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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO, 29.06.2008


Nella Basilica Vaticana, alle ore 9.30 di oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il Santo Padre Benedetto XVI celebra l’Eucaristia con la partecipazione del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I. Concelebrano con il Santo Padre i nuovi Arcivescovi Metropoliti, ai quali il Pontefice imporrà il sacro Pallio.
Il Patriarca Ecumenico è accolto dal Santo Padre sul sagrato della Basilica. Quindi entrano insieme in San Pietro. Rivestiti i paramenti, processionalmente si avviano all’Altare, preceduti dal Diacono ortodosso e dal Diacono latino che portano il Libro dei Vangeli.
Nel corso della Santa Messa, dopo la lettura del Vangelo proclamato in latino e in greco, il Santo Padre presenta il Patriarca Ecumenico all’assemblea, quindi il Patriarca e poi il Santo Padre stesso tengono l’omelia.
Insieme il Papa e il Patriarca recitano poi la professione di fede, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca, secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine.
Dopo la preghiera dei fedeli, il Santo Padre benedice e impone i Palli, presi dalla Confessione di San Pietro, a 40 Arcivescovi Metropoliti. Altri due Arcivescovi riceveranno il Pallio nella loro sede metropolitana.
Al termine della Celebrazione eucaristica, il Papa e il Patriarca benedicono insieme l’assemblea.
Riportiamo di seguito le parole di introduzione del Santo Padre all’omelia del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, il testo dell’omelia del Patriarca e quello dell’omelia di Papa Benedetto XVI:

INTRODUZIONE DEL SANTO PADRE ALL’OMELIA DEL PATRIARCA

Fratelli e Sorelle,

la grande festa dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di questa Chiesa di Roma e posti a fondamento, insieme agli altri Apostoli, della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, ci porta ogni anno la gradita presenza di una Delegazione fraterna della Chiesa di Costantinopoli, che quest’anno, per la coincidenza con l’apertura dell’"Anno Paolino", è guidata dallo stesso Patriarca, Sua Santità Bartolomeo I. A lui rivolgo il mio cordiale saluto, mentre esprimo la gioia di avere ancora una volta la felice opportunità di scambiare con lui il bacio della pace, nella comune speranza di vedere avvicinarsi il giorno dell’"unitatis redintegratio", il giorno della piena comunione tra noi.

Saluto pure i membri della Delegazione patriarcale, come anche i Rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che ci onorano della loro presenza, offrendo con ciò un segno della volontà di intensificare il cammino verso la piena unità tra i discepoli di Cristo. Ci disponiamo ora ad ascoltare le riflessioni di Sua Santità il Patriarca Ecumenico, parole che vogliamo accogliere con il cuore aperto, perché ci vengono dal nostro Fratello amato nel Signore.

[01030-01.01] [Testo originale: Italiano]

OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I

Santità,

avendo ancora viva la gioia e l’emozione della personale e benedetta partecipazione di Vostra Santità alla Festa Patronale di Costantinopoli, nella memoria di San Andrea Apostolo, il Primo Chiamato, nel novembre del 2006, ci siamo mossi "con passo esultante", dal Fanar della Nuova Roma, per venire presso di Voi, per partecipare alla Vostra gioia nella Festa Patronale della Antica Roma. E siamo giunti presso di Voi "con la pienezza della Benedizione del Vangelo di Cristo" (Rom. 15,29), restituendo l’onore e l’amore, festeggiando insieme col nostro prediletto Fratello nella terra d’Occidente, "i sicuri e ispirati araldi, i Corifei dei Discepoli del Signore", i Santi Apostoli Pietro, fratello di Andrea, e Paolo - queste due immense, centrali colonne elevate verso il cielo, di tutta quanta la Chiesa, le quali – in questa storica città, - hanno dato anche l’ultima lampante confessione di Cristo e qui hanno reso la loro anima al Signore con il martirio, uno attraverso la croce e l’altro per mezzo della spada, santificandola.

Salutiamo quindi, con profondissimo e devoto amore, da parte della Santissima Chiesa di Costantinopoli e dei suoi figli sparsi nel mondo, la Vostra Santità, desiderato Fratello, augurando dal cuore "a quanti sono in Roma amati da Dio" (Rom. 1,7), di godere buona salute, pace, prosperità, e di progredire giorno e notte verso la salvezza "ferventi nello spirito, servendo il Signore, lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera" (Rom. 12, 11-12).

In entrambe le Chiese, Santità, onoriamo debitamente e veneriamo tanto colui che ha dato una confessione salvifica della Divinità di Cristo, Pietro, quanto il vaso di elezione, Paolo, il quale ha proclamato questa confessione e fede fino ai confini dell’universo, in mezzo alle più inimmaginabili difficoltà e pericoli. Festeggiamo la loro memoria, dall’anno di salvezza 258 in avanti, il 29 giugno, in Occidente e in Oriente, dove nei giorni che precedono, secondo la tradizione della Chiesa antica, in Oriente ci siamo preparati anche per mezzo del digiuno, osservato in loro onore. Per sottolineare maggiormente l’uguale loro valore, ma anche per il loro peso nella Chiesa e nella sua opera rigeneratrice e salvifica durante i secoli, l’Oriente li onora abitualmente anche attraverso un’icona comune, nella quale o tengono nelle loro sante mani un piccolo veliero, che simboleggia la Chiesa, o si abbracciano l’un l’altro e si scambiano il bacio in Cristo.

Proprio questo bacio siamo venuti a scambiare con Voi, Santità, sottolineando l’ardente desiderio in Cristo e l’amore, cose queste che ci toccano da vicino gli uni gli altri.

Il Dialogo teologico tra le nostre Chiese "in fede, verità e amore", grazie all’aiuto divino, va avanti, al di là delle notevoli difficoltà che sussistono ed alle note problematiche. Desideriamo veramente e preghiamo assai per questo; che queste difficoltà siano superate e che i problemi vengano meno, il più velocemente possibile, per raggiungere l’oggetto del desiderio finale, a gloria di Dio.

Tale desiderio sappiamo bene essere anche il Vostro, come siamo anche certi che Vostra Santità non tralascerà nulla lavorando di persona, assieme ai suoi illustri collaboratori attraverso un perfetto appianamento della via, verso un positivo completamento a Dio piacente, dei lavori del Dialogo.

Santità, abbiamo proclamato l’anno 2008, "Anno dell’Apostolo Paolo", così come anche Voi fate del giorno odierno fino all’anno prossimo, nel compimento dei duemila anni dalla nascita del Grande Apostolo. Nell’ambito delle relative manifestazioni per l’anniversario, in cui abbiamo pure venerato il preciso luogo del Suo Martirio, programmiamo tra le altre cose un sacro pellegrinaggio ad alcuni monumenti della attività evangelica dell’Apostolo in Oriente, come Efeso, Perge, ed altre città dell’Asia Minore, ma anche Rodi e Creta, alla località chiamata "Buoni Porti". Siate sicuro, Santità, che in questo sacro tragitto, sarete presente anche Voi, camminando con noi in spirito, e che ciascun luogo eleveremo un’ardente preghiera per Voi e per i nostri fratelli della venerabile Chiesa Romano-Cattolica, rivolgendo una forte supplica e intercessione del divino Paolo al Signore per Voi.

E ora, venerando i patimenti e la croce di Pietro e abbracciando la catena e le stigmate di Paolo, onorando la confessione e il martirio e la venerata morte di entrambi per il Nome del Signore, che porta veramente alla Vita, glorifichiamo il Dio Tre volte Santo e lo supplichiamo, affinché per l’intercessione dei suoi Protocorifei Apostoli, doni a noi e a tutti i figli ovunque nel mondo della Chiesa Ortodossa e Romano-Cattolica, quaggiù "l’unione della fede e la comunione dello Spirito Santo" nel "legame della pace" e lassù, invece, la vita eterna e la grande misericordia. Amen.

[01032-01.02] [Testo originale: Italiano]

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Testo in lingua italiana

Testo in lingua tedesca

Testo in lingua italiana

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!

Fin dai tempi più antichi la Chiesa di Roma celebra la solennità dei grandi Apostoli Pietro e Paolo come unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana. Come tali li canta l’inno dei secondi Vespri che risale a Paolino di Aquileia (+ 806): «O Roma felix – Roma felice, adornata di porpora dal sangue prezioso di Principi tanto grandi. Tu superi ogni bellezza del mondo, non per merito tuo, ma per il merito dei santi che hai ucciso con la spada sanguinante». Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come «luce aurea», secondo le parole dell’inno dei primi Vespri: si presenta come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi – Pietro e Paolo – fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini.

In virtù del loro martirio, Pietro e Paolo sono in reciproco rapporto per sempre. Un’immagine preferita dell’iconografia cristiana è l’abbraccio dei due Apostoli in cammino verso il martirio. Possiamo dire: il loro stesso martirio, nel più profondo, è la realizzazione di un abbraccio fraterno. Essi muoiono per l’unico Cristo e, nella testimonianza per la quale danno la vita, sono una cosa sola. Negli scritti del Nuovo Testamento possiamo, per così dire, seguire lo sviluppo del loro abbraccio, questo fare unità nella testimonianza e nella missione. Tutto inizia quando Paolo, tre anni dopo la sua conversione, va a Gerusalemme, «per consultare Cefa» (Gal 1,18). Quattordici anni dopo, egli sale di nuovo a Gerusalemme, per esporre «alle persone più ragguardevoli» il Vangelo che egli predica, per non trovarsi nel rischio «di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). Alla fine di questo incontro, Giacomo, Cefa e Giovanni gli danno la destra, confermando così la comunione che li congiunge nell’unico Vangelo di Gesù Cristo (Gal 2,9). Un bel segno di questo interiore abbraccio in crescita, che si sviluppa nonostante la diversità dei temperamenti e dei compiti, lo trovo nel fatto che i collaboratori menzionati alla fine della Prima Lettera di san Pietro – Silvano e Marco – sono collaboratori altrettanto stretti di san Paolo. Nella comunanza dei collaboratori si rende visibile in modo molto concreto la comunione dell’unica Chiesa, l’abbraccio dei grandi Apostoli.

Almeno due volte Pietro e Paolo si sono incontrati a Gerusalemme; alla fine il percorso di ambedue sbocca a Roma. Perché? È questo forse qualcosa di più di un puro caso? Vi è contenuto forse un messaggio duraturo? Paolo arrivò a Roma come prigioniero, ma allo stesso tempo come cittadino romano che, dopo l’arresto in Gerusalemme, proprio in quanto tale aveva fatto ricorso all’imperatore, al cui tribunale fu portato. Ma in un senso ancora più profondo, Paolo è venuto volontariamente a Roma. Mediante la più importante delle sue Lettere si era già avvicinato interiormente a questa città: alla Chiesa in Roma aveva indirizzato lo scritto che più di ogni altro è la sintesi dell’intero suo annuncio e della sua fede. Nel saluto iniziale della Lettera dice che della fede dei cristiani di Roma parla tutto il mondo e che questa fede, quindi, è nota ovunque come esemplare (Rm 1,8). E scrive poi: «Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma finora ne sono stato impedito» (1,13). Alla fine della Lettera riprende questo tema parlando ora del suo progetto di andare fino in Spagna. «Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza» (15,24). «E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo» (15,29). Sono due cose che qui si rendono evidenti: Roma è per Paolo una tappa sulla via verso la Spagna, cioè – secondo il suo concetto del mondo – verso il lembo estremo della terra. Considera sua missione la realizzazione del compito ricevuto da Cristo di portare il Vangelo sino agli estremi confini del mondo. In questo percorso ci sta Roma. Mentre di solito Paolo va soltanto nei luoghi in cui il Vangelo non è ancora annunciato, Roma costituisce un’eccezione. Lì egli trova una Chiesa della cui fede parla il mondo. L’andare a Roma fa parte dell’universalità della sua missione come inviato a tutti i popoli. La via verso Roma, che già prima del suo viaggio esterno egli ha percorso interiormente con la sua Lettera, è parte integrante del suo compito di portare il Vangelo a tutte le genti – di fondare la Chiesa cattolica, universale. L’andare a Roma è per lui espressione della cattolicità della sua missione. Roma deve rendere visibile la fede a tutto il mondo, deve essere il luogo dell’incontro nell’unica fede.

Ma perché Pietro è andato a Roma? Su ciò il Nuovo Testamento non si pronuncia in modo diretto. Ci dà tuttavia qualche indicazione. Il Vangelo di san Marco, che possiamo considerare un riflesso della predicazione di san Pietro, è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Presso la Croce si svela il mistero di Gesù Cristo. Sotto la Croce nasce la Chiesa delle genti: il centurione del plotone romano di esecuzione riconosce in Cristo il Figlio di Dio. Gli Atti degli Apostoli descrivono come tappa decisiva per l’ingresso del Vangelo nel mondo dei pagani l’episodio di Cornelio, il centurione della coorte italica. Dietro un comando di Dio, egli manda qualcuno a prendere Pietro e questi, seguendo pure lui un ordine divino, va nella casa del centurione e predica. Mentre sta parlando, lo Spirito Santo scende sulla comunità domestica radunata e Pietro dice: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (At 10,47). Così, nel Concilio degli Apostoli, Pietro diventa l’intercessore per la Chiesa dei pagani i quali non hanno bisogno della Legge, perché Dio ha «purificato i loro cuori con la fede» (At 15,9). Certo, nella Lettera ai Galati Paolo dice che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva essere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte all’ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciargli il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola «catholica». Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola «una»: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore. Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, esistono oggi nel mondo modi nuovi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi. In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio – unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. È questa la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma.

Cari Confratelli nell’Episcopato! Vorrei ora rivolgermi a voi che siete venuti a Roma per ricevere il pallio come simbolo della vostra dignità e della vostra responsabilità di Arcivescovi nella Chiesa di Gesù Cristo. Il pallio è stato tessuto con la lana di pecore, che il Vescovo di Roma benedice ogni anno nella festa della Cattedra di Pietro, mettendole con ciò, per così dire, da parte affinché diventino un simbolo per il gregge di Cristo, che voi presiedete. Quando prendiamo il pallio sulle spalle, quel gesto ci ricorda il Pastore che prende sulle spalle la pecorella smarrita, che da sola non trova più la via verso casa, e la riporta all’ovile. I Padri della Chiesa hanno visto in questa pecorella l’immagine di tutta l’umanità, dell’intera natura umana, che si è persa e non trova più la via verso casa. Il Pastore che la riporta a casa può essere soltanto il Logos, la Parola eterna di Dio stesso. Nell’incarnazione Egli ha preso tutti noi – la pecorella «uomo» – sulle sue spalle. Egli, la Parola eterna, il vero Pastore dell’umanità, ci porta; nella sua umanità porta ciascuno di noi sulle sue spalle. Sulla via della Croce ci ha portato a casa, ci porta a casa. Ma Egli vuole avere anche degli uomini che «portino» insieme con Lui. Essere Pastore nella Chiesa di Cristo significa partecipare a questo compito, del quale il pallio fa memoria. Quando lo indossiamo, Egli ci chiede: «Porti, insieme con me, anche tu coloro che mi appartengono? Li porti verso di me, verso Gesù Cristo?» E allora ci viene in mente il racconto dell’invio di Pietro da parte del Risorto. Il Cristo risorto collega l’ordine: «Pasci le mie pecorelle» inscindibilmente con la domanda: «Mi ami, mi ami tu più di costoro?». Ogni volta che indossiamo il pallio del Pastore del gregge di Cristo dovremmo sentire questa domanda: «Mi ami tu?» e dovremmo lasciarci interrogare circa il di più d’amore che Egli si aspetta dal Pastore.

Così il pallio diventa simbolo del nostro amore per il Pastore Cristo e del nostro amare insieme con Lui – diventa simbolo della chiamata ad amare gli uomini come Lui, insieme con Lui: quelli che sono in ricerca, che hanno delle domande, quelli che sono sicuri di sé e gli umili, i semplici e i grandi; diventa simbolo della chiamata ad amare tutti loro con la forza di Cristo e in vista di Cristo, affinché possano trovare Lui e in Lui se stessi. Ma il pallio, che ricevete «dalla» tomba di san Pietro, ha ancora un secondo significato, inscindibilmente connesso col primo. Per comprenderlo può esserci di aiuto una parola della Prima Lettera di san Pietro. Nella sua esortazione ai presbiteri di pascere il gregge in modo giusto, egli – san Pietro – qualifica se stesso synpresbýteros – con-presbitero (5,1). Questa formula contiene implicitamente un’affermazione del principio della successione apostolica: i Pastori che si succedono sono Pastori come lui, lo sono insieme con lui, appartengono al comune ministero dei Pastori della Chiesa di Gesù Cristo, un ministero che continua in loro. Ma questo "con" ha ancora due altri significati. Esprime anche la realtà che indichiamo oggi con la parola «collegialità» dei Vescovi. Tutti noi siamo con-presbiteri. Nessuno è Pastore da solo. Stiamo nella successione degli Apostoli solo grazie all’essere nella comunione del collegio, nel quale trova la sua continuazione il collegio degli Apostoli. La comunione, il "noi" dei Pastori fa parte dell’essere Pastori, perché il gregge è uno solo, l’unica Chiesa di Gesù Cristo. E infine, questo "con" rimanda anche alla comunione con Pietro e col suo successore come garanzia dell’unità. Così il pallio ci parla della cattolicità della Chiesa, della comunione universale di Pastore e gregge. E ci rimanda all’apostolicità: alla comunione con la fede degli Apostoli, sulla quale è fondata la Chiesa. Ci parla della ecclesia una, catholica, apostolica e naturalmente, legandoci a Cristo, ci parla proprio anche del fatto che la Chiesa è sancta e che il nostro operare è un servizio alla sua santità.

Ciò mi fa ritornare, infine, ancora a san Paolo e alla sua missione. Egli ha espresso l’essenziale della sua missione, come pure la ragione più profonda del suo desiderio di andare a Roma, nel capitolo 15 della Lettera ai Romani in una frase straordinariamente bella. Egli si sa chiamato «a servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti, amministrando da sacerdote il Vangelo di Dio, perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,6). Solo in questo versetto Paolo usa la parola «hierourgein» – amministrare da sacerdote – insieme con «leitourgós» – liturgo: egli parla della liturgia cosmica, in cui il mondo stesso degli uomini deve diventare adorazione di Dio, oblazione nello Spirito Santo. Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo. È questo l’obiettivo ultimo della missione apostolica di san Paolo e della nostra missione. A tale ministero il Signore ci chiama. Preghiamo in questa ora, affinché Egli ci aiuti a svolgerlo in modo giusto, a diventare veri liturghi di Gesù Cristo. Amen.

[01031-01.02] [Testo originale: Italiano]

Testo in lingua tedesca

Eure Heiligkeit und sehr geehrte Mitglieder der brüderlichen Delegation,
meine Herren Kardinäle,
verehrte Mitbrüder im bischöflichen und priesterlichen Dienst,
liebe Schwestern und Brüder!

Seit ältesten Zeiten feiert die Kirche von Rom das Fest der großen Apostel Petrus und Paulus als ein einziges Fest, am selben Tag, dem 29. Juni. Durch ihr Martyrium in Rom sind sie zu Brüdern geworden, zusammen die Gründer des neuen christlichen Rom. Als solche besingt sie der auf Paulinus von Aquileja (+ 806) zurückgehende Hymnus der zweiten Vesper: „O Roma felix - glückliches Rom, purpurgeschmückt durch das kostbare Blut so großer Fürsten. Du ragst hinaus über alle Schönheit der Welt, nicht durch dein eigenes Lob, sondern durch das Verdienst der Heiligen, die du mit blutigem Schwert getötet hast". Das Blut der Märtyrer schreit nicht nach Rache, sondern es versöhnt. Es steht nicht als Anklage da, sondern als „goldenes Licht", wie der Hymnus der ersten Vesper sagt: als Kraft der Liebe, die den Haß und die Gewalt überwindet und so eine neue Stadt, neue Gemeinschaft gründet. Durch ihr Martyrium gehören sie nun – Petrus und Paulus – zu Rom: Durch das Martyrium ist auch Petrus zum römischen Bürger für immer geworden. Durch das Martyrium, durch ihren Glauben und ihre Liebe zeigen sie, wo die wahre Hoffnung ist, und sind Gründer einer neuen Art von Stadt, die immer neu sich bilden muß inmitten der alten menschlichen Stadt, die von den Gegengewichten der Sünde und der Eigensucht der Menschen bedroht bleibt.

Durch ihr Martyrium gehören Petrus und Paulus für immer zueinander. Ein Lieblingsbild der christlichen Ikonographie ist die Umarmung der beiden Apostel auf dem Weg zum Martyrium. Wir dürfen sagen: Ihr Martyrium selbst ist im tiefsten der Vorgang einer brüderlichen Umarmung. Sie sterben für den einen Christus und sind eins in dem gemeinsamen Zeugnis, für das sie ihr Leben hingeben. In den Schriften des Neuen Testaments können wir aber gleichsam die Geschichte ihrer Umarmung, dieses Einswerden in Zeugnis und Auftrag verfolgen. Es beginnt damit, daß Paulus drei Jahre nach seiner Bekehrung nach Jerusalem geht, „um Kephas kennenzulernen" (Gal 1, 18). Vierzehn Jahre danach steigt er noch einmal nach Jerusalem hinauf, um den „Angesehenen" das Evangelium vorzulegen, wie er es verkündigt, „damit ich nicht ins Leere laufe oder gelaufen bin" (Gal 2, 1f). Diese Begegnung endet damit, daß ihm Jakobus, Kephas und Johannes die Hand reichen und so die Communio bekräftigen, die sie im einen Evangelium Jesu Christi verbindet (Gal 2, 9). Ich finde es als ein schönes Zeichen dieser wachsenden inneren Umarmung, die in aller Verschiedenheit der Temperamente und der Aufträge vor sich geht, daß die Mitarbeiter, die Petrus am Ende seines ersten Briefes erwähnt, ebenso enge Mitarbeiter des heiligen Paulus sind: Silvanus und Markus. In der Gemeinsamkeit der Mitarbeiter wird die Gemeinsamkeit der einen Kirche, die Umarmung der großen Apostel ganz konkret sichtbar.

Wenigstens zweimal sind sich Petrus und Paulus in Jerusalem begegnet; am Ende mündet ihrer beider Weg in Rom. Warum? Ist das mehr als ein Zufall? Liegt darin eine bleibende Botschaft? Paulus ist als Gefangener nach Rom gekommen, aber zugleich als römischer Bürger, der als solcher nach seiner Verhaftung in Jerusalem Berufung an den Kaiser eingelegt hatte und zu dessen Gericht gebracht wurde. Paulus ist aber noch in einem tieferen Sinn freiwillig nach Rom gekommen. Er war Rom schon durch den größten seiner Briefe innerlich entgegengegangen: An die Kirche in Rom hat er das Schreiben gerichtet, das am meisten die Synthese seiner ganzen Verkündigung und seines Glaubens ist. In der Grußadresse des Briefes sagt er, daß vom Glauben der Christen zu Rom alle Welt spricht, daß dieser Glaube also als vorbildlich in der ganzen Welt bekannt ist (Röm 1, 8). Und dann schreibt er: „Ihr sollt wissen, Brüder, daß ich mir schon oft vorgenommen habe, zu euch zu kommen, aber bis heute daran gehindert wurde" (1, 13). Am Schluß des Briefes greift er diesen Faden wieder auf und spricht nun von seinem Plan, nach Spanien zu reisen. „Auf dem Weg dorthin hoffe ich euch zu sehen und dann von euch für die Weiterreise ausgerüstet zu werden, nachdem ich mich einige Zeit an euch erfreut habe" (15, 24). „Ich weiß aber, wenn ich zu euch komme, werde ich mit der Fülle des Segens Christi kommen" (15, 29). Zweierlei wird hier sichtbar: Rom ist für Paulus eine Etappe auf dem Weg nach Spanien, das heißt nach seinem Weltbild ans Ende der Erde. Er sieht es als seine Sendung an, den Auftrag Christi wahr zu machen, das Evangelium bis ans Ende der Welt zu tragen. In diesen Weg hinein gehört Rom. Während er sonst nur an Orte geht, in denen das Evangelium noch nicht verkündet ist, ist Rom eine Ausnahme. Er findet dort eine Kirche vor, von deren Glauben die Welt spricht. Der Weg nach Rom gehört in die Universalität seiner Sendung zu allen Völkern hinein. Der Weg nach Rom, den er vor der äußeren Fahrt inwendig schon mit seinem Brief gegangen war, ist ein wesentlicher Teil seines Auftrags, das Evangelium zu allen Völkern zu bringen – die katholische, die weltweite Kirche zu gründen. Das Gehen nach Rom ist für ihn Ausdruck der Katholizität seiner Sendung. Rom soll den Glauben für alle Welt sichtbar machen, der Ort der Begegnung im einen Glauben sein.

Aber warum ist Petrus nach Rom gegangen? Das Neue Testament sagt uns direkt darüber nichts. Aber es gibt uns Fingerzeige. Das Evangelium des heiligen Markus, das wir als Niederschlag der Predigt des heiligen Petrus betrachten dürfen, läuft von innen her auf den Augenblick zu, in dem der römische Hauptmann angesichts des am Kreuz gestorbenen Jesus Christus sagt: „Wahrhaftig, dieser Mensch war Gottes Sohn" (Mk 15, 39). Am Kreuz wird das Geheimnis Jesu Christi offenbar. Unter dem Kreuz wird die Kirche der Heiden geboren: Der Hauptmann des römischen Hinrichtungskommandos erkennt Christus, den Sohn Gottes. Die Apostelgeschichte schildert uns als entscheidende Etappe für den Weg des Evangeliums in die Welt der Heiden die Geschichte von Kornelius, dem Hauptmann der italischen Kohorte. Der Hauptmann läßt auf eine Weisung Gottes hin nach Petrus schicken, und Petrus geht seinerseits einem göttlichen Auftrag folgend in dessen Haus und predigt. Während er redet, kommt der Heilige Geist über die versammelte Hausgemeinschaft und Petrus sagt: „Kann jemand denen das Wasser zur Taufe verweigern, die ebenso wie wir den Heiligen Geist empfangen haben?" (Apg 10, 47). So wird Petrus auf dem Apostelkonzil zum Fürsprecher für die Kirche der Heiden, die des Gesetzes nicht bedürfen, weil Gott „ihre Herzen durch den Glauben gereinigt hat" (Apg 15, 9). Gewiß, Paulus sagt im Galater-Brief, daß Gott dem Petrus die Kraft zum Aposteldienst unter den Beschnittenen, ihm, Paulus, aber für den Dienst unter den Heiden gegeben habe (2, 8). Aber diese Aufteilung konnte nur gelten, solange Petrus mit den Zwölfen in Jerusalem weilte in der Hoffnung, ganz Israel werde sich zu Christus bekennen. Angesichts der weitergehenden Entwicklung erkannten die Zwölf die Stunde, in der auch sie aufzubrechen hatten in die ganze Welt, um ihr das Evangelium zu verkünden. Petrus, der zuerst auf Gottes Weisung hin die Tür für die Heiden aufgetan hatte, überläßt nun den Vorsitz der judenchristlichen Kirche Jakobus dem Jüngeren, um sich seiner eigentlichen Sendung zu widmen: dem Dienst an der Einheit der einen aus Juden und Heiden gebildeten Kirche Gottes. Die Sehnsucht des heiligen Paulus, nach Rom zu gehen, unterstreicht – wie wir gesehen haben – besonders das Wort „catholica" am Wesen der Kirche. Der Weg des heiligen Petrus nach Rom als Verkörperung der Weltvölker steht vor allem unter dem Wort „una": Sein Auftrag ist es, die Einheit der catholica, der Kirche aus Juden und Heiden, der Kirche aus allen Völkern zu wirken. Und dies ist die bleibende Sendung des Petrus: daß Kirche nie nur mit einer Nation, mit einer Kultur oder einem Staat identisch sei. Daß sie immer die Kirche aller ist. Daß sie über alle Grenzen hin die Menschheit zusammenführt, inmitten der Trennungen dieser Welt den Frieden Gottes, die versöhnende Kraft seiner Liebe gegenwärtig werden läßt. Heute gibt es in der Welt durch die überall gleiche Technik, durch das weltweite Informationsnetz wie durch die Bündelung gemeinsamer Interessen neue Weisen der Einheit, die aber auch neue Gegensätze aufbrechen lassen und alten Gegensätzen neue Stoßkraft geben. Inmitten dieser Einheit von außen, vom Materiellen her brauchen wir um so mehr die Einheit von innen, die aus dem Frieden Gottes kommt – Einheit all derer, die durch Jesus Christus Geschwister geworden sind. Dies ist die bleibende Petrussendung, auch der besondere Auftrag an die Kirche von Rom.

Liebe Mitbrüder im Bischofsamt! Ich möchte mich jetzt an Euch wenden, die Ihr nach Rom gekommen sein, um das Pallium zu empfangen als Sinnbild Eurer Würde und Eurer Verantwortung als Erzbischöfe in der Kirche Jesu Christi. Das Pallium ist aus der Wolle von Schafen gewoben, die der Bischof von Rom jedes Jahr am Fest der Cathedra Petri segnet und damit sozusagen aussondert, daß sie Symbol werden für die Herde Christi, der Ihr vorsteht. Wenn wir das Pallium auf die Schultern nehmen, so erinnert uns dies an den Hirten, der das verlorene Schäflein, das allein den Weg nach Hause nicht mehr findet, auf die Schultern nimmt und es heim trägt. Die Kirchenväter haben in diesem Schäflein das Bild der ganzen Menschheit, der ganzen menschlichen Natur gesehen, die sich verlaufen hat und den Heimweg nicht findet. Der Hirte, der sie heim trägt, kann nur der Logos, das Ewige Wort Gottes selber sein. In der Menschwerdung hat er uns alle, das Schäflein Mensch, auf die Schultern genommen. Er, das Ewige Wort, der wahre Hirte der Menschheit trägt uns; in seiner Menschheit trägt er jeden einzelnen von uns auf seinen Schultern. Auf dem Weg des Kreuzes hat er uns heim getragen, trägt er uns heim. Aber er will Menschen, die mit ihm tragen. Hirte in der Kirche Jesu Christi sein bedeutet, an diesem Auftrag teilzunehmen, an den uns das Pallium erinnert. Wenn wir es tragen, fragt er uns: Trägst du die Meinen mit? Trägst du sie zu mir, zu Jesus Christus hin? Und dann kommt uns die Geschichte von der Sendung Petri durch den Auferstandenen in den Sinn. Der auferstandene Christus verknüpft untrennbar den Auftrag „Weide meine Schafe" mit der Frage: Liebst du mich, liebst du mich mehr als diese? Jedesmal, wenn wir das Pallium des Hirten der Herde Christi anziehen, müßten wir diese Frage hören: Liebst du mich? und uns fragen lassen nach dem Plus, nach dem Mehr an Liebe, das er vom Hirten erwartet.

Das Pallium wird so zum Sinnbild unserer Liebe zum Hirten Christus und unseres Mitliebens mit ihm: Sinnbild der Berufung wie er und mit ihm die Menschen zu lieben, die Suchenden, die Fragenden, die Selbstsicheren und die Demütigen, die Einfachen und die Großen; sie alle von Christus her und auf Christus hin zu lieben, daß sie für ihn und in ihm sich selber finden können. Aber das Pallium, das Ihr vom Grab des heiligen Petrus her empfangt, hat noch eine zweite Bedeutung, die mit der ersten unlöslich verknüpft ist. Sie zu verstehen, mag uns ein Wort aus dem Ersten Brief des heiligen Petrus helfen. In seiner Mahnung an die Presbyter, die Herde Gottes recht zu weiden, nennt er sich synpresbýteros – Con-Presbyter (5, 1). In dieser Formulierung ist im stillen das Prinzip der apostolischen Nachfolge ausgesagt: Die nachfolgenden Hirten sind Hirten wie er, sind es mit ihm, gehören dem in ihnen weitergehenden gemeinsamen Dienst der Hirten der Kirche Jesu Christi zu. Aber dieses „con" hat noch zwei weitere Bedeutungen. Es drückt auch die Wirklichkeit aus, die wir heute mit dem Wort Kollegialität der Bischöfe benennen. Wir alle sind Con-Presbyter. Keiner ist Hirte allein. In der Nachfolge der Apostel stehen wir nur durch das Sein in der Gemeinsamkeit des Kollegiums, in dem sich das Kollegium der Apostel fortsetzt. Zum Hirtesein gehört das Miteinander, das Wir der Hirten, weil die Herde nur eine ist, die eine Kirche Jesu Christi. Und endlich verweist dieses „con" auch auf die Gemeinschaft mit Petrus und seinem Nachfolger als Gewähr der Einheit. So spricht uns das Pallium über die Katholizität der Kirche, über das weltweite Miteinander von Hirt und Herde. Und es verweist uns auf die Apostolizität: auf die Gemeinschaft mit dem Glauben der Apostel, auf den die Kirche gegründet ist. Es spricht von der una catholica apostolica ecclesia und natürlich, indem es uns an Christus bindet, gerade auch davon, daß die Kirche sancta ist und daß unser Wirken Dienst an ihrer Heiligkeit ist.

Dies läßt mich am Schluß noch einmal auf den heiligen Paulus und seine Sendung zurückkommen. Er hat das Wesentliche seiner Sendung und auch den tiefsten Grund seiner Sehnsucht, nach Rom zu gehen, im 15. Kapitel des Römer-Briefes in einem einzigartig schönen Satz formuliert. Er weiß sich berufen, „als Liturge Jesu Christi für die Völker zu dienen, das Evangelium Gottes priesterlich zu verwalten, auf daß die Heidenvölker zu einer Opfergabe werden, die Gott gefällt, geheiligt im Heiligen Geist" (15, 16). Nur in diesem Vers gebraucht Paulus das Wort »hierourgein« – priesterlich verwalten – zusammen mit »leitourgós« – Liturge: Er spricht von der kosmischen Liturgie, in der die Welt der Menschen selbst Anbetung Gottes, Opfer im Heiligen Geist werden soll. Dann ist die Welt an ihrem Ziel, dann ist sie heil, wenn sie als ganze Liturgie Gottes, in ihrem Sein Anbetung geworden ist. Dies ist das letzte Ziel der apostolischen Sendung des Paulus und unserer Sendung. In diesen Dienst ruft uns der Herr. Daß er uns helfe, ihn recht zu tun, wahre Liturgen Jesu Christi zu werden, darum beten wir in dieser Stunde. Amen.

[01031-05.02] [Originalsprache: Deutsch]

[B0440-XX.03]