Lord" (Lk 2:11). The Lord is here. From this moment, God is truly "God with us". No longer is he the distant God who can in some way be perceived from afar, in creation and in our own consciousness. He has entered the world. He is close to us. The words of the risen Christ to his followers are addressed also to us: "Lo, I am with you always, to the close of the age" (Mt 28:20). For you the Saviour is born: through the Gospel and those who proclaim it, God now reminds us of the message that the Angel announced to the shepherds. It is a message that cannot leave us indifferent. If it is true, it changes everything. If it is true, it also affects me. Like the shepherds, then, I too must say: Come on, I want to go to Bethlehem to see the Word that has occurred there. The story of the shepherds is included in the Gospel for a reason. They show us the right way to respond to the message that we too have received. What is it that these first witnesses of God’s incarnation have to tell us?

The first thing we are told about the shepherds is that they were on the watch – they could hear the message precisely because they were awake. We must be awake, so that we can hear the message. We must become truly vigilant people. What does this mean? The principal difference between someone dreaming and someone awake is that the dreamer is in a world of his own. His "self" is locked into this dreamworld that is his alone and does not connect him with others. To wake up means to leave that private world of one’s own and to enter the common reality, the truth that alone can unite all people. Conflict and lack of reconciliation in the world stem from the fact that we are locked into our own interests and opinions, into our own little private world. Selfishness, both individual and collective, makes us prisoners of our interests and our desires that stand against the truth and separate us from one another. Awake, the Gospel tells us. Step outside, so as to enter the great communal truth, the communion of the one God. To awake, then, means to develop a receptivity for God: for the silent promptings with which he chooses to guide us; for the many indications of his presence. There are people who describe themselves as "religiously tone deaf". The gift of a capacity to perceive God seems as if it is withheld from some. And indeed – our way of thinking and acting, the mentality of today’s world, the whole range of our experience is inclined to deaden our receptivity for God, to make us "tone deaf" towards him. And yet in every soul, the desire for God, the capacity to encounter him, is present, whether in a hidden way or overtly. In order to arrive at this vigilance, this awakening to what is essential, we should pray for ourselves and for others, for those who appear "tone deaf" and yet in whom there is a keen desire for God to manifest himself. The great theologian Origen said this: if I had the grace to see as Paul saw, I could even now (during the Liturgy) contemplate a great host of angels (cf. in Lk 23:9). And indeed, in the sacred liturgy, we are surrounded by the angels of God and the saints. The Lord himself is present in our midst. Lord, open the eyes of our hearts, so that we may become vigilant and clear-sighted, in this way bringing you close to others as well!

Let us return to the Christmas Gospel. It tells us that after listening to the Angel’s message, the shepherds said one to another: "‘Let us go over to Bethlehem’ … they went at once" (Lk 2:15f.). "They made haste" is literally what the Greek text says. What had been announced to them was so important that they had to go immediately. In fact, what had been said to them was utterly out of the ordinary. It changed the world. The Saviour is born. The long-awaited Son of David has come into the world in his own city. What could be more important? No doubt they were partly driven by curiosity, but first and foremost it was their excitement at the wonderful news that had been conveyed to them, of all people, to the little ones, to the seemingly unimportant. They made haste – they went at once. In our daily life, it is not like that. For most people, the things of God are not given priority, they do not impose themselves on us directly And so the great majority of us tend to postpone them. First we do what seems urgent here and now. In the list of priorities God is often more or less at the end. We can always deal with that later, we tend to think. The Gospel tells us: God is the highest priority. If anything in our life deserves haste without delay, then, it is God’s work alone. The Rule of Saint Benedict contains this teaching: "Place nothing at all before the work of God (i.e. the divine office)". For monks, the Liturgy is the first priority. Everything else comes later. In its essence, though, this saying applies to everyone. God is important, by far the most important thing in our lives. The shepherds teach us this priority. From them we should learn not to be crushed by all the pressing matters in our daily lives. From them we should learn the inner freedom to put other tasks in second place – however important they may be – so as to make our way towards God, to allow him into our lives and into our time. Time given to God and, in his name, to our neighbour is never time lost. It is the time when we are most truly alive, when we live our humanity to the full.

Some commentators point out that the shepherds, the simple souls, were the first to come to Jesus in the manger and to encounter the Redeemer of the world. The wise men from the East, representing those with social standing and fame, arrived much later. The commentators go on to say: this is quite natural. The shepherds lived nearby. They only needed to "come over" (cf. Lk 2:15), as we do when we go to visit our neighbours. The wise men, however, lived far away. They had to undertake a long and arduous journey in order to arrive in Bethlehem. And they needed guidance and direction. Today too there are simple and lowly souls who live very close to the Lord. They are, so to speak, his neighbours and they can easily go to see him. But most of us in the world today live far from Jesus Christ, the incarnate God who came to dwell amongst us. We live our lives by philosophies, amid worldly affairs and occupations that totally absorb us and are a great distance from the manger. In all kinds of ways, God has to prod us and reach out to us again and again, so that we can manage to escape from the muddle of our thoughts and activities and discover the way that leads to him. But a path exists for all of us. The Lord provides everyone with tailor-made signals. He calls each one of us, so that we too can say: "Come on, ‘let us go over’ to Bethlehem – to the God who has come to meet us. Yes indeed, God has set out towards us. Left to ourselves we could not reach him. The path is too much for our strength. But God has come down. He comes towards us. He has travelled the longer part of the journey. Now he invites us: come and see how much I love you. Come and see that I am here. Transeamus usque Bethlehem, the Latin Bible says. Let us go there! Let us surpass ourselves! Let us journey towards God in all sorts of ways: along our interior path towards him, but also along very concrete paths – the Liturgy of the Church, the service of our neighbour, in whom Christ awaits us.

Let us once again listen directly to the Gospel. The shepherds tell one another the reason why they are setting off: "Let us see this thing that has happened." Literally the Greek text says: "Let us see this Word that has occurred there." Yes indeed, such is the radical newness of this night: the Word can be seen. For it has become flesh. The God of whom no image may be made – because any image would only diminish, or rather distort him – this God has himself become visible in the One who is his true image, as Saint Paul puts it (cf. 2 Cor 4:4; Col 1:15). In the figure of Jesus Christ, in the whole of his life and ministry, in his dying and rising, we can see the Word of God and hence the mystery of the living God himself. This is what God is like. The Angel had said to the shepherds: "This will be a sign for you: you will find a babe wrapped in swaddling clothes and lying in a manger" (Lk 2:12; cf. 2:16). God’s sign, the sign given to the shepherds and to us, is not an astonishing miracle. God’s sign is his humility. God’s sign is that he makes himself small; he becomes a child; he lets us touch him and he asks for our love. How we would prefer a different sign, an imposing, irresistible sign of God’s power and greatness! But his sign summons us to faith and love, and thus it gives us hope: this is what God is like. He has power, he is Goodness itself. He invites us to become like him. Yes indeed, we become like God if we allow ourselves to be shaped by this sign; if we ourselves learn humility and hence true greatness; if we renounce violence and use only the weapons of truth and love. Origen, taking up one of John the Baptist’s sayings, saw the essence of paganism expressed in the symbol of stones: paganism is a lack of feeling, it means a heart of stone that is incapable of loving and perceiving God’s love. Origen says of the pagans: "Lacking feeling and reason, they are transformed into stones and wood" (in Lk 22:9). Christ, though, wishes to give us a heart of flesh. When we see him, the God who became a child, our hearts are opened. In the Liturgy of the holy night, God comes to us as man, so that we might become truly human. Let us listen once again to Origen: "Indeed, what use would it be to you that Christ once came in the flesh if he did not enter your soul? Let us pray that he may come to us each day, that we may be able to say: I live, yet it is no longer I that live, but Christ lives in me (Gal 2:20)" (in Lk 22:3).

Yes indeed, that is what we should pray for on this Holy Night. Lord Jesus Christ, born in Bethlehem, come to us! Enter within me, within my soul. Transform me. Renew me. Change me, change us all from stone and wood into living people, in whom your love is made present and the world is transformed. Amen.

[01936-02.01] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

„Ein Kind ist uns geboren, ein Sohn ist uns geschenkt" (Jes 9, 5). Was Jesaja von weitem, ins Kommende blickend, Israel zum Trost in seinen Bedrängnissen und Dunkelheiten sagt, das verkündet der Engel, von dem eine Wolke des Lichts ausgeht, den Hirten als Gegenwart: „Heute ist euch in der Stadt Davids ein Retter geboren, Christus, der Herr" (Lk 2, 11). Der Herr ist da. Gott ist von nun an wirklich ein „Gott mit uns". Er ist nicht mehr der ferne Gott, den man irgendwie durch die Schöpfung hindurch und durch das Gewissen von weitem ahnen kann. Er ist in die Welt hereingetreten. Er ist der Nahe. Der auferstandene Christus hat es den Seinigen – uns – gesagt: „Siehe, ich bin bei euch alle Tage bis zum Ende der Welt" (Mt 28, 20). Euch ist der Heiland geboren: Was der Engel den Hirten verkündete, ruft uns Gott durch das Evangelium und durch seine Boten jetzt zu. Dies ist eine Nachricht, die uns nicht gleichgültig lassen kann. Wenn sie wahr ist, ist alles anders. Wenn sie wahr ist, betrifft sie auch mich. Dann muß auch ich wie die Hirten sagen: Auf, ich will hingehen nach Bethlehem und das Wort sehen, das da geschehen ist. Das Evangelium erzählt uns nicht umsonst die Geschichte von den Hirten. Sie zeigen uns, wie wir recht auf die Botschaft antworten, die auch an uns ergeht. Was also sagen sie uns, diese ersten Zeugen der Menschwerdung Gottes?

Von den Hirten wird zunächst gesagt, daß sie Wachende waren und daß die Botschaft sie eben deshalb erreichen konnte, weil sie wach waren. Wir müssen aufwachen, damit die Botschaft zu uns kommt. Wir müssen wirklich Wachende werden. Was heißt das? Der Unterschied zwischen einem Träumenden und einem Wachenden besteht zunächst darin, daß der Träumer sich in einer Sonderwelt befindet. Er ist mit seinem Ich eingeschlossen in diese Welt des Traums, die eben nur seine ist und ihn nicht mit den anderen verbindet. Wachwerden bedeutet, Heraustreten aus der Sonderwelt des Ich in die gemeinsame Wirklichkeit, in die Wahrheit, die allein uns alle eint. Der Streit in der Welt, die Unversöhnlichkeit miteinander rührt davon her, daß wir eingeschlossen sind in die eigenen Interessen und Meinungen, in unsere eigene winzige Sonderwelt. Der Egoismus, der Gruppenegoismus wie der Egoismus des einzelnen hält uns in unseren Interessen und Wünschen gefangen, die gegen die Wahrheit stehen und uns voneinander trennen. Wacht auf – sagt uns das Evangelium. Tretet heraus in die gemeinsame große Wahrheit, in die Gemeinsamkeit des einen Gottes. Wachwerden bedeutet so, den Sinn für Gott entwickeln. Für seine leisen Winke, mit denen er uns führen will. Für die vielfältigen Zeichen seiner Gegenwart. Manche Menschen sagen von sich, daß sie „religiös unmusikalisch" seien. Die Wahrnehmungsfähigkeit für Gott scheint wie eine Begabung, die einigen vorenthalten ist. Und in der Tat – die Art unseres Denkens und Handelns, der Denkstil der heutigen Welt, unsere ganzen Erlebnisfelder sind geeignet, den Sinn für Gott abzustumpfen, uns für ihn „unmusikalisch" zu machen. Und doch ist in jeder Seele verborgen oder offen das Warten auf Gott da, die Fähigkeit, ihm zu begegnen. Um diese Wachheit, dieses Erwachen für das Eigentliche wollen wir beten, für uns selbst und für die anderen, für die scheinbar „Unmusikalischen", in denen doch die Sehnsucht lebt, Gott möge sich zeigen. Der große Theologe Origenes hat einmal gesagt: Wenn ich die Gnade hätte zu sehen, wie Paulus sah, könnte ich jetzt (während der Liturgie) eine große Schar von Engeln schauen (vgl. in Lc 23, 9). In der Tat – in der heiligen Liturgie stehen Gottes Engel und Heilige um uns. Der Herr selbst ist in unserer Mitte da. Herr, öffne die Augen unserer Herzen, damit wir wachend und sehend werden und so auch anderen deine Nähe zu bringen vermögen.

Kehren wir zum Weihnachtsevangelium zurück. Es erzählt uns, daß die Hirten, nachdem sie die Botschaft des Engels vernommen hatten, zueinander sagten: „'Kommt, wir gehen nach Betlehem' … So eilten sie hin" (Lk 2, 15f). Ja, sie eilten. Was ihnen da verkündet worden war, war so wichtig, daß sie sofort gehen mußten. In der Tat, was ihnen da gesagt wurde, ging über alles Gewöhnliche hinaus. Es veränderte die Welt. Der Erlöser ist geboren. Der erwartete Sohn Davids ist in seiner Stadt zur Welt gekommen. Was konnte es Wichtigeres geben? Gewiß, auch die Neugier trieb sie, aber doch vor allem die Erregung über das Große, das gerade ihnen, den Kleinen und scheinbar unwichtigen Menschen, gesagt worden war. Sie eilten – ohne Aufschub. In unserem durchschnittlichen Leben ist es nicht so. Die Dinge Gottes erscheinen den meisten Menschen nicht vordringlich, sie bedrängen uns nicht unmittelbar. Und so sind wir, die Allermeisten, gern bereit, sie zu verschieben. Zuerst tut man das jetzt und hier Vordringliche. In der Liste der Prioritäten steht Gott häufig so ziemlich an letzter Stelle. Das kann man immer noch tun, so meint man. Das Evangelium sagt uns: Gott hat höchste Priorität. Wenn irgend etwas in unserem Leben Eile ohne Aufschub verdient, dann allein die Sache Gottes. Ein Grundsatz der Regel des heiligen Benedikt lautet: „Dem Werk Gottes (das heißt dem Gottesdienst) darf nichts vorgezogen werden." Der Gottesdienst ist für die Mönche die erste Priorität. Alles andere kommt danach. In seinem Kern gilt dieser Satz aber für jeden Menschen. Gott ist wichtig, das Wichtigste in unserem Leben überhaupt. Diese Priorität lehren uns die Hirten. Von ihnen wollen wir lernen, uns von all den bedrängenden Dingen des Alltags nicht erdrücken zu lassen. Von ihnen wollen wir die innere Freiheit lernen, anderes noch so Wichtiges zurückzustellen, um uns aufzumachen zu Gott, ihn einzulassen in unser Leben und in unsere Zeit. Zeit, die wir für Gott und von ihm her für den Nächsten verwenden, ist nie verlorene Zeit. Es ist die Zeit, in der wir eigentlich leben, in der wir das Menschsein selbst leben.

Manche Kommentatoren machen darauf aufmerksam, daß als erstes die Hirten, die einfachen Seelen zu Jesus an die Krippe gekommen sind und dem Erlöser der Welt begegnen dürfen. Die Weisen aus dem Orient, die Vertreter der Menschen, die Rang und Namen haben, kamen viel später. Die Kommentatoren fügen hinzu: Dies ist ganz natürlich. Denn die Hirten wohnten nebenan. Sie brauchten nur eben „hinüberzugehen" (vgl. Lk 2, 15), wie man zu Nachbarn hinübergeht. Die Weisen dagegen wohnten weit entfernt. Sie mußten einen langen und schwierigen Weg zurücklegen, um nach Bethlehem zu kommen. Und sie brauchten Führung und Weisung dahin. Nun, auch heute gibt es einfache und demütige Seelen, die ganz nah beim Herrn wohnen. Die sozusagen seine Nachbarn sind und leicht zu ihm hinübergehen können. Aber die meisten von uns modernen Menschen wohnen weit weg von Jesus Christus, dem Menschgewordenen, dem zu uns gekommenen Gott. Wir leben in Philosophien, in Geschäften und Arbeiten, die uns ganz ausfüllen und von denen aus der Weg zur Krippe weit ist. Gott muß uns auf vielerlei Weise immer wieder anstoßen und nachhelfen, damit wir aus dem Gestrüpp unseres Denkens und unserer Aufgaben herausfinden, hinfinden zu ihm. Aber für alle gibt es einen Weg. Allen gibt der Herr die ihnen gemäßen Zeichen. Uns alle ruft er, damit auch wir sagen können: Auf, gehen wir hinüber nach Bethlehem – zu dem Gott, der uns entgegengegangen ist. Ja, Gott hat sich auf den Weg zu uns gemacht. Wir könnten von uns aus nicht zu ihm kommen. Der Weg übersteigt unsere Kraft. Aber Gott ist abgestiegen. Er geht uns entgegen. Er ist das größere Stück des Weges gegangen. Nun bittet er uns: Kommt und seht, wie ich euch liebe. Kommt und seht, daß ich da bin. Transeamus usque Bethleem, heißt es in der lateinischen Bibel. Gehen wir hinüber. Überschreiten wir uns selbst. Werden wir Wanderer zu Gott hin auf vielfältige Weise: im inneren Unterwegssein zu ihm. Aber doch auch in ganz praktischen Wegen – hin zur Liturgie der Kirche, zum Dienst am Nächsten, in dem Christus auf mich wartet.

Hören wir noch einmal dem Evangelium direkt zu. Die Hirten sagen zueinander, warum sie sich auf den Weg machen: „…um das Ereignis zu sehen, das uns der Herr verkünden ließ". Wörtlich nach dem griechischen Text heißt es: Sehen wir dieses Wort, das da geschehen ist. Ja, das ist das Neue dieser Nacht: Das Wort kann man ansehen. Denn es ist Fleisch geworden. Der Gott, von dem man kein Bild machen darf, weil jedes Bild ihn nur verkleinern, ja, entstellen würde, hat sich selbst zu sehen gegeben in dem, der sein wahres Bild ist, wie Paulus sagt (2 Kor 4, 4; Kol 1, 15). In der Gestalt Jesu Christi, in seinem ganzen Leben und Wirken, in seinem Sterben und Auferstehen können wir das Wort Gottes und so das Geheimnis des lebendigen Gottes selbst ansehen. So ist Gott. Der Engel hatte den Hirten gesagt: Dies soll euch zum Zeichen sein. Ihr werdet ein Kind finden, eingewickelt in Windeln, das in einer Krippe liegt (Lk 2, 12. 16). Das Zeichen Gottes, das Zeichen, das den Hirten und uns gegeben wird, ist kein aufregendes Wunder. Das Zeichen Gottes ist seine Demut. Das Zeichen Gottes ist, daß er sich klein macht. Daß er zum Kind wird. Daß er sich anrühren läßt und um unsere Liebe bittet. Wie sehr würden wir Menschen ein anderes, mächtiges und unwidersprechliches Zeichen der Macht Gottes und seiner Größe wünschen. Aber sein Zeichen lädt uns zum Glauben und zur Liebe ein und gibt uns darum Hoffnung: So ist Gott. Er hat die Macht, und er ist die Güte. Er lädt uns ein, ihm ähnlich zu werden. Ja, wir werden Gott ähnlich, wenn wir uns von diesem Zeichen formen lassen. Wenn wir selbst die Demut und so die wahre Größe lernen. Wenn wir der Gewalt entsagen und nur die Waffen der Wahrheit und der Liebe benützen. Origenes hat – einem Wort Johannes des Täufers folgend – das Wesen des Heidentums im Bild der Steine ausgedrückt gesehen: Heidentum ist Fühllosigkeit, bedeutet ein Herz aus Stein, das unfähig ist zu lieben und die Liebe Gottes wahrzunehmen. Von den Heiden sagt er: „Gefühl- und vernunftlos verwandeln sie sich in Steine und Holz" (in Lc 22, 9). Christus aber will uns ein Herz aus Fleisch geben. Wenn wir ihn, den Gott, sehen, der ein Kind geworden ist, geht uns das Herz auf. In der Liturgie der heiligen Nacht kommt Gott als Mensch zu uns, damit wir wahrhaft menschlich werden. Hören wir noch einmal Origenes: „In der Tat, was würde es dir nützen, wenn Christus einst im Fleische kam, wenn er nicht bis in deine Seele kommt? Laßt uns darum beten, daß er täglich zu uns komme und daß wir sagen können: Ich lebe, aber nicht mehr ich, sondern Christus lebt in mir (Gal 2, 20)" (in Lc 22, 3).

Ja, darum wollen wir in dieser heiligen Nacht beten. Herr Jesus Christus, der du in Bethlehem geboren wurdest, komm zu uns. Tritt in mich, in meine Seele ein. Verwandle mich. Erneuere mich. Mache mich und uns alle aus Stein und Holz zu lebendigen Menschen, in denen deine Liebe gegenwärtig und die Welt verwandelt wird. Amen.

[01936-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos y hermanas

«Un niño nos ha nacido, un hijo se nos ha dado» (Is 9,5). Lo que, mirando desde lejos hacia el futuro, dice Isaías a Israel como consuelo en su angustia y oscuridad, el Ángel, del que emana una nube de luz, lo anuncia a los pastores como ya presente: «Hoy, en la ciudad de David, os ha nacido un Salvador: el Mesías, el Señor» (Lc 2,11). El Señor está presente. Desde este momento, Dios es realmente un «Dios con nosotros». Ya no es el Dios lejano que, mediante la creación y a través de la conciencia, se puede intuir en cierto modo desde lejos. Él ha entrado en el mundo. Es quien está a nuestro lado. Cristo resucitado lo dijo a los suyos, nos lo dice a nosotros: «Sabed que yo estoy con vosotros todos los días, hasta el fin del mundo» (Mt 28,20). Por vosotros ha nacido el Salvador: lo que el Ángel anunció a los pastores, Dios nos lo vuelve a decir ahora por medio del Evangelio y de sus mensajeros. Ésta es una noticia que no puede dejarnos indiferentes. Si es verdadera, todo cambia. Si es cierta, también me afecta a mí. Y, entonces, también yo debo decir como los pastores: Vayamos, quiero ir derecho a Belén y ver la Palabra que ha sucedido allí. El Evangelio no nos narra la historia de los pastores sin motivo. Ellos nos enseñan cómo responder de manera justa al mensaje que se dirige también a nosotros. ¿Qué nos dicen, pues, estos primeros testigos de la encarnación de Dios?

Ante todo, se dice que los pastores eran personas vigilantes, y que el mensaje les pudo llegar precisamente porque estaban velando. Nosotros hemos de despertar para que nos llegue el mensaje. Hemos de convertirnos en personas realmente vigilantes. ¿Qué significa esto? La diferencia entre uno que sueña y uno que está despierto consiste ante todo en que, quien sueña, está en un mundo muy particular. Con su yo, está encerrado en este mundo del sueño que, obviamente, es solamente suyo y no lo relaciona con los otros. Despertarse significa salir de dicho mundo particular del yo y entrar en la realidad común, en la verdad, que es la única que nos une a todos. El conflicto en el mundo, la imposibilidad de conciliación recíproca, es consecuencia del estar encerrados en nuestros propios intereses y en las opiniones personales, en nuestro minúsculo mundo privado. El egoísmo, tanto del grupo como el individual, nos tiene prisionero de nuestros intereses y deseos, que contrastan con la verdad y nos dividen unos de otros. Despertad, nos dice el Evangelio. Salid fuera para entrar en la gran verdad común, en la comunión del único Dios. Así, despertarse significa desarrollar la sensibilidad para con Dios; para los signos silenciosos con los que Él quiere guiarnos; para los múltiples indicios de su presencia. Hay quien dice «no tener religiosamente oído para la música». La capacidad perceptiva para con Dios parece casi una dote para la que algunos están negados. Y, en efecto, nuestra manera de pensar y actuar, la mentalidad del mundo actual, la variedad de nuestras diversas experiencias, son capaces de reducir la sensibilidad para con Dios, de dejarnos «sin oído musical» para Él. Y, sin embargo, de modo oculto o patente, en cada alma hay un anhelo de Dios, la capacidad de encontrarlo. Para conseguir esta vigilancia, este despertar a lo esencial, roguemos por nosotros mismos y por los demás, por los que parecen «no tener este oído musical» y en los cuales, sin embargo, está vivo el deseo de que Dios se manifieste. El gran teólogo Orígenes dijo: si yo tuviera la gracia de ver como vio Pablo, podría ahora (durante la Liturgia) contemplar un gran ejército de Ángeles (cf. In Lc 23,9). En efecto, en la sagrada Liturgia, los Ángeles de Dios y los Santos nos rodean. El Señor mismo está presente entre nosotros. Señor, abre los ojos de nuestro corazón, para que estemos vigilantes y con ojo avizor, y podamos llevar así tu cercanía a los demás.

Volvamos al Evangelio de Navidad. Nos dice que los pastores, después de haber escuchado el mensaje del Ángel, se dijeron uno a otro: «Vamos derechos a Belén... Fueron corriendo» (Lc 2,15s.). Se apresuraron, dice literalmente el texto griego. Lo que se les había anunciado era tan importante que debían ir inmediatamente. En efecto, lo que se les había dicho iba mucho más allá de lo acostumbrado. Cambiaba el mundo. Ha nacido el Salvador. El Hijo de David tan esperado ha venido al mundo en su ciudad. ¿Qué podía haber de mayor importancia? Ciertamente, les impulsaba también la curiosidad, pero sobre todo la conmoción por la grandeza de lo que se les había comunicado, precisamente a ellos, los sencillos y personas aparentemente irrelevantes. Se apresuraron, sin demora alguna. En nuestra vida ordinaria las cosas no son así. La mayoría de los hombres no considera una prioridad las cosas de Dios, no les acucian de modo inmediato. Y también nosotros, como la inmensa mayoría, estamos bien dispuestos a posponerlas. Se hace ante todo lo que aquí y ahora parece urgente. En la lista de prioridades, Dios se encuentra frecuentemente casi en último lugar. Esto – se piensa – siempre se podrá hacer. Pero el Evangelio nos dice: Dios tiene la máxima prioridad. Así, pues, si algo en nuestra vida merece premura sin tardanza, es solamente la causa de Dios. Una máxima de la Regla de San Benito, reza: «No anteponer nada a la obra de Dios (es decir, al Oficio divino)». Para los monjes, la liturgia es lo primero. Todo lo demás va después. Y en lo fundamental, esta frase es válida para cada persona. Dios es importante, lo más importante en absoluto en nuestra vida. Ésta es la prioridad que nos enseñan precisamente los pastores. Aprendamos de ellos a no dejarnos subyugar por todas las urgencias de la vida cotidiana. Queremos aprender de ellos la libertad interior de poner en segundo plano otras ocupaciones – por más importantes que sean – para encaminarnos hacia Dios, para dejar que entre en nuestra vida y en nuestro tiempo. El tiempo dedicado a Dios y, por Él, al prójimo, nunca es tiempo perdido. Es el tiempo en el que vivimos verdaderamente, en el que vivimos nuestro ser personas humanas.

Algunos comentaristas hacen notar que los pastores, las almas sencillas, han sido los primeros en ir a ver a Jesús en el pesebre y han podido encontrar al Redentor del mundo. Los sabios de Oriente, los representantes de quienes tienen renombre y alcurnia, llegaron mucho más tarde. Y los comentaristas añaden que esto es del todo obvio. En efecto, los pastores estaban allí al lado. No tenían más que «atravesar» (cf. Lc 2,15), como se atraviesa un corto trecho para ir donde un vecino. Por el contrario, los sabios vivían lejos. Debían recorrer un camino largo y difícil para llegar a Belén. Y necesitaban guía e indicaciones. Pues bien, también hoy hay almas sencillas y humildes que viven muy cerca del Señor. Por decirlo así, son sus vecinos, y pueden ir a encontrarlo fácilmente. Pero la mayor parte de nosotros, hombres modernos, vive lejos de Jesucristo, de Aquel que se ha hecho hombre, del Dios que ha venido entre nosotros. Vivimos en filosofías, en negocios y ocupaciones que nos llenan totalmente y desde las cuales el camino hasta el pesebre es muy largo. Dios debe impulsarnos continuamente y de muchos modos, y darnos una mano para que podamos salir del enredo de nuestros pensamientos y de nuestros compromisos, y así encontrar el camino hacia Él. Pero hay sendas para todos. El Señor va poniendo hitos adecuados a cada uno. Él nos llama a todos, para que también nosotros podamos decir: ¡Ea!, emprendamos la marcha, vayamos a Belén, hacia ese Dios que ha venido a nuestro encuentro. Sí, Dios se ha encaminado hacia nosotros. No podríamos llegar hasta Él sólo por nuestra cuenta. La senda supera nuestras fuerzas. Pero Dios se ha abajado. Viene a nuestro encuentro. Él ha hecho el tramo más largo del recorrido. Y ahora nos pide: Venid a ver cuánto os amo. Venid a ver que yo estoy aquí. Transeamus usque Bethleem, dice la Biblia latina. Vayamos allá. Superémonos a nosotros mismos. Hagámonos peregrinos hacia Dios de diversos modos, estando interiormente en camino hacia Él. Pero también a través de senderos muy concretos, en la Liturgia de la Iglesia, en el servicio al prójimo, en el que Cristo me espera.

Escuchemos directamente el Evangelio una vez más. Los pastores se dicen uno a otro el motivo por el que se ponen en camino: «Veamos qué ha pasado». El texto griego dice literalmente: «Veamos esta Palabra que ha ocurrido allí». Sí, ésta es la novedad de esta noche: se puede mirar la Palabra, pues ésta se ha hecho carne. Aquel Dios del que no se debe hacer imagen alguna, porque cualquier imagen sólo conseguiría reducirlo, e incluso falsearlo, este Dios se ha hecho, él mismo, visible en Aquel que es su verdadera imagen, como dice San Pablo (cf. 2 Co 4,4; Col 1,15). En la figura de Jesucristo, en todo su vivir y obrar, en su morir y resucitar, podemos ver la Palabra de Dios y, por lo tanto, el misterio del mismo Dios viviente. Dios es así. El Ángel había dicho a los pastores: «Aquí tenéis la señal: encontraréis un niño envuelto en pañales y acostado en un pesebre» (Lc 2,12; cf. 16). La señal de Dios, la señal que ha dado a los pastores y a nosotros, no es un milagro clamoroso. La señal de Dios es su humildad. La señal de Dios es que Él se hace pequeño; se convierte en niño; se deja tocar y pide nuestro amor. Cuánto desearíamos, nosotros los hombres, un signo diferente, imponente, irrefutable del poder de Dios y su grandeza. Pero su señal nos invita a la fe y al amor, y por eso nos da esperanza: Dios es así. Él tiene el poder y es la Bondad. Nos invita a ser semejantes a Él. Sí, nos hacemos semejantes a Dios si nos dejamos marcar con esta señal; si aprendemos nosotros mismos la humildad y, de este modo, la verdadera grandeza; si renunciamos a la violencia y usamos sólo las armas de la verdad y del amor. Orígenes, siguiendo una expresión de Juan el Bautista, ha visto expresada en el símbolo de las piedras la esencia del paganismo: paganismo es falta de sensibilidad, significa un corazón de piedra, incapaz de amar y percibir el amor de Dios. Orígenes dice que los paganos, «faltos de sentimiento y de razón, se transforman en piedras y madera» (In Lc 22,9). Cristo, en cambio, quiere darnos un corazón de carne. Cuando le vemos a Él, al Dios que se ha hecho niño, se abre el corazón. En la Liturgia de la Noche Santa, Dios viene a nosotros como hombre, para que nosotros nos hagamos verdaderamente humanos. Escuchemos de nuevo a Orígenes: «En efecto, ¿para qué te serviría que Cristo haya venido hecho carne una vez, si Él no llega hasta tu alma? Oremos para venga a nosotros cotidianamente y podamos decir: vivo yo, pero no soy yo, es Cristo quien vive en mí (Ga 2,20)» (In Lc 22,3).

Sí, por esto queremos pedir en esta Noche Santa. Señor Jesucristo, tú que has nacido en Belén, ven con nosotros. Entra en mí, en mi alma. Transfórmame. Renuévame. Haz que yo y todos nosotros, de madera y piedra, nos convirtamos en personas vivas, en las que tu amor se hace presente y el mundo es transformado.

[01936-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs,

«Um Menino nasceu para nós, um filho nos foi concedido» (Is 9, 5). Aquilo que Isaías, olhando de longe para o futuro, diz a Israel como consolação nas suas angústias e obscuridade, o Anjo, de quem emana uma nuvem de luz, anuncia-o aos pastores como presente: «Nasceu-vos hoje, na cidade de David, um Salvador, que é o Messias Senhor» (Lc 2, 11). O Senhor está presente. Desde então, Deus é verdadeiramente um «Deus connosco». Já não é o Deus distante, que, através da criação e por meio da consciência, se pode de algum modo intuir de longe. Ele entrou no mundo. É o Vizinho. Disse-o Cristo ressuscitado aos Seus, a nós: «Eu estou sempre convosco, até ao fim dos tempos» (Mt 28, 20). Nasceu para vós o Salvador: aquilo que o Anjo anunciou aos pastores, Deus no-lo recorda agora por meio do Evangelho e dos seus mensageiros. Trata-se de uma notícia que não nos pode deixar indiferentes. Se é verdadeira, mudou tudo. Se é verdadeira, diz respeito a mim também. Então, como os pastores, devo dizer também eu: Levantemo-nos, quero ir a Belém e ver a Palavra que aconteceu lá. Não é sem intuito que o Evangelho nos narra a história dos pastores. Estes mostram-nos o modo justo como responder àquela mensagem que nos é dirigida também a nós. Que nos dizem então estas primeiras testemunhas da encarnação de Deus?

A respeito dos pastores, diz-se em primeiro lugar que eram pessoas vigilantes e que a mensagem pôde chegar até eles precisamente porque estavam acordados. Nós temos de despertar, para que a mensagem chegue até nós. Devemos tornar-nos pessoas verdadeiramente vigilantes. Que significa isto? A diferença entre um que sonha e outro que está acordado consiste, antes de mais nada, no facto de aquele que sonha se encontrar num mundo particular. Ele está, com o seu eu, fechado neste mundo do sonho que é apenas dele e não o relaciona com os outros. Acordar significa sair desse mundo particular do eu e entrar na realidade comum, na única verdade que a todos une. O conflito no mondo, a recíproca inconciliabilidade derivam do facto de estarmos fechados nos nossos próprios interesses e opiniões pessoais, no nosso próprio e minúsculo mundo privado. O egoísmo, tanto do grupo como do indivíduo, mantém-nos prisioneiros dos nossos interesses e desejos, que contrastam com a verdade e dividem-nos uns dos outros. Acordai: diz-nos o Evangelho. Vinde para fora, a fim de entrar na grande verdade comum, na comunhão do único Deus. Acordar significa, portanto, desenvolver a sensibilidade para com Deus, para com os sinais silenciosos pelos quais Ele quer guiar-nos, para com os múltiplos indícios da sua presença. Há pessoas que se dizem «religiosamente desprovidas de ouvido musical». A capacidade de perceber Deus parece quase uma qualidade que é recusada a alguns. E, realmente, a nossa maneira de pensar e agir, a mentalidade do mundo actual, a gama das nossas diversas experiências parecem talhadas para reduzir a nossa sensibilidade a Deus, para nos tornar «desprovidos de ouvido musical» a respeito d’Ele. E todavia em cada alma está presente de maneira velada ou patente a expectativa de Deus, a capacidade de O encontrar. A fim de obter esta vigilância, este despertar para o essencial, queremos rezar, por nós mesmos e pelos outros, por quantos parecem ser «desprovidos deste ouvido musical» e contudo neles está vivo o desejo de que Deus Se manifeste. O grande teólogo Orígenes disse: Se eu tivesse a graça de ver como viu Paulo, poderia agora (durante a Liturgia) contemplar um falange imensa de Anjos (cf. In Lc 23, 9). De facto, na Liturgia sagrada, rodeiam-nos os Anjos de Deus e os Santos. O próprio Senhor está presente no meio de nós. Senhor, abri os olhos dos nossos corações, para nos tornarmos vigilantes e videntes e assim podermos estender a vossa proximidade também aos outros!

Voltemos ao Evangelho de Natal. Aí se narra que os pastores, depois de ter ouvido a mensagem do Anjo, disseram uns para os outros: «"Vamos até Belém" (…). Partiram então a toda a pressa» (Lc 2, 15s). «Apressaram-se»: diz, literalmente, o texto grego. O que lhes fora anunciado era tão importante que deviam ir imediatamente. Com efeito, o que lhes fora dito ultrapassava totalmente aquilo a que estavam habituados. Mudava o mundo. Nasceu o Salvador. O esperado Filho de David veio ao mundo na sua cidade. Que podia haver de mais importante? Impelia-os certamente a curiosidade, mas sobretudo o alvoroço pela realidade imensa que fora comunicada precisamente a eles, os pequenos e homens aparentemente irrelevantes. Apressaram-se… sem demora. Na nossa vida ordinária, as coisas não acontecem assim. A maioria dos homens não considera prioritárias as coisas de Deus. Estas não nos premem de forma imediata. E assim nós, na grande maioria, estamos prontos a adiá-las. Antes de tudo faz-se aquilo que se apresenta como urgente aqui e agora. No elenco das prioridades, Deus encontra-Se frequentemente quase no último lugar. Isto – pensa-se – poder-se-á realizar sempre. O Evangelho diz-nos: Deus tem a máxima prioridade. Se alguma coisa na nossa vida merece a nossa pressa sem demora, isso só pode ser a causa de Deus. Diz uma máxima da Regra de São Bento: «Nada antepor à obra de Deus (isto é, ao ofício divino)». Para os monges, a Liturgia é a primeira prioridade; tudo o mais vem depois. Mas, no seu núcleo, esta frase vale para todo o homem. Deus é importante, a realidade absolutamente mais importante da nossa vida. É precisamente esta prioridade que nos ensinam os pastores. Deles queremos aprender a não deixar-nos esmagar por todas as coisas urgentes da vida de cada dia. Deles queremos aprender a liberdade interior de colocar em segundo plano outras ocupações – por mais importantes que sejam – a fim de nos encaminharmos para Deus, a fim de O deixarmos entrar na nossa vida e no nosso tempo. O tempo empregue para Deus e, a partir d’Ele, para o próximo nunca é tempo perdido. É o tempo em que vivemos de verdade, em que vivemos o ser próprio de pessoas humanas.

Alguns comentadores observam como os primeiros que vieram ao pé de Jesus na manjedoura e puderam encontrar o Redentor do mundo foram os pastores, as almas simples. Os sábios vindos do Oriente, os representantes daqueles que possuem nível e nome chegaram muito mais tarde. E os comentadores acrescentam: O motivo é totalmente óbvio. De facto, os pastores habitavam perto. Não tinham de fazer mais nada senão «atravessar» (cf. Lc 2, 15), como se atravessa um breve espaço para ir ter com os vizinhos. Ao contrário, os sábios habitavam longe. Tinham de percorrer um caminho longo e difícil para chegar a Belém. E precisavam de guia e de orientação. Pois bem, hoje também existem almas simples e humildes que habitam muito perto do Senhor. São, por assim dizer, os seus vizinhos e podem facilmente ir ter com Ele. Mas a maior parte de nós, homens modernos, vive longe de Jesus Cristo, d’Aquele que Se fez homem, de Deus que veio para o nosso meio. Vivemos em filosofias, em negócios e ocupações que nos enchem totalmente e a partir dos quais o caminho para a manjedoura é muito longo. De variados modos e repetidamente, Deus tem de nos impelir e dar uma mão para podermos sair da enrodilhada dos nossos pensamentos e ocupações e encontrar o caminho para Ele. Mas há um caminho para todos. Para todos, o Senhor estabelece sinais adequados a cada um. Chama-nos a todos, para que nos seja possível também dizer: Levantemo-nos, «atravessemos», vamos a Belém, até junto d’Aquele Deus que veio ao nosso encontro. Sim, Deus encaminhou-Se para nós. Sozinhos, não poderíamos chegar até Ele. O caminho supera as nossas forças. Mas Deus desceu. Vem ao nosso encontro. Percorreu a parte mais longa do caminho. Agora pede-nos: Vinde e vede quanto vos amo. Vinde e vede que Eu estou aqui. Transeamus usque Bethleem: diz a Bíblia latina. Atravessemos para o outro lado! Ultrapassemo-nos a nós mesmos! Façamo-nos viandantes rumo a Deus dos mais variados modos: sentindo-nos interiormente a caminho para Ele; mas também em caminhos muito concretos, como na Liturgia da Igreja, no serviço do próximo onde Cristo me espera.

Ouçamos uma vez mais directamente o Evangelho. Os pastores dizem uns aos outros o motivo por que se põem a caminho: «Vamos ver o que dizem ter sucedido». Literalmente o texto grego diz: «Vejamos esta Palavra, que lá aconteceu». Sim, aqui está a novidade desta noite: a Palavra pode ser vista, porque Se fez carne. Aquele Deus de quem não se deve fazer qualquer imagem, porque toda a imagem poderia apenas reduzi-Lo, antes desvirtuá-Lo, aquele Deus tornou-Se, Ele mesmo, visível n’Aquele que é a sua verdadeira imagem, como diz Paulo (cf. 2 Cor 4, 4; Col 1, 15). Na figura de Jesus Cristo, em todo o seu viver e operar, no seu morrer e ressuscitar, podemos ver a Palavra de Deus e, consequentemente, o próprio mistério do Deus vivo. Deus é assim. O Anjo dissera aos pastores: «Isto vos servirá de sinal: achareis um Menino envolto em panos e deitado numa manjedoura» (Lc 2, 12; cf. 16). O sinal de Deus, o sinal que é dado aos pastores e a nós não é um milagre impressionante. O sinal de Deus é a sua humildade. O sinal de Deus é que Ele Se faz pequeno; torna-Se menino; deixa-Se tocar e pede o nosso amor. Quanto desejaríamos nós, homens, um sinal diverso, imponente, irrefutável do poder de Deus e da sua grandeza! Mas o seu sinal convida-nos à fé e ao amor e assim nos dá esperança: assim é Deus. Ele possui o poder e é a Bondade. Convida a tornarmo-nos semelhantes a Ele. Sim, tornamo-nos semelhantes a Deus, se nos deixarmos plasmar por este sinal; se aprendermos, nós mesmos, a humildade e deste modo a verdadeira grandeza; se renunciarmos à violência e usarmos apenas as armas da verdade e do amor. Orígenes, na linha de uma palavra de João Baptista, viu expressa a essência do paganismo no símbolo das pedras: paganismo é falta de sensibilidade, significa um coração de pedra, que é incapaz de amar e de perceber o amor de Deus. Orígenes diz a respeito dos pagãos: «Desprovidos de sentimento e de razão, transformam-se em pedras e madeira» (In Lc 22, 9). Mas Cristo quer dar-nos um coração de carne. Quando O vemos a Ele, ao Deus que Se tornou um menino, abre-se-nos o coração. Na Liturgia da Noite Santa, Deus vem até nós como homem, para nos tornarmos verdadeiramente humanos. Escutemos uma vez mais Orígenes: «Com efeito, de que te aproveitaria Cristo ter vindo uma vez na carne, se Ele não chegasse até à tua alma? Oremos para que venha diariamente a nós e possamos dizer: vivo, contundo já não sou eu que vivo, mas é Cristo que vive em mim (Gal 2, 20)» (In Lc 22, 3).

Sim, por isto queremos rezar nesta Noite Santa. Senhor Jesus Cristo, Vós que nascestes em Belém, vinde a nós! Entrai em mim, na minha alma. Transformai-me. Renovai-me. Fazei que eu e todos nós, de pedra e madeira que somos, nos tornemos pessoas vivas, nas quais se torna presente o vosso amor e o mundo é transformado.

[01936-06.01] [Texto original: Italiano]

[B0812-XX.01]