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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA QUARESIMA 2009, 03.02.2009


Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2009 sul tema "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 2):

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

All'inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno - per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace" (Preconio pasquale). Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest'anno a riflettere In particolare sul valore e sul senso del digiuno. La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Leggiamo nel Vangelo: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4,1-2). Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr Es 34,28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr 1 Re 19,8), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.

Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento. Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare. Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire" (Gn 2,16-17). Commentando l'ingiunzione divina, san Basilio osserva che "il digiuno è stato ordinato in Paradiso", e "il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo". Egli pertanto conclude: "Il 'non devi mangiare' è, dunque, la legge del digiuno e dell'astinenza" (cfr Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l'amicizia con il Signore. Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall'esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare "per umiliarci - disse - davanti al nostro Dio" (8,21). L'Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione. Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all'appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo: "Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!" (3,9). Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.

Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.

Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).

Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).

La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.

Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.

Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".

Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21). La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale. Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima. Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostrae laetitiae, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più "tabernacolo vivente di Dio". Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perchè ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-01.01] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers frères et sœurs !

Au commencement du Carême, qui constitue un chemin d’entraînement spirituel intense, la Liturgie nous propose à nouveau trois pratiques pénitentielles très chères à la tradition biblique et chrétienne – la prière, l’aumône et le jeûne – pour nous préparer à mieux célébrer la Pâque et faire ainsi l’expérience de la puissance de Dieu qui, comme nous l’entendrons au cours de la Veillée Pascale, « triomphe du mal, lave nos fautes, redonne l’innocence aux pécheurs, la joie aux affligés, dissipe la haine, nous apporte la paix et humilie l’orgueil du monde » (Annonce de la Pâque). En ce traditionnel Message du Carême, je souhaite cette année me pencher plus particulièrement sur la valeur et le sens du jeûne. Le Carême en effet nous rappelle les quarante jours de jeûne vécus par le Seigneur dans le désert, avant le commencement de sa mission publique. Nous lisons dans l’Evangile : « Jésus fut conduit au désert par l’Esprit pour être tenté par le démon. Après avoir jeûné quarante jours et quarante nuits, il eut faim » (Mt 4,1-2). Comme Moïse avant de recevoir les Tables de la Loi, (cf. Ex 34,28), comme Élie avant de rencontrer le Seigneur sur le mont Horeb (cf. 1 R 19,8), de même Jésus, en priant et en jeûnant, se prépare à sa mission, dont le début fut marqué par une dure confrontation avec le tentateur.

Nous pouvons nous demander quelle valeur et quel sens peuvent avoir pour nous, chrétiens, le fait de se priver de quelque chose qui serait bon en soi et utile pour notre subsistance. Les Saintes Écritures et toute la tradition chrétienne enseignent que le jeûne est d’un grand secours pour éviter le péché et tout ce qui conduit à lui. C’est pourquoi, dans l’histoire du salut, l’invitation à jeûner revient régulièrement. Déjà dans les premières pages de la Sainte Écriture, le Seigneur commande à l’homme de s’abstenir de manger du fruit défendu : « Tu pourras manger de tous les arbres du jardin, mais de l’arbre de la connaissance du bien et du mal, tu ne mangera pas, car le jour où tu en mangeras, certainement tu mourras. » (Gn 2,16-17). En commentant l’injonction divine, saint Basile observe que « le jeûne a été prescrit dans le paradis terrestre », et « ce premier précepte été donné à Adam ». Il conclut ainsi : « Cette défense – 'tu ne mangeras pas' – est une loi de jeûne et d’abstinence » (cf. Homélie sur le jeûne : PG 31, 163, 98). Parce que tous nous sommes appesantis par le péché et ses conséquences, le jeûne nous est offert comme un moyen pour renouer notre amitié avec le Seigneur. C’est ce que fit Esdras avant le voyage du retour de l’exil en Terre promise, quand il invita le peuple réuni à jeûner « pour s’humilier – dit-il – devant notre Dieu » (8,21). Le Tout Puissant écouta leur prière et les assura de sa faveur et de sa protection. Les habitants de Ninive en firent autant quand, sensibles à l’appel de Jonas à la repentance, ils proclamèrent, comme témoignage de leur sincérité, un jeûne en disant: « Qui sait si Dieu ne se ravisera pas et ne se repentira pas, s’il ne reviendra pas de l’ardeur de sa colère, en sorte que nous ne périssions point ? » (3,9). Là encore, Dieu vit leurs œuvres et les épargna.

Dans le Nouveau Testament, Jésus met en lumière la raison profonde du jeûne en stigmatisant l’attitude des pharisiens qui observaient avec scrupule les prescriptions imposées par la loi, alors que leurs cœurs étaient loin de Dieu. Le vrai jeûne, redit encore en d’autre lieux le divin Maître, consiste plutôt à faire la volonté du Père céleste, lequel « voit dans le secret et te récompensera » (Mt 6,18). Lui-même en donne l’exemple en répondant à Satan, au terme des quarante jours passés dans le désert : « Ce n’est pas de pain seul que vivra l’homme, mais de toute parole qui sort de la bouche de Dieu » (Mt 4,4). Le vrai jeûne a donc pour but de manger « la vraie nourriture », qui consiste à faire la volonté du Père (cf. Jn 4,34). Si donc Adam désobéit à l’ordre du Seigneur « de ne pas manger du fruit de l’arbre de la connaissance du bien et du mal », le croyant entend par le jeûne se soumettre à Dieu avec humilité, en se confiant à sa bonté et à sa miséricorde.

La pratique du jeûne est très présente dans la première communauté chrétienne (cf. Act 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Les Pères de l’Église aussi parlent de la force du jeûne, capable de mettre un frein au péché, de réprimer les désirs du « vieil homme », et d’ouvrir dans le cœur du croyant le chemin vers Dieu. Le jeûne est en outre une pratique récurrente des saints, qui le recommandent. Saint Pierre Chrysologue écrit : « Le jeûne est l’âme de la prière, la miséricorde est la vie du jeûne. Donc, celui qui prie doit jeûner ; celui qui jeûne doit avoir pitié ; qu’il écoute l’homme qui demande, et qui en demandant souhaite être écouté ; il se fait entendre de Dieu, celui qui ne refuse pas d’entendre lorsqu’on le supplie » (Sermo 43: PL 52, 320. 332).

De nos jours, la pratique du jeûne semble avoir perdu un peu de sa valeur spirituelle et, dans une culture marquée par la recherche du bien-être matériel, elle a plutôt pris la valeur d’une pratique thérapeutique pour le soin du corps. Le jeûne est sans nul doute utile au bien-être physique, mais pour les croyants, il est en premier lieu une « thérapie » pour soigner tout ce qui les empêche de se conformer à la volonté de Dieu. Dans la Constitution apostolique Pænitemini de 1966, le Serviteur de Dieu Paul VI reconnaissait la nécessité de remettre le jeûne dans le contexte de l’appel de tout chrétien à « ne plus vivre pour soi-même, mais pour Celui qui l’a aimé et s’est donné pour lui, et… aussi à vivre pour ses frères » (cf. Ch. I). Ce Carême pourrait être l’occasion de reprendre les normes contenues dans cette Constitution apostolique, et de remettre en valeur la signification authentique et permanente de l’antique pratique pénitentielle, capable de nous aider à mortifier notre égoïsme et à ouvrir nos cœurs à l’amour de Dieu et du prochain, premier et suprême commandement de la Loi nouvelle et résumé de tout l’Évangile (cf. Mt 22,34-40).

La pratique fidèle du jeûne contribue en outre à l’unification de la personne humaine, corps et âme, en l’aidant à éviter le péché et à croître dans l’intimité du Seigneur. Saint Augustin qui connaissait bien ses inclinations négatives et les définissait comme « des nœuds tortueux et emmêlés » (Confessions, II, 10.18), écrivait dans son traité sur L’utilité du jeûne : « Je m’afflige certes un supplice, mais pour qu’Il me pardonne ; je me châtie de moi-même pour qu’Il m’aide, pour plaire à ses yeux, pour arriver à la délectation de sa douceur » (Sermon 400, 3, 3: PL 40, 708). Se priver de nourriture matérielle qui alimente le corps facilite la disposition intérieur à l’écoute du Christ et à se nourrir de sa parole de salut. Avec le jeûne et la prière, nous Lui permettons de venir rassasier une faim plus profonde que nous expérimentons au plus intime de nous : la faim et la soif de Dieu.

En même temps, le jeûne nous aide à prendre conscience de la situation dans laquelle vivent tant de nos frères. Dans sa Première Lettre, saint Jean met en garde : « Si quelqu’un possède des richesses de ce monde et, voyant son frère dans la nécessité, lui ferme ses entrailles, comment l’amour de Dieu demeurerait-il en lui ? » (3,17). Jeûner volontairement nous aide à suivre l’exemple du Bon Samaritain, qui se penche et va au secours du frère qui souffre (cf. Deus caritas est, 15). En choisissant librement de se priver de quelque chose pour aider les autres, nous montrons de manière concrète que le prochain en difficulté ne nous est pas étranger. C’est précisément pour maintenir vivante cette attitude d’accueil et d’attention à l’égard de nos frères que j’encourage les paroisses et toutes les communautés à intensifier pendant le Carême la pratique du jeûne personnel et communautaire, en cultivant aussi l’écoute de la Parole de Dieu, la prière et l’aumône. Ceci a été, dès le début, une caractéristique de la vie des communautés chrétiennes où se faisaient des collectes spéciales (cf. 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), tandis que les fidèles étaient invités à donner aux pauvres ce qui, grâce au jeûne, avait été mis à part (cf. Didascalie Ap., V, 20,18). Même aujourd’hui, une telle pratique doit être redécouverte et encouragée, surtout pendant le temps liturgique du Carême.

Il ressort clairement de tout ce que je viens de dire, que le jeûne représente une pratique ascétique importante, une arme spirituelle pour lutter contre tous les attachements désordonnés. Se priver volontairement du plaisir de la nourriture et d’autres biens matériels, aide le disciple du Christ à contrôler les appétits de sa nature affaiblie par la faute originelle, et dont les effets négatifs investissent entièrement la personne humaine. Une hymne antique de la liturgie du Carême exhorte avec pertinence : « Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia – Nous utilisons plus sobrement les paroles, les nourritures, les boissons, le sommeil et les jeux, et avec plus d’attention, nous demeurons vigilants ».

Chers frères et sœurs, à bien regarder, le jeûne a comme ultime finalité d’aider chacun d’entre nous, comme l’écrivait le Serviteur de Dieu Jean-Paul II, à faire un don total de soi à Dieu (cf. Veritatis splendor, 21). Que le Carême soit donc mis en valeur dans toutes les familles et dans toutes les communautés chrétiennes, pour éloigner de tout ce qui distrait l’esprit et intensifier ce qui nourrit l’âme en l’ouvrant à l’amour de Dieu et du prochain. Je pense en particulier à un plus grand engagement dans la prière, la lectio divina, le recours au Sacrement de la Réconciliation et dans la participation active à l’Eucharistie, par dessus tout à la Messe dominicale. Avec cette disposition intérieure, nous entrons dans le climat de pénitence propre au Carême. Que la Bienheureuse Vierge Marie, Causa nostrae laetitiae nous accompagne et nous soutienne dans nos efforts pour libérer notre cœur de l’esclavage du péché et pour en faire toujours plus un « tabernacle vivant de Dieu ». En formulant ce souhait et en assurant de ma prière tous les croyants et chaque communauté ecclésiale afin que tous suivent avec profit l’itinéraire du Carême, j’accorde à tous et de tout cœur la Bénédiction Apostolique.

Du Vatican, le 11 décembre 2008

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters!

At the beginning of Lent, which constitutes an itinerary of more intense spiritual training, the Liturgy sets before us again three penitential practices that are very dear to the biblical and Christian tradition – prayer, almsgiving, fasting – to prepare us to better celebrate Easter and thus experience God’s power that, as we shall hear in the Paschal Vigil, "dispels all evil, washes guilt away, restores lost innocence, brings mourners joy, casts out hatred, brings us peace and humbles earthly pride" (Paschal Præconium). For this year’s Lenten Message, I wish to focus my reflections especially on the value and meaning of fasting. Indeed, Lent recalls the forty days of our Lord’s fasting in the desert, which He undertook before entering into His public ministry. We read in the Gospel: "Jesus was led up by the Spirit into the wilderness to be tempted by the devil. He fasted for forty days and forty nights, and afterwards he was hungry" (Mt 4,1-2). Like Moses, who fasted before receiving the tablets of the Law (cf. Ex 34,28) and Elijah’s fast before meeting the Lord on Mount Horeb (cf. 1 Kings 19,8), Jesus, too, through prayer and fasting, prepared Himself for the mission that lay before Him, marked at the start by a serious battle with the tempter.

We might wonder what value and meaning there is for us Christians in depriving ourselves of something that in itself is good and useful for our bodily sustenance. The Sacred Scriptures and the entire Christian tradition teach that fasting is a great help to avoid sin and all that leads to it. For this reason, the history of salvation is replete with occasions that invite fasting. In the very first pages of Sacred Scripture, the Lord commands man to abstain from partaking of the prohibited fruit: "You may freely eat of every tree of the garden; but of the tree of the knowledge of good and evil you shall not eat, for in the day that you eat of it you shall die" (Gn 2, 16-17). Commenting on the divine injunction, Saint Basil observes that "fasting was ordained in Paradise," and "the first commandment in this sense was delivered to Adam." He thus concludes: " ‘You shall not eat’ is a law of fasting and abstinence" (cf. Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Since all of us are weighed down by sin and its consequences, fasting is proposed to us as an instrument to restore friendship with God. Such was the case with Ezra, who, in preparation for the journey from exile back to the Promised Land, calls upon the assembled people to fast so that "we might humble ourselves before our God" (8,21). The Almighty heard their prayer and assured them of His favor and protection. In the same way, the people of Nineveh, responding to Jonah’s call to repentance, proclaimed a fast, as a sign of their sincerity, saying: "Who knows, God may yet repent and turn from his fierce anger, so that we perish not?" (3,9). In this instance, too, God saw their works and spared them.

In the New Testament, Jesus brings to light the profound motive for fasting, condemning the attitude of the Pharisees, who scrupulously observed the prescriptions of the law, but whose hearts were far from God. True fasting, as the divine Master repeats elsewhere, is rather to do the will of the Heavenly Father, who "sees in secret, and will reward you" (Mt 6,18). He Himself sets the example, answering Satan, at the end of the forty days spent in the desert that "man shall not live by bread alone, but by every word that proceeds from the mouth of God" (Mt 4,4). The true fast is thus directed to eating the "true food," which is to do the Father’s will (cf. Jn 4,34). If, therefore, Adam disobeyed the Lord’s command "of the tree of the knowledge of good and evil you shall not eat," the believer, through fasting, intends to submit himself humbly to God, trusting in His goodness and mercy.

The practice of fasting is very present in the first Christian community (cf. Acts 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). The Church Fathers, too, speak of the force of fasting to bridle sin, especially the lusts of the "old Adam," and open in the heart of the believer a path to God. Moreover, fasting is a practice that is encountered frequently and recommended by the saints of every age. Saint Peter Chrysologus writes: "Fasting is the soul of prayer, mercy is the lifeblood of fasting. So if you pray, fast; if you fast, show mercy; if you want your petition to be heard, hear the petition of others. If you do not close your ear to others, you open God’s ear to yourself" (Sermo 43: PL 52, 320. 322).

In our own day, fasting seems to have lost something of its spiritual meaning, and has taken on, in a culture characterized by the search for material well-being, a therapeutic value for the care of one’s body. Fasting certainly bring benefits to physical well-being, but for believers, it is, in the first place, a "therapy" to heal all that prevents them from conformity to the will of God. In the Apostolic Constitution Pænitemini of 1966, the Servant of God Paul VI saw the need to present fasting within the call of every Christian to "no longer live for himself, but for Him who loves him and gave himself for him … he will also have to live for his brethren" (cf. Ch. I). Lent could be a propitious time to present again the norms contained in the Apostolic Constitution, so that the authentic and perennial significance of this long held practice may be rediscovered, and thus assist us to mortify our egoism and open our heart to love of God and neighbor, the first and greatest Commandment of the new Law and compendium of the entire Gospel (cf. Mt 22, 34-40).

The faithful practice of fasting contributes, moreover, to conferring unity to the whole person, body and soul, helping to avoid sin and grow in intimacy with the Lord. Saint Augustine, who knew all too well his own negative impulses, defining them as "twisted and tangled knottiness" (Confessions, II, 10.18), writes: "I will certainly impose privation, but it is so that he will forgive me, to be pleasing in his eyes, that I may enjoy his delightfulness" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Denying material food, which nourishes our body, nurtures an interior disposition to listen to Christ and be fed by His saving word. Through fasting and praying, we allow Him to come and satisfy the deepest hunger that we experience in the depths of our being: the hunger and thirst for God.

At the same time, fasting is an aid to open our eyes to the situation in which so many of our brothers and sisters live. In his First Letter, Saint John admonishes: "If anyone has the world’s goods, and sees his brother in need, yet shuts up his bowels of compassion from him – how does the love of God abide in him?" (3,17). Voluntary fasting enables us to grow in the spirit of the Good Samaritan, who bends low and goes to the help of his suffering brother (cf. Encyclical Deus caritas est, 15). By freely embracing an act of self-denial for the sake of another, we make a statement that our brother or sister in need is not a stranger. It is precisely to keep alive this welcoming and attentive attitude towards our brothers and sisters that I encourage the parishes and every other community to intensify in Lent the custom of private and communal fasts, joined to the reading of the Word of God, prayer and almsgiving. From the beginning, this has been the hallmark of the Christian community, in which special collections were taken up (cf. 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), the faithful being invited to give to the poor what had been set aside from their fast (Didascalia Ap., V, 20,18). This practice needs to be rediscovered and encouraged again in our day, especially during the liturgical season of Lent.

From what I have said thus far, it seems abundantly clear that fasting represents an important ascetical practice, a spiritual arm to do battle against every possible disordered attachment to ourselves. Freely chosen detachment from the pleasure of food and other material goods helps the disciple of Christ to control the appetites of nature, weakened by original sin, whose negative effects impact the entire human person. Quite opportunely, an ancient hymn of the Lenten liturgy exhorts: "Utamur ergo parcius, / verbis cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia Let us use sparingly words, food and drink, sleep and amusements. May we be more alert in the custody of our senses."

Dear brothers and sisters, it is good to see how the ultimate goal of fasting is to help each one of us, as the Servant of God Pope John Paul II wrote, to make the complete gift of self to God (cf. Encyclical Veritatis splendor, 21). May every family and Christian community use well this time of Lent, therefore, in order to cast aside all that distracts the spirit and grow in whatever nourishes the soul, moving it to love of God and neighbor. I am thinking especially of a greater commitment to prayer, lectio divina, recourse to the Sacrament of Reconciliation and active participation in the Eucharist, especially the Holy Sunday Mass. With this interior disposition, let us enter the penitential spirit of Lent. May the Blessed Virgin Mary, Causa nostrae laetitiae, accompany and support us in the effort to free our heart from slavery to sin, making it evermore a "living tabernacle of God." With these wishes, while assuring every believer and ecclesial community of my prayer for a fruitful Lenten journey, I cordially impart to all of you my Apostolic Blessing.

From the Vatican, 11 December 2008.

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-02.01] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern!

Zu Beginn der Fastenzeit, die ja ein Weg vertieften geistlichen Tuns ist, empfiehlt uns die Liturgie erneut drei Bußpraktiken, die der biblischen und christlichen Tradition sehr wichtig sind – das Gebet, das Almosengeben und das Fasten. Sie dienen der inneren Vorbereitung, damit das Osterfest besser begangen und so die Macht Gottes erfahren werden kann. Diese – so verkündigt es uns neu die Ostervigil – „nimmt den Frevel hinweg, reinigt von Schuld, gibt den Sündern die Unschuld, den Trauernden Freude. Weit vertreibt sie den Hass, sie einigt die Herzen und beugt die Gewalten" (Osterlob). In meiner diesjährigen Fastenbotschaft möchte ich besonders beim Wert und Sinn des Fastens verweilen. Die österliche Bußzeit ruft ja die vierzig Tage in Erinnerung, in denen der Herr vor dem Antritt seines öffentlichen Wirkens in der Wüste fastete. Im Evangelium lesen wir: „Jesus [wurde] vom Geist in die Wüste geführt, um vom Teufel versucht zu werden. Nachdem er vierzig Tage und vierzig Nächte gefastet hatte, bekam er Hunger" (Mt 4,1-2). Wie Mose vor dem Empfang der Gesetzestafeln (vgl. Ex 34,28), wie Elias vor der Begegnung mit dem Herrn auf dem Berg Horeb (vgl. 1 Kön 19,8), so bereitete sich auch Jesus durch Beten und Fasten auf seine Sendung vor, an deren Anfang eine harte Auseinandersetzung mit dem Versucher steht.

Wir können uns fragen, welchen Wert und Sinn es für uns Christen hat, sich etwas zu versagen, das an sich gut und zu unserem Unterhalt nützlich ist. Die Heilige Schrift und die ganze christliche Tradition lehren, dass das Fasten eine große Hilfe ist, die Sünde zu meiden sowie das, was zu ihr verleitet. Darum kehrt in der Heilsgeschichte die Aufforderung zum Fasten des öfteren wieder. Schon in den ersten Kapiteln der Bibel untersagt der Herr dem Menschen den Genuss der verbotenen Frucht: „Von allen Bäumen des Gartens darfst du essen. Von dem Baum der Erkenntnis des Guten und Bösen aber darfst du nicht essen. Denn am Tag, da du davon isst, musst du sicher sterben" (Gen 2,16-17). In einem Kommentar über das göttliche Gebot schreibt der heilige Basilius: „Das erste Fastengebot wurde im Paradies erlassen", und „im genannten Sinn empfing Adam das erste Gebot." Daraus folgert er: „Nicht zu essen, heisst also zu fasten und das Gesetz der Enthaltsamkeit zu beachten" (vgl. Sermo de ieiunio: PG 31, 163, 98). Da wir alle an der Sünde und ihren Folgen tragen, wird uns das Fasten als ein Mittel empfohlen, neu Freundschaft mit dem Herrn zu schliessen. So tat es Esra vor seiner Rückkehr aus dem Exil in das verheißene Land, als er das versammelte Volk zum Fasten aufrief, „damit wir", wie er sagte, „uns vor unserem Gott verdemütigen" (8,21). Der Allmächtige erhörte ihr Gebet und sicherte ihnen seine Huld und seinen Schutz zu. Gleiches vollzogen die Einwohner von Ninive, die auf Jonas Appell zur Umkehr hörten und als Zeugnis ihrer Aufrichtigkeit ein Fasten ausriefen. Dabei hofften sie: „Vielleicht reut es Gott noch einmal, und er lässt ab von seinem glühenden Zorn, so dass wir nicht zugrunde gehen" (3,9). Auch damals schaute Gott auf ihr Tun und verschonte sie.

Im Neuen Testament erhellt Jesus den tiefen Sinn des Fastens: Er geißelt die Pharisäer, die die vom Gesetz angeordneten Vorschriften in allen Einzelheiten beachteten, deren Herz jedoch weit von Gott entfernt war. Wie der göttliche Meister an anderer Stelle lehrt, besteht das wahre Fasten vielmehr darin, den Willen des himmlischen Vaters zu tun, „der ins Verborgene sieht" und „vergelten" wird (Mt 6,18). Jesus selbst bezeugt dies am Ende der vierzig Tage in der Wüste gegenüber dem Satan: „Nicht vom Brot allein lebt der Mensch, sondern von jedem Wort, das aus dem Mund Gottes kommt" (Mt 4,4). Das wahre Fasten richtet sich also auf das Essen der „wahren Nahrung", nämlich: den Willen des Vaters zu tun (vgl. Joh 4,34). Während also einst Adam Gottes Gebot übertrat, „von dem Baum der Erkenntnis des Guten und des Bösen" nicht essen zu dürfen, unterwirft sich nun der Gläubige durch das Fasten Gott in Demut, weil er auf dessen Güte und Barmherzigkeit vertraut.

In der christlichen Urgemeinde gehörte das Fasten zur festen Gewohnheit (vgl. Apg 13,3; 14,22; 27,21; 2 Kor 6,5). Auch die Kirchenväter sprechen von der Wirkkraft des Fastens: Es hält die Sünde in Zaum, dämpft die Begierden des „alten Adams", eröffnet Gott den Weg im Herzen des Gläubigen. Das Fasten ist zudem eine geläufige Übung, die die Heiligen jeder Zeit empfohlen haben. Der heilige Petrus Chrysologus schreibt: „Die Seele des Gebetes ist das Fasten, das Leben des Fastens ist die Barmherzigkeit (…) Wer also betet, der faste auch; wer fastet, übe auch Barmherzigkeit; wer selbst gehört werden will, der höre auf den Bittenden; wer sein Ohr dem Bittenden nicht verschließt, der findet Gehör bei Gott" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).

In unseren Tagen scheint das Fasten an geistlicher Bedeutung verloren zu haben; eine Kultur, die von der Suche nach materiellem Wohlstand gekennzeichnet ist, gibt ihm eher den Wert einer therapeutischen Maßnahme zum Besten des Körpers. Fasten dient sicherlich der körperlichen Gesundheit; für die Gläubigen aber ist es in erster Linie eine „Therapie" zur Heilung all dessen, was sie hindert, Gottes Willen anzunehmen. In der Apostolischen Konstitution Pænitemini von 1966 ordnete der Diener Gottes Paul VI. das Fasten der Berufung eines jeden Christen zu, die darin besteht, „nicht mehr für sich selbst [zu] leben, sondern für den, der ihn liebte und sich selbst für ihn hingab, sowie (…) für die Brüder und Schwestern" (vgl. Kap. I). Die Fastenzeit könnte daher eine passende Gelegenheit sein, die Normen der eben erwähnten Konstitution wieder aufzugreifen und so die echte und dauernde Bedeutung dieser alten Bußpraxis aufzuwerten. Sie kann uns dazu verhelfen, unseren Egoismus zu bändigen und das Herz zu weiten für die Liebe zu Gott und zum Nächsten, für das erste und höchste Gebot des Neuen Gesetzes und die Summe des ganzen Evangeliums (Mt 22,34-40).

Unbeirrte Fastenpraxis trägt außerdem dazu bei, Leib und Seele der Person stärker zu vereinen, die Sünde zu meiden und in der Vertrautheit mit Gott zu wachsen. Der Heilige Augustinus, der seine bösen Neigungen gut kannte und sich danach sehnte, „diese mehrfach verschlungene und verwickelte Verknotung" möchte gelöst werden (Bekenntnisse, II, 10.18), schrieb in seiner Abhandlung über den Nutzen des Fastens: „Gewiss, ich töte mich ab, damit er mich schone; ich lege mir Züchtigungen auf, damit er mir zu Hilfe komme, damit ich Wohlgefallen finde in seinen Augen, damit ich ihm, dem Allmächtigen, Freude mache" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Auf körperliche Speise zu verzichten, die den Leib nährt, fördert die innere Bereitschaft, auf Christus zu hören und sich mit seinem Heilswort zu sättigen. Unser Fasten und Gebet erlauben es ihm, den tiefliegenderen Hunger zu stillen, den wir in unserem Innersten empfinden: den Hunger und Durst nach Gott.

Zugleich lässt uns das Fasten ein wenig von der Situation erfahren, in der viele unserer Brüder leben. In seinem Ersten Brief mahnt der heilige Johannes: „Wenn jemand irdisches Vermögen besitzt, seinen Bruder Not leiden sieht und sein Herz vor ihm verschließt, wie kann in ihm die Gottesliebe bleiben?" (3,17). Freiwillig zu fasten verhilft uns dazu, den guten Samariter nachzuahmen, der sich hinneigt und sich des notleidenden Bruders annimmt (vgl. Enz. Deus caritas est, 15). Freiwilliger Verzicht zum Heil anderer bekundet, dass uns der bedürftige Nächste nicht fremd ist. Um Sensibilität und Fürsorge für die Brüder und Schwestern wach zu halten, ermutige ich die Pfarrgemeinden und jede Gemeinschaft, in der österlichen Bußzeit persönliches und gemeinschaftliches Fasten häufiger zu üben und sich zugleich dem Hören auf Gottes Wort, dem Gebet und der Wohltätigkeit zu widmen. Das war von Anfang an die Lebensart der christlichen Gemeinde, in der besondere Kollekten gehalten (vgl. 2 Kor 8-9; Röm 15,25-27), und die Gläubigen aufgefordert wurden, den Armen das zu geben, was sie dank des Fastens zur Seite gelegt hatten (vgl. Didascalia Ap., V, 20,18). Auch heute muss diese Praxis wiederentdeckt und gefördert werden, vor allem in der Fastenzeit.

Das bislang Gesagte überzeugt davon: Zu fasten ist eine wichtige Form der Askese, eine geistliche Waffe zur Bekämpfung jeder möglichen ungeordneten Anhänglichkeit an uns selbst. Freiwillig auf den Genuss von Nahrung und andere materielle Güter zu verzichten, hilft dem Jünger Christi, das Verlangen der durch die Ursünde geschwächten Natur im Zaum zu halten, deren negative Wirkungen den Menschen als ganzen treffen. Ein alter liturgischer Hymnus der Fastenzeit mahnt: „Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia – Lasst uns maßvoll Wort, Nahrung, Trank, Schlaf und Spiel gebrauchen und mit größerer Aufmerksamkeit wach bleiben".

Liebe Brüder und Schwestern, genau gesehen will – wie der Diener Gottes Papst Johannes Paul II. schrieb – das Fasten letztlich jedem dazu verhelfen, aus sich selbst eine Gabe an Gott zu machen (vgl. Veritatis splendor, 21). Die österliche Bußzeit werde daher in jeder Familie und in jeder christlichen Gemeinde genutzt, all das fernzuhalten, was den Geist ablenkt und all das zu fördern, was die Seele nährt und sie für die Gottes- und Nächstenliebe öffnet. Ich denke hier insbesondere an vermehrten Eifer im Gebet, in der lectio divina, im Empfang des Sakraments der Versöhnung und in der Mitfeier der Eucharistie, vor allem der Sonntagsmesse. Das ist die rechte seelische Bereitschaft, die österliche Bußzeit zu beginnen. Die selige Jungfrau Maria möge uns als Causa nostræ letitiæ – als Ursache unserer Freude – begleiten und uns in unserem Ringen mit der Sünde beistehen, damit unser Herz immer mehr zu einem „lebendigen Tabernakel Gottes" werde. Mit diesem Wunsch sichere ich mein Gebet zu, auf dass alle Gläubigen und jede kirchliche Gemeinschaft den Weg der Fastenzeit mit Gewinn gehen und erteile allen aus ganzem Herzen den Apostolischen Segen.

Aus dem Vatikan, 11 Dezember 2008

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

¡Queridos hermanos y hermanas!

Al comenzar la Cuaresma, un tiempo que constituye un camino de preparación espiritual más intenso, la Liturgia nos vuelve a proponer tres prácticas penitenciales a las que la tradición bíblica cristiana confiere un gran valor ! la oración, el ayuno y la limosna ! para disponernos a celebrar mejor la Pascua y, de este modo, hacer experiencia del poder de Dios que, como escucharemos en la Vigilia pascual, "ahuyenta los pecados, lava las culpas, devuelve la inocencia a los caídos, la alegría a los tristes, expulsa el odio, trae la concordia, doblega a los poderosos" (Pregón pascual). En mi acostumbrado Mensaje cuaresmal, este año deseo detenerme a reflexionar especialmente sobre el valor y el sentido del ayuno. En efecto, la Cuaresma nos recuerda los cuarenta días de ayuno que el Señor vivió en el desierto antes de emprender su misión pública. Leemos en el Evangelio: "Jesús fue llevado por el Espíritu al desierto para ser tentado por el diablo. Y después de hacer un ayuno durante cuarenta días y cuarenta noches, al fin sintió hambre" (Mt 4,1-2). Al igual que Moisés antes de recibir las Tablas de la Ley (cfr. Ex 34, 8), o que Elías antes de encontrar al Señor en el monte Horeb (cfr. 1R 19,8), Jesús orando y ayunando se preparó a su misión, cuyo inicio fue un duro enfrentamiento con el tentador.

Podemos preguntarnos qué valor y qué sentido tiene para nosotros, los cristianos, privarnos de algo que en sí mismo sería bueno y útil para nuestro sustento. Las Sagradas Escrituras y toda la tradición cristiana enseñan que el ayuno es una gran ayuda para evitar el pecado y todo lo que induce a él. Por esto, en la historia de la salvación encontramos en más de una ocasión la invitación a ayunar. Ya en las primeras páginas de la Sagrada Escritura el Señor impone al hombre que se abstenga de consumir el fruto prohibido: "De cualquier árbol del jardín puedes comer, mas del árbol de la ciencia del bien y del mal no comerás, porque el día que comieres de él, morirás sin remedio" (Gn 2, 16-17). Comentando la orden divina, San Basilio observa que "el ayuno ya existía en el paraíso", y "la primera orden en este sentido fue dada a Adán". Por lo tanto, concluye: "El ‘no debes comer’ es, pues, la ley del ayuno y de la abstinencia" (cfr. Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Puesto que el pecado y sus consecuencias nos oprimen a todos, el ayuno se nos ofrece como un medio para recuperar la amistad con el Señor. Es lo que hizo Esdras antes de su viaje de vuelta desde el exilio a la Tierra Prometida, invitando al pueblo reunido a ayunar "para humillarnos ! dijo ! delante de nuestro Dios" (8,21). El Todopoderoso escuchó su oración y aseguró su favor y su protección. Lo mismo hicieron los habitantes de Nínive que, sensibles al llamamiento de Jonás a que se arrepintieran, proclamaron, como testimonio de su sinceridad, un ayuno diciendo: "A ver si Dios se arrepiente y se compadece, se aplaca el ardor de su ira y no perecemos" (3,9). También en esa ocasión Dios vio sus obras y les perdonó.

En el Nuevo Testamento, Jesús indica la razón profunda del ayuno, estigmatizando la actitud de los fariseos, que observaban escrupulosamente las prescripciones que imponía la ley, pero su corazón estaba lejos de Dios. El verdadero ayuno, repite en otra ocasión el divino Maestro, consiste más bien en cumplir la voluntad del Padre celestial, que "ve en lo secreto y te recompensará" (Mt 6,18). Él mismo nos da ejemplo al responder a Satanás, al término de los 40 días pasados en el desierto, que "no solo de pan vive el hombre, sino de toda palabra que sale de la boca de Dios" (Mt 4,4). El verdadero ayuno, por consiguiente, tiene como finalidad comer el "alimento verdadero", que es hacer la voluntad del Padre (cfr. Jn 4,34). Si, por lo tanto, Adán desobedeció la orden del Señor de "no comer del árbol de la ciencia del bien y del mal", con el ayuno el creyente desea someterse humildemente a Dios, confiando en su bondad y misericordia.

La práctica del ayuno está muy presente en la primera comunidad cristiana (cfr. Hch 13,3; 14,22; 27,21; 2Co 6,5). También los Padres de la Iglesia hablan de la fuerza del ayuno, capaz de frenar el pecado, reprimir los deseos del "viejo Adán" y abrir en el corazón del creyente el camino hacia Dios. El ayuno es, además, una práctica recurrente y recomendada por los santos de todas las épocas. Escribe San Pedro Crisólogo: "El ayuno es el alma de la oración, y la misericordia es la vida del ayuno. Por tanto, quien ora, que ayune; quien ayuna, que se compadezca; que preste oídos a quien le suplica aquel que, al suplicar, desea que se le oiga, pues Dios presta oído a quien no cierra los suyos al que le súplica" (Sermo 43: PL 52, 320, 332).

En nuestros días, parece que la práctica del ayuno ha perdido un poco su valor espiritual y ha adquirido más bien, en una cultura marcada por la búsqueda del bienestar material, el valor de una medida terapéutica para el cuidado del propio cuerpo. Está claro que ayunar es bueno para el bienestar físico, pero para los creyentes es, en primer lugar, una "terapia" para curar todo lo que les impide conformarse a la voluntad de Dios. En la Constitución apostólica Pænitemini de 1966, el Siervo de Dios Pablo VI identificaba la necesidad de colocar el ayuno en el contexto de la llamada a todo cristiano a no "vivir para sí mismo, sino para aquél que lo amó y se entregó por él y a vivir también para los hermanos" (cfr. Cap. I). La Cuaresma podría ser una buena ocasión para retomar las normas contenidas en la citada Constitución apostólica, valorizando el significado auténtico y perenne de esta antigua práctica penitencial, que puede ayudarnos a mortificar nuestro egoísmo y a abrir el corazón al amor de Dios y del prójimo, primer y sumo mandamiento de la nueva ley y compendio de todo el Evangelio (cfr. Mt 22,34-40).

La práctica fiel del ayuno contribuye, además, a dar unidad a la persona, cuerpo y alma, ayudándola a evitar el pecado y a acrecer la intimidad con el Señor. San Agustín, que conocía bien sus propias inclinaciones negativas y las definía "retorcidísima y enredadísima complicación de nudos" (Confesiones, II, 10.18), en su tratado La utilidad del ayuno, escribía: "Yo sufro, es verdad, para que Él me perdone; yo me castigo para que Él me socorra, para que yo sea agradable a sus ojos, para gustar su dulzura" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarse del alimento material que nutre el cuerpo facilita una disposición interior a escuchar a Cristo y a nutrirse de su palabra de salvación. Con el ayuno y la oración Le permitimos que venga a saciar el hambre más profunda que experimentamos en lo íntimo de nuestro corazón: el hambre y la sed de Dios.

Al mismo tiempo, el ayuno nos ayuda a tomar conciencia de la situación en la que viven muchos de nuestros hermanos. En su Primera carta San Juan nos pone en guardia: "Si alguno que posee bienes del mundo, ve a su hermano que está necesitado y le cierra sus entrañas, ¿cómo puede permanecer en él el amor de Dios?" (3,17). Ayunar por voluntad propia nos ayuda a cultivar el estilo del Buen Samaritano, que se inclina y socorre al hermano que sufre (cfr. Enc. Deus caritas est, 15). Al escoger libremente privarnos de algo para ayudar a los demás, demostramos concretamente que el prójimo que pasa dificultades no nos es extraño. Precisamente para mantener viva esta actitud de acogida y atención hacia los hermanos, animo a las parroquias y demás comunidades a intensificar durante la Cuaresma la práctica del ayuno personal y comunitario, cuidando asimismo la escucha de la Palabra de Dios, la oración y la limosna. Este fue, desde el principio, el estilo de la comunidad cristiana, en la que se hacían colectas especiales (cfr. 2Co 8-9; Rm 15, 25-27), y se invitaba a los fieles a dar a los pobres lo que, gracias al ayuno, se había recogido (cfr. Didascalia Ap., V, 20,18). También hoy hay que redescubrir esta práctica y promoverla, especialmente durante el tiempo litúrgico cuaresmal.

Lo que he dicho muestra con gran claridad que el ayuno representa una práctica ascética importante, un arma espiritual para luchar contra cualquier posible apego desordenado a nosotros mismos. Privarnos por voluntad propia del placer del alimento y de otros bienes materiales, ayuda al discípulo de Cristo a controlar los apetitos de la naturaleza debilitada por el pecado original, cuyos efectos negativos afectan a toda la personalidad humana. Oportunamente, un antiguo himno litúrgico cuaresmal exhorta: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia – Usemos de manera más sobria las palabras, los alimentos y bebidas, el sueño y los juegos, y permanezcamos vigilantes, con mayor atención".

Queridos hermanos y hermanas, bien mirado el ayuno tiene como último fin ayudarnos a cada uno de nosotros, como escribía el Siervo de Dios el Papa Juan Pablo II, a hacer don total de uno mismo a Dios (cfr. Enc. Veritatis Splendor, 21). Por lo tanto, que en cada familia y comunidad cristiana se valore la Cuaresma para alejar todo lo que distrae el espíritu y para intensificar lo que alimenta el alma y la abre al amor de Dios y del prójimo. Pienso, especialmente, en un mayor empeño en la oración, en la lectio divina, en el Sacramento de la Reconciliación y en la activa participación en la Eucaristía, sobre todo en la Santa Misa dominical. Con esta disposición interior entremos en el clima penitencial de la Cuaresma. Que nos acompañe la Beata Virgen María, Causa nostræ laetitiæ, y nos sostenga en el esfuerzo por liberar nuestro corazón de la esclavitud del pecado para que se convierta cada vez más en "tabernáculo viviente de Dios". Con este deseo, asegurando mis oraciones para que cada creyente y cada comunidad eclesial recorra un provechoso itinerario cuaresmal, os imparto de corazón a todos la Bendición Apostólica.

Vaticano, 11 de diciembre de 2008

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Queridos irmãos e irmãs!

No início da Quaresma, que constitui um caminho de treino espiritual mais intenso, a Liturgia propõe-nos três práticas penitenciais muito queridas à tradição bíblica e cristã – a oração, a esmola, o jejum – a fim de nos predispormos para celebrar melhor a Páscoa e deste modo fazer experiência do poder de Deus que, como ouviremos na Vigília pascal, «derrota o mal, lava as culpas, restitui a inocência aos pecadores, a alegria aos aflitos. Dissipa o ódio, domina a insensibilidade dos poderosos, promove a concórdia e a paz» (Hino pascal). Na habitual Mensagem quaresmal, gostaria de reflectir este ano em particular sobre o valor e o sentido do jejum. De facto a Quaresma traz à mente os quarenta dias de jejum vividos pelo Senhor no deserto antes de empreender a sua missão pública. Lemos no Evangelho: «O Espírito conduziu Jesus ao deserto a fim de ser tentado pelo demónio. Jejuou durante quarenta dias e quarenta noites e, por fim, teve fome» (Mt 4, 1-2). Como Moisés antes de receber as Tábuas da Lei (cf. Êx 34, 28), como Elias antes de encontrar o Senhor no monte Oreb (cf. 1 Rs 19, 8), assim Jesus rezando e jejuando se preparou para a sua missão, cujo início foi um duro confronto com o tentador.

Podemos perguntar que valor e que sentido tem para nós, cristãos, privar-nos de algo que seria em si bom e útil para o nosso sustento. As Sagradas Escrituras e toda a tradição cristã ensinam que o jejum é de grande ajuda para evitar o pecado e tudo o que a ele induz. Por isto, na história da salvação é frequente o convite a jejuar. Já nas primeiras páginas da Sagrada Escritura o Senhor comanda que o homem se abstenha de comer o fruto proibido: «Podes comer o fruto de todas as árvores do jardim; mas não comas o da árvore da ciência do bem e do mal, porque, no dia em que o comeres, certamente morrerás» (Gn 2, 16-17). Comentando a ordem divina, São Basílio observa que «o jejum foi ordenado no Paraíso», e «o primeiro mandamento neste sentido foi dado a Adão». Portanto, ele conclui: «O "não comas" e, portanto, a lei do jejum e da abstinência» (cf. Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Dado que todos estamos estorpecidos pelo pecado e pelas suas consequências, o jejum é-nos oferecido como um meio para restabelecer a amizade com o Senhor. Assim fez Esdras antes da viagem de regresso do exílio à Terra Prometida, convidando o povo reunido a jejuar «para nos humilhar – diz – diante do nosso Deus» (8, 21). O Omnipotente ouviu a sua prece e garantiu os seus favores e a sua protecção. O mesmo fizeram os habitantes de Ninive que, sensíveis ao apelo de Jonas ao arrependimento, proclamaram, como testemunho da sua sinceridade, um jejum dizendo: «Quem sabe se Deus não Se arrependerá, e acalmará o ardor da Sua ira, de modo que não pereçamos?» (3, 9). Também então Deus viu as suas obras e os poupou.

No Novo Testamento, Jesus ressalta a razão profunda do jejum, condenando a atitude dos fariseus, os quais observaram escrupulosamente as prescrições impostas pela lei, mas o seu coração estava distante de Deus. O verdadeiro jejum, repete também noutras partes o Mestre divino, é antes cumprir a vontade do Pai celeste, o qual «vê no oculto, recompensar-te-á» (Mt 6, 18). Ele próprio dá o exemplo respondendo a satanás, no final dos 40 dias transcorridos no deserto, que «nem só de pão vive o homem, mas de toda a palavra que sai da boca de Deus» (Mt 4, 4). O verdadeiro jejum finaliza-se portanto a comer o «verdadeiro alimento», que é fazer a vontade do Pai (cf. Jo 4, 34). Portanto, se Adão desobedeceu ao mandamento do Senhor «de não comer o fruto da árvore da ciência do bem e do mal», com o jejum o crente deseja submeter-se humildemente a Deus, confiando na sua bondade e misericórdia.

Encontramos a prática do jejum muito presente na primeira comunidade cristã (cf. Act 13, 3; 14, 22; 27, 21; 2 Cor 6, 5). Também os Padres da Igreja falam da força do jejum, capaz de impedir o pecado, de reprimir os desejos do «velho Adão», e de abrir no coração do crente o caminho para Deus. O jejum é também uma prática frequente e recomendada pelos santos de todas as épocas. Escreve São Pedro Crisólogo: «O jejum é a alma da oração e a misericórdia é a vida do jejum, portanto quem reza jejue. Quem jejua tenha misericórdia. Quem, ao pedir, deseja ser atendido, atenda quem a ele se dirige. Quem quer encontrar aberto em seu benefício o coração de Deus não feche o seu a quem o suplica» (Sermo 43; PL 52, 320.332).

Nos nossos dias, a prática do jejum parece ter perdido um pouco do seu valor espiritual e ter adquirido antes, numa cultura marcada pela busca da satisfação material, o valor de uma medida terapêutica para a cura do próprio corpo. Jejuar sem dúvida é bom para o bem-estar, mas para os crentes é em primeiro lugar uma «terapia» para curar tudo o que os impede de se conformarem com a vontade de Deus. Na Constituição apostólica Paenitemini de 1966, o Servo de Deus Paulo VI reconhecia a necessidade de colocar o jejum no contexto da chamada de cada cristão a «não viver mais para si mesmo, mas para aquele que o amou e se entregou a si por ele, e... também a viver pelos irmãos» (Cf. Cap. I). A Quaresma poderia ser uma ocasião oportuna para retomar as normas contidas na citada Constituição apostólica, valorizando o significado autêntico e perene desta antiga prática penitencial, que pode ajudar-nos a mortificar o nosso egoísmo e a abrir o coração ao amor de Deus e do próximo, primeiro e máximo mandamento da nova Lei e compêndio de todo o Evangelho (cf. Mt 22, 34-40).

A prática fiel do jejum contribui ainda para conferir unidade à pessoa, corpo e alma, ajudando-a a evitar o pecado e a crescer na intimidade com o Senhor. Santo Agostinho, que conhecia bem as próprias inclinações negativas e as definia «nó complicado e emaranhado» (Confissões, II, 10.18), no seu tratado A utilidade do jejum, escrevia: «Certamente é um suplício que me inflijo, mas para que Ele me perdoe; castigo-me por mim mesmo para que Ele me ajude, para aprazer aos seus olhos, para alcançar o agrado da sua doçura» (Sermo 400, 3, 3: L 40, 708). Privar-se do sustento material que alimenta o corpo facilita uma ulterior disposição para ouvir Cristo e para se alimentar da sua palavra de salvação. Com o jejum e com a oração permitimos que Ele venha saciar a fome mais profunda que vivemos no nosso íntimo: a fome e a sede de Deus.

Ao mesmo tempo, o jejum ajuda-nos a tomar consciência da situação na qual vivem tantos irmãos nossos. Na sua Primeira Carta São João admoesta: «Aquele que tiver bens deste mundo e vir o seu irmão sofrer necessidade, mas lhe fechar o seu coração, como estará nele o amor de Deus?» (3, 17). Jejuar voluntariamente ajuda-nos a cultivar o estilo do Bom Samaritano, que se inclina e socorre o irmão que sofre (cf. Enc. Deus caritas est, 15). Escolhendo livremente privar-nos de algo para ajudar os outros, mostramos concretamente que o próximo em dificuldade não nos é indiferente. Precisamente para manter viva esta atitude de acolhimento e de atenção para com os irmãos, encorajo as paróquias e todas as outras comunidades a intensificar na Quaresma a prática do jejum pessoal e comunitário, cultivando de igual modo a escuta da Palavra de Deus, a oração e a esmola. Foi este, desde o início o estilo da comunidade cristã, na qual eram feitas colectas especiais (cf. 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e os irmãos eram convidados a dar aos pobres quanto, graças ao jejum, tinham poupado (cf. Didascalia Ap., V, 20, 18). Também hoje esta prática deve ser redescoberta e encorajada, sobretudo durante o tempo litúrgico quaresmal.

De quanto disse sobressai com grande clareza que o jejum representa uma prática ascética importante, uma arma espiritual para lutar contra qualquer eventual apego desordenado a nós mesmos. Privar-se voluntariamente do prazer dos alimentos e de outros bens materiais, ajuda o discípulo de Cristo a controlar os apetites da natureza fragilizada pela culpa da origem, cujos efeitos negativos atingem toda a personalidade humana. Exorta oportunamente um antigo hino litúrgico quaresmal: «Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arcitius / perstemus in custodia – Usemos de modo mais sóbrio palavras, alimentos, bebidas, sono e jogos, e permaneçamos mais atentamente vigilantes».

Queridos irmãos e irmãos, considerando bem, o jejum tem como sua finalidade última ajudar cada um de nós, como escrevia o Servo de Deus Papa João Paulo II, a fazer dom total de si a Deus (cf. Enc. Veritatis splendor, 21). A Quaresma seja portanto valorizada em cada família e em cada comunidade cristã para afastar tudo o que distrai o espírito e para intensificar o que alimenta a alma abrindo-a ao amor de Deus e do próximo. Penso em particular num maior compromisso na oração, na lectio divina, no recurso ao Sacramento da Reconciliação e na participação activa na Eucaristia, sobretudo na Santa Missa dominical. Com esta disposição interior entremos no clima penitencial da Quaresma. Acompanhe-nos a Bem-Aventurada Virgem Maria, Causa nostrae laetitiae, e ampare-nos no sforço de libertar o nosso coração da escravidão do pecado para o tornar cada vez mais «tabernáculo vivo de Deus». Com estes votos, ao garantir a minha oração para que cada crente e comunidade eclesial percorra um proveitoso itinerário quaresmal, concedo de coração a todos a Bênção Apostólica.

Vaticano, 11 de Dezembro de 2008.

BENEDICTUS PP. XVI

[00203-06.01] [Texto original: Italiano]

[B0082-XX.02]