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UDIENZA DEL SANTO PADRE ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI, 21.12.2009


Alle ore 11 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Cardinali con i membri della Curia Romana e del Governatorato per la presentazione degli auguri natalizi.

Nel corso dell’incontro, dopo l’indirizzo di omaggio al Santo Padre del Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, il Papa rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,

Cari Fratelli e Sorelle,

la Solennità del Santo Natale, come è stato appena sottolineato dal Cardinale Decano Angelo Sodano, è, per i cristiani, un’occasione del tutto particolare di incontro e di comunione. Quel Bambino che adoriamo a Betlemme ci invita a sentire l’amore immenso di Dio, quel Dio che è disceso dal cielo e si è fatto vicino a ciascuno di noi per renderci suoi figli, parte della sua stessa Famiglia. Anche questo tradizionale appuntamento natalizio del Successore di Pietro con i suoi più stretti collaboratori, è un incontro di famiglia, che rinsalda i vincoli di affetto e di comunione, per formare sempre più quel "Cenacolo permanente" consacrato alla diffusione del Regno di Dio, appena ricordato. Ringrazio il Cardinale Decano per le cordiali parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti augurali del Collegio cardinalizio, dei Membri della Curia Romana e del Governatorato, come pure di tutti i Rappresentanti Pontifici che sono profondamente uniti a noi nel portare agli uomini del nostro tempo quella luce che è nata nella mangiatoia di Betlemme. Nell’accogliervi con grande gioia, desidero anche esprimere la mia gratitudine a tutti per il generoso e competente servizio che prestate al Vicario di Cristo e alla Chiesa.

Un altro anno ricco di avvenimenti importanti per la Chiesa e per il mondo volge al termine. Con uno sguardo retrospettivo pieno di gratitudine vorrei in quest’ora richiamare l’attenzione solo su alcuni punti-chiave per la vita ecclesiale. Dall’Anno Paolino si è passati all’Anno Sacerdotale. Dalla figura imponente dell’Apostolo delle Genti che, colpito dalla luce del Cristo risorto e dalla sua chiamata, ha portato il Vangelo ai popoli del mondo, siamo passati alla figura umile del Curato d’Ars, che per tutta la sua vita è rimasto nel piccolo paese che gli era stato affidato e che, tuttavia, proprio nell’umiltà del suo servizio ha reso ampiamente visibile nel mondo la bontà riconciliatrice di Dio. A partire da ambedue le figure si manifesta l’ampia portata del ministero sacerdotale e diventa evidente come è grande proprio ciò che è piccolo e come, attraverso il servizio apparentemente piccolo di un uomo, Dio possa operare cose grandi, purificare e rinnovare il mondo dal di dentro.

Per la Chiesa e per me personalmente, l’anno che si sta chiudendo è stato in gran parte nel segno dell’Africa. C’era innanzitutto il viaggio in Camerun ed Angola. Era commovente per me sperimentare la grande cordialità con cui il Successore di Pietro, il Vicarius Christi, veniva accolto. La gioia festosa e l’affetto cordiale, che mi venivano incontro su tutte le strade, non riguardavano, appunto, semplicemente un qualsiasi ospite casuale. Nell’incontro col Papa si rendeva sperimentabile la Chiesa universale, la comunità che abbraccia il mondo e che viene radunata da Dio mediante Cristo – la comunità che non è fondata su interessi umani, ma che ci è offerta dall’attenzione amorevole di Dio per noi. Tutti insieme siamo famiglia di Dio, fratelli e sorelle in virtù di un unico Padre: questa è stata l’esperienza vissuta. E si sperimentava che l’attenzione amorevole di Dio in Cristo per noi non è una cosa del passato e neppure cosa di teorie erudite, ma una realtà del tutto concreta qui ed ora. Proprio Lui è in mezzo a noi: questo abbiamo percepito attraverso il ministero del Successore di Pietro. Così eravamo elevati al di sopra della semplice quotidianità. Il cielo era aperto, e questo è ciò che fa di un giorno una festa. Ed è al contempo qualcosa di duraturo. Continua ad essere vero, anche nella vita quotidiana, che il cielo non è più chiuso; che Dio è vicino; che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda.

In modo particolarmente profondo si è impresso nella mia memoria il ricordo delle Celebrazioni liturgiche. Le Celebrazioni della Santa Eucaristia erano vere feste della fede. Vorrei menzionare due elementi che mi sembrano particolarmente importanti. C’era innanzitutto una grande gioia condivisa, che si esprimeva anche mediante il corpo, ma in maniera disciplinata ed orientata dalla presenza del Dio vivente. Con ciò è già indicato il secondo elemento: il senso della sacralità, del mistero presente del Dio vivente plasmava, per così dire, ogni singolo gesto. Il Signore è presente – il Creatore, Colui al quale tutto appartiene, dal quale noi proveniamo e verso il quale siamo in cammino. In modo spontaneo mi venivano in mente le parole di san Cipriano, che nel suo commento al Padre Nostro scrive: "Ricordiamoci di essere sotto lo sguardo di Dio rivolto su di noi. Dobbiamo piacere agli occhi di Dio, sia con l’atteggiamento del nostro corpo che con l’uso della nostra voce" (De dom. or. 4 CSEL III 1 p 269). Sì, questa consapevolezza c’era: noi stiamo al cospetto di Dio. Da questo non deriva paura o inibizione, neppure un’obbedienza esteriore alle rubriche e ancor meno un mettersi in mostra gli uni davanti agli altri o un gridare in modo indisciplinato. C’era piuttosto ciò che i Padri chiamavano "sobria ebrietas": l’essere ricolmi di una gioia che comunque rimane sobria ed ordinata, che unisce le persone a partire dall’interno, conducendole nella lode comunitaria di Dio, una lode che al tempo stesso suscita l’amore del prossimo, la responsabilità vicendevole.

Naturalmente faceva parte del viaggio in Africa soprattutto l’incontro con i Fratelli nel ministero episcopale e l’inaugurazione del Sinodo dell’Africa mediante la consegna dell’Instrumentum laboris. Ciò avvenne nel contesto di un colloquio serale nella festa di san Giuseppe, un colloquio in cui i rappresentanti dei singoli episcopati esposero in maniera toccante le loro speranze e preoccupazioni. Io penso che il buon padrone di casa, san Giuseppe, che personalmente conosce bene che cosa significhi il ponderare, in atteggiamento di sollecitudine e di speranza, le vie future della famiglia, ci abbia ascoltato con amore e ci abbia accompagnato fin dentro il Sinodo stesso. Gettiamo solo un breve sguardo sul Sinodo. In occasione della mia visita in Africa si è resa evidente innanzitutto la forza teologica e pastorale del Primato Pontificio come punto di convergenza per l’unità della Famiglia di Dio. Lì, nel Sinodo, è emersa ancora più fortemente l’importanza della collegialità – dell’unità dei Vescovi, che ricevono il loro ministero proprio per il fatto che entrano nella comunità dei Successori degli Apostoli: ognuno è Vescovo, Successore degli Apostoli, solo in quanto partecipe della comunità di coloro nei quali continua il Collegium Apostolorum nell’unità con Pietro e col suo Successore. Come nelle liturgie in Africa e poi, di nuovo, in San Pietro a Roma, il rinnovamento liturgico del Vaticano II ha preso forma in modo esemplare, così nella comunione del Sinodo si è vissuto in modo molto pratico l’ecclesiologia del Concilio. Commoventi erano anche le testimonianze che potevamo sentire dai fedeli provenienti dall’Africa – testimonianze di sofferenza e di riconciliazione concrete nelle tragedie della storia recente del Continente.

Il Sinodo si era proposto il tema: La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. È questo un tema teologico e soprattutto pastorale di un’attualità scottante, ma poteva essere anche frainteso come un tema politico. Compito dei Vescovi era di trasformare la teologia in pastorale, cioè in un ministero pastorale molto concreto, in cui le grandi visioni della Sacra Scrittura e della Tradizione vengono applicate all’operare dei Vescovi e dei sacerdoti in un tempo e in un luogo determinati. Ma in questo non si doveva cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche. In effetti, la questione molto concreta davanti alla quale i pastori si trovano continuamente è, appunto, questa: come possiamo essere realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta? Potremmo anche dire: si trattava del problema di una laicità positiva, praticata ed interpretata in modo giusto. È questo anche un tema fondamentale dell’Enciclica, pubblicata nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, "Caritas in veritate", che ha in tal modo ripreso ed ulteriormente sviluppato la questione circa la collocazione teologica e concreta della dottrina sociale della Chiesa.

Sono riusciti i Padri Sinodali a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata azione politica, la strada del "pastore"? Nel mio breve discorso a conclusione del Sinodo ho risposto affermativamente, in modo consapevole ed esplicito, a questa domanda. Naturalmente, nell’elaborazione del documento postsinodale, dovremo fare attenzione a mantenere tale equilibrio ed offrire così quel contributo per la Chiesa e la società in Africa che è stato affidato alla Chiesa in virtù della sua missione. Vorrei cercare di spiegare questo brevemente a proposito di un singolo punto. Come già detto, il tema del Sinodo designa tre grandi parole fondamentali della responsabilità teologica e sociale: riconciliazione – giustizia – pace. Si potrebbe dire che riconciliazione e giustizia siano i due presupposti essenziali della pace e che quindi definiscano in una certa misura anche la sua natura. Limitiamoci alla parola "riconciliazione". Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell’Africa, ma anche in molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso di umanità sembra smarrito. La pace può realizzarsi soltanto se si giunge ad una riconciliazione interiore. Possiamo considerare come esempio positivo di un processo di riconciliazione in via di riuscita la storia dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto che dal 1945 nell’Europa occidentale e centrale non ci siano più state guerre si fonda sicuramente in misura determinante su strutture politiche ed economiche intelligenti ed eticamente orientate, ma queste potevano svilupparsi solo perché esistevano processi interiori di riconciliazione, che hanno reso possibile una nuova convivenza. Ogni società ha bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace. Riconciliazioni sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti.

Il Sinodo ha cercato di esaminare profondamente il concetto di riconciliazione come compito per la Chiesa di oggi, richiamando l’attenzione sulle sue diverse dimensioni. La chiamata che san Paolo ha rivolto ai Corinzi possiede proprio oggi una nuova attualità. "In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!" (2 Cor 5, 20). Se l’uomo non è riconciliato con Dio, è in discordia anche con la creazione. Non è riconciliato con se stesso, vorrebbe essere un altro da quel che è ed è pertanto non riconciliato neppure con il prossimo. Fa inoltre parte della riconciliazione la capacità di riconoscere la colpa e di chiedere perdono – a Dio e all’altro. E infine appartiene al processo della riconciliazione la disponibilità alla penitenza, la disponibilità a soffrire fino in fondo per una colpa e a lasciarsi trasformare. E ne fa parte la gratuità, di cui l’Enciclica "Caritas in veritate" parla ripetutamente: la disponibilità ad andare oltre il necessario, a non fare conti, ma ad andare al di là di ciò che richiedono le semplici condizioni giuridiche. Ne fa parte quella generosità di cui Dio stesso ci ha dato l’esempio. Pensiamo alla parola di Gesù: "Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5, 23s.). Dio che sapeva che non siamo riconciliati, che vedeva che abbiamo qualcosa contro di Lui, si è alzato e ci è venuto incontro, benché Egli solo fosse dalla parte della ragione. Ci è venuto incontro fino alla Croce, per riconciliarci. Questa è gratuità: la disponibilità a fare il primo passo. Per primi andare incontro all’altro, offrirgli la riconciliazione, assumersi la sofferenza che comporta la rinuncia al proprio aver ragione. Non cedere nella volontà di riconciliazione: di questo Dio ci ha dato l’esempio, ed è questo il modo per diventare simili a Lui, un atteggiamento di cui sempre di nuovo abbiamo bisogno nel mondo. Dobbiamo oggi apprendere nuovamente la capacità di riconoscere la colpa, dobbiamo scuoterci di dosso l’illusione di essere innocenti. Dobbiamo apprendere la capacità di far penitenza, di lasciarci trasformare; di andare incontro all’altro e di farci donare da Dio il coraggio e la forza per un tale rinnovamento. In questo nostro mondo di oggi dobbiamo riscoprire il Sacramento della penitenza e della riconciliazione. Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita, che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace. San Bonaventura era dell’opinione che il Sacramento della penitenza fosse un Sacramento dell’umanità in quanto tale, un Sacramento che Dio aveva istituito nella sua essenza già immediatamente dopo il peccato originale con la penitenza imposta ad Adamo, anche se ha potuto ottenere la sua forma completa solo in Cristo, che è personalmente la forza riconciliatrice di Dio e ha preso su di sé la nostra penitenza. In effetti, l’unità di colpa, penitenza e perdono è una delle condizioni fondamentali della vera umanità, condizioni che nel Sacramento ottengono la loro forma completa, ma che, a partire dalle loro radici, fanno parte dell’essere persone umane come tale. Il Sinodo dei Vescovi per l’Africa ha pertanto a ragione incluso nelle sue riflessioni anche rituali di riconciliazione della tradizione africana come luoghi di apprendimento e di preparazione per la grande riconciliazione che Dio dona nel Sacramento della penitenza. Questa riconciliazione, però, richiede l’ampio "atrio" del riconoscimento della colpa e dell’umiltà della penitenza. Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica. Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico per la pace il presupposto interiore. Nel Sinodo i Pastori della Chiesa si sono impegnati per quella purificazione interiore dell’uomo che costituisce l’essenziale condizione preliminare per l’edificazione della giustizia e della pace. Ma tale purificazione e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio.

Riconciliazione – con questa parola-chiave mi torna alla mente il secondo grande viaggio dell’anno che si chiude: il pellegrinaggio in Giordania ed in Terra Santa. Al riguardo vorrei innanzitutto ringraziare cordialmente il Re di Giordania per la grande ospitalità con cui mi ha accolto ed accompagnato lungo tutto lo svolgimento del mio pellegrinaggio. La mia gratitudine riguarda in modo particolare anche la maniera esemplare con cui egli si impegna per la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani, per il rispetto nei confronti della religione dell’altro e per la collaborazione nella comune responsabilità davanti a Dio. Ringrazio di cuore anche il governo d’Israele per tutto ciò che ha fatto affinché la visita potesse svolgersi pacificamente ed in sicurezza. Sono particolarmente grato per la possibilità concessami di celebrare due grandi liturgie pubbliche – a Gerusalemme e a Nazaret – in cui i cristiani hanno potuto presentarsi pubblicamente come comunità di fede in Terra Santa. Infine, il mio ringraziamento si rivolge all’Autorità palestinese che mi ha accolto, anch’essa, con grande cordialità; essa pure mi ha reso possibile una Celebrazione liturgica pubblica a Betlemme, e mi ha fatto conoscere le sofferenze come anche le speranze del suo Territorio. Tutto ciò che si può vedere in quei Paesi, invoca riconciliazione, giustizia, pace. La visita a Yad Vashem ha significato un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo. Così questo è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo accorato alla purificazione e al perdono, all’amore. Proprio questo monumento alla colpa umana ha reso poi tanto più importante la visita ai luoghi della memoria della fede e ha fatto percepire la loro inalterata attualità. In Giordania abbiamo visto il punto più basso della terra presso il fiume Giordano. Come si potrebbe non sentirsi richiamati alla parola della Lettera agli Efesini, secondo cui Cristo è "disceso nelle regioni più basse della terra" (Eph 4, 9). In Cristo Dio è disceso fin nell’ultima profondità dell’essere umano, fin nella notte dell’odio e dell’accecamento, fin nel buio della lontananza dell’uomo da Dio, per accendere lì la luce del suo amore. Egli è presente perfino nella notte più profonda: anche negli inferi, eccoti – questa parola del Salmo 139 [138], 8 è diventata realtà nella discesa di Gesù. Così l’incontro con i luoghi della salvezza nella chiesa dell’annunciazione a Nazaret, nella grotta della natività a Betlemme, nel luogo della crocifissione sul Calvario, davanti al sepolcro vuoto, testimonianza della risurrezione, è stato come un toccare la storia di Dio con noi. La fede non è un mito. È storia reale, le cui tracce possiamo toccare con mano. Questo realismo della fede ci fa particolarmente bene nei travagli del presente. Dio si è veramente mostrato. In Gesù Cristo Egli si è veramente fatto carne. Come Risorto Egli rimane vero Uomo, apre continuamente la nostra umanità a Dio ed è sempre il garante del fatto che Dio è un Dio vicino. Sì, Dio vive e sta in relazione con noi. In tutta la sua grandezza è tuttavia il Dio vicino, il Dio-con-noi, che continuamente ci chiama: Lasciatevi riconciliare con me e tra voi! Egli sempre pone nella nostra vita personale e comunitaria il compito della riconciliazione.

Infine vorrei ancora dire una parola di gratitudine e di gioia per il mio viaggio nella Repubblica Ceca. Prima di tale viaggio sono sempre stato avvertito che quello è un Paese con una maggioranza di agnostici e di atei, in cui i cristiani costituiscono ormai soltanto una minoranza. Tanto più gioiosa è stata la sorpresa nel costatare che dappertutto ero circondato da grande cordialità ed amicizia; che grandi liturgie venivano celebrate in un’atmosfera gioiosa di fede; che nell’ambito delle università e della cultura la mia parola trovava una viva attenzione; che le Autorità dello Stato mi hanno riservato una grande cortesia e hanno fatto tutto il possibile per contribuire al successo della visita. Sarei ora tentato di dire qualcosa sulla bellezza del Paese e sulle magnifiche testimonianze della cultura cristiana, le quali soltanto rendono tale bellezza perfetta. Ma considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi. A Parigi ho parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56, 7; Mc 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il "Dio ignoto" (cfr At 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di "cortile dei gentili" dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto.

Alla fine, ancora una volta, una parola circa l’Anno Sacerdotale. Come sacerdoti siamo a disposizione di tutti: per coloro che conoscono Dio da vicino e per coloro per i quali Egli è lo Sconosciuto. Noi tutti dobbiamo conoscerlo sempre di nuovo e dobbiamo cercarlo continuamente per diventare veri amici di Dio. Come potremmo, in definitiva, arrivare a conoscere Dio, se non attraverso uomini che sono amici di Dio? Il nucleo più profondo del nostro ministero sacerdotale è quello di essere amici di Cristo (cfr Gv 15, 15), amici di Dio, per il cui tramite anche altre persone possano trovare la vicinanza a Dio. Così, insieme con il mio profondo ringraziamento per tutto l’aiuto resomi lungo l’intero anno, ecco il mio augurio per il Natale: che noi diventiamo sempre più amici di Cristo e quindi amici di Dio e che in questo modo possiamo essere sale della terra e luce del mondo. Un santo Natale e un buon Anno Nuovo!

[01919-01.01] [Testo originale: Italiano]

DISCORSO DEL SANTO PADRE IN LINGUA TEDESCA

Das Hochfest von Weihnachten ist – wie der Kardinal Dekan Angelo Sodano eben hervorgehoben hat – für die Christen eine ganz besondere Gelegenheit der Begegnung und des Miteinanders. Jenes Kind, das wir in Bethlehem anbeten, lädt uns ein, die grenzenlose Liebe Gottes zu spüren, des Gottes, der vom Himmel herabgestiegen und einem jeden von uns nahe geworden ist, um uns zu seinen Kindern zu machen, zugehörig zu seiner Familie. Auch dieses traditionelle weihnachtliche Zusammenkommen des Nachfolgers Petri mit seinen engsten Mitarbeitern ist ein Familientreffen, das die Bande der Zuneigung und des Miteinanders festigt, um immer mehr den eben erwähnten „ständigen Abendmahlssaal" zu bilden, der der Verbreitung des Gottesreiches geweiht ist. Ich danke dem Kardinal Dekan für seine herzlichen Worte, mit denen er die Glückwünsche des Kardinalskollegiums, der Mitglieder der Römischen Kurie und des Governatoratos wie auch aller Päpstlichen Vertreter zum Ausdruck gebracht hat, die uns zutiefst verbunden sind, indem sie den Menschen unserer Zeit jenes Licht zutragen, das in der Krippe von Bethlehem geboren ist. Ich empfange Sie mit großer Freude und möchte dabei auch allen meinen Dank sagen für den großherzigen und kompetenten Dienst, den Sie für den Vicarius Christi und die ganze Kirche leisten.

Wiederum geht ein Jahr zu Ende, das reich war an wichtigen Ereignissen für die Kirche und für die Welt. Nur auf ein paar Schwerpunkte für das kirchliche Leben möchte ich in dieser Stunde dankbar rückblickend die Aufmerksamkeit lenken. Das Paulusjahr ist in das Priesterjahr übergegangen. Von der wuchtigen Gestalt des Völkerapostels Paulus, der vom Licht des auferstandenen Christus und von seinem Ruf getroffen das Evangelium zu den Völkern der Welt trug, sind wir übergegangen zu der demütigen Gestalt des Pfarrers von Ars, der sein Leben lang in dem kleinen Dorf blieb, das man ihm anvertraut hatte und doch gerade in der Demut seines Dienstes die versöhnende Güte Gottes weithin in der Welt sichtbar machte. Von beiden Gestalten her wird die Spannweite des priesterlichen Dienstes offenbar und wird sichtbar, wie gerade das Kleine groß ist und wie Gott durch den scheinbar kleinen Dienst eines Menschen Großes wirken, die Welt von innen her reinigen und erneuern kann.

Für die Kirche und für mich persönlich stand das verflossene Jahr weitgehend im Zeichen Afrikas. Da war zunächst die Reise nach Kamerun und nach Angola. Es war für mich bewegend, die große Herzlichkeit zu erleben, mit der der Nachfolger Petri, der Vicarius Christi aufgenommen wurde. Die festliche Freude und die herzliche Zuneigung, die mir auf allen Straßen begegnete, galt ja nicht einfach irgendeinem zufälligen Gast. In der Begegnung mit dem Papst wurde die universale Kirche erfahrbar, die weltweite Gemeinschaft, die Gott durch Christus sammelt – die Gemeinschaft, die nicht durch menschliche Interessen begründet ist, sondern aus der Zuwendung Gottes zu uns kommt. Daß wir alle miteinander Familie Gottes sind, Brüder und Schwestern vom einen Vater her, das wurde erlebt. Und es wurde erlebt, daß Gottes Zuwendung zu uns in Christus nicht eine Sache der Vergangenheit ist und nicht eine Sache gelehrter Theorien, sondern eine ganz konkrete Wirklichkeit, hier und jetzt. ER ist unter uns: Das spürten wir durch den Dienst des Petrusnachfolgers hindurch. So waren wir über die bloße Alltäglichkeit hinausgehoben. Der Himmel stand offen, und das macht einen Tag zum Fest. Und dies ist zugleich etwas Bleibendes. Es gilt auch weiter, auch im Alltag, daß der Himmel nicht mehr verschlossen ist. Daß Gott nahe ist. Daß wir in Christus alle einander zugehören.

Besonders tief hat sich mir die Erinnerung an die liturgischen Feiern eingeprägt. Die Feiern der heiligen Eucharistie waren wirkliche Feste des Glaubens. Ich möchte zwei Elemente benennen, die mir besonders wichtig erscheinen. Da wir zunächst eine große gemeinsame Freude, die sich auch körperlich ausdrückte, aber zuchtvoll und von der Anwesenheit des lebendigen Gottes geformt. Damit ist schon das zweite Element benannt: der Sinn für das Sakrale, für das gegenwärtige Mysterium des lebendigen Gottes prägte sozusagen jede einzelne Gebärde. Der Herr ist da – der Schöpfer, der, dem alles gehört, von dem wir kommen und zu dem wir unterwegs sind. Mir kamen spontan die Worte des heiligen Cyprian aus seiner Vater-unser-Auslegung in den Sinn: „Denken wir daran, daß wir im Angeblickt-Werden von Gott stehen. Wir müssen den Augen Gottes gefallen, sowohl mit der Haltung unseres Körpers wie mit dem Gebrauch unserer Stimme" (De dom. or. 4 CSEL III 1 p 269). Ja, dieses Bewußtsein war da: Wir stehen vor Gott. Daraus kommt nicht Angst oder Verklemmung, auch kein äußerer Rubrikengehorsam, noch weniger gegenseitige Selbstdarstellung oder zuchtloses Geschrei. Da war vielmehr das, was die Väter „sobria ebrietas" nannten: das Erfülltsein von einer Freude, die doch nüchtern und geordnet bleibt, die Menschen von innen her eint in den gemeinsamen Lobpreis Gottes hinein, der zugleich die Liebe zum Nächsten, die Verantwortung füreinander weckt.

Zu der Afrika-Reise gehörte natürlich vor allem auch die Begegnung mit den Brüdern im Bischofsamt und die Eröffnung der Afrika-Synode durch die Übergabe des Instrumentum laboris. Sie geschah im Rahmen eines abendlichen Gesprächs am Festtag des heiligen Josef, bei dem die Vertreter der einzelnen Episkopate auf beeindruckende Weise ihre Hoffnungen und Sorgen dargestellt haben. Ich denke, daß der gute Hausvater Sankt Josef, der das sorgende und hoffende Abwägen der weiteren Wege der Familie selber gut kennt, uns liebevoll zugehört und uns auch sein Geleit in die Synode selbst hinein gegeben hat. Werfen wir nur einen kurzen Blick auf die Synode. Bei meinem Besuch in Afrika war vor allem die theologische und pastorale Kraft des päpstlichen Primats als Sammelpunkt für die Einheit der Familie Gottes sichtbar geworden. Hier, in der Synode, erschien um so stärker die Bedeutung der Kollegialität – die Einheit der Bischöfe, die ihr Amt ja gerade dadurch empfangen, daß sie in die Gemeinschaft der Apostelnachfolger eintreten: Jeder ist nur Bischof, Apostelnachfolger im Mitsein der Gemeinschaft derer, in denen das Collegium Apostolorum in der Einheit mit Petrus und seinem Nachfolger weitergeht. Wie in den Liturgien in Afrika und dann wieder in Sankt Peter in Rom die liturgische Erneuerung des II. Vaticanums vorbildlich Gestalt annahm, so wurde im Miteinander der Synode die Ekklesiologie des Konzils ganz praktisch gelebt. Bewegend waren auch die Zeugnisse, die wir von den Gläubigen aus Afrika hören durften – Zeugnisse konkreten Leidens und Versöhnens in den Dramen der jüngsten Geschichte des Kontinents.

Die Synode hatte sich das Thema gestellt: Die Kirche in Afrika im Dienst von Versöhnung, Gerechtigkeit und Frieden. Dies ist ein theologisches und vor allem ein pastorales Thema von brennender Aktualität, aber es konnte auch als ein politisches Thema mißverstanden werden. Die Aufgabe der Bischöfe war es, die Theologie zur Pastoral zu machen, das heißt zu ganz konkretem Hirtendienst, in dem die großen Visionen der Heiligen Schrift und der Überlieferung praktisch angewandt werden auf das Wirken der Bischöfe und Priester in einer bestimmten Zeit und an einem bestimmten Ort. Dabei durfte man aber nicht der Versuchung verfallen, selber die Politik in die Hand zu nehmen und sich aus Hirten zu politischen Führen zu machen. In der Tat ist es ja immer wieder die ganz praktische Frage, vor der die Hirten der Kirche stehen: Wie können wir realistisch und praktisch sein, ohne uns eine politische Kompetenz anzumaßen, die uns nicht zusteht? Wir könnten auch sagen: Es ging um das Problem einer praktizierten und recht ausgelegten positiven laïcité. Dies ist auch ein Grundthema der am Peter- und Pauls-Tag veröffentlichten Enzyklika „Caritas in veritate", die damit die Frage nach dem theologischen und praktischen Ort der katholischen Soziallehre aufgenommen und weitergeführt hat.

Ist es den Synodenvätern gelungen, den eher schmalen Weg zwischen bloßer theologischer Theorie und direkter politischer Aktion zu finden, den Weg des „Hirten"? In meiner kleinen Rede zum Abschluß der Synode habe ich dies bewußt und ausdrücklich bejaht. Natürlich werden wir bei der Ausarbeitung des postsynodalen Dokuments darauf achten müssen, diese Balance einzuhalten und damit den Beitrag für Kirche und Gesellschaft in Afrika zu leisten, der der Kirche von ihrer Sendung her aufgetragen ist. Ich möchte dies an einem einzelnen Punkt ganz kurz zu erläutern versuchen. Wie schon gesagt, nennt das Thema der Synode drei große Grundworte theologischer und sozialer Verantwortung: Versöhnung – Gerechtigkeit – Friede. Man könnte sagen, daß Versöhnung und Gerechtigkeit die beiden wesentlichen Voraussetzungen von Friede sind und so bis zu einem gewissen Grad auch dessen Wesen definieren. Beschränken wir uns auf das Wort Versöhnung. Ein Blick auf die Leiden und Nöte der jüngeren Geschichte Afrikas, aber auch in vielen anderen Teilen der Erde zeigt, daß ungelöste und tief verwurzelte Gegensätze in bestimmten Situationen zu Explosionen der Gewalt führen können, in denen alle Menschlichkeit verloren scheint. Friede kann nur werden, wenn es zu innerer Versöhnung kommt. Als positives Beispiel für einen gelingenden Versöhnungsprozeß können wir die Geschichte Europas seit dem Zweiten Weltkrieg ansehen. Daß es in West- und Mitteleuropa seit 1945 keine Kriege mehr gegeben hat, beruht sicher wesentlich auf intelligenten und moralisch geformten politischen und ökonomischen Strukturen, aber die konnten sich doch nur bilden, weil es innere Prozesse des Versöhnens gab, die ein neues Miteinander ermöglicht haben. Jede Gesellschaft braucht Versöhnungen, damit Friede sein kann. Versöhnungen sind für gute Politik notwendig, aber von der Politik allein nicht zu leisten. Sie sind vorpolitische Prozesse, die aus anderen Quellen kommen müssen.

Die Synode hat versucht, den Begriff Versöhnung als Auftrag an die Kirche von heute auszuleuchten und dabei auf seine verschiedenen Dimensionen aufmerksam gemacht. Der Ruf, den der heilige Paulus an die Korinther gerichtet hat, ist gerade heute von neuer Aktualität. „Wir sind Gesandte an Christi Statt, und Gott ist es, der durch uns mahnt. Wir bitten an Christi Statt: Laßt euch mit Gott versöhnen!" (2 Kor 5, 20). Wenn der Mensch mit Gott nicht versöhnt ist, ist er auch mit der Schöpfung im Unfrieden. Er ist unversöhnt mit sich selbst, möchte sich selbst als einen anderen haben und ist daher auch unversöhnt mit dem Nächsten. Zur Versöhnung gehört des weiteren die Fähigkeit, Schuld zu erkennen und um Vergebung zu bitten – Gott und den anderen Menschen. Zum Vorgang der Versöhnung gehört schließlich die Bereitschaft zur Buße, die Bereitschaft, Schuld auszuleiden und sich selbst ändern zu lassen. Und es gehört dazu die gratuitas, von der die Enzyklika „Caritas in veritate" mehrfach spricht: die Bereitschaft, über das Notwendige hinauszugehen, nicht aufzurechnen, sondern weiterzugehen als die bloßen Rechtsverhältnisse es verlangen. Es gehört dazu jene Großzügigkeit, die Gott selbst uns vorgemacht hat. Denken wir an das Wort Jesu: Wenn du deine Gabe zum Altar bringst und du erinnerst dich, daß dein Bruder etwas gegen dich hat, laß die Gabe liegen, brich auf, versöhne dich zuerst mit deinem Bruder, und dann komm und bring deine Gabe (Mt 5, 23f). Gott, der uns unversöhnt wußte, der sah, daß wir etwas gegen ihn haben, ist aufgestanden und uns entgegengegangen, obwohl er allein im Recht war. Er ist uns entgegengegangen bis zum Kreuz hin, um uns zu versöhnen. Das ist gratuitas: die Bereitschaft, zuerst aufzubrechen. Zuerst dem anderen entgegenzugehen, ihm die Versöhnung anzubieten, den Schmerz auf sich zu nehmen, der im Verzicht auf das eigene Rechthaben liegt. Nicht nachzulassen im Willen des Versöhnens: Das hat Gott uns vorgemacht, und dies ist die Weise, gottähnlich zu werden, die wir in der Welt immer von neuem brauchen. Wir müssen heute die Fähigkeit neu erlernen, Schuld anzuerkennen, den Unschuldswahn abzuschütteln. Wir müssen die Fähigkeit erlernen, Buße zu tun, uns ändern zu lassen; dem anderen entgegenzugehen und von Gott her uns den Mut und die Kraft zu solcher Erneuerung schenken zu lassen. In dieser unserer Welt von heute müssen wir das Sakrament der Buße und der Versöhnung neu entdecken. Daß es aus den Lebensvollzügen der Christen weitgehend verschwunden ist, ist ein Symptom für einen Verlust an Wahrhaftigkeit uns selbst und Gott gegenüber; ein Verlust, der unsere Menschlichkeit gefährdet und der unsere Friedensfähigkeit vermindert. Der heilige Bonaventura war der Meinung, daß das Sakrament der Buße ein Menschheitssakrament ist, das Gott in seinem wesentlichen Grund schon unmittelbar nach dem Sündenfall mit der Buße für Adam eingesetzt habe, auch wenn es seine ganze Gestalt erst in Christus erhalten konnte, der selbst die versöhnende Kraft Gottes ist und unsere Buße auf sich genommen hat. In der Tat, die Einheit von Schuld, Buße und Vergebung ist eine der Grundbedingungen der Menschlichkeit, die im Sakrament ihre volle Gestalt erhalten, aber von den Wurzeln her zum Menschsein als solchem gehören. Die Bischofssynode für Afrika hat deshalb mit Recht Versöhnungsrituale der afrikanischen Tradition mit in ihre Betrachtungen einbezogen als Lernorte und Vorbereitungen für die große Versöhnung, die Gott uns im Bußsakrament schenkt. Diese Versöhnung braucht aber den weiten Vorhof der Anerkenntnis von Schuld und der Demut des Büßens. Versöhnung ist ein vorpolitischer Begriff und eine vorpolitische Realität, die gerade so von höchster Bedeutung für die Aufgabe der Politik selber ist. Wenn nicht in den Herzen die Kraft des Versöhnens geschaffen wird, fehlt dem politischen Ringen um den Frieden die innere Voraussetzung. In der Synode haben sich die Hirten der Kirche um jene innere Reinigung des Menschen gemüht, die die wesentliche Voraussetzung für den Aufbau der Gerechtigkeit und des Friedens darstellt. Diese innere Reinigung und Reifung zu wahrer Menschlichkeit gibt es aber nicht ohne Gott.

Versöhnung – bei diesem Stichwort kommt mir die zweite große Reise des vergangenen Jahres in den Sinn: die Pilgerfahrt nach Jordanien und ins Heilige Land. Dabei möchte ich zuallererst dem König von Jordanien herzlich danken für die große Gastfreundschaft, mit der er mich empfangen und auf dem ganzen Weg meiner Pilgerschaft begleitet hat. Mein Dank gilt besonders auch für die vorbildliche Weise, in der er sich um das friedliche Miteinander von Christen und Moslems müht, um die Ehrfurcht vor der Religion des anderen und um das Miteinander in der gemeinsamen Verantwortung vor Gott. Ebenso danke ich der Regierung von Israel herzlich für alles, was sie getan hat, damit der Besuch friedlich und in Sicherheit verlaufen konnte. Besonders dankbar bin ich für die Möglichkeit, zwei große öffentliche Gottesdienste – in Jerusalem und in Nazareth – zu feiern, in denen die Christen sich öffentlich als Gemeinschaft des Glaubens im Heiligen Land darstellen konnten. Schließlich gilt mein Dank der palästinensischen Autorität, die mich gleichfalls mit großer Herzlichkeit aufgenommen, mir ebenfalls einen öffentlichen Gottesdienst in Bethlehem möglich gemacht hat und mich die Leiden wie die Hoffnungen ihres Landes erfahren ließ. Alles, was in diesen Ländern zu sehen ist, ruft nach Versöhnung, nach Gerechtigkeit, nach Frieden. Der Besuch in Yad Vashem bedeutete eine erschütternde Begegnung mit der Grausamkeit menschlicher Schuld, mit dem Haß einer verblendeten Ideologie, die Millionen von Menschen grundlos dem Tod preisgab und damit letztlich auch Gott, den Gott Abrahams, Isaaks, Jakobs und den Gott Jesu Christi aus der Welt verdrängen wollte. So ist dies zuallererst ein Mahnmal gegen den Haß, ein Ruf nach Reinigung und Vergebung, nach Liebe. Gerade dieses Denkmal menschlicher Schuld machte dann den Besuch bei den Erinnerungsorten des Glaubens um so wichtiger und ließ deren unverbrauchte Aktualität spüren. In Jordanien haben wir den tiefsten Punkt der Erde am Jordan gesehen. Wie sollte man sich da nicht erinnert fühlen an das Wort aus dem Epheser-Brief, daß Christus hinabgestiegen ist „in die untersten Teile der Erde" (Eph 4, 9). In Christus ist Gott hinabgestiegen bis in die letzte Tiefe des Menschseins, bis in die Nacht des Hasses und der Verblendung, bis in die Dunkelheit der Gottesferne des Menschen, um dort das Licht seiner Liebe zu entzünden. Auch in der tiefsten Nacht ist er: Auch in der Unterwelt bist du zugegen – dieses Wort aus Ps 139 [138], 8 ist im Abstieg Jesu Wahrheit geworden. So war dann das Begegnen mit den Orten des Heils in der Verkündigungskirche in Nazareth, der Geburtsgrotte zu Bethlehem, der Kreuzigungsstätte auf Golgotha, dem leeren Grab als Zeugnis der Auferstehung gleichsam ein Berühren der Geschichte Gottes mit uns. Der Glaube ist kein Mythos. Er ist wahre Geschichte, deren Spuren wir anrühren können. Dieser Realismus des Glaubens tut uns in den Bedrängnissen der Gegenwart besonders gut. Gott hat sich wirklich gezeigt. In Jesus Christus hat er wirklich Fleisch angenommen. Er bleibt als Auferstandener wahrer Mensch, öffnet immerfort unser Menschsein auf Gott hin und ist uns immerfort Gewähr dafür, daß Gott ein naher Gott ist. Ja, Gott lebt, und er geht uns an. In all seiner Größe ist er doch der nahe Gott, der Gott mit uns, der uns immerfort zuruft: Laßt euch mit mir und miteinander versöhnen. Immer stellt er den Auftrag des Versöhnens in unser persönliches und gemeinschaftliches Leben hinein.

Schließlich möchte ich auch noch ein Wort des Dankes und der Freude zu meiner Reise in die Tschechische Republik sagen. Immer wurde ich vorher darauf hingewiesen, daß dies ein Land mit einer Mehrheit von Agnostikern und Atheisten sei, in dem die Christen nur noch eine Minderheit bilden. Um so freudiger war die Überraschung darüber, daß ich allenthalben von einer großen Herzlichkeit und Freundschaft umgeben war. Daß große Gottesdienste in einer freudigen Atmosphäre des Glaubens gefeiert wurden. Daß im Bereich der Universitäten und der Kultur mein Wort wache Aufmerksamkeit fand. Daß die Autoritäten des Staates mir mit großer Freundlichkeit begegneten und alles getan haben, um dem Besuch zum Erfolg zu verhelfen. Ich wäre jetzt versucht, etwas über die Schönheit des Landes und die großartigen Zeugnisse christlicher Kultur zu sagen, die diese Schönheit erst vollkommen machen. Vor allem aber ist mir wichtig, daß auch die Menschen, die sich als Agnostiker oder als Atheisten ansehen, uns als Gläubige angehen. Wenn wir von neuer Evangelisierung sprechen, erschrecken diese Menschen vielleicht. Sie wollen sich nicht als Objekt von Mission sehen und ihre Freiheit des Denkens und des Wollens nicht preisgeben. Aber die Frage nach Gott bleibt doch auch für sie gegenwärtig, auch wenn sie an die konkrete Weise seiner Zuwendung zu uns nicht glauben können. In Paris habe ich vom Gottsuchen als grundlegendem Antrieb gesprochen, aus dem das abendländische Mönchtum und mit ihm die abendländische Kultur geboren wurde. Als ersten Schritt von Evangelisierung müssen wir versuchen, diese Suche wachzuhalten; uns darum mühen, daß der Mensch die Gottesfrage als wesentliche Frage seiner Existenz nicht beiseite schiebt. Daß er die Frage und die Sehnsucht annimmt, die darin sich verbirgt. Hier fällt mir das Wort ein, das Jesus aus dem Propheten Jesaja zitiert hat: daß der Tempel von Jerusalem ein Gebetshaus für alle Völker sein solle (Jes 56, 7; Mk 11, 17). Er dachte dabei an den sogenannten Vorhof der Heiden, den er von äußeren Geschäftigkeiten räumte, damit der Freiraum da sei für die Völker, die hier zu dem einen Gott beten wollen, auch wenn sie dem Geheimnis nicht zugehören konnten, dem das Innere des Tempels diente. Gebetsraum für alle Völker – dabei war an Menschen gedacht, die Gott sozusagen nur von ferne kennen; die mit ihren Göttern, Riten und Mythen unzufrieden sind; die das Reine und Große ersehnen, auch wenn Gott für sie der „unbekannte Gott" bleibt (Apg 17, 23). Sie sollten zum unbekannten Gott beten können und damit doch mit dem wirklichen Gott in Verbindung sein, wenn auch in vielerlei Dunkelheit. Ich denke, so eine Art „Vorhof der Heiden" müsse die Kirche auch heute auftun, wo Menschen irgendwie sich an Gott anhängen können, ohne ihn zu kennen und ehe sie den Zugang zum Geheimnis gefunden haben, dem das innere Leben der Kirche dient. Zum Dialog der Religionen muß heute vor allem auch das Gespräch mit denen hinzutreten, denen die Religionen fremd sind, denen Gott unbekannt ist und die doch nicht einfach ohne Gott bleiben, ihn wenigstens als Unbekannten dennoch anrühren möchten.

Zuletzt noch einmal ein Wort zum Jahr der Priester. Als Priester sind wir für alle da: für die, die Gott aus der Nähe kennen und für die, denen er der Unbekannte ist. Wir alle müssen ihn immer wieder neu kennenlernen und müssen ihn immer neu suchen, damit wir wirkliche Freunde Gottes werden. Wie anders als durch Menschen, die Freunde Gottes sind, könnten wir zuletzt Gott kennenlernen? Der tiefste Kern unseres priesterlichen Dienstes ist es, Freunde Christi (Joh 15, 15), Freunde Gottes zu sein, durch die auch andere Menschen Gott nahe werden können. So ist mit meinem herzlichen Dank für alle Hilfe das ganze Jahr hindurch dies mein Wunsch zu Weihnachten: Daß wir immer mehr Freunde Jesu Christi und so Freunde Gottes werden und dadurch Salz der Erde und Licht der Welt sein dürfen. Gesegnete Weihnachten und ein gutes Neues Jahr!

[01919-05.01] [Originalsprache: Deutsch]

INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL DECANO DEL COLLEGIO CARDINALIZIO

Beatissimo Padre,

Il Natale è vicino e fra poco faremo nostro il canto degli Angeli sulla grotta di Betlemme: "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà".

Intanto, in questi giorni d’attesa, cercheremo di accogliere l’invito della Liturgia, che ci chiama ad essere "vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode" (Prefazio II d’Avvento).

E’ poi noto che le Feste Natalizie costituiscono, per le nostre famiglie cristiane, una bella occasione per ritrovarsi insieme e per rinsaldare i loro vincoli di reciproco amore.

In tale circostanza, anche la Famiglia Pontificia vuole stringersi intorno a Lei, Padre Santo, per rinnovarLe i sentimenti di profonda comunione ecclesiale ed augurarLe liete e sante Feste Natalizie.

Sono i voti che, in primo luogo, Le pervengono dai 185 Membri del Collegio Cardinalizio, sia di quelli sparsi per il mondo, sia di quelli residenti nell’Urbe. Alcuni di noi sono già avanti negli anni, sperando però che l’Onnipotente ci conceda ciò che aveva promesso ai pii Israeliti, stando alle note parole del Salmo: "Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi" (Sal 92,15).

In secondo luogo, mi è caro presentare a Vostra Santità gli auguri di tutta la Curia Romana, che intende formare con il Successore di Pietro un "Cenacolo permanente", totalmente consacrato alla diffusione del Regno di Dio, per usare una frase cara al Servo di Dio Papa Paolo VI (Insegnamenti di Paolo VI, 1973, 257).

Ai voti dei presenti si uniscono pure quelli dei Nunzi Apostolici, che rappresentano Vostra Santità presso le Chiese particolari ed i Governi civili dei Vari Paesi ove essi sono stati destinati. A tali auguri si uniscono pure i Nunzi Apostolici emeriti, sempre vicini alle sollecitudini pastorali del Successore di Pietro.

Infine, sono lieto di presentare a Vostra santità anche i voti dei responsabili del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, impegnati a coadiuvarLa nel delicato settore della vita dello Stato, vero strumento di libertà per la Sede Apostolica e valido punto di sostegno per la sua missione internazionale.

Beatissimo Padre,

raccogliendo in un'unica "corbeille" tutti questi voti, sono molto lieto di presentarGlieli, a nome di tutti i Suoi Collaboratori. Da parte nostra, cercheremo di seguire l’invito che San Pietro rivolgeva alle prime comunità cristiane: "Ciascuno secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio" (cf 1 Pt, 4,10).

Con questi sentimenti noi intendiamo collaborare con Vostra Santità, per la diffusione del Regno di Dio nel mondo d’oggi.

Su questi nostri propositi imploriamo, Padre Santo, la Sua Apostolica Benedizione.

[01920-01.01] [Testo originale: Italiano]

[B0806-XX.02]