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LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER L'INDIZIONE DI UN ANNO SACERDOTALE IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO DEL DIES NATALIS DEL SANTO CURATO D’ARS, 18.06.2009


Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Benedetto XVI indirizza ai presbiteri per l’apertura dell’ "Anno Sacerdotale", da lui indetto in occasione del 150° anniversario della morte (il dies natalis) di San Giovanni Maria Vianney, Curato d’Ars:

TESTO IN LINGUA ITALIANA

 Cari fratelli nel Sacerdozio,

nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo.1 Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars.2 Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati? 

Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?

Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”.3 Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”.4 E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.5 Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi”.6

Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa preghiera che iniziò la sua missione.7 Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui, si legge nella prima biografia.8

L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui.

Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale9 e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”.10È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi”.11

Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia.12 “Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”.13 Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui...14 “È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”.15 Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente”.16 “Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio»,17 diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”.18 Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”.19 

Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars era diventata il grande ospedale delle anime”.20 “La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo.21 Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”.22 “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.23

Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”.24 Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”.25 A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”,26 diceva. “Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”.27 Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!”.28 E insegnava loro a pregare: “Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”.29 

Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore: Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che l’anima si intorpidisce”30; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote: “Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto”.31 Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva, resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione.

Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.32 Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”.33 Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli.34

Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana”.35 Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”,36alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”.37Spiegava: “Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente”.38 Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri”.39 Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!”.40 Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato.41 Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”.42 Solo l’obbedienza e la passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito”.43 La regola d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio”.44

Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”.45 A questo proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza”.46 Tali doni che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire “un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”.47 Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo.48 Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva.49 Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo.

L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana?

Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”.50 Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”.51Alla Vergine Santissima affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace!

Con la mia benedizione.

 Dal Vaticano, 16 giugno 2009 

 BENEDICTUS PP. XVI



1  Tale lo ha proclamato il Sommo Pontefice Pio XI nel 1929.
2  “Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus (in Le curé d’Ars. Sa pensée - Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966, p. 98). In seguito:Nodet. L’espressione è citata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1589.
3  Nodet, p. 101
4  Ibid., p. 97.
5  Ibid., pp. 98-99.
6  Ibid., pp. 98-100.
7  Ibid., 183.
8  Monnin A.,Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, ed. Marietti, Torino 1870, p. 122.
9  Cfr Lumen gentium, 10.
10  Presbyterorum ordinis, 9.
11  Ibid.
12  «La contemplazione è sguardo di fede fissato su Gesù. “Io lo guardo ed egli mi guarda”, diceva, al suo santo Curato, il contadino d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2715)
13  Nodet, p. 85.
14  Ibid., p. 114.
15  Ibid., p. 119.
16  Monnin A., o.c., II, pp. 430ss.
17  Nodet, p. 105.
18  Ibid., p. 105.
19  Ibid., p. 104.
20  Monnin A., o. c., II, p. 293.
21  Ibid., II, p. 10.
22  Nodet, p. 128.
23  Ibid., p. 50.
24  Ibid., p. 131.
25  Ibid., p. 130.
26  Ibid., p. 27.
27  Ibid., p. 139.
28  Ibid., p. 28.
29  Ibid., p. 77.
30  Ibid., p. 102.
31  Ibid., p. 189.
32  Evangelii nuntiandi, 41.
33  Benedetto XVI, Omelia nella Messa del S. Crisma, 9.4.2009. 
34  Cfr Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea plenaria della Congregazione del Clero, 16.3.2009.
35  P.I.
36  Nome che diede alla casa dove fece accogliere e educare più di 60 ragazze abbandonate. Per mantenerla era disposto a tutto: “J’ai fait tous les commerces imaginables”, diceva sorridendo (Nodet, p. 214)
37  Nodet,p. 216.
38  Ibid., p. 215.
39  Ibid., p. 216.
40  Ibid., p. 214.
41  Cfr Ibid., p. 112.
42  Cfr Ibid., pp. 82-84; 102-103.
43  Ibid., p. 75.
44  Ibid., p. 76.
45  Benedetto XVI, Omelia nella Veglia di Pentecoste, 3.6. 2006.
46  N. 9.
47  Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari e della Comunità di Sant’Egidio, 8.2.2007.
48  Cfr n. 17.
49  Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores dabo vobis, 74.
50  Lettera enc. Sacerdotii nostri primordia, P. III.
51  Nodet, p. 244.

[00960-01.01] [Testo originale: Italiano]

TESTO IN LINGUA INGLESE

 Dear Brother Priests,

       On the forthcoming Solemnity of the Most Sacred Heart of Jesus, Friday 19 June 2009 – a day traditionally devoted to prayer for the sanctification of the clergy –, I have decided to inaugurate a “Year for Priests” in celebration of the 150th anniversary of the “dies natalis” of John Mary Vianney, the patron saint of parish priests worldwide.1 This Year, meant to deepen the commitment of all priests to interior renewal for the sake of a more forceful and incisive witness to the Gospel in today’s world, will conclude on the same Solemnity in 2010. The priesthood is the love of the heart of Jesus”, the saintly Curé of Ars would often say.2 This touching expression makes us reflect, first of all, with heartfelt gratitude on the immense gift which priests represent, not only for the Church, but also for humanity itself. I think of all those priests who quietly present Christ’s words and actions each day to the faithful and to the whole world, striving to be one with the Lord in their thoughts and their will, their sentiments and their style of life. How can I not pay tribute to their apostolic labours, their tireless and hidden service, their universal charity? And how can I not praise the courageous fidelity of so many priests who, even amid difficulties and incomprehension, remain faithful to their vocation as “friends of Christ”, whom he has called by name, chosen and sent?

        I still treasure the memory of the first parish priest at whose side I exercised my ministry as a young priest: he left me an example of unreserved devotion to his pastoral duties, even to meeting death in the act of bringing viaticum to a gravely ill person. I also recall the countless confreres whom I have met and continue to meet, not least in my pastoral visits to different countries: men generously dedicated to the daily exercise of their priestly ministry. Yet the expression of Saint John Mary also makes us think of Christ’s pierced Heart and the crown of thorns which surrounds it. I am also led to think, therefore, of the countless situations of suffering endured by many priests, either because they themselves share in the manifold human experience of pain or because they encounter misunderstanding from the very persons to whom they minister. How can we not also think of all those priests who are offended in their dignity, obstructed in their mission and persecuted, even at times to offering the supreme testimony of their own blood?

          There are also, sad to say, situations which can never be sufficiently deplored where the Church herself suffers as a consequence of infidelity on the part of some of her ministers. Then it is the world which finds grounds for scandal and rejection. What is most helpful to the Church in such cases is not only a frank and complete acknowledgment of the weaknesses of her ministers, but also a joyful and renewed realization of the greatness of God’s gift, embodied in the splendid example of generous pastors, religious afire with love for God and for souls, and insightful, patient spiritual guides. Here the teaching and example of Saint John Mary Vianney can serve as a significant point of reference for us all. The Curé of Ars was quite humble, yet as a priest he was conscious of being an immense gift to his people: “A good shepherd, a pastor after God’s heart, is the greatest treasure which the good Lord can grant to a parish, and one of the most precious gifts of divine mercy”.3 He spoke of the priesthood as if incapable of fathoming the grandeur of the gift and task entrusted to a human creature: “O, how great is the priest! … If he realized what he is, he would die… God obeys him: he utters a few words and the Lord descends from heaven at his voice, to be contained within a small host…”.4 Explaining to his parishioners the importance of the sacraments, he would say: “Without the Sacrament of Holy Orders, we would not have the Lord. Who put him there in that tabernacle? The priest. Who welcomed your soul at the beginning of your life? The priest. Who feeds your soul and gives it strength for its journey? The priest. Who will prepare it to appear before God, bathing it one last time in the blood of Jesus Christ? The priest, always the priest. And if this soul should happen to die [as a result of sin], who will raise it up, who will restore its calm and peace? Again, the priest… After God, the priest is everything! … Only in heaven will he fully realize what he is”.5 These words, welling up from the priestly heart of the holy pastor, might sound excessive. Yet they reveal the high esteem in which he held the sacrament of the priesthood. He seemed overwhelmed by a boundless sense of responsibility: “Were we to fully realize what a priest is on earth, we would die: not of fright, but of love… Without the priest, the passion and death of our Lord would be of no avail. It is the priest who continues the work of redemption on earth… What use would be a house filled with gold, were there no one to open its door? The priest holds the key to the treasures of heaven: it is he who opens the door: he is the steward of the good Lord; the administrator of his goods … Leave a parish for twenty years without a priest, and they will end by worshiping the beasts there … The priest is not a priest for himself, he is a priest for you”.6

       He arrived in Ars, a village of 230 souls, warned by his Bishop beforehand that there he would find religious practice in a sorry state: “There is little love of God in that parish; you will be the one to put it there”. As a result, he was deeply aware that he needed to go there to embody Christ’s presence and to bear witness to his saving mercy: “[Lord,] grant me the conversion of my parish; I am willing to suffer whatever you wish, for my entire life!”: with this prayer he entered upon his mission.7 The Curé devoted himself completely to his parish’s conversion, setting before all else the Christian education of the people in his care. Dear brother priests, let us ask the Lord Jesus for the grace to learn for ourselves something of the pastoral plan of Saint John Mary Vianney! The first thing we need to learn is the complete identification of the man with his ministry. In Jesus, person and mission tend to coincide: all Christ’s saving activity was, and is, an expression of his “filial consciousness” which from all eternity stands before the Father in an attitude of loving submission to his will. In a humble yet genuine way, every priest must aim for a similar identification. Certainly this is not to forget that the efficacy of the ministry is independent of the holiness of the minister; but neither can we overlook the extraordinary fruitfulness of the encounter between the ministry’s objective holiness and the subjective holiness of the minister. The Curé of Ars immediately set about this patient and humble task of harmonizing his life as a minister with the holiness of the ministry he had received, by deciding to “live”, physically, in his parish church: As his first biographer tells us: “Upon his arrival, he chose the church as his home. He entered the church before dawn and did not leave it until after the evening Angelus. There he was to be sought whenever needed”.8

       The pious excess of his devout biographer should not blind us to the fact that the Curé also knew how to “live” actively within the entire territory of his parish: he regularly visited the sick and families, organized popular missions and patronal feasts, collected and managed funds for his charitable and missionary works, embellished and furnished his parish church, cared for the orphans and teachers of the “Providence” (an institute he founded); provided for the education of children; founded confraternities and enlisted lay persons to work at his side.

       His example naturally leads me to point out that there are sectors of cooperation which need to be opened ever more fully to the lay faithful. Priests and laity together make up the one priestly people9 and in virtue of their ministry priests live in the midst of the lay faithful, “that they may lead everyone to the unity of charity, ‘loving one another with mutual affection; and outdoing one another in sharing honour’” (Rom 12:10).10 Here we ought to recall the Second Vatican Council’s hearty encouragement to priests “to be sincere in their appreciation and promotion of the dignity of the laity and of the special role they have to play in the Church’s mission. … They should be willing to listen to lay people, give brotherly consideration to their wishes, and acknowledge their experience and competence in the different fields of human activity. In this way they will be able together with them to discern the signs of the times”.11

       Saint John Mary Vianney taught his parishioners primarily by the witness of his life. It was from his example that they learned to pray, halting frequently before the tabernacle for a visit to Jesus in the Blessed Sacrament.12 “One need not say much to pray well” – the Curé explained to them – “We know that Jesus is there in the tabernacle: let us open our hearts to him, let us rejoice in his sacred presence. That is the best prayer”.13 And he would urge them: “Come to communion, my brothers and sisters, come to Jesus. Come to live from him in order to live with him…14 “Of course you are not worthy of him, but you need him!”.15 This way of educating the faithful to the Eucharistic presence and to communion proved most effective when they saw him celebrate the Holy Sacrifice of the Mass. Those present said that “it was not possible to find a finer example of worship… He gazed upon the Host with immense love”.16 “All good works, taken together, do not equal the sacrifice of the Mass” – he would say – “since they are human works, while the Holy Mass is the work of God”.17 He was convinced that the fervour of a priest’s life depended entirely upon the Mass: “The reason why a priest is lax is that he does not pay attention to the Mass! My God, how we ought to pity a priest who celebrates as if he were engaged in something routine!”.18 He was accustomed, when celebrating, also to offer his own life in sacrifice: “What a good thing it is for a priest each morning to offer himself to God in sacrifice!”.19

       This deep personal identification with the Sacrifice of the Cross led him – by a sole inward movement – from the altar to the confessional. Priests ought never to be resigned to empty confessionals or the apparent indifference of the faithful to this sacrament. In France, at the time of the Curé of Ars, confession was no more easy or frequent than in our own day, since the upheaval caused by the revolution had long inhibited the practice of religion. Yet he sought in every way, by his preaching and his powers of persuasion, to help his parishioners to rediscover the meaning and beauty of the sacrament of Penance, presenting it as an inherent demand of the Eucharistic presence. He thus created a “virtuous” circle. By spending long hours in church before the tabernacle, he inspired the faithful to imitate him by coming to visit Jesus with the knowledge that their parish priest would be there, ready to listen and offer forgiveness. Later, the growing numbers of penitents from all over France would keep him in the confessional for up to sixteen hours a day. It was said that Ars had become “a great hospital of souls”.20 His first biographer relates that “the grace he obtained [for the conversion of sinners] was so powerful that it would pursue them, not leaving them a moment of peace!”.21 The saintly Curé reflected something of the same idea when he said: “It is not the sinner who returns to God to beg his forgiveness, but God himself who runs after the sinner and makes him return to him”.22 “This good Saviour is so filled with love that he seeks us everywhere”.23

       We priests should feel that the following words, which he put on the lips of Christ, are meant for each of us personally: “I will charge my ministers to proclaim to sinners that I am ever ready to welcome them, that my mercy is infinite”.24 From Saint John Mary Vianney we can learn to put our unfailing trust in the sacrament of Penance, to set it once more at the centre of our pastoral concerns, and to take up the “dialogue of salvation” which it entails. The Curé of Ars dealt with different penitents in different ways. Those who came to his confessional drawn by a deep and humble longing for God’s forgiveness found in him the encouragement to plunge into the “flood of divine mercy” which sweeps everything away by its vehemence. If someone was troubled by the thought of his own frailty and inconstancy, and fearful of sinning again, the Curé would unveil the mystery of God’s love in these beautiful and touching words: “The good Lord knows everything. Even before you confess, he already knows that you will sin again, yet he still forgives you. How great is the love of our God: he even forces himself to forget the future, so that he can grant us his forgiveness!”.25 But to those who made a lukewarm and rather indifferent confession of sin, he clearly demonstrated by his own tears of pain how “abominable” this attitude was: “I weep because you don’t weep”,26 he would say. “If only the Lord were not so good! But he is so good! One would have to be a brute to treat so good a Father this way!”.27 He awakened repentance in the hearts of the lukewarm by forcing them to see God’s own pain at their sins reflected in the face of the priest who was their confessor. To those who, on the other hand, came to him already desirous of and suited to a deeper spiritual life, he flung open the abyss of God’s love, explaining the untold beauty of living in union with him and dwelling in his presence: “Everything in God’s sight, everything with God, everything to please God… How beautiful it is!”.28 And he taught them to pray: “My God, grant me the grace to love you as much as I possibly can”.29

       In his time the Curé of Ars was able to transform the hearts and the lives of so many people because he enabled them to experience the Lord’s merciful love. Our own time urgently needs a similar proclamation and witness to the truth of Love: Deus caritas est (1 Jn: 4:8). Thanks to the word and the sacraments of Jesus, John Mary Vianney built up his flock, although he often trembled from a conviction of his personal inadequacy, and desired more than once to withdraw from the responsibilities of the parish ministry out of a sense of his unworthiness. Nonetheless, with exemplary obedience he never abandoned his post, consumed as he was by apostolic zeal for the salvation of souls. He sought to remain completely faithful to his own vocation and mission through the practice of an austere asceticism: “The great misfortune for us parish priests – he lamented – is that our souls grow tepid”; meaning by this that a pastor can grow dangerously inured to the state of sin or of indifference in which so many of his flock are living.30 He himself kept a tight rein on his body, with vigils and fasts, lest it rebel against his priestly soul. Nor did he avoid self-mortification for the good of the souls in his care and as a help to expiating the many sins he heard in confession. To a priestly confrere he explained: “I will tell you my recipe: I give sinners a small penance and the rest I do in their place”.31 Aside from the actual penances which the Curé of Ars practiced, the core of his teaching remains valid for each of us: souls have been won at the price of Jesus’ own blood, and a priest cannot devote himself to their salvation if he refuses to share personally in the “precious cost” of redemption.

       In today’s world, as in the troubled times of the Curé of Ars, the lives and activity of priests need to be distinguished by a forceful witness to the Gospel. As Pope Paul VI rightly noted, “modern man listens more willingly to witnesses than to teachers, and if he does listen to teachers, it is because they are witnesses”.32 Lest we experience existential emptiness and the effectiveness of our ministry be compromised, we need to ask ourselves ever anew: “Are we truly pervaded by the word of God? Is that word truly the nourishment we live by, even more than bread and the things of this world? Do we really know that word? Do we love it? Are we deeply engaged with this word to the point that it really leaves a mark on our lives and shapes our thinking?”.33 Just as Jesus called the Twelve to be with him (cf. Mk 3:14), and only later sent them forth to preach, so too in our days priests are called to assimilate that “new style of life” which was inaugurated by the Lord Jesus and taken up by the Apostles.34

       It was complete commitment to this “new style of life” which marked the priestly ministry of the Curé of Ars. Pope John XXIII, in his Encyclical Letter Sacerdotii nostri primordia, published in 1959 on the first centenary of the death of Saint John Mary Vianney, presented his asceticism with special reference to the “three evangelical counsels” which the Pope considered necessary also for priests: “even though priests are not bound to embrace these evangelical counsels by virtue of the clerical state, these counsels nonetheless offer them, as they do all the faithful, the surest road to the desired goal of Christian perfection”.35 The Curé of Ars lived the “evangelical counsels” in a way suited to his priestly state. His poverty was not the poverty of a religious or a monk, but that proper to a priest: while managing much money (since well-to-do pilgrims naturally took an interest in his charitable works), he realized that everything had been donated to his church, his poor, his orphans, the girls of his “Providence”,36 his families of modest means. Consequently, he “was rich in giving to others and very poor for himself”.37 As he would explain: “My secret is simple: give everything away; hold nothing back”.38 When he lacked money, he would say aimiably to the poor who knocked at his door: “Today I’m poor just like you, I’m one of you”.39 At the end of his life, he could say with absolute tranquillity: “I no longer have anything. The good Lord can call me whenever he wants!”.40 His chastity, too, was that demanded of a priest for his ministry. It could be said that it was a chastity suited to one who must daily touch the Eucharist, who contemplates it blissfully and with that same bliss offers it to his flock. It was said of him that “he radiated chastity”; the faithful would see this when he turned and gazed at the tabernacle with loving eyes”.41 Finally, Saint John Mary Vianney’s obedience found full embodiment in his conscientious fidelity to the daily demands of his ministry. We know how he was tormented by the thought of his inadequacy for parish ministry and by a desire to flee “in order to bewail his poor life, in solitude”.42 Only obedience and a thirst for souls convinced him to remain at his post. As he explained to himself and his flock: “There are no two good ways of serving God. There is only one: serve him as he desires to be served”.43 He considered this the golden rule for a life of obedience: “Do only what can be offered to the good Lord”.44

       In this context of a spirituality nourished by the practice of the evangelical counsels, I would like to invite all priests, during this Year dedicated to them, to welcome the new springtime which the Spirit is now bringing about in the Church, not least through the ecclesial movements and the new communities. “In his gifts the Spirit is multifaceted… He breathes where he wills. He does so unexpectedly, in unexpected places, and in ways previously unheard of… but he also shows us that he works with a view to the one body and in the unity of the one body”.45 In this regard, the statement of the Decree Presbyterorum Ordinis continues to be timely: “While testing the spirits to discover if they be of God, priests must discover with faith, recognize with joy and foster diligently the many and varied charismatic gifts of the laity, whether these be of a humble or more exalted kind”.46 These gifts, which awaken in many people the desire for a deeper spiritual life, can benefit not only the lay faithful but the clergy as well. The communion between ordained and charismatic ministries can provide “a helpful impulse to a renewed commitment by the Church in proclaiming and bearing witness to the Gospel of hope and charity in every corner of the world”.47 I would also like to add, echoing the Apostolic Exhortation Pastores Dabo Vobis of Pope John Paul II, that the ordained ministry has a radical “communitarian form” and can be exercised only in the communion of priests with their Bishop.48 This communion between priests and their Bishop, grounded in the sacrament of Holy Orders and made manifest in Eucharistic concelebration, needs to be translated into various concrete expressions of an effective and affective priestly fraternity.49 Only thus will priests be able to live fully the gift of celibacy and build thriving Christian communities in which the miracles which accompanied the first preaching of the Gospel can be repeated.

       The Pauline Year now coming to its close invites us also to look to the Apostle of the Gentiles, who represents a splendid example of a priest entirely devoted to his ministry. “The love of Christ urges us on” – he wrote – “because we are convinced that one has died for all; therefore all have died” (2 Cor 5:14). And he adds: “He died for all, so that those who live might live no longer for themselves, but for him who died and was raised for them” (2 Cor 5:15). Could a finer programme could be proposed to any priest resolved to advance along the path of Christian perfection?

       Dear brother priests, the celebration of the 150th anniversary of the death of Saint John Mary Vianney (1859) follows upon the celebration of the 150th anniversary of the apparitions of Lourdes (1858). In 1959 Blessed Pope John XXIII noted that “shortly before the Curé of Ars completed his long and admirable life, the Immaculate Virgin appeared in another part of France to an innocent and humble girl, and entrusted to her a message of prayer and penance which continues, even a century later, to yield immense spiritual fruits. The life of this holy priest whose centenary we are commemorating in a real way anticipated the great supernatural truths taught to the seer of Massabielle. He was greatly devoted to the Immaculate Conception of the Blessed Virgin; in 1836 he had dedicated his parish church to Our Lady Conceived without Sin and he greeted the dogmatic definition of this truth in 1854 with deep faith and great joy.”50 The Curé would always remind his faithful that “after giving us all he could, Jesus Christ wishes in addition to bequeath us his most precious possession, his Blessed Mother”.51

       To the Most Holy Virgin I entrust this Year for Priests. I ask her to awaken in the heart of every priest a generous and renewed commitment to the ideal of complete self-oblation to Christ and the Church which inspired the thoughts and actions of the saintly Curé of Ars. It was his fervent prayer life and his impassioned love of Christ Crucified that enabled John Mary Vianney to grow daily in his total self-oblation to God and the Church. May his example lead all priests to offer that witness of unity with their Bishop, with one another and with the lay faithful, which today, as ever, is so necessary. Despite all the evil present in our world, the words which Christ spoke to his Apostles in the Upper Room continue to inspire us: “In the world you have tribulation; but take courage, I have overcome the world” (Jn 16:33). Our faith in the Divine Master gives us the strength to look to the future with confidence. Dear priests, Christ is counting on you. In the footsteps of the Curé of Ars, let yourselves be enthralled by him. In this way you too will be, for the world in our time, heralds of hope, reconciliation and peace!

       With my blessing.

From the Vatican, 16 June 2009.

BENEDICTUS PP. XVI


1. He was proclaimed as such by Pope Pius XI in 1929.
2. “Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus” (in Le curé d’Ars. Sa pensée – Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966, p. 98). Hereafter: NODET. The expression is also quoted in the Catechism of the Catholic Church, No. 1589).
3. NODET, p. 101.
4. Ibid., p. 97.
5. Ibid., pp. 98-99.
6. Ibid., pp. 98-100.
7. Ibid., p. 183.
8. MONNIN, A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian.Battista-Maria Vianney, vol. I, ed. Marietti, Turin, 1870, p. 122.
9. Cf. Lumen Gentium, 10.
10. Presbyterorum Ordinis, 9.
11. Ibid.
12. “Contemplation is a gaze of faith, fixed on Jesus. ‘I look at him and he looks at me’: this is what a certain peasant of Ars used to say to his holy Curé about his prayer before the tabernacle” (Catechism of the Catholic Church, No. 2715).
13. NODET, p. 85.
14. Ibid., p. 114.
15. Ibid., p. 119.
16. MONNIN, A., op. cit., II, pp. 430ff.
17. NODET, p. 105.
18. Ibid.
19. Ibid., p. 104.
20. MONNIN, A., op. cit., II, p. 293.
21. Ibid., II, p. 10.
22. NODET, p. 128.
23. Ibid., p. 50.
24. Ibid., p. 131.
25. Ibid., p. 130.
26. Ibid., p. 27.
27. Ibid., p. 139.
28. Ibid., p. 28.
29. Ibid., p. 77.
30. Ibid., p. 102.
31. Ibid., p. 189.
32. Evangelii nuntiandi, 41.
33. BENEDICT XVI, Homily at the Chrism Mass, 9 April 2009.
34. Cf. BENEDICT XVI, Address to the Plenary Assembly of the Congregation for the Clergy, 16 March 2009.
35. P. I.
36. The name given to the house where more than sixty abandoned girls were taken in and educated. To maintain this house he would do anything: “J’ai fait tous les commerces imaginables”, he would say with a smile (NODET, p. 214).
37. NODET, p. 216.
38. Ibid., p. 215.
39. Ibid., p. 216.
40. Ibid., p. 214.
41. Cf. ibid., p. 112.
42. Cf. ibid., pp. 82-84; 102-103.
43. Ibid., p. 75.
44. Ibid., p. 76.
45. BENEDICT XVI, Homily for the Vigil of Pentecost, 3 June 2006.
46. No. 9.
47. BENEDICT XVI, Address to Bishop-Friends of the Focolare Movement and the Sant’Egidio Community, 8 February 2007
48. Cf. No. 17.
49. Cf. JOHN PAUL II, Apostolic Exhortation Pastores Dabo Vobis, 74.
50. Encyclical Letter Sacerdotii nostri primordia, P. III.
51. NODET, p. 244.

[00960-02.01] [Original text: English]

 

TESTO IN LINGUA FRANCESE

Chers Frères dans le sacerdoce,

         En la prochaine solennité du Sacré-Cœur de Jésus, vendredi 19 juin 2009 – journée traditionnellement consacrée à la prière pour la sanctification des prêtres –, j’ai pensé ouvrir officiellement une « Année sacerdotale » à l’occasion du 150e anniversaire du « dies natalis » de Jean-Marie Vianney, le saint patron de tous les curés du monde1. Une telle année, qui veut contribuer à promouvoir un engagement de renouveau intérieur de tous les prêtres afin de rendre plus incisif et plus vigoureux leur témoignage évangélique dans le monde d’aujourd’hui, se conclura en la même solennité de l’année 2010. « Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus », avait coutume de dire le Saint Curé d’Ars2 . Cette expression touchante nous permet avant tout d’évoquer avec tendresse et reconnaissance l’immense don que sont les prêtres non seulement pour l'Église, mais aussi pour l’humanité elle-même. Je pense à tous ces prêtres qui présentent aux fidèles chrétiens et au monde entier l’offrande humble et quotidienne des paroles et des gestes du Christ, s’efforçant de Lui donner leur adhésion par leurs pensées, leur volonté, leurs sentiments et le style de toute leur existence. Comment ne pas mettre en évidence leurs labeurs apostoliques, leur service inlassable et caché, leur charité ouverte à l’universel ? Et que dire de la courageuse fidélité de tant de prêtres qui, bien que confrontés à des difficultés et à des incompréhensions, restent fidèles à leur vocation : celle d’« amis du Christ », qui ont reçu de Lui un appel particulier, ont été choisis et envoyés ?

         Je porte moi-même encore vivant dans mon cœur le souvenir du premier curé auprès de qui j’ai exercé mon ministère de jeune prêtre : il m’a laissé l’exemple d’un dévouement sans faille à son service pastoral, au point de trouver la mort alors qu’il allait porter le viatique à un malade grave. Me viennent encore à la mémoire les innombrables confrères que j’ai rencontrés et que je continue à rencontrer, même au cours de mes voyages pastoraux en divers pays ; tous généreusement engagés dans l’exercice quotidien de leur ministère sacerdotal. Mais l’expression utilisée par le Saint Curé évoque aussi le Cœur transpercé du Christ et la couronne d’épines qui l’entoure. Et notre pensée se tourne alors vers les innombrables situations de souffrance dans lesquelles sont plongés bien des prêtres, soit parce qu’ils participent à l’expérience humaine de la douleur dans ses multiples manifestations, soit parce qu’ils sont incompris par ceux qui bénéficient de leur ministère : comment ne pas nous souvenir de tant de prêtres bafoués dans leur dignité, empêchés d’accomplir leur mission, parfois même persécutés jusqu’au témoignage suprême du sang ?

         Il existe aussi malheureusement des situations, jamais assez déplorées, où l'Église elle-même souffre de l’infidélité de certains de ses ministres. Et c’est pour le monde un motif de scandale et de refus. Ce qui, dans de tels cas peut être surtout profitable pour l'Église, ce n’est pas tant la pointilleuse révélation des faiblesses de ses ministres, mais plutôt une conscience renouvelée et joyeuse de la grandeur du don de Dieu, concrétisé dans les figures splendides de pasteurs généreux, de religieux brûlant d’amour pour Dieu et pour les âmes, de directeurs spirituels éclairés et patients. A cet égard, les enseignements et les exemples de saint Jean-Marie Vianney peuvent offrir à tous un point de référence significatif : le Curé d’Ars était très humble, mais il avait conscience, comme prêtre, d’être un don immense pour son peuple : « Un bon pasteur, un pasteur selon le cœur de Dieu, c’est là le plus grand trésor que le bon Dieu puisse accorder à une paroisse, et un des plus précieux dons de la miséricorde divine »3. Il parlait du sacerdoce comme s’il ne réussissait pas à se convaincre de la grandeur du don et de la tâche confiés à une créature humaine : « Oh ! que le prêtre est quelque chose de grand ! s’il se comprenait, il mourrait… Dieu lui obéit : il dit deux mots et Notre Seigneur descend du ciel à sa voix et se renferme dans une petite hostie… »4. Et, pour expliquer à ses fidèles l’importance des sacrements, il disait : « Si nous n’avions pas le sacrement de l’Ordre, nous n’aurions pas Notre-Seigneur. Qui est-ce qui l’a mis là, dans le tabernacle ? Le prêtre. Qui est-ce qui a reçu notre âme à son entrée dans la vie ? Le prêtre. Qui la nourrit pour lui donner la force de faire son pèlerinage ? Le prêtre. Qui la préparera à paraître devant Dieu, en lavant cette âme pour la dernière fois dans le sang de Jésus-Christ ? Le prêtre, toujours le prêtre. Et si cette âme vient à mourir [à cause du péché], qui la ressuscitera, qui lui rendra le calme et la paix ? Encore le prêtre… Après Dieu, le prêtre c’est tout… Le prêtre ne se comprendra bien que dans le ciel »5. Ces affirmations, jaillies du cœur sacerdotal du saint curé, peuvent nous sembler excessives. Elles manifestent toutefois en quelle haute considération il tenait le sacrement du sacerdoce. Il semblait submergé par le sentiment d’une responsabilité sans bornes : « Si l’on comprenait bien le prêtre sur la terre, on mourrait non de frayeur, mais d’amour … Sans le prêtre, la mort et la passion de Notre-Seigneur ne serviraient de rien… C’est le prêtre qui continue l’œuvre de Rédemption, sur la terre… A quoi servirait une maison remplie d’or, si vous n’aviez personne pour ouvrir la porte ? Le prêtre a la clef des trésors célestes : c’est lui qui ouvre la porte ; il est l’économe du bon Dieu, l’administrateur de ses biens…. Laissez une paroisse vingt ans sans prêtre : on y adorera les bêtes… Le prêtre n’est pas prêtre pour lui… il est pour vous »6.

         Il était arrivé à Ars, un petit village de 230 habitants, prévenu par l’Évêque qu’il y aurait trouvé une situation religieuse précaire : « Il n’y a pas beaucoup d’amour de Dieu dans cette paroisse, vous l’y mettrez ». Il était donc pleinement conscient qu’il devait y aller pour y incarner la présence du Christ, témoignant de sa tendresse salvifique : « [Mon Dieu], accordez-moi la conversion de ma paroisse ; je consens à souffrir ce que vous voulez tout le temps de ma vie ! », c’est par cette prière qu’il commença sa mission7. Le Saint Curé se consacra à la conversion de sa paroisse de toutes ses forces, donnant la première place dans ses préoccupations à la formation chrétienne du peuple qui lui était confié. Chers frères dans le Sacerdoce, demandons au Seigneur Jésus la grâce de pouvoir apprendre nous aussi la méthode pastorale de saint Jean-Marie Vianney ! Ce que nous devons apprendre en tout premier lieu c’est sa totale identification à son ministère. En Jésus, Personne et Mission tendent à coïncider : toute son action salvifique était et est expression de son « Moi filial » qui, de toute éternité, se tient devant le Père dans une attitude de soumission pleine d’amour à sa volonté. Dans une humble mais réelle analogie, le prêtre lui aussi doit tendre à cette identification. Il ne s’agit pas évidemment d’oublier que l’efficacité substantielle du ministère demeure indépendante de la sainteté du ministre ; mais on ne peut pas non plus ignorer l’extraordinaire fécondité produite par la rencontre entre la sainteté objective du ministère et celle, subjective, du ministre. Le Saint Curé d’Ars se livra immédiatement à cet humble et patient travail d’harmonisation entre sa vie de ministre et la sainteté du ministère qui lui était confié, allant jusqu’à décider d’«  habiter » matériellement dans son église paroissiale : « A peine arrivé, il choisit l’église pour être sa demeure… Il entrait dans l’église avant l’aube et il n’en sortait qu’après l’Angelus du soir. C’est là qu’il fallait le chercher si l’on avait besoin de lui », peut-on lire dans sa première biographie8.

         La pieuse exagération du dévoué hagiographe ne doit pas nous induire à négliger le fait que le Saint Curé sut aussi « habiter » activement tout le territoire de sa paroisse : il rendait visite de manière systématique à tous les malades et aux familles ; il organisait des missions populaires et des fêtes patronales ; il recueillait et administrait des dons en argent pour ses œuvres charitables et missionnaires ; il embellissait son église en la dotant d’objets sacrés ; il s’occupait des orphelines de la « Providence » (un Institut qu’il avait fondé) et de leurs éducatrices ; il s’intéressait à l’éducation des enfants ; il créait des confréries et invitait les laïcs à collaborer avec lui.

         Son exemple me pousse à évoquer les espaces de collaboration que l’on doit ouvrir toujours davantage aux fidèles laïcs, avec lesquels les prêtres forment l’unique peuple sacerdotal9 et au milieu desquels, en raison du sacerdoce ministériel, ils se trouvent « pour les conduire tous à l’unité dans l’amour "s’aimant les uns les autres d’un amour fraternel, rivalisant d’égards entre eux" (Rm 12, 10) »10. Il convient de se souvenir, dans ce contexte, comment le Concile Vatican II encourageait chaleureusement les prêtres à « reconnaître sincèrement et à promouvoir la dignité des laïcs et la part propre qu’ils prennent dans la mission de l'Église… Ils doivent écouter de bon cœur les laïcs, en prenant fraternellement en considération leurs désirs, et en reconnaissant leur expérience et leur compétence dans les divers domaines de l’activité humaine, afin de pouvoir discerner avec eux les signes des temps »11.

         Le Saint Curé enseignait surtout ses paroissiens par le témoignage de sa vie. A son exemple, les fidèles apprenaient à prier, s’arrêtant volontiers devant le tabernacle pour faire une visite à Jésus Eucharistie12. « On n’a pas besoin de tant parler pour bien prier – leur expliquait le Curé – On sait que le bon Dieu est là, dans le saint Tabernacle ; on lui ouvre son cœur ; on se complaît en sa présence. C’est la meilleure prière, celle-là »13. Et il les exhortait : « Venez à la communion, venez à Jésus, venez vivre de lui, afin de vivre pour lui »14. « C’est vrai, vous n’en êtes pas dignes, mais vous en avez besoin ! »15. Cette éducation des fidèles à la présence eucharistique et à la communion revêtait une efficacité toute particulière, quand les fidèles le voyaient célébrer le saint sacrifice de la Messe. Ceux qui y assistaient disaient « qu’il n’était pas possible de voir un visage qui exprime à ce point l’adoration… Il contemplait l’Hostie avec tant d’amour »16. « Toutes les bonnes œuvres réunies – disait-il – n’équivalent pas au sacrifice de la messe, parce qu’elles sont les œuvres des hommes, et la sainte messe est l’œuvre de Dieu »17. Il était convaincu que toute la ferveur de la vie d’un prêtre dépendait de la Messe : « La cause du relâchement du prêtre, c’est qu’on ne fait pas attention à la messe ! Hélas ! Mon Dieu ! qu’un prêtre est à plaindre quand il fait cela comme une chose ordinaire ! »18. Et il avait pris l’habitude, quand il célébrait, d’offrir toujours le sacrifice de sa propre vie : « Oh ! qu’un prêtre fait bien de s’offrir à Dieu en sacrifice tous les matins »19.

         Cette identification personnelle au sacrifice de la Croix le conduisait – d’un seul mouvement intérieur – de l’autel au confessionnal. Les prêtres ne devraient jamais se résigner à voir les confessionnaux désertés ni se contenter de constater la désaffection des fidèles pour ce sacrement. Au temps du Saint Curé, en France, la confession n’était pas plus facile ni plus fréquente que de nos jours, compte tenu du fait que la tourmente de la Révolution avait étouffé pendant longtemps la pratique religieuse. Mais il s’est efforcé, de toutes les manières : par la prédication, en cherchant à persuader par ses conseils, à faire redécouvrir à ses paroissiens le sens et la beauté de la Pénitence sacramentelle, en montrant comment elle est une exigence intime de la Présence eucharistique. Il sut ainsi donner vie à un cercle vertueux. Par ses longues permanences à l’église, devant le tabernacle, il fit en sorte que les fidèles commencent à l’imiter, s’y rendant pour rendre visite à Jésus, et qu’ils soient en même temps sûrs d’y trouver leur curé, disponible pour l’écoute et le pardon. Par la suite, la foule croissante des pénitents qui venaient de la France entière, le retint au confessionnal jusqu’à 16 heures par jour. On disait alors qu’Ars était devenu « le grand hôpital des âmes »20. « La grâce qu’il obtenait [pour la conversion des pécheurs] était si puissante qu’elle allait à leur recherche sans leur laisser un moment de répit » dit le premier biographe21. C’est bien ce que pensait le Saint Curé quand il disait : « Ce n’est pas le pécheur qui revient à Dieu pour lui demander pardon ; mais c’est Dieu lui-même qui court après le pécheur et qui le fait revenir à lui »22. « Ce bon sauveur est si rempli d’amour pour nous qu’il nous cherche partout ! »23.

         Nous tous, prêtres, nous devrions réaliser que les paroles qu’il mettait dans la bouche du Christ nous concernent personnellement : « Je chargerai mes ministres de leur annoncer que je suis toujours prêt à les recevoir, que ma miséricorde est infinie »24. Du Saint Curé d’Ars, nous pouvons apprendre, nous prêtres, non seulement une inépuisable confiance dans le sacrement de la Pénitence au point de nous inciter à le remettre au centre de nos préoccupations pastorales, mais aussi une méthode pour le « dialogue de salut » qui doit s’établir en lui. Le Curé d’Ars avait une manière différente de se comporter avec les divers pénitents. Celui qui s’approchait de son confessionnal attiré par un besoin intime et humble du pardon de Dieu, trouvait en lui l’encouragement à se plonger dans « le torrent de la divine miséricorde » qui emporte tout dans son élan. Et si quelqu’un s’affligeait de sa faiblesse et de son inconstance, craignant les rechutes à venir, le Curé lui révélait le secret de Dieu par une expression d’une touchante beauté : « Le bon Dieu sait toutes choses. D’avance, il sait qu’après vous être confessé, vous pécherez de nouveau et cependant il vous pardonne. Quel amour que celui de notre Dieu qui va jusqu’à oublier volontairement l’avenir pour nous pardonner ! »25. A celui qui, à l’inverse, s’accusait avec tiédeur et de manière presque indifférente, il offrait, par ses larmes, la preuve de la souffrance et de la gravité que causait cette attitude « abominable » : « Je pleure de ce que vous ne pleurez pas »26, disait-il. « Encore, si le bon Dieu n’était si bon, mais il est si bon. Faut-il que l’homme soit barbare pour un si bon Père »27. Il faisait naître le repentir dans le cœur des tièdes, en les obligeant à voir, de leurs propres yeux et presque « incarnée » sur le visage du prêtre qui les confessait, la souffrance de Dieu devant les péchés. Par contre, si quelqu’un se présentait avec un désir déjà éveillé d’une vie spirituelle plus profonde et qu’il en était capable, il l’introduisait dans les profondeurs de l’amour, exposant l’indicible beauté que représente le fait de pouvoir vivre unis à Dieu et en sa présence : « Tout sous les yeux de Dieu, tout avec Dieu, tout pour plaire à Dieu… Oh ! que c’est beau ! »28. A ceux-là, il enseignait à prier : « Mon Dieu, faites-moi la grâce de vous aimer autant qu’il est possible que je vous aime »29.

         Le Curé d’Ars, en son temps, a su transformer le cœur et la vie de tant de personnes, parce qu’il a réussi à leur faire percevoir l’amour miséricordieux du Seigneur. Notre temps aussi a un besoin urgent d’une telle annonce et d’un tel témoignage de la vérité de l’Amour : Deus caritas est (1 Jn 4,8). Par la Parole et les Sacrements de son Jésus, Jean-Marie Vianney savait édifier son peuple, même si, souvent, il tremblait devant son incapacité personnelle, au point de désirer plus d’une fois être délivré des responsabilités du ministère paroissial dont il se sentait indigne. Toutefois, avec une obéissance exemplaire, il demeura toujours à son poste, parce qu’il était dévoré de la passion apostolique pour le salut des âmes. Il s’efforçait d’adhérer totalement à sa vocation et à sa mission en pratiquant une ascèse sévère : « Ce qui est un grand malheur, pour nous autres curés – déplorait le saint –, c’est que l’âme s’engourdit »30 ; et il faisait ainsi allusion au danger que court le pasteur de s’habituer à l’état de péché ou d’indifférence dans lequel se trouvent tant de ses brebis. Il maîtrisait son corps par des veilles et des jeûnes, afin d’éviter qu’il n’oppose résistance à son âme sacerdotale. Et il n’hésitait pas à s’infliger des mortifications pour le bien des âmes qui lui étaient confiées et pour contribuer à l’expiation de tant de péchés entendus en confession. A un confrère prêtre, il expliquait : « Je vais vous dire ma recette. Je leur donne une petite pénitence et je fais le reste à leur place »31. Par-delà ces pénitences concrètes auxquelles le Curé d’Ars se livrait, le noyau central de son enseignement demeure toujours valable pour tous : Jésus verse son sang pour les âmes et le prêtre ne peut se consacrer à leur salut s’il refuse de participer personnellement à ce « prix élevé » de la rédemption.

         Dans le monde d’aujourd’hui, comme dans les temps difficiles du Curé d’Ars, il faut que les prêtres, dans leur vie et leur action, se distinguent par la force de leur témoignage évangélique. Paul VI faisait remarquer avec justesse : « L’homme contemporain écoute plus volontiers les témoins que les maîtres, ou, s’il écoute les maîtres, c’est parce qu’ils sont des témoins »32. Pour éviter que ne surgisse en nous un vide existentiel et que ne soit compromise l’efficacité de notre ministère, il faut que nous nous interrogions toujours de nouveau : « Sommes-nous vraiment imprégnés de la Parole de Dieu ? Est-elle vraiment la nourriture qui nous fait vivre, plus encore que le pain et les choses de ce monde ? La connaissons-nous vraiment ? L’aimons-nous ? Intérieurement, nous préoccupons-nous de cette parole au point qu’elle façonne réellement notre vie et informe notre pensée ? »33. Tout comme Jésus appela les Douze pour qu’ils demeurent avec lui (cf. Mc 3,14) et que, après seulement, il les envoya prêcher, de même, de nos jours, les prêtres sont appelés à assimiler ce « nouveau style de vie » qui a été inauguré par le Seigneur Jésus et qui est devenu précisément celui des Apôtres34.

         C’est cette même adhésion sans réserve au « nouveau style de vie » qui fut la marque de l’engagement du Curé d’Ars dans tout son ministère. Le Pape Jean XXIII, dans l’Encyclique Sacerdotii nostri primordia, publiée en 1959 à l’occasion du premier centenaire de la mort de saint Jean-Marie Vianney, présentait sa physionomie ascétique sous le signe des « trois conseils évangéliques », qu’il jugeait nécessaires aussi pour les prêtres : « Si pour atteindre à cette sainteté de vie, la pratique des conseils évangéliques n’est pas imposée au prêtre en vertu de son état clérical, elle s’offre néanmoins à lui, comme à tous les disciples du Seigneur, comme la voie royale de la sanctification chrétienne »35. Le Curé d’Ars sut vivre les « conseils évangéliques » selon des modalités adaptées à sa condition de prêtre. Sa pauvreté, en effet, ne fut pas celle d’un religieux ou d’un moine, mais celle qui est demandée à un prêtre : tout en gérant de grosses sommes d’argent (puisque les pèlerins les plus riches ne manquaient pas de s’intéresser à ses œuvres de charité), il savait que tout était donné pour son église, pour les pauvres, pour ses orphelins et pour les enfants de sa « Providence »36, et pour les familles les plus nécessiteuses. Donc, il « était riche pour donner aux autres, et bien pauvre pour lui-même »37. Il expliquait : « Mon secret est bien simple, c’est de tout donner et de ne rien garder »38. Quand il lui arrivait d’avoir les mains vides, content, il disait aux pauvres qui s’adressaient à lui : « Je suis pauvre comme vous ; je suis aujourd’hui l’un des vôtres »39. Ainsi, à la fin de sa vie, il put affirmer dans une totale sérénité : « Je n’ai plus rien, le bon Dieu peut m’appeler quand il voudra »40. Sa chasteté était aussi celle qui était demandée à un prêtre pour son ministère. On peut dire qu’il s’agissait de la chasteté nécessaire à celui qui doit habituellement toucher l’Eucharistie et qui habituellement la contemple avec toute l’ardeur du cœur et qui, avec la même ferveur, la donne à ses fidèles. On disait de lui que « la chasteté brillait dans son regard », et les fidèles s’en rendaient compte quand il se tournait vers le tabernacle avec le regard d’un amoureux41. De même, l’obéissance de saint Jean-Marie Vianney fut entièrement incarnée dans son adhésion à toutes les souffrances liées aux exigences quotidiennes du ministère. On sait combien il était tourmenté par la pensée de son incapacité pour le ministère paroissial et par son désir de fuir « pour pleurer dans la solitude sur sa pauvre vie »42. L’obéissance seule, et sa passion pour les âmes, réussissaient à le convaincre de rester à son poste. Il montrait à ses fidèles, comme à lui-même qu’il « n’y a pas deux bonnes manières de servir Notre Seigneur, il n’y en a qu’une, c’est de le servir comme il veut être servi »43. Il lui semblait que la règle d’or pour une vie d’obéissance fut celle-ci : « Ne faire que ce que l’on peut offrir au bon Dieu »44

         Dans ce contexte d’une spiritualité nourrie par la pratique des conseils évangéliques, je tiens à adresser aux prêtres, en cette Année qui leur est consacrée, une invitation cordiale, celle de savoir accueillir le nouveau printemps que l’Esprit suscite de nos jours dans l'Église, en particulier grâce aux Mouvements ecclésiaux et aux nouvelles Communautés. « L’Esprit dans ses dons prend de multiples formes… Il souffle où il veut. Il le fait de manière inattendue, dans des lieux inattendus et sous des formes qu’on ne peut imaginer à l’avance… Il nous démontre également qu’il œuvre en vue de l’unique corps et dans l’unité de l’unique corps »45. Ce que dit à cet égard le Décret Presbyterorum ordinis est d’actualité : « Eprouvant les esprits pour savoir s’ils sont de Dieu, ils [les prêtres] chercheront à déceler, avec le sens de la foi, les charismes multiformes des laïcs, qu’ils soient humbles ou éminents, les reconnaîtront avec joie et les développeront avec un zèle empressé »46. Ces mêmes dons, qui poussent bien des personnes vers une vie spirituelle plus élevée, sont profitables non seulement pour les fidèles laïcs mais pour les ministres eux-mêmes. C’est de la communion entre ministres ordonnés et charismes que peut naître « un élan précieux pour un engagement renouvelé de l'Église au service de l’annonce et du témoignage de l’Évangile de l’espérance et de la charité partout à travers le monde »47. Je voudrais encore ajouter, dans la ligne de l’Exhortation apostolique Pastores dabo vobis du Pape Jean-Paul II, que le ministère ordonné a une « forme communautaire » radicale et qu’il ne peut être accompli que dans la communion des prêtres avec leur Évêque48. Il faut que cette communion des prêtres entre eux et avec leur Évêque, enracinée dans le sacrement de l’Ordre et manifestée par la concélébration eucharistique, se traduise dans les diverses formes concrètes d’une fraternité effective et affective49. Ainsi seulement, les prêtres pourront-ils vivre en plénitude le don du célibat et seront-ils capables de faire épanouir des communautés chrétiennes au sein desquelles se renouvellent les prodiges de la première prédication de l’Évangile.

         L’Année paulinienne qui arrive à sa fin nous invite à considérer encore la figure de l’Apôtre des Gentils dans laquelle brille à nos yeux un modèle splendide de prêtre complètement « donné » à son ministère. « L’amour du Christ nous presse – écrivait-il – à la pensée que, si un seul est mort pour tous, alors tous sont morts » (2 Co, 5, 14) et il ajoutait : « Il est mort pour tous, afin que les vivants ne vivent plus pour eux-mêmes, mais pour celui qui est mort et ressuscité pour eux » (2 Co 5, 15). Quel meilleur programme pourrait être proposé à un prêtre qui s’efforce de progresser sur le chemin de la perfection chrétienne ?

         Chers prêtres, la célébration du 150e anniversaire de la mort de saint Jean-Marie Vianney (1859) vient immédiatement après les célébrations achevées il y a peu du 150e anniversaire des apparitions de Lourdes (1858). Déjà en 1959, le bienheureux Pape Jean XXIII l’avait remarqué : « Peu avant que le Curé d’Ars n’achevât sa longue carrière pleine de mérites, [la Vierge Immaculée] était apparue dans une autre région de France à une enfant humble et pure pour lui communiquer un message de prière et de pénitence, dont on sait l’immense retentissement spirituel depuis un siècle. En vérité, l’existence du saint prêtre dont nous célébrons la mémoire, était à l’avance une vivante illustration des grandes vérités surnaturelles enseignées à la voyante de Massabielle ! Il avait lui-même pour l’Immaculée Conception de la Très Sainte Vierge une très vive dévotion, lui qui, en 1836, avait consacré sa paroisse à Marie conçue sans péché et devait accueillir avec tant de foi et de joie la définition dogmatique de 1854 »50. Le Saint Curé rappelait toujours à ses fidèles que « Jésus-Christ, après nous avoir donné tout ce qu’il pouvait nous donner, veut encore nous faire héritiers de ce qu’il y a de plus précieux, c’est-à-dire sa Sainte Mère »51.

         Je confie cette Année sacerdotale à la Vierge Sainte, lui demandant de susciter dans l’âme de chaque prêtre un renouveau généreux de ces idéaux de donation totale au Christ et à l'Église qui ont inspiré la pensée et l’action du Saint Curé d’Ars. La fervente vie de prière et l’amour passionné de Jésus crucifié ont nourri le don quotidien et sans réserve de Jean-Marie Vianney à Dieu et à l'Église. Puisse son exemple susciter parmi les prêtres ce témoignage d’unité avec l’Évêque, entre eux et avec les laïcs, qui est si nécessaire aujourd’hui, comme en tout temps. Malgré le mal qui se trouve dans le monde, la parole du Christ à ses Apôtres au Cénacle résonne toujours avec la même force d’actualité : « Dans le monde, vous aurez à souffrir, mais gardez courage ! J’ai vaincu le monde » (Jn 16, 33). La foi dans le divin Maître nous donne la force de regarder l’avenir avec confiance. Chers prêtres, le Christ compte sur vous. A l’exemple du Saint Curé d’Ars, laissez-vous conquérir par Lui et vous serez vous aussi, dans le monde d’aujourd’hui, des messagers d’espérance, de réconciliation et de paix !

         Avec ma bénédiction.

          Du Vatican, le 16 juin 2009.

BENEDICTUS PP. XVI


1. C’est ainsi que l’a proclamé le Souverain Pontife Pie XI en 1929.
2.« Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus »(in Le Curé d’Ars, Sa pensée, Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966, p. 98). Par la suite : Nodet. L’expression est citée aussi dans le Catéchisme de l'Église catholique, n. 1589. 
3.Nodet, p. 101.
4.Ibid., p. 97.
5.Ibid., pp. 98-99.
6.Ibid., pp. 98-100.
7.Ibid., p. 183.
8.Alfred Monnin, Le Curé d’Ars.Vie de M. Jean-Baptiste Marie Vianney, I, Charles Douniol, 1868. 
9. Cf. Lumen gentium, n. 10.
10.Presbyterorum ordinis, n. 9.
11.Ibid.
12.« La contemplation est regard de foi, fixé sur Jésus. "Je L’avise et Il m’avise", disait au temps de son saint Curé le paysan d’Ars en prière devant le Tabernacle » (Catéchisme de l'Église catholique, n. 2715).
13. Nodet, p. 85.
14.Ibid., p. 114.
15.Ibid., p. 119.
16.Alfred Monnin, o.c.. II.
17.Nodet, p. 105.
18.Ibid., p. 105.
19.Ibid., p. 104.
20.Alfred Monnin, o.c. , II.
21.Ibid. 
22.Nodet, p. 128.
23.Ibid., p. 50.
24.Ibid., p. 131.
25.Ibid., p. 130.
26.Ibid., p. 27.
27.Ibid., p. 139.
28. Ibid., p. 28.
29.Ibid., p. 77.
30.Ibid., p. 102.
31.Ibid., p. 189.
32.Evangeli nuntiandi, n . 41.
33.BenoîtXVI, Homélie de la Messe Chrismale, 9 avril 2009.
34. Cf. Benoît XVI, Discours à l’Assemblée plénière de la Congrégation pour le Clergé, 16 mars 2009.
35.Pars I.
36. C’est le nom qu’il donna à la maison où il fit recueillir et éduquer plus de 60 petites filles abandonnées. Il était prêt à tout pour la maintenir : « J’ai fait tous les commerces imaginables », disait-il en souriant (Nodet, p. 214).
37.Nodet, p. 216.
38.Ibid., p. 215.
39.Ibid., p. 216.
40.Ibid., p. 214.
41. Cf. Ibid., p. 112.
42. Cf. Ibid., pp. 82-84 ; 102-103.
43.Ibid., p. 75.
44.Ibid., p. 76.
45.BenoîtXVI, Homélie de la Vigile de Pentecôte, 3 juin 2006.
46. N. 9.
47.Benoît XVI, Discours aux Évêques amis du Mouvement des Focolari et de la Communauté de Sant’Egidio, 8 février 2007.
48. Cf. n. 17.
49. Cf. Jean-Paul II, Exhort. Ap.Pastores dabo vobis, n. 74.
50. Encycl. Sacerdotii nostri primordia, P III.
51.Nodet, p. 244.

[00960-03.01] [Texte original: Français]

TESTO IN LINGUA TEDESCA

Liebe Mitbrüder im priesterlichen Dienst, 

       am kommenden Hochfest des Heiligsten Herzens Jesu, Freitag, dem 19. Juni 2009 – dem Tag, der traditionsgemäß dem Gebet um die Heiligung der Priester gewidmet ist – möchte ich anläßlich des 150. Jahrestags des „dies natalis“ von Johannes Maria Vianney, dem Schutzheiligen aller Pfarrer der Welt1, offiziell ein „Jahr der Priester“ ausrufen. Dieses Jahr, das dazu beitragen möchte, das Engagement einer inneren Erneuerung aller Priester für ein noch stärkeres und wirksameres Zeugnis für das Evangelium in der Welt von heute zu fördern, wird 2010 wiederum an diesem Hochfest seinen Abschluß finden. „Das Priestertum ist die Liebe des Herzens Jesu“, pflegte der heilige Pfarrer von Ars zu sagen.2 Diese bewegende Formulierung veranlaßt uns vor allem, uns innerlich angerührt und dankbar bewußt zu werden, welch unermeßliches Geschenk die Priester nicht nur für die Kirche, sondern auch für die Menschheit überhaupt sind. Ich denke an all die Priester, die in Demut Tag für Tag den Christgläubigen und der ganzen Welt die Worte und Taten Christi nahebringen, indem sie versuchen, mit ihren Gedanken, ihrem Willen, ihren Gefühlen und ihrem gesamten Lebensstil mit ihm übereinzustimmen. Wie könnte man es versäumen, ihre apostolischen Mühen, ihren unermüdlichen und verborgenen Dienst und ihre im Grunde allumfassende Liebe zu unterstreichen? Und was soll man zu der mutigen Treue so vieler Priester sagen, die – wenn auch inmitten von Schwierigkeiten und Unverständnis – ihrer Berufung treu bleiben, „Freunde Christi“ zu sein, die von ihm in besonderer Weise gerufen, erwählt und ausgesandt sind? 

Ich selbst trage noch die Erinnerung an den ersten Pfarrer im Herzen, an dessen Seite ich meinen Dienst als junger Priester ausübte: Er hinterließ mir das Beispiel einer rückhaltlosen Hingabe an seine seelsorgliche Aufgabe bis zu seinem Tod, der ihn ereilte, als er einem Schwerkranken das Sakrament der Wegzehrung brachte. 

Und dann kommen mir die unzähligen Mitbrüder in den Sinn, denen ich begegnet bin und immer noch begegne, auch während meiner Pastoralreisen in die verschiedenen Nationen – Mitbrüder, die großherzig in der täglichen Ausübung ihres priesterlichen Dienstes aufgehen. Aber die vom heiligen Pfarrer von Ars gebrauchte Formulierung ruft auch die Erinnerung an das durchbohrte Herz Christi und an die Dornenkrone auf seinem Haupt wach. Folglich gehen die Gedanken zu den unzähligen Situationen des Leidens, in die viele Priester hineingezogen sind, sei es weil sie Anteil nehmen an den menschlichen Erfahrungen von Schmerz in der Vielfalt seiner Ausdrucksformen, sei es weil sie bei denjenigen, denen ihr Dienst gilt, auf Unverständnis stoßen: Wie könnte man die vielen Priester vergessen, die in ihrer Würde verletzt, in ihrer Sendung behindert, manchmal sogar bis hin zum extremen Zeugnis der Hingabe des eigenen Lebens verfolgt werden?

Leider gibt es auch Situationen, die nie genug beklagt werden können, in denen es die Kirche selber ist, die leidet, und zwar wegen der Untreue einiger ihrer Diener. Die Welt findet dann darin Grund zu Anstoß und Ablehnung. Was in solchen Fällen der Kirche am hilfreichsten sein kann, ist weniger die eigensinnige Aufdeckung der Schwächen ihrer Diener, als vielmehr das erneute und frohe Bewußtsein der Größe des Geschenkes Gottes, das in leuchtender Weise Gestalt angenommen hat in großherzigen Hirten, in von brennender Liebe zu Gott und den Menschen erfüllten Ordensleuten, in erleuchteten und geduldigen geistlichen Führern. In diesem Zusammenhang können die Lehren und die Beispiele des heiligen Johannes Maria Vianney allen einen bedeutsamen Anhaltspunkt bieten: Der Pfarrer von Ars war äußerst demütig, doch er wußte, daß er als Priester ein unermeßliches Geschenk für seine Leute war: „Ein guter Hirte, ein Hirte nach dem Herzen Gottes, ist der größte Schatz, den der liebe Gott einer Pfarrei gewähren kann, und eines der wertvollsten Geschenke der göttlichen Barmherzigkeit.“3 Er sprach vom Priestertum, als könne er die Größe der dem Geschöpf Mensch anvertrauten Gabe und Aufgabe einfach nicht fassen: „Oh, wie groß ist der Priester! … Wenn er sich selbst verstünde, würde er sterben … Gott gehorcht ihm: Er spricht zwei Sätze aus, und auf sein Wort hin steigt der Herr vom Himmel herab und schließt sich in eine kleine Hostie ein…“4 Und als er seinen Gläubigen die Bedeutsamkeit der Sakramente erklärte, sagte er: „Ohne das Sakrament der Weihe hätten wir den Herrn nicht. Wer hat ihn da in den Tabernakel gesetzt? Der Priester. Wer hat Eure Seele beim ersten Eintritt in das Leben aufgenommen? Der Priester. Wer nährt sie, um ihr die Kraft zu geben, ihre Pilgerschaft zu vollenden? Der Priester. Wer wird sie darauf vorbereiten, vor Gott zu erscheinen, indem er sie zum letzten Mal im Blut Jesu Christi wäscht? Der Priester, immer der Priester. Und wenn diese Seele [durch die Sünde] stirbt, wer wird sie auferwecken, wer wird ihr die Ruhe und den Frieden geben? Wieder der Priester … Nach Gott ist der Priester alles! … Erst im Himmel wird er sich selbst recht verstehen.“5 Diese Aussagen, die aus dem priesterlichen Herzen eines heiligen Priesters hervorgegangen sind, mögen übertrieben erscheinen. Doch in ihnen offenbart sich die außerordentliche Achtung, die er dem Sakrament des Priestertums entgegenbrachte. Er schien überwältigt von einem grenzenlosen Verantwortungsbewußtsein: „Wenn wir recht begreifen würden, was ein Priester auf Erden ist, würden wir sterben: nicht vor Schreck, sondern aus Liebe … Ohne den Priester würden der Tod und das Leiden unseres Herrn zu nichts nützen. Der Priester ist es, der das Werk der Erlösung auf Erden fortführt … Was nützte uns ein Haus voller Gold, wenn es niemanden gäbe, der uns die Tür dazu öffnet? Der Priester besitzt den Schlüssel zu den himmlischen Schätzen: Er ist es, der die Tür öffnet; er ist der Haushälter des lieben Gottes; der Verwalter seiner Güter … Laßt eine Pfarrei zwanzig Jahre lang ohne Priester, und man wird dort die Tiere anbeten … Der Priester ist nicht Priester für sich selbst, er ist es für euch.“6

Als er nach Ars, einem kleinen Dorf mit 230 Einwohnern, kam, war er vom Bischof bereits vorgewarnt worden, daß er eine religiös prekäre Situation vorfinden werde: „Es gibt in dieser Pfarrei nicht viel Liebe zu Gott; Sie werden sie dort einführen.“ Folglich war er sich völlig bewußt, daß er dorthin gehen mußte, um die Gegenwart Christi zu verkörpern, indem er dessen heilbringende Sanftmut bezeugte. „[Mein Gott,] gewährt mir die Bekehrung meiner Pfarrei; ich will dafür alles erleiden, was Ihr wollt, mein ganzes Leben lang!“ – mit diesem Gebet begann er seine Mission.7 Der Bekehrung seiner Pfarrei widmete sich der heilige Pfarrer mit all seinen Kräften und stellte die christliche Bildung des ihm anvertrauten Volkes in all seinem Denken an erste Stelle. Liebe Mitbrüder im priesterlichen Dienst, erbitten wir vom Herrn Jesus die Gnade, daß auch wir die pastorale Methode des Johannes Maria Vianney erlernen können! Was wir als erstes lernen müssen, ist die völlige Identifizierung mit der eigenen Aufgabe. In Jesus fallen Person und Sendung im Grunde zusammen: Sein gesamtes Heilshandeln war und ist Ausdruck seines „Sohn-Ich“, das von Ewigkeit her vor dem Vater steht in einer Haltung liebevoller Unterwerfung unter dessen Willen. In bescheidener und doch wahrer Analogie muß auch der Priester diese Identifizierung anstreben. Natürlich geht es nicht darum zu vergessen, daß die substanzielle Wirksamkeit des Dienstes von der Heiligkeit des Priesters unabhängig bleibt; doch man darf auch die außerordentliche Fruchtbarkeit nicht außer Acht lassen, die aus dem Zusammentreffen der objektiven Heiligkeit des Dienstes und der subjektiven des Priesters hervorgeht. Der Pfarrer von Ars begann sofort mit dieser demütigen und geduldigen Arbeit, sein Leben als Priester mit der Heiligkeit des ihm anvertrauten Dienstes in Einklang zu bringen und sagte, daß er sogar materiell in seiner Pfarrkirche „wohne“: „Kaum war er angekommen, wählte er die Kirche zu seinem Wohnsitz … Vor dem Morgenrot betrat er die Kirche und kam erst nach dem abendlichen Angelus wieder heraus. Dort mußte man ihn suchen, wenn man ihn brauchte“, heißt es in seiner ersten Biographie.8

Die fromme Übertreibung des ehrfurchtsvollen Hagiographen darf uns nicht veranlassen zu übersehen, daß der heilige Pfarrer auch aktiv im gesamten Gebiet seiner Pfarrei zu „wohnen“ verstand: Er besuchte systematisch die Kranken und die Familien; er organisierte Volksmissionen und Patronatsfeste; er sammelte und verwaltete Geld für seine karitativen und missionarischen Werke; er verschönerte seine Kirche und stattete sie mit Kirchengerät aus; er kümmerte sich um die Waisenmädchen der „Providence“ (einer von ihm gegründeten Einrichtung) und ihre Erzieherinnen; er kümmerte sich um die Schulausbildung der Kinder; er gründete Bruderschaften und forderte die Laien zur Zusammenarbeit mit ihm auf.

Sein Beispiel veranlaßt mich, das Feld der Zusammenarbeit zu betonen, das immer mehr auf die gläubigen Laien auszudehnen ist, mit denen die Priester das eine priesterliche Volk bilden9 und in deren Mitte sie leben, um kraft des Weihepriestertums „alle zur Einheit in der Liebe zu führen, 'indem sie in Bruderliebe einander herzlich zugetan sind, in Ehrerbietung einander übertreffen' (Röm 12, 10)“.10 In diesem Zusammenhang ist an die lebhafte Aufforderung zu erinnern, mit der das Zweite Vatikanische Konzil die Priester ermutigt, „die Würde der Laien und die bestimmte Funktion, die den Laien für die Sendung der Kirche zukommt, wahrhaft [zu] erkennen und [zu] fördern … Sie sollen gern auf die Laien hören, ihre Wünsche brüderlich erwägen und ihre Erfahrung und Zuständigkeit in den verschiedenen Bereichen des menschlichen Wirkens anerkennen, damit sie gemeinsam mit ihnen die Zeichen der Zeit erkennen können.“11

Seine Pfarreimitglieder belehrte der heilige Pfarrer vor allem mit dem Zeugnis seines Lebens. Durch sein Vorbild lernten die Gläubigen zu beten und für einen Besuch beim eucharistischen Jesus gern vor dem Tabernakel zu verharren.12„Es ist nicht nötig, viel zu sprechen, um gut zu beten“, erklärte ihnen der Pfarrer. „Man weiß, daß Jesus dort ist, im heiligen Tabernakel: Öffnen wir ihm unser Herz, freuen wir uns über seine heilige Gegenwart. Das ist das beste Gebet.“13 Und er ermunterte sie: „Kommt zur Kommunion, meine Brüder, kommt zu Jesus. Kommt, um von ihm zu leben, damit ihr mit ihm leben könnt…“14„Es stimmt, daß ihr dessen nicht würdig seid, aber ihr habt es nötig!“15 Diese Erziehung der Gläubigen zur eucharistischen Gegenwart und zum Kommunionempfang wurde besonders wirkkräftig, wenn die Gläubigen ihn das heilige Meßopfer zelebrieren sahen. Wer ihm beiwohnte, sagte, daß „es nicht möglich war, eine Gestalt zu finden, welche die Anbetung besser ausgedrückt hätte … Er betrachtete die Hostie liebevoll“.16 „Alle guten Werke zusammen wiegen das Meßopfer nicht auf, denn sie sind Werke von Menschen, während die heilige Messe Werk Gottes ist“17, sagte er. Er war überzeugt, daß von der Messe der ganze Eifer eines Priesterlebens abhängt: „Die Ursache der Erschlaffung des Priesters liegt darin, daß er bei der Messe nicht aufmerksam ist! Mein Gott, wie ist ein Priester zu beklagen, der so zelebriert, als ob er etwas Gewöhnliches täte!“18 Und er hatte es sich zur Gewohnheit gemacht, bei der Zelebration immer auch das eigene Leben aufzuopfern: „Wie gut tut ein Priester, wenn er Gott allmorgendlich sich selbst als Opfer darbringt!“19

Dieses persönliche Sicheinfühlen in das Kreuzesopfer führte ihn – in einer einzigen inneren Bewegung – vom Altar zum Beichtstuhl. Die Priester dürften niemals resignieren, wenn sie ihre Beichtstühle verlassen sehen, noch sich darauf beschränken, die Abneigung der Gläubigen gegenüber diesem Sakrament festzustellen. Zur Zeit des heiligen Pfarrers war in Frankreich die Beichte weder einfacher, noch häufiger als in unseren Tagen, da der eisige Sturm der Revolution die religiöse Praxis auf lange Zeit erstickt hatte. Doch er versuchte auf alle Arten, durch Predigt und überzeugenden Ratschlag, die Mitglieder seiner Pfarrei die Bedeutung und die Schönheit der sakramentalen Buße neu entdecken zu lassen, indem er sie als eine mit der eucharistischen Gegenwart innerlich verbundene Notwendigkeit darstellte. Auf diese Weise verstand er, einen Kreislauf der Tugend in Gang zu setzen. Durch seine langen Aufenthalte in der Kirche vor dem Tabernakel erreichte er, daß die Gläubigen begannen, es ihm nachzutun; sie begaben sich dorthin, um Jesus zu besuchen, und waren zugleich sicher, den Pfarrer anzutreffen, der bereit war zum Hören und zum Vergeben. Später war es dann die wachsende Menge der Bußfertigen aus ganz Frankreich, die ihn bis zu 16 Stunden täglich im Beichtstuhl hielt. Man sagte damals, Ars sei „das große Krankenhaus der Seelen“20 geworden. „Die Gnade, die er empfing [für die Bekehrung der Sünder], war so stark, daß sie ihnen nachging, ohne ihnen einen Moment der Ruhe zu lassen“, sagt der erste Biograph.21 Der heilige Pfarrer sah das nicht anders, wenn er sagte: „Nicht der Sünder ist es, der zu Gott zurückkehrt, um ihn um Vergebung zu bitten, sondern Gott selbst läuft dem Sünder nach und läßt ihn zu sich zurückkehren.“22„Dieser gute Heiland ist so von Liebe erfüllt, daß er uns überall sucht.“23

Wir Priester müßten alle spüren, daß jene Worte, die er Christus in den Mund legte, uns persönlich angehen: „Ich beauftrage meine Diener, den Sündern zu verkünden, daß ich immer bereit bin, sie zu empfangen, daß meine Barmherzigkeit unbegrenzt ist.“24 Vom heiligen Pfarrer von Ars können wir Priester nicht nur ein unerschöpfliches Vertrauen in das Bußsakrament lernen, das uns drängt, es wieder ins Zentrum unserer pastoralen Sorge zu setzen, sondern auch die Methode des „Dialogs des Heils“, der sich darin vollziehen muß. Der Pfarrer von Ars hatte gegenüber den verschiedenen Büßern eine jeweils unterschiedliche Verhaltensweise. Wer zu seinem Beichtstuhl kam, weil er von einem inneren und demütigen Bedürfnis nach der Vergebung Gottes angezogen war, fand bei ihm die Ermutigung, in den „Strom der göttlichen Barmherzigkeit“ einzutauchen, der in seiner Wucht alles mit sich fortreißt. Und wenn jemand niedergeschlagen war beim Gedanken an seine Schwäche und Unbeständigkeit und sich vor zukünftigen Rückfällen fürchtete, offenbarte der Pfarrer ihm das Geheimnis Gottes mit einem Ausspruch von rührender Schönheit: „Der liebe Gott weiß alles. Noch bevor ihr sündigt, weiß er schon, daß ihr wieder sündigen werdet, und trotzdem vergibt er euch. Wie groß ist die Liebe unseres Gottes, der so weit geht, freiwillig die Zukunft zu vergessen, nur damit er uns vergeben kann!“25 Wer sich dagegen lau und fast gleichgültig anklagte, dem bot er durch seine eigenen Tränen die ernste und erlittene deutliche Einsicht, wie „abscheulich“ diese Haltung sei: „Ich weine, weil ihr nicht weint“26, sagte er. „Wenn der Herr bloß nicht so gut wäre! Aber er ist so gut! Man muß ein Barbar sei, um sich einem so guten Vater gegenüber so zu verhalten!“27 Er ließ die Reue im Herzen der Lauen aufkommen, indem er sie zwang, das im Gesicht des Beichtvaters gleichsam „verkörperte“ Leiden Gottes wegen der Sünden mit eigenen Augen zu sehen. Wer sich dagegen voll Verlangen und fähig zu einem tieferen geistlichen Leben zeigte, dem öffnete er weit die Tiefen der Liebe, indem er ihm erklärte, wie unbeschreiblich schön es ist, mit Gott vereint und in seiner Gegenwart zu leben: „Alles unter den Augen Gottes, alles mit Gott, alles, um Gott zu gefallen … Wie schön ist das!“28 Und er lehrte sie zu beten: „Mein Gott, erweise mir die Gnade, dich so sehr wie nur möglich zu lieben.“29

Der Pfarrer von Ars hat in seiner Zeit das Herz und das Leben so vieler Menschen zu verwandeln vermocht, weil es ihm gelungen ist, sie die barmherzige Liebe des Herrn wahrnehmen zu lassen. Auch in unserer Zeit ist eine solche Verkündigung und ein solches Zeugnis der Wahrheit der Liebe dringend: Deus caritas est (1 Joh 4, 8). Mit dem Wort und den Sakramenten seines Jesus wußte Johannes Maria Vianney sein Volk aufzubauen, auch wenn er, überzeugt von seiner persönlichen Unzulänglichkeit, oft schauderte, so daß er mehrmals wünschte, sich der Verantwortung des Dienstes in der Pfarrei zu entziehen, dessen er sich unwürdig fühlte. Trotzdem blieb er in vorbildlichem Gehorsam stets an seinem Posten, denn die apostolische Leidenschaft für das Heil der Seelen verzehrte ihn. Durch eine strenge Askese versuchte er, seiner Berufung völlig nachzukommen: „Das große Unglück für uns Pfarrer“, beklagte der Heilige, „besteht darin, daß die Seele abstumpft“30, und er meinte damit ein gefährliches Sich-Gewöhnen des Hirten an den Zustand der Sünde oder der Gleichgültigkeit, in der viele seiner Schafe leben. Mit Wachen und Fasten zügelte er den Leib, um zu vermeiden, daß dieser sich seiner priesterlichen Seele widersetzte. Und er schreckte nicht davor zurück, sich selbst zu kasteien zum Wohl der ihm anvertrauten Seelen und um zur Sühne all der Sünden beizutragen, die er in der Beichte gehört hatte. Einem priesterlichen Mitbruder erklärte er: „Ich verrate Euch mein Rezept: Ich gebe den Sündern eine kleine Buße auf, und den Rest tue ich an ihrer Stelle.“31 Jenseits der konkreten Bußübungen, denen der Pfarrer von Ars sich unterzog, bleibt in jedem Fall der Kern seiner Lehre für alle gültig: die Seelen sind mit dem Blut Jesu erkauft, und der Priester kann sich nicht ihrer Rettung widmen, wenn er sich weigert, sich persönlich an dem „teuren Preis“ ihrer Erlösung zu beteiligen.

In der Welt von heute ist es ebenso nötig wie in den schwierigen Zeiten des Pfarrers von Ars, daß die Priester sich in ihrem Leben und Handeln durch ein starkes Zeugnis für das Evangelium auszeichnen. Paul VI. hat zu Recht bemerkt: „Der heutige Mensch hört lieber auf Zeugen als auf Gelehrte, und wenn er auf Gelehrte hört, dann deshalb, weil sie Zeugen sind.“32 Damit in uns nicht eine existenzielle Leere entsteht und die Wirksamkeit unseres Dienstes nicht gefährdet wird, müssen wir uns immer neu fragen: „Sind wir wirklich durchtränkt vom Wort Gottes? Ist es wirklich die Nahrung, von der wir leben, mehr als vom Brot und von den Dingen dieser Welt? Kennen wir es wirklich? Lieben wir es? Gehen wir innerlich damit um, so daß es wirklich unser Leben prägt, unser Denken formt?“33 Wie Jesus die Zwölf rief, damit sie bei ihm sein sollten (vgl. Mk 3, 14), und sie erst danach zum Predigen aussandte, so sind auch in unseren Tagen die Priester berufen, jenen „neuen Lebensstil“ anzunehmen, den Jesus, der Herr, eingeführt hat und den die Apostel sich zu eigen gemacht haben.34 

Gerade die rückhaltlose Annahme dieses „neuen Lebensstils“ war ein Merkmal des priesterlichen Einsatzes des Pfarrers von Ars. In der Enzyklika Sacerdotii nostri primordia, die 1959, hundert Jahre nach dem Tod von Johannes Maria Vianney, publiziert wurde, stellte Johannes XXIII. dessen asketische Wesensart unter besonderer Bezugnahme auf das Thema der „drei evangelischen Räte“ dar, die er auch für die Priester als notwendig erachtete: „Auch wenn dem Priester zur Erlangung dieser Heiligkeit des Lebens die Verwirklichung der evangelischen Räte nicht aufgrund seines klerikalen Standes auferlegt ist, bietet sie sich ihm wie allen Jüngern des Herrn doch als der normale Weg der christlichen Heiligung an.“35 Der Pfarrer von Ars verstand es, die „evangelischen Räte“ in der seiner Situation als Priester angemessenen Weise zu leben. Seine Armut war nämlich nicht die eines Ordensmannes bzw. eines Mönches, sondern die, welche von einem Weltpriester erwartet wird: Obwohl er mit viel Geld wirtschaftete (da die wohlhabenderen Pilger nicht versäumten, sich seiner karitativen Werke anzunehmen), wußte er, daß alles seiner Kirche, seinen Armen, seinen Waisen, den Mädchen seiner „Providence36, den am meisten notleidenden Familien zugedacht war. Darum war er „reich, um den anderen zu geben, und sehr arm für sich selbst“.37 Er erklärte: „Mein Geheimnis ist einfach: Alles geben und nichts behalten.“38 Wenn er mit leeren Händen dastand, sagte er zufrieden zu den Armen, die sich an ihn wendeten: „Heute bin ich arm wie ihr, bin einer von euch.“39 So konnte er am Ende seines Lebens in aller Ruhe sagen: „Ich habe nichts mehr. Nun kann der liebe Gott mich rufen, wann er will!“40 Auch seine Keuschheit war so, wie sie für den Dienst eines Priesters nötig ist. Man kann sagen, es war die angemessene Keuschheit dessen, der gewöhnlich die Eucharistie berühren muß und der sie gewöhnlich mit der ganzen Begeisterung seines Herzens betrachtet und sie mit derselben Begeisterung seinen Gläubigen reicht. Man sagte von ihm, „die Keuschheit strahle in seinem Blick“, und die Gläubigen bemerkten es, wenn er mit den Augen eines Verliebten zum Tabernakel schaute.41 Auch der Gehorsam von Johannes Maria Vianney war ganz und gar verkörpert in der leidvoll errungenen inneren Einwilligung in die täglichen Anforderungen seines Amtes. Es ist bekannt, wie sehr ihn der Gedanke an seine Unzulänglichkeit für den Dienst des Pfarrers quälte und wie sehr ihn der Wunsch umtrieb, zu fliehen „um in Einsamkeit sein armes Leben zu beweinen“.42 Nur der Gehorsam und seine Leidenschaft für die Seelen konnten ihn überzeugen, an seinem Platz zu bleiben. Sich selbst und seinen Gläubigen erklärte er: „Es gibt nicht zwei gute Arten, Gott zu dienen. Es gibt nur eine einzige: ihm so zu dienen, wie er es will.“43 Die goldene Regel für ein Leben im Gehorsam schien ihm diese zu sein: „Nur das tun, was dem lieben Gott dargebracht werden kann.“44 

Im Zusammenhang mit der Spiritualität, die durch die Übung der evangelischen Räte gefördert wird, möchte ich die Priester in diesem ihnen gewidmeten Jahr gern ganz besonders dazu aufrufen, den neuen Frühling zu nutzen, den der Geist in unseren Tagen in der Kirche hervorbringt, nicht zuletzt durch die kirchlichen Bewegungen und die neuen Gemeinschaften. „Der Geist ist vielfältig in seinen Gaben … Er weht, wo er will. Er tut es auf unerwartete Weise, an unerwarteten Orten und in vorher nicht ausgedachten Formen … aber er zeigt uns auch, daß er auf den einen Leib hin und in der Einheit des einen Leibes wirkt.“45 In diesem Zusammenhang gilt die Anweisung des Dekretes Presbyterorum ordinis: „Sie [die Priester] sollen die Geister prüfen, ob sie aus Gott sind, und die vielfältigen Charismen der Laien, schlichte und bedeutendere, mit Glaubenssinn aufspüren, freudig anerkennen und mit Sorgfalt hegen.“46 Diese Gaben, die viele zu einem höheren geistlichen Leben drängen, können nicht nur den gläubigen Laien, sondern den Priestern selbst hilfreich sein. Aus dem Miteinander von geweihten Amtsträgern und Charismen kann nämlich „ein gesunder Impuls für ein neues Engagement der Kirche in der Verkündigung und im Zeugnis des Evangeliums der Hoffnung und der Liebe in allen Teilen der Welt“ entspringen.47 Außerdem möchte ich in Bezugnahme auf das Apostolische Schreiben Pastores dabo vobis von Papst Johannes Paul II. ergänzen, daß das geweihte Amt eine radikale „Gemeinschaftsform“ hat und nur in der Gemeinschaft der Presbyter mit ihrem Bischof erfüllt werden kann.48 Es ist nötig, daß diese im Weihesakrament begründete und in der Konzelebration ausgedrückte Gemeinschaft der Priester untereinander und mit ihrem Bischof sich in den verschiedenen konkreten Formen einer effektiven und affektiven priesterlichen Brüderlichkeit verwirklicht.49 Nur so können die Priester die Gabe des Zölibats vollends leben und sind fähig, christliche Gemeinschaften aufblühen zu lassen, in denen sich die Wunder der ersten Verkündigung des Evangeliums wiederholen.

Das Paulusjahr, das sich seinem Ende zuneigt, richtet unsere Gedanken auch auf den Völkerapostel, in dem vor unseren Augen ein glänzendes Beispiel eines ganz und gar seinem Dienst „hingegebenen“ Priesters aufleuchtet. „Die Liebe Christi hat uns in Besitz genommen“, schreibt er, „da wir erkannt haben: Einer ist für alle gestorben, also sind alle gestorben“ (vgl. 2 Kor 5, 14). Und er fügt hinzu: „Er ist aber für alle gestorben, damit die Lebenden nicht mehr für sich leben, sondern für den, der für sie starb und auferweckt wurde“ (2 Kor 5, 15). Gibt es ein besseres Programm, das man einem Priester vorschlagen könnte, der damit beschäftigt ist, auf dem Weg der christlichen Vollkommenheit voranzuschreiten?

Liebe Priester, die Feier des 150. Todestags des heiligen Johannes Maria Vianney (1859) schließt sich unmittelbar an die kaum abgeschlossenen Feiern zum 150. Jahrestag der Erscheinungen von Lourdes (1858) an. Schon 1959 hatte der selige Papst Johannes XXIII. bemerkt: „Kurz bevor der Pfarrer von Ars seine lange verdienstvolle Laufbahn beendet hatte, war in einem anderen Teil Franreichs die Unbefleckte Jungfrau einem demütigen und reinen Mädchen erschienen, um ihm eine Botschaft des Gebetes und der Buße zu übermitteln, deren enorme geistliche Resonanz seit einem Jahrhundert wohlbekannt ist. Tatsächlich war das Leben des heiligen Priesters, dessen Gedenken wir feiern, im voraus eine lebendige Darstellung der großen übernatürlichen Wahrheiten, die der Seherin von Massabielle vermittelt wurden. Er selbst hegte für die Unbefleckte Empfängnis der Allerseligsten Jungfrau eine glühende Verehrung – er, der 1836 seine Pfarrei der ohne Sünde empfangenen Maria geweiht hatte und dann die dogmatische Definition von 1854 mit so viel Glauben und Freude aufnehmen sollte.“50 Der heilige Pfarrer erinnerte seine Gläubigen immer daran, daß „Jesus Christus, nachdem er uns alles gegeben hatte, was er uns geben konnte, uns noch das Wertvollste als Erbe hinterlassen wollte, das er besitzt, nämlich seine Mutter“51.

Der Allerseligsten Jungfrau vertraue ich dieses Jahr der Priester an und bitte sie, im Innern jedes Priesters eine großherzige Wiederbelebung jener Ideale der völligen Hingabe an Christus und an die Kirche auszulösen, die das Denken und Handeln des heiligen Pfarrers von Ars bestimmten. Mit seinem eifrigen Gebetsleben und seiner leidenschaftlichen Liebe zum gekreuzigten Jesus nährte Johannes Maria Vianney seine tägliche rückhaltlose Hingabe an Gott und an die Kirche. Möge sein Beispiel die Priester zu jenem Zeugnis der Einheit mit dem Bischof, untereinander und mit den Laien bewegen, das heute wie immer so notwendig ist. Trotz des Übels, das es in der Welt gibt, sind die Worte Christi an seine Apostel im Abendmahlssaal stets aktuell: „In der Welt seid ihr in Bedrängnis; aber habt Mut: Ich habe die Welt besiegt“ (Joh 16, 33). Der Glaube an den göttlichen Meister gibt uns die Kraft, vertrauensvoll in die Zukunft zu schauen. Liebe Priester, Christus rechnet mit euch. Nach dem Beispiel des heiligen Pfarrers von Ars laßt euch von ihm vereinnahmen, dann seid in der Welt von heute auch ihr Boten der Hoffnung, der Versöhnung und des Friedens!

Von Herzen erteile ich euch meinen Segen.

Aus dem Vatikan, am 16. Juni 2009

BENEDICTUS PP. XVI



1. Dazu hat Papst Pius XI. ihn 1929 erklärt.
2.Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus” (in Le curé d’Ars. Sa pensée – Son cœur. Présantés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966, S. 98). In der Folge: Nodet.  Dieser Satz ist unter der Nummer 1589 auch im Katechismus der Katholischen Kirche zitiert.
3.Nodet, S. 101.
4.Ebd., S. 97.
5.Ebd., S. 98–99.
6.Ebd., S. 98–100.
7.Ebd., 183.
8.Monnin A.,Il curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, Bd. I, ed. Marietti, Turin 1870, S. 122.
9. Vgl.Lumen gentium, 10.
10.Presbyterorum ordinis, 9.
11.Ebd.
12.„Die Beschauung [ Kontemplation] ist gläubiges Hinschauen auf Jesus. 'Ich schaue ihn an, und er schaut mich an', sagte zur Zeit seines heiligen Pfarrers ein Bauer von Ars, der vor dem Tabernakel betete“ (Katechismus der Katholischen Kirche, Nr. 2715).
13.Nodet, S. 85.
14.Ebd., S. 114.
15.Ebd., S. 119.
16.Monnin A., a.a.O., II, S. 430ff.
17.Nodet, S. 105.
18.Ebd.
19.Ebd., S. 104.
20.Monnin A.,a.a.O., II, S. 293.
21.Ebd., S. 10.
22.Nodet, S. 128.
23.Ebd., S. 50.
24.Ebd., S. 131.
25.Ebd., S. 130.
26.Ebd., S. 27.
27.Ebd., S. 139.
28.Ebd., S. 28.
29.Ebd., S. 77.
30.Ebd., S. 102.
31.Ebd., S. 189.
32.Evangelii nuntiandi, 41.
33.Benedikt XVI.,Homilie in der Chrisam-Messe, 9.4.2009.
34. Vgl. Benedikt XVI.,Ansprache an die Teilnehmer der Vollversammlung der Kongregation für den Klerus, 16.3.2009.
35. Teil I.
36. Diesen Namen gab er dem Haus, in dem er über 60 verlassene Mädchen aufnehmen und erziehen ließ. Um es zu erhalten, war er zum äußersten bereit: „J’ai fait tous les commerces imaginables – Ich habe dafür alle Geschäfte gemacht, die man sich nur vorstellen kann“, sagte er lachend (Nodet, S. 214). 
37.Nodet, S. 216.
38.Ebd., S. 215.
39.Ebd., S. 216.
40.Ebd., S. 214.
41. Vgl.Ebd., S. 112.
42. Vgl.Ebd., S. 82-84; 102-103.
43.Ebd., S. 75.
44.Ebd., S. 76.
45.Benedikt XVI., Homilie zur Pfingstvigil, 3.6.2006.
46. Nr. 9.
47.Benedikt XVI.,Ansprache an die Bischöfe, die der Fokolarbewegung und der Gemeinschaft „Sant’Egidio“ nahestehen, 8.2.2007.
48. Vgl. Nr. 17.
49. Vgl. Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Pastores dabo vobis, 74.
50. Enzyklika Sacerdotii nostri primordia, Teil III.
51.Nodet, S. 244.

[00960-05.01] [Originalsprache: Deutsch]

TESTO IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos en el Sacerdocio:

      He resuelto convocar oficialmente un “Año Sacerdotal” con ocasión del 150 aniversario del “dies natalis” de Juan María Vianney, el Santo Patrón de todos los párrocos del mundo, que comenzará el viernes 19 de junio de 2009, solemnidad del Sagrado Corazón de Jesús –jornada tradicionalmente dedicada a la oración por la santificación del clero–.1 Este año desea contribuir a promover el compromiso de renovación interior de todos los sacerdotes, para que su testimonio evangélico en el mundo de hoy sea más intenso e incisivo, y se concluirá en la misma solemnidad de 2010.

      “El Sacerdocio es el amor del corazón de Jesús”, repetía con frecuencia el Santo Cura de Ars.2 Esta conmovedora expresión nos da pie para reconocer con devoción y admiración el inmenso don que suponen los sacerdotes, no sólo para la Iglesia, sino también para la humanidad misma. Tengo presente a todos los presbíteros que con humildad repiten cada día las palabras y los gestos de Cristo a los fieles cristianos y al mundo entero, identificándose con sus pensamientos, deseos y sentimientos, así como con su estilo de vida. ¿Cómo no destacar sus esfuerzos apostólicos, su servicio infatigable y oculto, su caridad que no excluye a nadie? Y ¿qué decir de la fidelidad entusiasta de tantos sacerdotes que, a pesar de las dificultades e incomprensiones, perseveran en su vocación de “amigos de Cristo”, llamados personalmente, elegidos y enviados por Él?

      Todavía conservo en el corazón el recuerdo del primer párroco con el que comencé mi ministerio como joven sacerdote: fue para mí un ejemplo de entrega sin reservas al propio ministerio pastoral, llegando a morir cuando llevaba el viático a un enfermo grave. También repaso los innumerables hermanos que he conocido a lo largo de mi vida y últimamente en mis viajes pastorales a diversas naciones, comprometidos generosamente en el ejercicio cotidiano de su ministerio sacerdotal.

      Pero la expresión utilizada por el Santo Cura de Ars evoca también la herida abierta en el Corazón de Cristo y la corona de espinas que lo circunda. Y así, pienso en las numerosas situaciones de sufrimiento que aquejan a muchos sacerdotes, porque participan de la experiencia humana del dolor en sus múltiples manifestaciones o por las incomprensiones de los destinatarios mismos de su ministerio: ¿Cómo no recordar tantos sacerdotes ofendidos en su dignidad, obstaculizados en su misión, a veces incluso perseguidos hasta ofrecer el supremo testimonio de la sangre?

      Sin embargo, también hay situaciones, nunca bastante deploradas, en las que la Iglesia misma sufre por la infidelidad de algunos de sus ministros. En estos casos, es el mundo el que sufre el escándalo y el abandono. Ante estas situaciones, lo más conveniente para la Iglesia no es tanto resaltar escrupulosamente las debilidades de sus ministros, cuanto renovar el reconocimiento gozoso de la grandeza del don de Dios, plasmado en espléndidas figuras de Pastores generosos, religiosos llenos de amor a Dios y a las almas, directores espirituales clarividentes y pacientes. En este sentido, la enseñanza y el ejemplo de san Juan María Vianney pueden ofrecer un punto de referencia significativo. El Cura de Ars era muy humilde, pero consciente de ser, como sacerdote, un inmenso don para su gente: “Un buen pastor, un pastor según el Corazón de Dios, es el tesoro más grande que el buen Dios puede conceder a una parroquia, y uno de los dones más preciosos de la misericordia divina”.3 Hablaba del sacerdocio como si no fuera posible llegar a percibir toda la grandeza del don y de la tarea confiados a una criatura humana: “¡Oh, qué grande es el sacerdote! Si se diese cuenta, moriría… Dios le obedece: pronuncia dos palabras y Nuestro Señor baja del cielo al oír su voz y se encierra en una pequeña hostia…”.4 Explicando a sus fieles la importancia de los sacramentos decía: “Si desapareciese el sacramento del Orden, no tendríamos al Señor. ¿Quién lo ha puesto en el sagrario? El sacerdote. ¿Quién ha recibido vuestra alma apenas nacidos? El sacerdote. ¿Quién la nutre para que pueda terminar su peregrinación? El sacerdote. ¿Quién la preparará para comparecer ante Dios, lavándola por última vez en la sangre de Jesucristo? El sacerdote, siempre el sacerdote. Y si esta alma llegase a morir [a causa del pecado], ¿quién la resucitará y le dará el descanso y la paz? También el sacerdote… ¡Después de Dios, el sacerdote lo es todo!... Él mismo sólo lo entenderá en el cielo”.5 Estas afirmaciones, nacidas del corazón sacerdotal del santo párroco, pueden parecer exageradas. Sin embargo, revelan la altísima consideración en que tenía el sacramento del sacerdocio. Parecía sobrecogido por un inmenso sentido de la responsabilidad: “Si comprendiéramos bien lo que representa un sacerdote sobre la tierra, moriríamos: no de pavor, sino de amor… Sin el sacerdote, la muerte y la pasión de Nuestro Señor no servirían de nada. El sacerdote continúa la obra de la redención sobre la tierra… ¿De qué nos serviría una casa llena de oro si no hubiera nadie que nos abriera la puerta? El sacerdote tiene la llave de los tesoros del cielo: él es quien abre la puerta; es el administrador del buen Dios; el administrador de sus bienes… Dejad una parroquia veinte años sin sacerdote y adorarán a las bestias… El sacerdote no es sacerdote para sí mismo, sino para vosotros”.6

      Llegó a Ars, una pequeña aldea de 230 habitantes, advertido por el Obispo sobre la precaria situación religiosa: “No hay mucho amor de Dios en esa parroquia; usted lo pondrá”. Bien sabía él que tendría que encarnar la presencia de Cristo dando testimonio de la ternura de la salvación: “Dios mío, concédeme la conversión de mi parroquia; acepto sufrir todo lo que quieras durante toda mi vida”. Con esta oración comenzó su misión.7 El Santo Cura de Ars se dedicó a la conversión de su parroquia con todas sus fuerzas, insistiendo por encima de todo en la formación cristiana del pueblo que le había sido confiado.

      Queridos hermanos en el Sacerdocio, pidamos al Señor Jesús la gracia de aprender también nosotros el método pastoral de san Juan María Vianney. En primer lugar, su total identificación con el propio ministerio. En Jesús, Persona y Misión tienden a coincidir: toda su obra salvífica era y es expresión de su “Yo filial”, que está ante el Padre, desde toda la eternidad, en actitud de amorosa sumisión a su voluntad. De modo análogo y con toda humildad, también el sacerdote debe aspirar a esta identificación. Aunque no se puede olvidar que la eficacia sustancial del ministerio no depende de la santidad del ministro, tampoco se puede dejar de lado la extraordinaria fecundidad que se deriva de la confluencia de la santidad objetiva del ministerio con la subjetiva del ministro. El Cura de Ars emprendió en seguida esta humilde y paciente tarea de armonizar su vida como ministro con la santidad del ministerio confiado, “viviendo” incluso materialmente en su Iglesia parroquial: “En cuanto llegó, consideró la Iglesia como su casa… Entraba en la Iglesia antes de la aurora y no salía hasta después del Angelus de la tarde. Si alguno tenía necesidad de él, allí lo podía encontrar”, se lee en su primera biografía.8

      La devota exageración del piadoso hagiógrafo no nos debe hacer perder de vista que el Santo Cura de Ars también supo “hacerse presente” en todo el territorio de su parroquia: visitaba sistemáticamente a los enfermos y a las familias; organizaba misiones populares y fiestas patronales; recogía y administraba dinero para sus obras de caridad y para las misiones; adornaba la iglesia y la dotaba de paramentos sacerdotales; se ocupaba de las niñas huérfanas de la “Providence” (un Instituto que fundó) y de sus formadoras; se interesaba por la educación de los niños; fundaba hermandades y llamaba a los laicos a colaborar con él.

      Su ejemplo me lleva a poner de relieve los ámbitos de colaboración en los que se debe dar cada vez más cabida a los laicos, con los que los presbíteros forman un único pueblo sacerdotal9 y entre los cuales, en virtud del sacerdocio ministerial, están puestos “para llevar a todos a la unidad del amor: ‘amándose mutuamente con amor fraterno, rivalizando en la estima mutua’ (Rm 12, 10)”.10 En este contexto, hay que tener en cuenta la encarecida recomendación del Concilio Vaticano II a los presbíteros de “reconocer sinceramente y promover la dignidad de los laicos y la función que tienen como propia en la misión de la Iglesia… Deben escuchar de buena gana a los laicos, teniendo fraternalmente en cuenta sus deseos y reconociendo su experiencia y competencia en los diversos campos de la actividad humana, para poder junto con ellos reconocer los signos de los tiempos”.11

      El Santo Cura de Ars enseñaba a sus parroquianos sobre todo con el testimonio de su vida. De su ejemplo aprendían los fieles a orar, acudiendo con gusto al sagrario para hacer una visita a Jesús Eucaristía.12 “No hay necesidad de hablar mucho para orar bien”, les enseñaba el Cura de Ars. “Sabemos que Jesús está allí, en el sagrario: abrámosle nuestro corazón, alegrémonos de su presencia. Ésta es la mejor oración”.13 Y les persuadía: “Venid a comulgar, hijos míos, venid donde Jesús. Venid a vivir de Él para poder vivir con Él…”.14 “Es verdad que no sois dignos, pero lo necesitáis”.15 Dicha educación de los fieles en la presencia eucarística y en la comunión era particularmente eficaz cuando lo veían celebrar el Santo Sacrificio de la Misa. Los que asistían decían que “no se podía encontrar una figura que expresase mejor la adoración… Contemplaba la hostia con amor”.16 Les decía: “Todas las buenas obras juntas no son comparables al Sacrificio de la Misa, porque son obras de hombres, mientras la Santa Misa es obra de Dios”.17 Estaba convencido de que todo el fervor en la vida de un sacerdote dependía de la Misa: “La causa de la relajación del sacerdote es que descuida la Misa. Dios mío, ¡qué pena el sacerdote que celebra como si estuviese haciendo algo ordinario!”.18 Siempre que celebraba, tenía la costumbre de ofrecer también la propia vida como sacrificio: “¡Cómo aprovecha a un sacerdote ofrecerse a Dios en sacrificio todas las mañanas!”.19

      Esta identificación personal con el Sacrificio de la Cruz lo llevaba –con una sola moción interior– del altar al confesonario. Los sacerdotes no deberían resignarse nunca a ver vacíos sus confesonarios ni limitarse a constatar la indiferencia de los fieles hacia este sacramento. En Francia, en tiempos del Santo Cura de Ars, la confesión no era ni más fácil ni más frecuente que en nuestros días, pues el vendaval revolucionario había arrasado desde hacía tiempo la práctica religiosa. Pero él intentó por todos los medios, en la predicación y con consejos persuasivos, que sus parroquianos redescubriesen el significado y la belleza de la Penitencia sacramental, mostrándola como una íntima exigencia de la presencia eucarística. Supo iniciar así un “círculo virtuoso”. Con su prolongado estar ante el sagrario en la Iglesia, consiguió que los fieles comenzasen a imitarlo, yendo a visitar a Jesús, seguros de que allí encontrarían también a su párroco, disponible para escucharlos y perdonarlos. Al final, una muchedumbre cada vez mayor de penitentes, provenientes de toda Francia, lo retenía en el confesonario hasta 16 horas al día. Se comentaba que Ars se había convertido en “el gran hospital de las almas”.20 Su primer biógrafo afirma: “La gracia que conseguía [para que los pecadores se convirtiesen] era tan abundante que salía en su búsqueda sin dejarles un momento de tregua”.21 En este mismo sentido, el Santo Cura de Ars decía: “No es el pecador el que vuelve a Dios para pedirle perdón, sino Dios mismo quien va tras el pecador y lo hace volver a Él”.22 “Este buen Salvador está tan lleno de amor que nos busca por todas partes”.23

      Todos los sacerdotes hemos de considerar como dirigidas personalmente a nosotros aquellas palabras que él ponía en boca de Jesús: “Encargaré a mis ministros que anuncien a los pecadores que estoy siempre dispuesto a recibirlos, que mi misericordia es infinita”.24 Los sacerdotes podemos aprender del Santo Cura de Ars no sólo una confianza infinita en el sacramento de la Penitencia, que nos impulse a ponerlo en el centro de nuestras preocupaciones pastorales, sino también el método del “diálogo de salvación” que en él se debe entablar. El Cura de Ars se comportaba de manera diferente con cada penitente. Quien se acercaba a su confesonario con una necesidad profunda y humilde del perdón de Dios, encontraba en él palabras de ánimo para sumergirse en el “torrente de la divina misericordia” que arrastra todo con su fuerza. Y si alguno estaba afligido por su debilidad e inconstancia, con miedo a futuras recaídas, el Cura de Ars le revelaba el secreto de Dios con una expresión de una belleza conmovedora: “El buen Dios lo sabe todo. Antes incluso de que se lo confeséis, sabe ya que pecaréis nuevamente y sin embargo os perdona. ¡Qué grande es el amor de nuestro Dios que le lleva incluso a olvidar voluntariamente el futuro, con tal de perdonarnos!”.25 A quien, en cambio, se acusaba de manera fría y casi indolente, le mostraba, con sus propias lágrimas, la evidencia seria y dolorosa de lo “abominable” de su actitud: “Lloro porque vosotros no lloráis”,26 decía. “Si el Señor no fuese tan bueno… pero lo es. Hay que ser un bárbaro para comportarse de esta manera ante un Padre tan bueno”.27 Provocaba el arrepentimiento en el corazón de los tibios, obligándoles a ver con sus propios ojos el sufrimiento de Dios por los pecados como “encarnado” en el rostro del sacerdote que los confesaba. Si alguno manifestaba deseos y actitudes de una vida espiritual más profunda, le mostraba abiertamente las profundidades del amor, explicándole la inefable belleza de vivir unidos a Dios y estar en su presencia: “Todo bajo los ojos de Dios, todo con Dios, todo para agradar a Dios… ¡Qué maravilla!”.28 Y les enseñaba a orar: “Dios mío, concédeme la gracia de amarte tanto cuanto yo sea capaz”.29

      El Cura de Ars consiguió en su tiempo cambiar el corazón y la vida de muchas personas, porque fue capaz de hacerles sentir el amor misericordioso del Señor. Urge también en nuestro tiempo un anuncio y un testimonio similar de la verdad del Amor: Deus caritas est (1 Jn 4, 8). Con la Palabra y con los Sacramentos de su Jesús, Juan María Vianney edificaba a su pueblo, aunque a veces se agitaba interiormente porque no se sentía a la altura, hasta el punto de pensar muchas veces en abandonar las responsabilidades del ministerio parroquial para el que se sentía indigno. Sin embargo, con un sentido de la obediencia ejemplar, permaneció siempre en su puesto, porque lo consumía el celo apostólico por la salvación de las almas. Se entregaba totalmente a su propia vocación y misión con una ascesis severa: “La mayor desgracia para nosotros los párrocos –deploraba el Santo– es que el alma se endurezca”; con esto se refería al peligro de que el pastor se acostumbre al estado de pecado o indiferencia en que viven muchas de sus ovejas.30 Dominaba su cuerpo con vigilias y ayunos para evitar que opusiera resistencia a su alma sacerdotal. Y se mortificaba voluntariamente en favor de las almas que le habían sido confiadas y para unirse a la expiación de tantos pecados oídos en confesión. A un hermano sacerdote, le explicaba: “Le diré cuál es mi receta: doy a los pecadores una penitencia pequeña y el resto lo hago yo por ellos”.31 Más allá de las penitencias concretas que el Cura de Ars hacía, el núcleo de su enseñanza sigue siendo en cualquier caso válido para todos: las almas cuestan la sangre de Cristo y el sacerdote no puede dedicarse a su salvación sin participar personalmente en el “alto precio” de la redención.

      En la actualidad, como en los tiempos difíciles del Cura de Ars, es preciso que los sacerdotes, con su vida y obras, se distingan por un vigoroso testimonio evangélico. Pablo VI ha observado oportunamente: “El hombre contemporáneo escucha más a gusto a los que dan testimonio que a los que enseñan, o si escucha a los que enseñan, es porque dan testimonio”.32 Para que no nos quedemos existencialmente vacíos, comprometiendo con ello la eficacia de nuestro ministerio, debemos preguntarnos constantemente: “¿Estamos realmente impregnados por la palabra de Dios? ¿Es ella en verdad el alimento del que vivimos, más que lo que pueda ser el pan y las cosas de este mundo? ¿La conocemos verdaderamente? ¿La amamos? ¿Nos ocupamos interiormente de esta palabra hasta el punto de que realmente deja una impronta en nuestra vida y forma nuestro pensamiento?”.33 Así como Jesús llamó a los Doce para que estuvieran con Él (cf. Mc 3, 14), y sólo después los mandó a predicar, también en nuestros días los sacerdotes están llamados a asimilar el “nuevo estilo de vida” que el Señor Jesús inauguró y que los Apóstoles hicieron suyo.34

      La identificación sin reservas con este “nuevo estilo de vida” caracterizó la dedicación al ministerio del Cura de Ars. El Papa Juan XXIII en la Carta encíclica Sacerdotii nostri primordia, publicada en 1959, en el primer centenario de la muerte de san Juan María Vianney, presentaba su fisonomía ascética refiriéndose particularmente a los tres consejos evangélicos, considerados como necesarios también para los presbíteros: “Y, si para alcanzar esta santidad de vida, no se impone al sacerdote, en virtud del estado clerical, la práctica de los consejos evangélicos, ciertamente que a él, y a todos los discípulos del Señor, se le presenta como el camino real de la santificación cristiana”.35 El Cura de Ars supo vivir los “consejos evangélicos” de acuerdo a su condición de presbítero. En efecto, su pobreza no fue la de un religioso o un monje, sino la que se pide a un sacerdote: a pesar de manejar mucho dinero (ya que los peregrinos más pudientes se interesaban por sus obras de caridad), era consciente de que todo era para su iglesia, sus pobres, sus huérfanos, sus niñas de la “Providence”,36 sus familias más necesitadas. Por eso “era rico para dar a los otros y era muy pobre para sí mismo”.37 Y explicaba: “Mi secreto es simple: dar todo y no conservar nada”.38 Cuando se encontraba con las manos vacías, decía contento a los pobres que le pedían: “Hoy soy pobre como vosotros, soy uno de vosotros”.39 Así, al final de su vida, pudo decir con absoluta serenidad: “No tengo nada… Ahora el buen Dios me puede llamar cuando quiera”.40 También su castidad era la que se pide a un sacerdote para su ministerio. Se puede decir que era la castidad que conviene a quien debe tocar habitualmente con sus manos la Eucaristía y contemplarla con todo su corazón arrebatado y con el mismo entusiasmo la distribuye a sus fieles. Decían de él que “la castidad brillaba en su mirada”, y los fieles se daban cuenta cuando clavaba la mirada en el sagrario con los ojos de un enamorado.41 También la obediencia de san Juan María Vianney quedó plasmada totalmente en la entrega abnegada a las exigencias cotidianas de su ministerio. Se sabe cuánto le atormentaba no sentirse idóneo para el ministerio parroquial y su deseo de retirarse “a llorar su pobre vida, en soledad”.42 Sólo la obediencia y la pasión por las almas conseguían convencerlo para seguir en su puesto. A los fieles y a sí mismo explicaba: “No hay dos maneras buenas de servir a Dios. Hay una sola: servirlo como Él quiere ser servido”.43 Consideraba que la regla de oro para una vida obediente era: “Hacer sólo aquello que puede ser ofrecido al buen Dios”.44

        En el contexto de la espiritualidad apoyada en la práctica de los consejos evangélicos, me complace invitar particularmente a los sacerdotes, en este Año dedicado a ellos, a percibir la nueva primavera que el Espíritu está suscitando en nuestros días en la Iglesia, a la que los Movimientos eclesiales y las nuevas Comunidades han contribuido positivamente. “El Espíritu es multiforme en sus dones… Él sopla donde quiere. Lo hace de modo inesperado, en lugares inesperados y en formas nunca antes imaginadas… Él quiere vuestra multiformidad y os quiere para el único Cuerpo”.45 A este propósito vale la indicación del Decreto Presbyterorum ordinis: “Examinando los espíritus para ver si son de Dios, [los presbíteros] han de descubrir mediante el sentido de la fe los múltiples carismas de los laicos, tanto los humildes como los más altos, reconocerlos con alegría y fomentarlos con empeño”.46 Dichos dones, que llevan a muchos a una vida espiritual más elevada, pueden hacer bien no sólo a los fieles laicos sino también a los ministros mismos. La comunión entre ministros ordenados y carismas “puede impulsar un renovado compromiso de la Iglesia en el anuncio y en el testimonio del Evangelio de la esperanza y de la caridad en todos los rincones del mundo”.47 Quisiera añadir además, en línea con la Exhortación apostólica Pastores dabo vobis del Papa Juan Pablo II, que el ministerio ordenado tiene una radical “forma comunitaria” y sólo puede ser desempeñado en la comunión de los presbíteros con su Obispo.48 Es necesario que esta comunión entre los sacerdotes y con el propio Obispo, basada en el sacramento del Orden y manifestada en la concelebración eucarística, se traduzca en diversas formas concretas de fraternidad sacerdotal efectiva y afectiva.49 Sólo así los sacerdotes sabrán vivir en plenitud el don del celibato y serán capaces de hacer florecer comunidades cristianas en las cuales se repitan los prodigios de la primera predicación del Evangelio.

      El Año Paulino que está por concluir orienta nuestro pensamiento también hacia el Apóstol de los gentiles, en quien podemos ver un espléndido modelo sacerdotal, totalmente “entregado” a su ministerio. “Nos apremia el amor de Cristo –escribía-, al considerar que, si uno murió por todos, todos murieron” (2 Co 5, 14). Y añadía: “Cristo murió por todos, para que los que viven, ya no vivan para sí, sino para el que murió y resucitó por ellos” (2 Co 5, 15). ¿Qué mejor programa se podría proponer a un sacerdote que quiera avanzar en el camino de la perfección cristiana?

      Queridos sacerdotes, la celebración del 150 aniversario de la muerte de San Juan María Vianney (1859) viene inmediatamente después de las celebraciones apenas concluidas del 150 aniversario de las apariciones de Lourdes (1858). Ya en 1959, el Beato Papa Juan XXIII había hecho notar: “Poco antes de que el Cura de Ars terminase su carrera tan llena de méritos, la Virgen Inmaculada se había aparecido en otra región de Francia a una joven humilde y pura, para comunicarle un mensaje de oración y de penitencia, cuya inmensa resonancia espiritual es bien conocida desde hace un siglo. En realidad, la vida de este sacerdote cuya memoria celebramos, era anticipadamente una viva ilustración de las grandes verdades sobrenaturales enseñadas a la vidente de Massabielle. Él mismo sentía una devoción vivísima hacia la Inmaculada Concepción de la Santísima Virgen; él, que ya en 1836 había consagrado su parroquia a María concebida sin pecado, y que con tanta fe y alegría había de acoger la definición dogmática de 1854”.50 El Santo Cura de Ars recordaba siempre a sus fieles que “Jesucristo, cuando nos dio todo lo que nos podía dar, quiso hacernos herederos de lo más precioso que tenía, es decir de su Santa Madre”.51

      Confío este Año Sacerdotal a la Santísima Virgen María, pidiéndole que suscite en cada presbítero un generoso y renovado impulso de los ideales de total donación a Cristo y a la Iglesia que inspiraron el pensamiento y la tarea del Santo Cura de Ars. Con su ferviente vida de oración y su apasionado amor a Jesús crucificado, Juan María Vianney alimentó su entrega cotidiana sin reservas a Dios y a la Iglesia. Que su ejemplo fomente en los sacerdotes el testimonio de unidad con el Obispo, entre ellos y con los laicos, tan necesario hoy como siempre. A pesar del mal que hay en el mundo, conservan siempre su actualidad las palabras de Cristo a sus discípulos en el Cenáculo: “En el mundo tendréis luchas; pero tened valor: yo he vencido al mundo” (Jn 16, 33). La fe en el Maestro divino nos da la fuerza para mirar con confianza el futuro. Queridos sacerdotes, Cristo cuenta con vosotros. A ejemplo del Santo Cura de Ars, dejaos conquistar por Él y seréis también vosotros, en el mundo de hoy, mensajeros de esperanza, reconciliación y paz.

      Con mi bendición.

      Vaticano, 16 de junio de 2009.

BENEDICTUS PP.XVI


1. Así lo proclamó el Sumo Pontífice Pío XI en 1929.
2.Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus” (in Le curé d’Ars. Sa pensée – Son Coeur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante 1966, p. 98). En adelante: NODET. La expresión aparece citada también en el Catecismo de la Iglesia católica, n. 1589.
3.Nodet, p. 101.
4.Ibíd.,p. 97.
5.Ibíd.,pp. 98-99.
6.Ibíd.,pp. 98-100.
7.Ibíd.,p. 183.
8.A. Monnin,Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, Ed. Marietti, Torino 1870, p. 122.
9. Cf. Lumen gentium, 10.
10.Presbyterorum ordinis, 9.
11.Ibid.
12.“La contemplación es mirada de fe, fijada en Jesús. ‘Yo le miro y él me mira’, decía a su santo cura un campesino de Ars que oraba ante el Sagrario”: Catecismo de la Iglesia católica, n. 2715.
13.Nodet,p.85.
14.Ibíd.,p. 114.
15.Ibíd.,p. 119.
16.A. Monnin,o.c., II, pp. 430 ss.
17.Nodet, p. 105.
18.Ibíd.,p. 105.
19.Ibíd.,p. 104.
20.A. Monnin,o.c., II, p. 293.
21.Ibíd.,II, p. 10.
22.Nodet, p. 128.
23.Ibíd.,p. 50.
24.Ibíd.,p. 131.
25.Ibíd.,p. 130.
26.Ibíd.,p. 27.
27.Ibíd.,p. 139.
28.Ibíd.,p. 28.
29.Ibíd.,p. 77.
30.Ibíd.,p. 102.
31.Ibíd.,p. 189.
32.Evangelii nuntiandi, 41.
33.Benedicto XVI,Homilía en la solemne Misa Crismal, 9 de abril de 2009.
34. Cf. Benedicto XVI,Discurso a los participantes en la Asamblea plenaria de la Congregación para el Clero. 16 de marzo de 2009.
35. P. I.
36. Nombre que dio a la casa para la acogida y educación de 60 niñas abandonadas. Fue capaz de todo con tal de mantenerla: “J’ai fait tous les commerces imaginables”, decía sonriendo (Nodet, p. 214).
37.Nodet, p. 216.
38.Ibíd.,p. 215.
39.Ibíd.,p. 216.
40.Ibíd.,p. 214.
41.Cf. Ibíd., p. 112.
42. Cf. Ibíd., pp. 82-84; 102-103.
43.Ibíd.,p. 75.
44.Ibíd.,p. 76.
45.Benedicto XVI,Homilía en la celebración de las primeras vísperas en la vigilia de Pentecostés, 3 de junio de 2006.
46. N. 9.
47.Benedicto XVI,Discurso a un grupo de Obispos amigos del Movimiento de los Focolares y a otro de amigos de la Comunidad de San Egidio,8 de febrero de 2007.
48. Cf. n. 17.
49. Cf. Juan Pablo II, Exhort. ap. Pastores dabo vobis, 74.
50. Carta enc. Sacerdotii nostri primordia, P. III.
51.Nodet, p. 244.

 

[00960-04.01] [Texto original: Español]

TESTO IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos no sacerdócio,

         Na próxima solenidade do Sacratíssimo Coração de Jesus, sexta-feira 19 de Junho de 2009 – dia dedicado tradicionalmente à oração pela santificação do clero – tenho em mente proclamar oficialmente um «Ano Sacerdotal» por ocasião do 150.º aniversário do «dies natalis» de João Maria Vianney, o Santo Patrono de todos os párocos do mundo.1 Tal ano, que pretende contribuir para fomentar o empenho de renovação interior de todos os sacerdotes para um seu testemunho evangélico mais vigoroso e incisivo, terminará na mesma solenidade de 2010. «O sacerdócio é o amor do Coração de Jesus»: costumava dizer o Santo Cura d’Ars.2 Esta tocante afirmação permite-nos, antes de mais nada, evocar com ternura e gratidão o dom imenso que são os sacerdotes não só para a Igreja mas também para a própria humanidade. Penso em todos os presbíteros que propõem, humilde e quotidianamente, aos fiéis cristãos e ao mundo inteiro as palavras e os gestos de Cristo, procurando aderir a Ele com os pensamentos, a vontade, os sentimentos e o estilo de toda a sua existência. Como não sublinhar as suas fadigas apostólicas, o seu serviço incansável e escondido, a sua caridade tendencialmente universal? E que dizer da fidelidade corajosa de tantos sacerdotes que, não obstante dificuldades e incompreensões, continuam fiéis à sua vocação: a de «amigos de Cristo», por Ele de modo particular chamados, escolhidos e enviados?

         Eu mesmo guardo ainda no coração a recordação do primeiro pároco junto de quem exerci o meu ministério de jovem sacerdote: deixou-me o exemplo de uma dedicação sem reservas ao próprio serviço sacerdotal, a ponto de encontrar a morte durante o próprio acto de levar o viático a um doente grave. Depois repasso na memória os inumeráveis irmãos que encontrei e encontro, inclusive durante as minhas viagens pastorais às diversas nações, generosamente empenhados no exercício diário do seu ministério sacerdotal. Mas a expressão utilizada pelo Santo Cura d’Ars evoca também o Coração traspassado de Cristo com a coroa de espinhos que O envolve. E isto leva o pensamento a deter-se nas inumeráveis situações de sofrimento em que se encontram imersos muitos sacerdotes, ou porque participantes da experiência humana da dor na multiplicidade das suas manifestações, ou porque incompreendidos pelos próprios destinatários do seu ministério: como não recordar tantos sacerdotes ofendidos na sua dignidade, impedidos na sua missão e, às vezes, mesmo perseguidos até ao supremo testemunho do sangue?

         Infelizmente existem também situações, nunca suficientemente deploradas, em que é a própria Igreja a sofrer pela infidelidade de alguns dos seus ministros. Daí advém então para o mundo motivo de escândalo e de repulsa. O máximo que a Igreja pode recavar de tais casos não é tanto a acintosa relevação das fraquezas dos seus ministros, como sobretudo uma renovada e consoladora consciência da grandeza do dom de Deus, concretizado em figuras esplêndidas de generosos pastores, de religiosos inflamados de amor por Deus e pelas almas, de directores espirituais esclarecidos e pacientes. A este respeito, os ensinamentos e exemplos de S. João Maria Vianney podem oferecer a todos um significativo ponto de referência. O Cura d’Ars era humilíssimo, mas consciente de ser, enquanto padre, um dom imenso para o seu povo: «Um bom pastor, um pastor segundo o coração de Deus, é o maior tesouro que o bom Deus pode conceder a uma paróquia e um dos dons mais preciosos da misericórdia divina».3 Falava do sacerdócio como se não conseguisse alcançar plenamente a grandeza do dom e da tarefa confiados a uma criatura humana: «Oh como é grande o padre! (…) Se lhe fosse dado compreender-se a si mesmo, morreria. (…) Deus obedece-lhe: ele pronuncia duas palavras e, à sua voz, Nosso Senhor desce do céu e encerra-se numa pequena hóstia».4 E, ao explicar aos seus fiéis a importância dos sacramentos, dizia: «Sem o sacramento da Ordem, não teríamos o Senhor. Quem O colocou ali naquele sacrário? O sacerdote. Quem acolheu a vossa alma no primeiro momento do ingresso na vida? O sacerdote. Quem a alimenta para lhe dar a força de realizar a sua peregrinação? O sacerdote. Quem a há-de preparar para comparecer diante de Deus, lavando-a pela última vez no sangue de Jesus Cristo? O sacerdote, sempre o sacerdote. E se esta alma chega a morrer [pelo pecado], quem a ressuscitará, quem lhe restituirá a serenidade e a paz? Ainda o sacerdote. (…) Depois de Deus, o sacerdote é tudo! (…) Ele próprio não se entenderá bem a si mesmo, senão no céu».5 Estas afirmações, nascidas do coração sacerdotal daquele santo pároco, podem parecer excessivas. Nelas, porém, revela-se a sublime consideração em que ele tinha o sacramento do sacerdócio. Parecia subjugado por uma sensação de responsabilidade sem fim: «Se compreendêssemos bem o que um padre é sobre a terra, morreríamos: não de susto, mas de amor. (…) Sem o padre, a morte e a paixão de Nosso Senhor não teria servido para nada. É o padre que continua a obra da Redenção sobre a terra (…) Que aproveitaria termos uma casa cheia de ouro, senão houvesse ninguém para nos abrir a porta? O padre possui a chave dos tesouros celestes: é ele que abre a porta; é o ecónomo do bom Deus; o administrador dos seus bens (…) Deixai uma paróquia durante vinte anos sem padre, e lá adorar-se-ão as bestas. (…) O padre não é padre para si mesmo, é-o para vós».6 

         Tinha chegado a Ars, uma pequena aldeia com 230 habitantes, precavido pelo Bispo de que iria encontrar uma situação religiosamente precária: «Naquela paróquia, não há muito amor de Deus; infundi-lo-eis vós». Por conseguinte, achava-se plenamente consciente de que devia ir para lá a fim de encarnar a presença de Cristo, testemunhando a sua ternura salvífica: «[Meu Deus], concedei-me a conversão da minha paróquia; aceito sofrer tudo aquilo que quiserdes por todo o tempo da minha vida!»: foi com esta oração que começou a sua missão.7 E, à conversão da sua paróquia, dedicou-se o Santo Cura com todas as suas energias, pondo no cume de cada uma das suas ideias a formação cristã do povo a ele confiado. Amados irmãos no sacerdócio, peçamos ao Senhor Jesus a graça de podermos também nós assimilar o método pastoral de S. João Maria Vianney. A primeira coisa que devemos aprender é a sua total identificação com o próprio ministério. Em Jesus, tendem a coincidir Pessoa e Missão: toda a sua acção salvífica era e é expressão do seu «Eu filial» que, desde toda a eternidade, está diante do Pai em atitude de amorosa submissão à sua vontade. Com modesta mas verdadeira analogia, também o sacerdote deve ansiar por esta identificação. Não se trata, certamente, de esquecer que a eficácia substancial do ministério permanece independentemente da santidade do ministro; mas também não se pode deixar de ter em conta a extraordinária frutificação gerada do encontro entre a santidade objectiva do ministério e a subjectiva do ministro. O Cura d’Ars principiou imediatamente este humilde e paciente trabalho de harmonização entre a sua vida de ministro e a santidade do ministério que lhe estava confiado, decidindo «habitar», mesmo materialmente, na sua igreja paroquial: «Logo que chegou, escolheu a igreja por sua habitação. (…) Entrava na igreja antes da aurora e não saía de lá senão à tardinha depois do Angelus. Quando precisavam dele, deviam procurá-lo lá»: lê-se na primeira biografia.8

         O exagero devoto do pio hagiógrafo não deve fazer-nos esquecer o facto de que o Santo Cura soube também «habitar» activamente em todo o território da sua paróquia: visitava sistematicamente os doentes e as famílias; organizava missões populares e festas dos Santos Patronos; recolhia e administrava dinheiro para as suas obras sócio-caritativas e missionárias; embelezava a sua igreja e dotava-a de alfaias sagradas; ocupava-se das órfãs da «Providence» (um instituto fundado por ele) e das suas educadoras; tinha a peito a instrução das crianças; fundava confrarias e chamava os leigos para colaborar com ele.

         O seu exemplo induz-me a evidenciar os espaços de colaboração que é imperioso estender cada vez mais aos fiéis leigos, com os quais os presbíteros formam um único povo sacerdotal9 e no meio dos quais, em virtude do sacerdócio ministerial, se encontram «para os levar todos à unidade, “amando-se uns aos outros com caridade fraterna, e tendo os outros por mais dignos” (Rm 12, 10)».10 Neste contexto, há que recordar o caloroso e encorajador convite feito pelo Concílio Vaticano II aos presbíteros para que «reconheçam e promovam sinceramente a dignidade e participação própria dos leigos na missão da Igreja. Estejam dispostos a ouvir os leigos, tendo fraternalmente em conta os seus desejos, reconhecendo a experiência e competência deles nos diversos campos da actividade humana, para que, juntamente com eles, saibam reconhecer os sinais dos tempos».11 

         O Santo Cura ensinava os seus paroquianos sobretudo com o testemunho da vida. Pelo seu exemplo, os fiéis aprendiam a rezar, detendo-se de bom grado diante do sacrário para uma visita a Jesus Eucaristia.12«Para rezar bem – explicava-lhes o Cura –, não há necessidade de falar muito. Sabe-se que Jesus está ali, no tabernáculo sagrado: abramos-Lhe o nosso coração, alegremo-nos pela sua presença sagrada. Esta é a melhor oração».13 E exortava: «Vinde à comunhão, meus irmãos, vinde a Jesus. Vinde viver d’Ele para poderdes viver com Ele».14«É verdade que não sois dignos, mas tendes necessidade!».15 Esta educação dos fiéis para a presença eucarística e para a comunhão adquiria um eficácia muito particular, quando o viam celebrar o Santo Sacrifício da Missa. Quem ao mesmo assistia afirmava que «não era possível encontrar uma figura que exprimisse melhor a adoração. (...) Contemplava a Hóstia amorosamente».16 Dizia ele: «Todas as boas obras reunidas não igualam o valor do sacrifício da Missa, porque aquelas são obra de homens, enquanto a Santa Missa é obra de Deus».17 Estava convencido de que todo o fervor da vida de um padre dependia da Missa: «A causa do relaxamento do sacerdote é porque não presta atenção à Missa! Meu Deus, como é de lamentar um padre que celebra [a Missa] como se fizesse um coisa ordinária!».18E, ao celebrar, tinha tomado o costume de oferecer sempre também o sacrifício da sua própria vida: «Como faz bem um padre oferecer-se em sacrifício a Deus todas as manhãs!».19

         Esta sintonia pessoal com o Sacrifício da Cruz levava-o – por um único movimento interior – do altar ao confessionário. Os sacerdotes não deveriam jamais resignar-se a ver os seus confessionários desertos, nem limitar-se a constatar o menosprezo dos fiéis por este sacramento. Na França, no tempo do Santo Cura d’Ars, a confissão não era mais fácil nem mais frequente do que nos nossos dias, pois a tormenta revolucionária tinha longamente sufocado a prática religiosa. Mas ele procurou de todos os modos, com a pregação e o conselho persuasivo, fazer os seus paroquianos redescobrirem o significado e a beleza da Penitência sacramental, apresentando-a como uma exigência íntima da Presença eucarística. Pôde assim dar início a um círculo virtuoso. Com as longas permanências na igreja junto do sacrário, fez com que os fiéis começassem a imitá-lo, indo até lá visitar Jesus, e ao mesmo tempo estivessem seguros de que lá encontrariam o seu pároco, disponível para os ouvir e perdoar. Em seguida, a multidão crescente dos penitentes, provenientes de toda a França, haveria de o reter no confessionário até 16 horas por dia. Dizia-se então que Ars se tinha tornado «o grande hospital das almas».20«A graça que ele obtinha [para a conversão dos pecadores] era tão forte que aquela ia procurá-los sem lhes deixar um momento de trégua!»: diz o primeiro biógrafo.21 E assim o pensava o Santo Cura d’Ars, quando afirmava: «Não é o pecador que regressa a Deus para Lhe pedir perdão, mas é o próprio Deus que corre atrás do pecador e o faz voltar para Ele».22«Este bom Salvador é tão cheio de amor que nos procura por todo o lado».23

         Todos nós, sacerdotes, deveríamos sentir que nos tocam pessoalmente estas palavras que ele colocava na boca de Cristo: «Encarregarei os meus ministros de anunciar aos pecadores que estou sempre pronto a recebê-los, que a minha misericórdia é infinita».24 Do Santo Cura d’Ars, nós, sacerdotes, podemos aprender não só uma inexaurível confiança no sacramento da Penitência que nos instigue a colocá-lo no centro das nossas preocupações pastorais, mas também o método do «diálogo de salvação» que nele se deve realizar. O Cura d’Ars tinha maneiras diversas de comportar-se segundo os vários penitentes. Quem vinha ao seu confessionário atraído por uma íntima e humilde necessidade do perdão de Deus, encontrava nele o encorajamento para mergulhar na «torrente da misericórdia divina» que, no seu ímpeto, tudo arrasta e depura. E se aparecia alguém angustiado com o pensamento da sua debilidade e inconstância, temeroso por futuras quedas, o Cura d’Ars revelava-lhe o segredo de Deus com um discurso de comovente beleza: «O bom Deus sabe tudo. Ainda antes de vos confessardes, já sabe que voltareis a pecar e todavia perdoa-vos. Como é grande o amor do nosso Deus, que vai até ao ponto de esquecer voluntariamente o futuro, só para poder perdoar-nos!».25 Diversamente, a quem se acusava de forma tíbia e quase indiferente, expunha, através das suas próprias lágrimas, a séria e dolorosa evidência de quão «abominável» fosse aquele comportamento. «Choro, porque vós não chorais»:26 exclamava ele. «Se ao menos o Senhor não fosse assim tão bom! Mas é assim bom! Só um bárbaro poderia comportar-se assim diante de um Pai tão bom!».27 Fazia brotar o arrependimento no coração dos tíbios, forçando-os a verem com os próprios olhos o sofrimento de Deus, causado pelos pecados, quase «encarnado» no rosto do padre que os atendia de confissão. Entretanto a quem se apresentava já desejoso e capaz de uma vida espiritual mais profunda, abria-lhe de par em par as profundidades do amor, explicando a inexprimível beleza de poder viver unidos a Deus e na sua presença: «Tudo sob o olhar de Deus, tudo com Deus, tudo para agradar a Deus. (...) Como é belo!»28E ensinava-lhes a rezar assim: «Meu Deus, dai-me a graça de Vos amar tanto quanto é possível que eu Vos ame!».29

         No seu tempo, o Cura d’Ars soube transformar o coração e a vida de muitas pessoas, porque conseguiu fazer-lhes sentir o amor misericordioso do Senhor. Também hoje é urgente igual anúncio e testemunho da verdade do Amor: Deus caritas est (1 Jo 4, 8). Com a Palavra e os Sacramentos do seu Jesus, João Maria Vianney sabia instruir o seu povo, ainda que frequentemente suspirava convencido da sua pessoal inaptidão a ponto de ter desejado diversas vezes subtrair-se às responsabilidades do ministério paroquial de que se sentia indigno. Mas, com exemplar obediência, ficou sempre no seu lugar, porque o consumia a paixão apostólica pela salvação das almas. Procurava aderir totalmente à própria vocação e missão por meio de uma severa ascese: «Para nós, párocos, a grande desdita – deplorava o Santo – é entorpecer-se a alma»,30 entendendo, com isso, o perigo de o pastor se habituar ao estado de pecado ou de indiferença em que vivem muitas das suas ovelhas. Com vigílias e jejuns, punha freio ao corpo, para evitar que opusesse resistência à sua alma sacerdotal. E não se esquivava a mortificar-se a si mesmo para bem das almas que lhe estavam confiadas e para contribuir para a expiação dos muitos pecados ouvidos em confissão. Explicava a um colega sacerdote: «Dir-vos-ei qual é a minha receita: dou aos pecadores uma penitência pequena e o resto faço-o eu no lugar deles».31 Independentemente das penitências concretas a que se sujeitava o Cura d’Ars, continua válido para todos o núcleo do seu ensinamento: as almas custam o sangue de Cristo e o sacerdote não pode dedicar-se à sua salvação se se recusa a contribuir com a sua parte para o «alto preço» da redenção.

         No mundo actual, não menos do que nos tempos difíceis do Cura d’Ars, é preciso que os presbíteros, na sua vida e acção, se distingam por um vigoroso testemunho evangélico. Observou, justamente, Paulo VI que «o homem contemporâneo escuta com melhor boa vontade as testemunhas do que os mestres ou então, se escuta os mestres, é porque eles são testemunhas».32 Para que não se forme um vazio existencial em nós e fique comprometida a eficácia do nosso ministério, é preciso não cessar de nos interrogarmos: «Somos verdadeiramente permeados pela Palavra de Deus? É verdade que esta é o alimento de que vivemos, mais de que o sejam o pão e as coisas deste mundo? Conhecemo-la verdadeiramente? Amamo-la? De tal modo nos ocupamos interiormente desta palavra, que a mesma dá realmente um timbre à nossa vida e forma o nosso pensamento?».33 Assim como Jesus chamou os Doze para estarem com Ele (cf. Mc 3, 14) e só depois é que os enviou a pregar, assim também nos nossos dias os sacerdotes são chamados a assimilar aquele «novo estilo de vida» que foi inaugurado pelo Senhor Jesus e assumido pelos Apóstolos.34 

         Foi precisamente a adesão sem reservas a este «novo estilo de vida» que caracterizou o trabalho ministerial do Cura d’Ars. O Papa João XXIII, na carta encíclica Sacerdotii nostri primordia – publicada em 1959, centenário da morte de S. João Maria Vianney –, apresentava a sua fisionomia ascética referindo-se de modo especial ao tema dos «três conselhos evangélicos», considerados necessários também para os presbíteros: «Embora, para alcançar esta santidade de vida, não seja imposta ao sacerdote como própria do estado clerical a prática dos conselhos evangélicos, entretanto esta representa para ele, como para todos os discípulos do Senhor, o caminho regular da santificação cristã».35 O Cura d’Ars soube viver os «conselhos evangélicos» segundo modalidades apropriadas à sua condição de presbítero. Com efeito, a sua pobreza não foi a mesma de um religioso ou de um monge, mas a requerida a um padre: embora manejasse com muito dinheiro (dado que os peregrinos mais abonados não deixavam de se interessar pelas suas obras sócio-caritativas), sabia que tudo era dado para a sua igreja, os seus pobres, os seus órfãos, as meninas da sua «Providence»,36 as suas famílias mais indigentes. Por isso, ele «era rico para dar aos outros e era muito pobre para si mesmo».37 Explicava: «O meu segredo é simples: dar tudo e não guardar nada».38 Quando se encontrava com as mãos vazias, dizia contente aos pobres que se lhe dirigiam: «Hoje sou pobre como vós, sou um dos vossos».39 Deste modo pôde, ao fim da vida, afirmar com absoluta serenidade: «Não tenho mais nada. Agora o bom Deus pode chamar-me quando quiser!».40 Também a sua castidade era aquela que se requeria a um padre para o seu ministério. Pode-se dizer que era a castidade conveniente a quem deve habitualmente tocar a Eucaristia e que habitualmente a fixa com todo o entusiasmo do coração e com o mesmo entusiasmo a dá aos seus fiéis. Dele se dizia que «a castidade brilhava no seu olhar», e os fiéis apercebiam-se disso quando ele se voltava para o sacrário fixando-o com os olhos de um enamorado.41 Também a obediência de S. João Maria Vianney foi toda encarnada na dolorosa adesão às exigências diárias do seu ministério. É sabido como o atormentava o pensamento da sua própria inaptidão para o ministério paroquial e o desejo que tinha de fugir «para chorar a sua pobre vida, na solidão».42 Somente a obediência e a paixão pelas almas conseguiam convencê-lo a continuar no seu lugar. A si próprio e aos seus fiéis explicava: «Não há duas maneiras boas de servir a Deus. Há apenas uma: servi-Lo como Ele quer ser servido».43 A regra de ouro para levar uma vida obediente parecia-lhe ser esta: «Fazer só aquilo que pode ser oferecido ao bom Deus».44 

         No contexto da espiritualidade alimentada pela prática dos conselhos evangélicos, aproveito para dirigir aos sacerdotes, neste Ano a eles dedicado, um convite particular para saberem acolher a nova primavera que, em nossos dias, o Espírito está a suscitar na Igreja, através nomeadamente dos Movimentos Eclesiais e das novas Comunidades. «O Espírito é multiforme nos seus dons. (…) Ele sopra onde quer. E fá-lo de maneira inesperada, em lugares imprevistos e segundo formas precedentemente inimagináveis (…); mas demonstra-nos também que Ele age em vista do único Corpo e na unidade do único Corpo».45 A propósito disto, vale a indicação do decreto Presbyterorum ordinis: «Sabendo discernir se os espíritos vêm de Deus, [os presbíteros] perscrutem com o sentido da fé, reconheçam com alegria e promovam com diligência os multiformes carismas dos leigos, tanto os mais modestos como os mais altos».46 Estes dons, que impelem não poucos para uma vida espiritual mais elevada, podem ser de proveito não só para os fiéis leigos mas também para os próprios ministros. Com efeito, da comunhão entre ministros ordenados e carismas pode brotar «um válido impulso para um renovado compromisso da Igreja no anúncio e no testemunho do Evangelho da esperança e da caridade em todos os recantos do mundo».47 Queria ainda acrescentar, apoiado na exortação apostólica Pastores dabo vobis do Papa João Paulo II, que o ministério ordenado tem uma radical «forma comunitária» e pode ser cumprido apenas na comunhão dos presbíteros com o seu Bispo.48É preciso que esta comunhão entre os sacerdotes e com o respectivo Bispo, baseada no sacramento da Ordem e manifestada na concelebração eucarística, se traduza nas diversas formas concretas de uma fraternidade sacerdotal efectiva e afectiva.49 Só deste modo é que os sacerdotes poderão viver em plenitude o dom do celibato e serão capazes de fazer florir comunidades cristãs onde se renovem os prodígios da primeira pregação do Evangelho.

         O Ano Paulino, que está a chegar ao fim, encaminha o nosso pensamento também para o Apóstolo das nações, em quem refulge aos nossos olhos um modelo esplêndido de sacerdote, totalmente «doado» ao seu ministério. «O amor de Cristo nos impele – escrevia ele –, ao pensarmos que um só morreu por todos e que todos, portanto, morreram» (2 Cor 5, 14). E acrescenta: Ele «morreu por todos, para que os vivos deixem de viver para si próprios, mas vivam para Aquele que morreu e ressuscitou por eles» (2 Cor 5, 15). Que programa melhor do que este poderia ser proposto a um sacerdote empenhado a avançar pela estrada da perfeição cristã?

         Amados sacerdotes, a celebração dos cento e cinquenta anos da morte de S. João Maria Vianney (1859) segue-se imediatamente às celebrações há pouco encerradas dos cento e cinquenta anos das aparições de Lourdes (1858). Já em 1959, o Beato Papa João XXIII anotara: «Pouco antes que o Cura d’Ars concluísse a sua longa carreira cheia de méritos, a Virgem Imaculada aparecera, noutra região da França, a uma menina humilde e pura para lhe transmitir uma mensagem de oração e penitência, cuja imensa ressonância espiritual há um século que é bem conhecida. Na realidade, a vida do santo sacerdote, cuja comemoração celebramos, fora de antemão uma viva ilustração das grandes verdades sobrenaturais ensinadas à vidente de Massabielle. Ele próprio nutria pela Imaculada Conceição da Santíssima Virgem uma vivíssima devoção, ele que, em 1836, tinha consagrado a sua paróquia a Maria concebida sem pecado e havia de acolher com tanta fé e alegria a definição dogmática de 1854».50 O Santo Cura d’Ars sempre recordava aos seus fiéis que «Jesus Cristo, depois de nos ter dado tudo aquilo que nos podia dar, quis ainda fazer-nos herdeiros de quanto Ele tem de mais precioso, ou seja, da sua Santa Mãe».51

         À Virgem Santíssima entrego este Ano Sacerdotal, pedindo-Lhe para suscitar no ânimo de cada presbítero um generoso relançamento daqueles ideais de total doação a Cristo e à Igreja que inspiraram o pensamento e a acção do Santo Cura d’Ars. Com a sua fervorosa vida de oração e o seu amor apaixonado a Jesus crucificado, João Maria Vianney alimentou a sua quotidiana doação sem reservas a Deus e à Igreja. Possa o seu exemplo suscitar nos sacerdotes aquele testemunho de unidade com o Bispo, entre eles próprios e com os leigos que é tão necessário hoje, como o foi sempre. Não obstante o mal que existe no mundo, ressoa sempre actual a palavra de Cristo aos seus apóstolos, no Cenáculo: «No mundo sofrereis tribulações. Mas tende confiança: Eu venci o mundo» (Jo 16, 33). A fé no divino Mestre dá-nos a força para olhar confiadamente o futuro. Amados sacerdotes, Cristo conta convosco. A exemplo do Santo Cura d’Ars, deixai-vos conquistar por Ele e sereis também vós, no mundo actual, mensageiros de esperança, de reconciliação, de paz.

Com a minha bênção.

Vaticano, 16 de Junho de 2009.

BENEDICTUS PP.XVI

 
1.Assim o proclamou o Sumo Pontífice Pio XI, em 1929.
2.«Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœr de Jésus», in Le Curé d’Ars. Sa pensée – son cœur, obra cuidada por Abbé Bernard Nodet (ed. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966), pág. 98. Em seguida, será citada: Nodet. A mesma frase aparece no Catecismo da Igreja Católica, n. 1589.
3.Nodet, 101.
4.Ibid., 97.
5.Ibid., 98-99.
6.Ibid., 98-100.
7.Ibid., 183.
8.MONNIN A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I (ed. Marietti, Turim 1870), pág. 122.
9. Cf.Lumen gentium, 10.
10.Presbyterorum ordinis, 9.
11.Ibid., 9.
12.«A contemplação é o olhar de fé, fixado em Jesus. “Eu olho para Ele e Ele olha para mim” – dizia, no tempo do seu santo Cura, um camponês d’Ars em oração diante do sacrário» (Catecismo da Igreja Católica, n. 2715).
13.Nodet, 85.
14.Ibid., 114.
15.Ibid., 119.
16. MONNIN A., o.c., II, pág. 430ss.
17.Nodet, 105.
18.Ibid., 105.
19.Ibid., 104.
20.MONNIN A., o.c., II, pág. 293.
21.Ibid., II, pág. 10.
22.Nodet, 128.
23.Ibid., 50.
24.Ibid., 131.
25.Ibid., 130.
26.Ibid., 27.
27.Ibid., 139.
28.Ibid., 28.
29.Ibid., 77.
30.Ibid., 102.
31.Ibid., 189.
32.Evangelii nuntiandi, 41.
33. BENTO XVI,Homilia na Missa Crismal (9 de Abril de 2009).
34. Cf. BENTO XVI,Discursoà Assembleia plenária da Congregação do Clero (16 de Março de 2009).
35. Parte I.
36. Este foi o nome que deu à casa onde fez alojar e educar mais de 60 meninas abandonadas. Para mantê-la, a nada se poupava: «J’ai fait tous les commerces imaginables» - dizia ele sorrindo (Nodet, 214).
37.Nodet, 216.
38.Ibid., 215.
39.Ibid., 216.
40.Ibid., 214.
41. Cf. ibid., 112.
42.Cf. ibid., 82-84.102-103.
43.Ibid., 75.
44.Ibid., 76.
45. BENTO XVI,Homilia na Vigília de Pentecostes (3 de Junho de 2006).
46. N. 9.
47. BENTO XVI,Discurso aos Bispos amigos do Movimento dos Focolares e da Comunidade de Santo Egídio (8 de Fevereiro de 2007).
48. Cf. n. 17.
49. Cf. JOÃO PAULO II, Exort. ap.Pastores dabo vobis, 74.
50. Carta enc. Sacerdotii nostri primordia, parte III.
51.Nodet, 244.

[00960-06.01] [Texto original: Português]

 

TESTO IN LINGUA POLACCA

Drodzy bracia w kapłaństwie,

Pomyślałem o ogłoszeniu oficjalnie Roku Kapłańskiego, w piątek 19 czerwca 2009 r., w uroczystość Najświętszego Serca Pana Jezusa. Jest to dzień poświęcony tradycyjnie modlitwie o uświęcenie kapłanów. Jest on również związany ze 150 rocznicą „dies natalis” – dnia urodzin dla nieba Jana Marii Vianneya, patrona wszystkich proboszczów świata1. Ów rok, który pragnie przyczynić się do krzewienia zapału wewnętrznej odnowy wszystkich kapłanów na rzecz silniejszego i bardziej wyrazistego świadectwa ewangelicznego we współczesnym świecie zakończy się w tę samą uroczystość w roku 2010. Święty proboszcz z Ars zwykł był mawiać: „Kapłaństwo to miłość Serca Jezusowego”2. To wzruszające wyrażenie pozwala nam nade wszystko przywołać z sympatią i uznaniem ogromny dar, jaki stanowią kapłani nie tylko dla Kościoła, lecz także dla samej ludzkości. Myślę o tych wszystkich księżach, którzy chrześcijanom i całemu światu przedstawiają pokorną i codzienną propozycję słów i gestów Chrystusa, starając się do Niego przylgnąć swymi myślami, wolą, uczuciami i stylem całego swego istnienia. Jakże nie podkreślić ich trudu apostolskiego, niestrudzonej i ukrytej służby, ich miłości pragnącej być uniwersalną? Cóż powiedzieć o odważnej wierności tak wielu kapłanów, którzy także pośród trudności i nieporozumień pozostają wierni swemu powołaniu: by być „przyjaciółmi Chrystusa”, szczególnie przez Niego powołanymi, wybranymi i posłanymi?

Sam nadal noszę w sercu wspomnienie pierwszego proboszcza, u boku którego wypełniałem mą posługę jako młody ksiądz. Pozostawił mi przykład bezwzględnego poświęcenia swej posłudze kapłańskiej, aż do śmierci, która zastała go w chwili, gdy niósł wiatyk do ciężko chorego. Przypominam sobie wielu współbraci, których spotkałem i spotykam nadal, także podczas mych podróży duszpasterskich w różnych krajach, wielkodusznie zaangażowanych w codzienne wypełnianie swej posługi kapłańskiej. Jednakże wyrażenie użyte przez Świętego Proboszcza przywołuje także przebicie Serca Chrystusa i oplatającą Go koronę cierniową. W konsekwencji myśl biegnie ku niezliczonym sytuacjom cierpienia, w które uwikłani są liczni kapłani, czy to z racji uczestnictwa w różnych przejawach doświadczenia ludzkiego bólu, czy też ze względu na niezrozumienie tych, do których skierowana jest ich posługa. Jakże nie wspomnieć tak wielu księży znieważonych w swej godności, którym uniemożliwiono wypełnianie swej misji, niekiedy również prześladowanych, aż do najwyższego świadectwa krwi?

Istnieją niestety także nigdy nie dość opłakane sytuacje, w których sam Kościół musi cierpieć ze względu na niewierność niektórych swych sług. Świat zaś w takich sytuacjach czerpie z nich motywy zgorszenia i odrzucenia. To, co w takich przypadkach może najbardziej przynieść korzyść Kościołowi, to nie tyle pedantyczne ujawnianie słabości swych sług, ile odnowiona i radosna świadomość wielkości Bożego daru, skonkretyzowanego we wspaniałych postaciach wielkodusznych duszpasterzy, zakonników żarliwych miłością Boga i dusz, światłych i cierpliwych kierowników duchowych. Pod tym względem nauczanie i przykład św. Jana Marii Vianneya mogą być dla wszystkich istotnym punktem odniesienia. Proboszcz z Ars był niezwykle pokorny. Lecz jako kapłan był świadomy, że jest dla swych wiernych ogromnym darem: „Dobry pasterz, pasterz według Bożego serca jest największym skarbem jaki dobry Bóg może dać parafii i jednym z najcenniejszych darów Bożego miłosierdzia”3. Mówił o kapłaństwie, tak jakby nie mógł się przekonać o wielkości daru i zadania powierzonego ludzkiemu stworzeniu: „Oh jakże kapłan jest wielki!.. Gdyby pojął siebie, umarłby... Bóg jest mu posłuszny: wypowiada dwa słowa, a na jego głos Nasz Pan zstępuje z nieba i zawiera się w małej hostii...”4. Wyjaśniając swym wiernym znaczenie sakramentów mówił: „Gdyby zniesiono sakrament święceń, nie mielibyśmy Pana. Któż Go złożył tam, w tabernakulum? Kapłan. Kto przyjął waszą duszę, gdy po raz pierwszy wkroczyła w życie? Kapłan. Kto ją karmi, by dać siłę na wypełnienie jej pielgrzymki? Kapłan. Któż ją przygotuje, by pojawiła się przed Bogiem, obmywając ją po raz ostatni we Krwi Jezusa Chrystusa? Kapłan, zawsze kapłan. A jeśli ta dusza umiera ze względu na grzech, kto ją wskrzesi, kto da jej ciszę i pokój? Znów kapłan... Po Bogu, kapłan jest wszystkim!... On sam pojmie się w pełni dopiero w niebie”5. Stwierdzenia te, zrodzone z kapłańskiego serca Świętego Proboszcza mogą się wydawać przesadne. Mimo to ujawnia się w nich niezwykły szacunek, jakim darzył on sakrament kapłaństwa. Zdawał się przytłoczony nieograniczonym poczuciem odpowiedzialności: „Gdybyśmy dobrze zrozumieli czym jest ksiądz na ziemi, umarlibyśmy: nie z przerażenia, lecz z miłości... Bez księdza śmierć i męka Naszego Pana nie służyłaby do niczego. To ksiądz kontynuuje na ziemi dzieło zbawienia... Na co zdałby się dom pełen złota, gdyby w nim nie było nikogo, kto otworzyłby nam doń drzwi? Ksiądz ma klucze do skarbów niebieskich: to on otwiera bramę: on jest ekonomem dobrego Boga; zarządcą Jego dobór... Zostawicie parafię na dwadzieścia lat bez księdza, zagnieżdżą się w niej bestie... Ksiądz nie jest kapłanem dla siebie, jest nim dla was”6.

Dotarł do Ars, małej wioski, w której mieszkało 230 osób. Biskup ostrzegł go, że zastanie tam niełatwą sytuację religijną: „Nie ma w tej parafii wielkiej miłości Boga; będzie z tym ksiądz miał do czynienia”. Był więc w pełni świadom, że miał tam ucieleśniać obecność Chrystusa świadcząc o Jego zbawczej delikatności: „[Boże mój], daj mi nawrócenie mojej parafii; gotów jestem cierpieć wszystko co zechcesz Panie, przez całe me życie!” - to z tą właśnie modlitwą rozpoczynał swą misję7. Nawróceniu swojej parafii Święty Proboszcz poświęcił się z całych sił, myśląc nade wszystko o chrześcijańskiej formacji powierzonego mu ludu. 

Drodzy bracia w kapłaństwie, prośmy Pana Jezusa o łaskę nauczenia się metody duszpasterskiej świętego Jana Marii Vianeya! Przede wszystkim powinniśmy się nauczyć jego całkowitej identyfikacji ze swą posługą. W Jezusie osoba i misja dążą do zbieżności: całe Jego działania zbawcze było i jest wyrazem Jego „synowskiego Ja”, które od wszystkich wieków stoi przed Ojcem w postawie miłosnego poddanie się Jego woli. Z pokorną, lecz prawdziwą analogią, także kapłan powinien pragnąć tego utożsamienia. Nie chodzi rzecz jasna, by zapominać, że substancjalna skuteczność posługi nie zależy od świętości szafarza; nie można jednak lekceważyć niezwykłej owocności rodzącej się ze spotkania obiektywnej świętości posługi z subiektywną świętością jej szafarza. Proboszcz z Ars natychmiast rozpoczął ową pokorną i cierpliwą pracę harmonizowania swego życia szafarza ze świętością powierzonej mu posługi, decydując się na „zamieszkanie” nawet materialne w swym kościele parafialnym: „Zaledwie przybył wybrał kościół na swe mieszkanie...Wchodził do kościoła przed jutrzenką i nie wychodził aż do wieczornej modlitwy «Anioł Pański». Tam trzeba go było szukać, jeśli się go potrzebowało” - czytamy w jego pierwszej biografii8.

Pobożna przesada nabożnego hagiografa nie powinna nakłaniać nas do przeoczenia faktu, że Święty Proboszcz potrafił także aktywnie „zamieszkiwać” na całym terytorium swojej parafii: systematycznie odwiedzał chorych i rodziny: organizował misje ludowe i święta patronalne; zbierał i rozporządzał pieniędzmi na swe dzieła charytatywne i misyjne; upiększał swój kościół i obdarzał go wyposażeniem sakralnym; zajmował się sierotami z założonego przez siebie instytutu „Providence” oraz ich wychowawczyniami; interesował się wykształceniem dzieci; tworzył konfraternie i wzywał świeckich do współpracy.

Jego przykład skłania mnie do uwydatnienia przestrzeni współpracy, które należy coraz bardziej rozszerzać na wiernych świeckich. Prezbiterzy tworzą z nimi jeden lud kapłański9 i pośród nich się znajdują na mocy swego kapłaństwa służebnego „by prowadzili wszystkich do zjednoczenia w miłości, «miłością braterską nawzajem się miłując, w okazywaniu czci jedni drugich uprzedzając» (Rz 12,10)”10. W tym kontekście trzeba przypomnieć żarliwe wezwanie jakie II Sobór Watykański kieruje do prezbiterów, zachęcając ich, „by szczerze uznawali i popierali godność świeckich i właściwy im udział w posłannictwie Kościoła... oraz by chętnie słuchali świeckich, rozpatrując po bratersku ich pragnienia i uznając ich doświadczenie i kompetencję w różnych dziedzinach ludzkiego działania, by razem z nimi mogli rozpoznać znaki czasów”11.

Święty Proboszcz pouczał swoich parafian świadectwem swego życia. Z jego przykładu wierni uczyli się modlitwy, chętnie pozostając przed tabernakulum, by odwiedzić Jezusa Eucharystycznego12. „Nie trzeba wiele mówić, by dobrze się modlić – wyjaśniał im Proboszcz– „Wiadomo, że tam, w świętym tabernakulum jest Jezus: otwórzmy Mu serce, radujmy się Jego świętą obecnością. To jest najlepsza modlitwa”13. Zachęcał: „Bracia moi, przyjdźcie do Komunii, przyjdźcie do Jezusa. Przyjdźcie by Nim żyć, abyście z Nim mogli żyć...”14. „To prawda, że nie jesteście tego godni, ale Jego potrzebujecie!”15. Takie wychowanie wiernych do obecności eucharystycznej i do Komunii zyskiwało szczególną skuteczność, kiedy wierni widzieli jak celebruje Najświętszą Ofiarę Mszy św. Ten, kto w niej uczestniczył, mówił, że „nie można było znaleźć osoby, która mogłaby lepiej wyrażać adorację...jak zakochany kontemplował Hostię”16. Mówił, że „wszystkie nagromadzone dobre dzieła nie mogą się równać ofierze Mszy św., ponieważ są one dziełami ludzi, podczas gdy Msza św. jest dziełem Boga”17. Był przekonany, że od Mszy św. zależy cała żarliwość życia kapłańskiego: „Przyczyną rozprzężenia kapłana jest to, że nie zwraca uwagi na Mszę św.! O mój Boże, jakże trzeba żałować księdza, który odprawia tak, jakby czynił coś zwyczajnego!18. Celebrując zwykł był zawsze ofiarowywać także ofiarę swego życia: „Jak dobrze czyni ksiądz, dając siebie Bogu w ofierze każdego ranka!”19

To osobiste utożsamienie z Ofiarą Krzyżową prowadziło go – jednym poruszeniem wewnętrznym - od ołtarza do konfesjonału. Kapłani nigdy nie powinni poddawać się rezygnacji, gdy widzą, że nikt nie przychodzi do konfesjonału, czy też ograniczać się do stwierdzenia, że wierni nie są zainteresowani tym sakramentem. We Francji w czasach Świętego Proboszcza spowiedź nie była ani łatwiejsza ani też częstsza niż dzisiaj, biorąc pod uwagę, że rewolucyjna zawierucha na długo przytłumiła praktykę religijną. On jednak starał się na wszelki sposób, przez kaznodziejstwo i przekonującą radę, by swym parafianom umożliwić odkrycie znaczenia i piękna sakramentalnej Pokuty, ukazując ją jako wewnętrzny wymóg Obecności eucharystycznej. Potrafił dać w ten sposób początek kompleksowej poprawie stanu wiary. Przebywając długo w kościele przed tabernakulum wierni zaczęli go naśladować, udając się tam, by nawiedzić Jezusa. Byli równocześnie pewni, że spotkają tam swego proboszcza, gotowego ich wysłuchać i udzielić rozgrzeszenia. Później narastał tłum penitentów przybywających z całej Francji. Przetrzymywali go w konfesjonale aż do 16 godzin dziennie. Mówiono wówczas, że Ars stało się „wielkim szpitalem dusz”20. „Uzyskiwana przez niego łaska (by nawracali się grzesznicy) była tak mocna, że wybiegała, by ich szukać nie dając im chwili wytchnienia!”- powiada pierwszy biograf21. Nie inaczej odczuwał to Święty Proboszcz, gdy mówił: „To nie grzesznik powraca do Boga, by prosić Go o przebaczenie, lecz sam Bóg, który biegnie za grzesznikiem i sprawia, że zwraca się on do Niego”22. „Ów dobry Zbawiciel jest tak pełen miłości, że wszędzie nas szuka”23

Wszyscy my, kapłani powinniśmy odczuwać, że osobiście dotyczą nas te słowa, które umieszczał w ustach Chrystusa: „Polecę moim szafarzom, żeby głosili grzesznikom, że jestem gotów zawsze ich przyjąć, że moje miłosierdzie jest nieskończone”24. Od Świętego Proboszcza z Ars my, kapłani możemy nauczyć się nie tylko niewyczerpanej ufności w Sakrament Pokuty, która każe nam umieszczać go w centrum naszej troski duszpasterskiej, lecz także metody „dialogu zbawienia”, który powinien w nim mieć miejsce. Proboszcz z Ars w różny sposób podchodził do poszczególnych penitentów. Ten, kto przychodził do jego konfesjonału, pociągnięty wewnętrzną i pokorną potrzebą Bożego przebaczenia odnajdywał w nim zachętę do zanurzenia się w „potoku Bożego miłosierdzia”, który porywa ze sobą wszystko swym impetem. A jeśli ktoś był zgnębiony myślą o swej słabości i niestałości, lękając się przyszłych upadków, Proboszcz ujawniał mu Boży sekret słowami wzruszającego piękna: „Dobry Bóg zna wszystko. Jeszcze zanim się wyspowiadacie, już wie, że będziecie nadal grzeszyć, a mimo wszystko wam przebacza. Jakże wielka jest miłość naszego Boga, która posuwa się aż do chęci zapomnienia o przyszłości, żeby nam przebaczyć!”25 Natomiast tym, którzy oskarżali się w sposób obojętny i niemal nieczuły swymi własnymi łzami przedstawiał poważne i bolesne dowody, jak bardzo postawa taka była „wstrętna”: „Płaczę, bo wy nie płaczecie”26- mówił. „Gdyby chociaż Pan nie był tak dobry! Ale jest tak dobry! Trzeba być barbarzyńcą, żeby tak się zachowywać wobec tak dobrego Ojca!”27. Sprawiał, że w sercach ludzi obojętnych rodziła się skrucha, zmuszając ich do dostrzeżenia na własne oczy cierpienia Boga z powodu grzechów, niemal „ucieleśnionego” na twarzy spowiadającego ich kapłana. Tym natomiast, u których dostrzegał pragnienie i zdolność do głębszego życia duchowego, otwierał głębię miłości, wyjaśniając trudne do wyrażenia piękno możliwości życia zjednoczonego z Bogiem, w Jego obecności: „Wszystko przed Bożymi oczyma, wszystko z Bogiem, by podobać się Bogu ...Jakie to piękne!”28. I uczył ich się modlić: „O mój Boże, daj mi łaskę, bym Cię miłował, na ile jest to możliwe, bym Cię kochał”29.

Proboszcz z Ars potrafił w swoim czasie przekształcać serce i życie tak wielu osób, gdyż udało się mu ukazać im miłosierną miłość Pana. Także w naszych czasach potrzebne jest podobne przepowiadanie i świadectwo prawdy miłości: Bóg jest miłością (1 J 4,8). Przez sakramenty i słowo swego Jezusa Jan Maria Vianney potrafił budować swój lud, pomimo, że często drżał, przekonany o swojej osobistej niewystarczalności, tak bardzo że wiele razy chciał zrezygnować z kierowania parafią, bo czuł się niegodny. Mimo to przykładnie posłuszny zawsze pozostawał na swoim stanowisku, gdyż pożerała go apostolska pasja o zbawienie dusz. Starał się całkowicie przystawać do swego powołania i misji, poprzez surową ascezę: „Wielkim nieszczęściem dla nas proboszczów – ubolewał święty - jest to, że dusza wpada w stan odrętwienia”; rozumiał przez to niebezpieczne oswojenie się duszpasterza ze stanem grzechu czy indyferentyzmu, w którym żyje tak wiele jego owieczek30. Powściągał ciało, przez czuwania i posty, aby nie stawiało przeszkód jego kapłańskiej duszy. Nie unikał umartwienia siebie dla dobra powierzonych mu dusz oraz by przyczynić się do wynagrodzenia tak wielu grzechów wysłuchanych na spowiedzi. Wyjaśniał współbratu w kapłaństwie: „Powiem tobie jaką mam receptę: daję grzesznikom niewielką pokutę, a resztę czynię za nich sam”31. Ponad konkretne pokuty którym poddawał się Proboszcz z Ars ma dla nas wszystkich znaczenie istota jego nauczania: dusze zostały nabyte drogocenną krwią Chrystusa zaś kapłan nie może poświęcić się ich zbawieniu, jeśli odmawia osobistego uczestnictwa w „wielkiej cenie” odkupienia.

We współczesnym świecie, podobnie jak w trudnych czasach Proboszcza z Ars trzeba, żeby kapłani wyróżniali się w swoim życiu i działaniu mocnym ewangelicznym świadectwem. Słusznie zauważył Paweł VI: „człowiek naszych czasów chętniej słucha świadków, aniżeli nauczycieli; a jeśli słucha nauczycieli, to dlatego, że są świadkami”32. Aby nie zrodziła się w nas pustka egzystencjalna i nie została narażona skuteczność naszej posługi, trzeba byśmy się pytali ciągle na nowo: „Czy jesteśmy naprawdę przeniknięci Słowem Bożym? Czy jest ono doprawdy pokarmem, którym się posilamy, bardziej niż chleb i sprawy tego świata? Czy naprawdę je znamy? Czy je miłujemy? Czy troszczymy się wewnętrznie o to Słowo do tego stopnia, aby rzeczywiście odciskało się ono na naszym życiu i kształtowało nasze myślenie?”33. Tak jak Jezus powołał Dwunastu, aby z Nim byli (por. Mk 3,14) i dopiero następnie wysłał ich, by głosili Ewangelię, tak i w naszych czasach kapłani są powołani do „przyswojenia” sobie owego „nowego stylu życia”, zapoczątkowanego przez Pana Jezusa, który realizowali właśnie Apostołowie34

Właśnie owo przywarcie bez zastrzeżeń do tego „nowego stylu życia” charakteryzowało zaangażowanie duszpasterskie Proboszcza z Ars. Papież Jan XXIII w opublikowanej w roku 1959 z okazji setnej rocznicy śmierci św. Jana Marii Vianneya encyklice Sacerdotii nostri primordia, przedstawiał jego ascetyczny charakter, zwracając szczególną uwagę na zagadnienie „trzech rad ewangelicznych”, uznanych za konieczne także dla kapłanów: „Jeśli dla osiągnięcia owej świętości życia, rady ewangeliczne nie są nakazane mocą samego stanu duchownego, to jednakże służą im one, podobnie jak wszystkim wiernym, jako normalna droga do osiągnięcia chrześcijańskiego uświęcenia”35. Proboszcz z Ars potrafił żyć „radami ewangelicznymi” w sposób stosowny do swego stanu kapłańskiego. Jego ubóstwo nie było takie jak zakonnika czy mnicha, lecz takie, jakiego wymaga się od księdza: pomimo zarządzania znacznymi sumami pieniędzy (pamiętajmy, że bardziej majętni pielgrzymi interesowali się jego dziełami charytatywnymi), wiedział, że wszystko ofiarowano jego kościołowi, ubogim, sierotom, dziewczętom z jego „Providence”36 i rodzinom najuboższym. Dlatego „był bogaty, by dawać innym, a bardzo ubogi dla siebie”37. Wyjaśniał: „Mój sekret jest prosty: dawać wszystko i niczego nie trzymać dla siebie”38. Kiedy miał puste ręce, zwracającym się do niego ubogim mówił zadowolony: „Dziś jestem biedny, tak jak wy, jestem jednym z was”39. Mógł w ten sposób stwierdzić u kresu życia z całkowitym spokojem: „Nie mam już nic (...). Dobry Bóg może mnie teraz wezwać kiedy zechce!”40. Również jego czystość była taką, jakiej wymaga się od księdza dla jego posługi. Można powiedzieć, że była to czystość właściwa dla tego, który habitualnie powinien dotykać Eucharystii i habitualnie patrzy na nią z całą żarliwością serca i z tą samą żarliwością daje ją swoim wiernym. Powiadano o nim, że „w jego spojrzeniu jaśniała czystość” a wierni dostrzegali to, gdy zwracał się ku tabernakulum oczyma zakochanego41. Również posłuszeństwo św. Jana Marii Vianeya wyrażało się całkowicie w pełnym przylgnięciu do codziennych wymogów swej posługi. Znana jest historia, gdy był dręczony myślą o swojej nieadekwatności do posługi parafialnej i chęcią ucieczki „by opłakiwać samotnie swe biedne życie”42. Jedynie posłuszeństwo i pasja zbawienia dusz zdołały go przekonać, by pozostał na swym miejscu. Sobie i wiernym wyjaśniał: „Nie ma dwóch dobrych sposobów służenia Bogu. Jest tylko jeden jedyny: służyć Jemu tak, jak On chce, by Mu służono”43. Wydawało się mu, że złota reguła życia posłusznego jest następująca: „Czynić jedynie to, co może być ofiarowane dobremu Bogu”44

W kontekście duchowości karmiącej się praktyką rad ewangelicznych cieszę się, że mogę skierować do kapłanów, w tym dedykowanym im roku szczególną zachętę: by potrafili pojąć nową wiosnę, którą Duch rozbudza w naszych dniach w Kościele, nie na poślednim miejscu poprzez nowe ruchy kościelne i nowe wspólnoty. „Duch jest różnorodny w swoich darach...Tchnie tam gdzie chce. Czyni to nieoczekiwanie, w miejscach nieoczekiwanych i w formach wcześniej niewyobrażalnych... ale ukazuje nam także, że działa On mając na względzie jedno Ciało i że działa w jedności jedynego Ciała”45. Pod tym względem ważna jest wskazówka dekretu Presbyterorum ordinis: „Badając duchy, czy pochodzą od Boga, (kapłani) niech w duchu wiary odkrywają różnorodne charyzmaty świeckich, zarówno małe jak i wielkie, niech je z radością uznają, z troskliwością popierają”46. Dary takie, które popychają wielu do doskonalszego życia duchowego mogą przynieść korzyść nie tylko wiernym świeckim, ale i samym szafarzom. Z komunii między kapłanami a charyzmatami może rzeczywiście wypływać „cenny impuls do odnowionego zaangażowania Kościoła w głoszenie Ewangelii nadziei i miłości i dawanie jej świadectwa we wszystkich zakątkach świata”47. Chciałbym też dodać, odwołując się do adhortacji apostolskiej Pastores dabo vobis papieża Jana Pawła II, że posługa kapłańska ma radykalną „formę wspólnotową” i może być wypełniona tylko w komunii kapłanów ze swym biskupem48. Trzeba, aby ta komunia między kapłanami a także ze swym biskupem, mająca swe podstawy w sakramencie święceń i przejawiająca się w koncelebracji eucharystycznej, wyrażała się w różnych konkretnych formach rzeczywistego i afektywnego braterstwa kapłańskiego49. Tylko w ten sposób kapłani będą umieli żyć w pełni darem celibatu i będą zdolni do sprawiania, by rozkwitały wspólnoty chrześcijańskie, w których powtarzane są cuda pierwszego przepowiadania Ewangelii. 

Dobiegający końca rok św. Pawła kieruje także naszą myśl ku Apostołowi Narodów, w którym jaśnieje przed naszymi oczyma wspaniały wzór kapłana, całkowicie „oddanego” swej posłudze. Jak pisze: „miłość Chrystusa przynagla nas, pomnych na to, że skoro Jeden umarł za wszystkich, to wszyscy pomarli” (2 Kor 5,14). Dodał jeszcze: „za wszystkich umarł po to, aby ci, co żyją, już nie żyli dla siebie, lecz dla Tego, który za nich umarł i zmartwychwstał” (2 Kor, 5,15). Jaki lepszy program można by zaproponować kapłanowi starającemu się o rozwój na drodze doskonałości chrześcijańskiej?

 Drodzy kapłani, uroczystości 150 rocznicy śmierci św. Jana Marii Vianneya następują bezpośrednio po dopiero co zakończonych obchodach 150 rocznicy objawień w Lourdes (1858). Już w 1959 r. papież Jan XXIII zauważył: „Krótko przed zakończeniem przez św. Proboszcza z Ars pełnego niebiańskich zasług życia, w innej okolicy Francji ukazała się Ona niewinnej i pokornej dziewczynce, by przez nią macierzyńskim upomnieniem wezwać ludzkość do modlitwy i chrześcijańskiej pokuty; a dostojny Jej głos, do dziś poruszający dusze mimo upływu wieku, dźwięczy długo i szeroko jakby w nieskończoność. W rzeczy samej czyny i słowa kapłana, wyniesionego do czci Świętych, którego setną rocznicę obchodzimy, jakby jakimś uprzedzającym niebiańskim światłem oświetliły nadprzyrodzone prawdy, które objawione zostały w grocie w Lourdes niewinnej dziewczynce. On sam żywił wielkie nabożeństwo do Niepokalanego Poczęcia Najświętszej Dziewicy, w r. 1836 poświęcił kościół parafialny Maryi Niepokalanie Poczętej, a w r. 1854 uczuciami najgłębszej czci i radości witał dogmat katolicki, który tę prawdę nieomylnym orzeczeniem zdefiniował”50. Święty Proboszcz zawsze przypominał swoim wiernym „Jezus Chrystus, dawszy nam wszystko, co mógł nam dać, pragnie nas jeszcze uczynić dziedzicami tego co ma najcenniejsze, to znaczy swojej Najświętszej Matki”51

 Najświętszej Dziewicy zawierzam ten rok kapłański, prosząc Ją by wzbudziła w duszy każdego kapłana wielkoduszne odnowienie owych ideałów całkowitego oddania się Chrystusowi i Kościołowi, które inspirowały myśl i działanie Świętego Proboszcza z Ars. Swym żarliwym życiem modlitwy i gorącą miłością Jezusa Ukrzyżowanego Jan Maria Vianney posilał swe codzienne bezwarunkowe powierzenie się Bogu i Kościołowi. Oby jego przykład wzbudził w kapłanach owe tak bardzo dziś jak i zawsze potrzebne świadectwo jedności z biskupem, między sobą oraz z wiernymi świeckimi. Niezależnie od istniejącego w świecie zła, zawsze rozbrzmiewa jakże aktualne słowo Chrystusa do swoich apostołów w Wieczerniku: „Na świecie doznacie ucisku, ale miejcie odwagę: Jam zwyciężył świat” (J 16,33). Wiara w Boskiego Nauczyciela da nam siłę, byśmy z ufnością spoglądali w przyszłość. Drodzy kapłani, Chrystus na was liczy. Idąc za przykładem Świętego Proboszcza z Ars, pozwólcie się Jemu zdobyć a staniecie się również wy, we współczesnym świecie posłańcami nadziei, pojednania i pokoju!

Z moim Błogosławieństwem Apostolskim

W Watykanie, dnia 16 czerwca 2009 roku

BENEDICTUS PP.XVI


1. . Ogłosił go takim Papież Pius XI w roku 1929
2. . „Le Sacerdoce, c'est l'amour du coeur de Jésus” ( w: B. Nodet, Le curé d'Ars. Sa pensée – Son coeur. Présentée par l'Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Paris 1995, p.5). Dalej: Nodet. Wyrażenie to cytuje także Katechizm Kościoła Katolickiego, n. 1589. 
3.  NODET, s. 101
4.  Ibid, s. 97
5.  Ibid., s. 98-99
6.  Ibid, s. 98-100.
7.  Ibid, s. 183
8.  MONNIN A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, ed. Marietti, Torino 1870, 122
9.  Por. Lumen gentium, 10
10  Presbyterorum ordinis, 9
11.  Tamże
12.  “Kontemplacja jest spojrzeniem wiary, utkwionym w Jezusa Chrystusa. «Wpatruję się w Niego a On wpatruje się w mnie» mówił w czasach swego świętego proboszcza wieśniak z Ars, modląc się przed tabernakulm” (Katechizm Kościoła Katolickiego n. 2715).
13.  NODET, s. 85
14.  NODET, s. 114
15.  Ibid., s. 119
16.  Por. MONNIN A., dzieło cytowane II, ss. 430 nn
17.  NODET, s. 105
18.  Ibid., s. 105
19.  Ibid., s. 104
20.  Monnin A., dzieło cytowane II, s. 293
21.  tamże, II, s. 10
22.  NODET, s. 128
23.  Ibid., s. 50
24.  Ibid., s. 131
25.  Ibid., s. 130
26.  Ibid., s. 27
27.  Ibid., s. 139
28.  Ibid., s. 28
29.  Ibid., s. 77
30.  Ibid., s. 102
31.  Ibid., s. 189
32.  Evangelii nuntiandi, 41.
33.  BENEDYKT XVI, Homilia podczas Mszy św. Krzyżma, 9.04.2009
34.  por. BENEDYKT XVI, Przemówienie do Sesji Plenarnej Kongregacji ds. Duchowieństwa, 16.03.2009
35.  P.I.
36.  Nazwał tak dom, gdzie sprawił, że przyjmowano ponad 60 porzuconych dziewcząt. Aby go utrzymać, był gotów na wszystko “Podjąłem wszelkie wyobrażalne kro ki” – mawiał ze śmiechem (NODET, s. 214)
37.  NODET, s. 216
38.  Ibid., s. 215
39.  Ibid., s. 216
40.  Ibid., s. 214
41.  Por. Ibid., s. 112
42.  Por. Ibid., ss. 82-84; 102-103
43.  Ibid., s. 75
44.  Ibid., s. 76
45.  BENEDYKT XVI, Wigilia Zesłania Ducha Świętego, 3.06.2006
46.  N.9.
47.  BENEDYKT XVI, Przemówienie do Biskupów przyjaciół Ruchu Focolari i Wspólnoty św.Idziego, 8.02.2007
48.  Por. n.17.
49.  por. JAN PAWEŁ II. Adhort. Ap. Pastores dabo vobis, 74
50.  Encyklika Sacerdotii nostri primordia, 1959
51.  NODET, s. 244.

[00960-09.01] [Testo originale: Polacco]

[B0411-XX.02]