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SANTA MESSA DELLA NOTTE NELLA SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE, 24.12.2006


A mezzanotte, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte per la Solennità del Natale del Signore 2006.
L’annuncio della nascita storica di Cristo Salvatore è dato con le parole dell’antico testo della Kalenda.
Quindi, il Santo Padre intona il Gloria in excelsis Deo quale inno di glorificazione a Dio per la nascita del Redentore. Durante il canto dell’inno, alcuni bambini provenienti dai diversi Continenti presentano un omaggio floreale all’immagine di Gesù Bambino.
Nel corso della celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Abbiamo appena ascoltato nel Vangelo la parola che gli Angeli, nella Notte santa, hanno detto ai pastori e che ora la Chiesa grida a noi: "Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia (Lc 2,11s). Niente di meraviglioso, niente di straordinario, niente di magnifico viene dato come segno ai pastori. Vedranno soltanto un bambino avvolto in fasce che, come tutti i bambini, ha bisogno delle cure materne; un bambino che è nato in una stalla e perciò giace non in una culla, ma in una mangiatoia. Il segno di Dio è il bambino nel suo bisogno di aiuto e nella sua povertà. Soltanto col cuore i pastori potranno vedere che in questo bambino è diventata realtà la promessa del profeta Isaia, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità" (Is 9,5). Anche a noi non è stato dato un segno diverso. L'angelo di Dio, mediante il messaggio del Vangelo, invita anche noi ad incamminarci col cuore per vedere il bambino che giace nella mangiatoia.

Il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. È questo il suo modo di regnare. Egli non viene con potenza e grandiosità esterne. Egli viene come bambino – inerme e bisognoso del nostro aiuto. Non vuole sopraffarci con la forza. Ci toglie la paura della sua grandezza. Egli chiede il nostro amore: perciò si fa bambino. Nient'altro vuole da noi se non il nostro amore, mediante il quale impariamo spontaneamente ad entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua volontà – impariamo a vivere con Lui e a praticare con Lui anche l'umiltà della rinuncia che fa parte dell'essenza dell'amore. Dio si è fatto piccolo affinché noi potessimo comprenderLo, accoglierLo, amarLo. I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell'Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia che anche Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell'Antico Testamento. Lì si leggeva: "Dio ha reso breve la sua Parola, l'ha abbreviata" (Is 10,23; Rom 9,28). I Padri lo interpretavano in un duplice senso. Il Figlio stesso è la Parola, è il Logos; la Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile. Così Dio ci insegna ad amare i piccoli. Ci insegna così ad amare i deboli. Ci insegna in questo modo il rispetto di fronte ai bambini. Il bambino di Betlemme dirige il nostro sguardo verso tutti i bambini, particolarmente i bambini sofferenti ed abusati nel mondo, i nati come i non nati. Verso i bambini che, come soldati, vengono introdotti in un mondo di violenza; verso i bambini che devono mendicare; verso i bambini che soffrono la miseria e la fame; verso i bambini che non sperimentano nessun amore. In tutti loro è il bambino di Betlemme che ci chiama in causa; ci chiama in causa il Dio che si è fatto piccolo. Preghiamo in questa notte, affinché il fulgore dell’amore di Dio accarezzi tutti questi bambini, e chiediamo a Dio di aiutarci a fare la nostra parte perché sia rispettata la dignità dei bambini; che per tutti sorga la luce dell’amore, di cui l’uomo ha più bisogno che non delle cose materiali necessarie per vivere.

Con ciò siamo arrivati al secondo significato che i Padri hanno trovato nella frase: "Dio ha abbreviato la sua Parola". La Parola che Dio ci comunica nei libri della Sacra Scrittura era, nel corso dei tempi, diventata lunga. Lunga e complicata non solo per la gente semplice, ma addirittura ancora di più per i conoscitori della Sacra Scrittura, per i dotti che s’impigliavano nei particolari e nei rispettivi problemi, non riuscendo quasi più a trovare una visione d'insieme. Gesù ha "reso breve" la Parola – ci ha fatto rivedere la sua più profonda semplicità e unità. Tutto ciò che ci insegnano la Legge e i profeti è riassunto – dice – nella parola semplice: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente… Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,37-40). Questo è tutto – l’intera fede si risolve in quest’unico atto d’amore che abbraccia Dio e gli uomini. Ma subito riemergono delle domande: Come possiamo amare Dio con tutta la nostra mente, in nostro pensiero, se stentiamo a trovarlo con la nostra capacità mentale, con il nostro pensiero? Come amarLo con tutto il nostro cuore e la nostra anima, se questo cuore arriva ad intravederLo solo da lontano e percepisce tante cose contraddittorie nel mondo che velano il suo volto davanti a noi? A questo punto i due modi in cui Dio ha "fatto breve" la sua Parola s’incontrano. Egli non è più lontano. Non è più sconosciuto. Non è più irraggiungibile per il nostro cuore. Si è fatto bambino per noi e ha dileguato con ciò ogni ambiguità. Si è fatto nostro prossimo, ristabilendo in tal modo anche l’immagine dell’uomo che, spesso, ci appare così poco amabile. Dio, per noi, si è fatto dono. Ha donato se stesso. Si prende tempo per noi. Egli, l’Eterno che è al di sopra del tempo, ha assunto il tempo, ha tratto in alto il nostro tempo presso di sé. Natale è diventato la festa dei doni per imitare Dio che ha donato se stesso a noi. Lasciamo che il nostro cuore, la nostra anima e la nostra mente siano toccati da questo fatto! Tra i tanti doni che compriamo e riceviamo non dimentichiamo il vero dono: di donarci a vicenda qualcosa di noi stessi! Di donarci a vicenda il nostro tempo. Di aprire il nostro tempo per Dio. Così si scioglie l'agitazione. Così nasce la gioia, così si crea la festa. E ricordiamo nei banchetti festivi di questi giorni la parola del Signore: "Quando offri un banchetto, non invitare quanti ti inviteranno a loro volta, ma invita quanti non sono invitati da nessuno e non sono in grado di invitare te" (cfr Lc 14,12-14). E questo significa, appunto, anche: Quando tu per Natale fai dei regali, non regalare qualcosa solo a quelli che, a loro volta, ti fanno regali, ma dona a coloro che non ricevono da nessuno e che non possono darti niente in cambio. Così ha agito Dio stesso: Egli ci invita al suo banchetto di nozze che non possiamo ricambiare, che possiamo solo con gioia ricevere. Imitiamolo! Amiamo Dio e, a partire da Lui, anche l’uomo, per riscoprire poi, a partire dagli uomini, Dio in modo nuovo!

Così si schiude infine ancora un terzo significato dell'affermazione sulla Parola diventata "breve" e "piccola". Ai pastori era stato detto che avrebbero trovato il bambino in una mangiatoia per gli animali, che erano i veri abitanti della stalla. Leggendo Isaia (1,3), i Padri hanno dedotto che presso la mangiatoia di Betlemme c’erano un bue e un asino. Al contempo hanno interpretato il testo nel senso che in ciò vi sarebbe un simbolo dei giudei e dei pagani – quindi dell’umanità intera – i quali abbisognano, gli uni e gli altri a modo loro, di un salvatore: di quel Dio che si è fatto bambino. L’uomo, per vivere, ha bisogno del pane, del frutto della terra e del suo lavoro. Ma non vive di solo pane. Ha bisogno di nutrimento per la sua anima: ha bisogno di un senso che riempia la sua vita. Così, per i Padri, la mangiatoia degli animali è diventata il simbolo dell’altare, sul quale giace il Pane che è Cristo stesso: il vero cibo per i nostri cuori. E vediamo ancora una volta, come Egli si sia fatto piccolo: nell’umile apparenza dell’ostia, di un pezzettino di pane, Egli ci dona se stesso.

Di tutto ciò parla il segno che fu dato ai pastori e che vien dato a noi: il bambino che ci è stato donato; il bambino in cui Dio si è fatto piccolo per noi. Preghiamo il Signore di donarci la grazia di guardare in questa notte il presepe con la semplicità dei pastori per ricevere così la gioia con la quale essi tornarono a casa (cfr Lc 2,20). Preghiamolo di darci l’umiltà e la fede con cui san Giuseppe guardò il bambino che Maria aveva concepito dallo Spirito Santo. Preghiamo che ci doni di guardarlo con quell’amore, con cui Maria l’ha osservato. E preghiamo che così la luce, che i pastori videro, illumini anche noi e che si compia in tutto il mondo ciò che gli angeli cantarono in quella notte: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama". Amen!

[01891-01.02] [Testo originale: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE

Chers Frères et Sœurs,

Nous venons d’écouter dans l’Évangile les paroles que les Anges, dans la nuit sainte, ont adressées aux bergers et que maintenant l’Église nous adresse: «Aujourd’hui vous est né un Sauveur dans la ville de David. Il est le Messie, le Seigneur. Et voilà le signe qui vous est donné: vous trouverez un nouveau-né emmailloté et couché dans une mangeoire» (Lc 2, 11 ss). Rien de merveilleux, rien d’extraordinaire, rien d’éclatant n’est donné comme signe aux bergers. Ils verront seulement un enfant entouré de langes qui, comme tous les enfants, a besoin de soins maternels; un enfant qui est né dans une étable et qui, de ce fait, est couché non pas dans un berceau, mais dans une mangeoire. Le signe de Dieu est l’enfant, avec son besoin d’aide et avec sa pauvreté. C’est seulement avec le cœur que les bergers pourront voir qu’en cet enfant, est devenue réalité la promesse du prophète Isaïe que nous venons d’entendre dans la première lecture: «Un enfant nous est né, un fils nous a été donné; l’insigne du pouvoir est sur ses épaules» (Is 9, 5). À nous non plus il n’a pas été donné un signe différent. Par le message de l’Évangile, l’ange de Dieu nous invite, nous aussi, à nous mettre en chemin avec le cœur, pour voir l’enfant qui est couché dans la mangeoire.

Le signe de Dieu est la simplicité. Le signe de Dieu est l’enfant. Le signe de Dieu est qu’Il se fait petit pour nous. Telle est sa façon de régner. Il ne vient pas avec puissance ni grandeur extérieure. Il vient comme un enfant – sans défense et ayant besoin de notre aide. Il ne veut pas s’imposer par la force. Il nous enlève la peur de sa grandeur. Il demande notre amour: c’est pourquoi il se fait enfant. Il ne veut rien d’autre de nous, si ce n’est notre amour, par lequel nous apprenons spontanément à entrer dans ses sentiments, dans sa pensée et dans sa volonté – nous apprenons à vivre avec lui et à pratiquer aussi avec lui l’humilité du renoncement, qui fait partie de l’essence de l’amour. Dieu s’est fait petit pour que nous puissions le comprendre, l’accueillir, l’aimer. Dans leur traduction grecque de l’Ancien Testament, les Pères de l’Église trouvaient une parole du prophète Isaïe, que Paul citait aussi, pour montrer que les voies nouvelles de Dieu étaient déjà annoncées dans l’Ancien Testament. On pouvait y lire: «Dieu a rendu brève sa Parole, il l’a abrégée» (cf. Is 10, 23; Rm 9, 28). Les Pères l’interprétaient dans un double sens. Le Fils lui-même est la Parole, le Logos; la Parole éternelle s’est faite petite – si petite qu’elle peut entrer dans une mangeoire. Elle s’est faite enfant, afin que la Parole devienne pour nous saisissable. Ainsi, Dieu nous enseigne à aimer les petits. Il nous enseigne de même à aimer les faibles. De cette manière, il nous enseigne le respect face aux enfants. L’enfant de Bethléem oriente notre regard vers tous les enfants qui, dans le monde, souffrent et qui sont soumis à des abus, ceux qui sont nés comme ceux qui ne sont pas nés. Vers les enfants qui, comme soldats, sont conduits dans le monde de la violence; vers les enfants qui doivent mendier; vers les enfants qui souffrent de la misère et de la faim; vers les enfants qui ne font l’expérience d’aucun amour. En chacun d’eux, il y a l’enfant de Bethléem qui nous interpelle; le Dieu qui s’est fait petit nous interpelle. En cette nuit, prions pour que l’éclat de l’amour de Dieu caresse tous ces enfants, et demandons à Dieu de nous aider à faire ce qui est en notre pouvoir pour que soit respectée la dignité des enfants; que pour tous jaillisse la lumière de l’amour, dont l’homme a plus besoin que des choses matérielles nécessaires pour vivre.

Nous sommes ainsi arrivés à la deuxième signification que les Pères ont trouvée dans la phrase: «Dieu a abrégé sa Parole». La Parole que Dieu nous communique dans les livres de l’Écriture Sainte était, au fil du temps, devenue longue. Longue et compliquée, non seulement pour les gens simples et analphabètes, mais même encore plus pour les personnes qui connaissaient l’Écriture Sainte, pour les savants qui, clairement, se perdaient dans les détails et dans les problèmes qui en découlaient, ne réussissant presque plus à trouver une vision d’ensemble. Jésus a «rendu brève» la Parole – il nous a fait voir à nouveau sa plus profonde simplicité et sa plus profonde unité. Tout ce que nous enseignent la Loi et les prophètes est résumé – dit-il – dans les paroles: «Tu aimeras le Seigneur ton Dieu de tout ton cœur, de toute ton âme et de tout ton esprit... Tu aimeras ton prochain comme toi-même» (Mt 22, 37-39). Tout est là – la foi entière se réduit à cet unique acte d’amour, qui englobe Dieu et les hommes. Mais aussitôt se font jour de nouveau des questions: comment pouvons-nous aimer Dieu de tout notre esprit, si nous avons du mal à le trouver avec notre capacité mentale ? Comment l’aimer de tout notre cœur et de toute notre âme, si ce cœur parvient à l’entrevoir seulement de loin et perçoit tant de choses contradictoires dans le monde qui voilent son visage à nos yeux ? Arrivé à ce point, les deux manières par lesquelles Dieu a «fait brève» sa Parole se rencontrent. Il n’est plus loin. Il n’est plus inconnu. Il n’est plus non inaccessible à notre cœur. Il s’est fait enfant pour nous et il a par là dissipé toute ambiguïté. Il s’est fait notre prochain, restaurant encore de cette manière l’image de l’homme qui, souvent, nous apparaît aussi peu aimable. Dieu pour nous s’est fait don. Il s’est donné lui-même. Il prend du temps pour nous. Lui, l’Éternel qui est au-delà du temps, a assumé le temps, il a tiré vers le haut notre temps, près de lui. Noël est devenu la fête des dons, pour imiter Dieu qui s’est donné lui-même à nous. Faisons en sorte que notre cœur, nos âmes et notre esprit soient touchés par ce fait. Parmi les nombreux dons que nous achetons et que nous recevons, n’oublions pas le vrai don: de nous donner les uns aux autres quelque chose de nous-mêmes. De nous donner les uns aux autres de notre temps. D’ouvrir notre temps pour Dieu. Ainsi s’évanouit l’agitation. Ainsi naît la joie, ainsi se crée la fête. Et rappelons-nous dans les repas festifs de ces jours la parole du Seigneur: «Quand tu donnes un banquet, n’invite pas ceux qui t’inviteront à leur tour, mais invite ceux qui ne sont invités par personne et qui ne sont pas en mesure de t’inviter» (cf. Lc 14, 12-14). Et cela signifie aussi précisément: quand, pour Noël, tu fais des cadeaux, ne fais pas de cadeau seulement à ceux qui, à leur tour, te font des cadeaux, mais donne à ceux qui ne reçoivent de personne et ne peuvent rien te donner en échange. C’est ainsi que Dieu a agi: Il nous invite à son festin de noces, pour lequel nous ne pouvons rien donner en échange, que nous pouvons seulement recevoir avec joie. Imitons-le. Aimons Dieu et, à partir de lui, aussi l’homme, pour redécouvrir ensuite, à partir des hommes, Dieu de manière renouvelée.

Ainsi alors, s’ouvre enfin une troisième signification de l’affirmation sur la Parole devenue «brève» et «petite». Aux bergers, il fut dit qu’ils auraient trouvé l’enfant dans une mangeoire pour animaux, qui étaient les vrais habitants de l’étable. Relisant Isaïe (1, 3), les Pères ont déduit que, près de la mangeoire de Bethléem, il y avait un bœuf et un âne. En même temps, ils ont interprété le texte dans le sens où ce serait un symbole des Juifs et des païens – donc de l’humanité entière –, qui ont besoin, les uns les autres et chacun à sa manière, d’un sauveur: de ce Dieu qui s’est fait enfant. L’homme, pour vivre, a besoin de pain, du fruit de la terre et de son travail. Mais il ne vit pas seulement de pain. Il a besoin de nourriture pour son âme: il a besoin d’un sens qui remplit sa vie. Ainsi, pour les Pères, la mangeoire des animaux est devenue le symbole de l’autel, sur lequel est déposé le Pain, qui est le Christ lui-même: la vraie nourriture pour nos cœurs. Et nous voyons encore une fois qu’il s’est fait petit: sous l’humble apparence de l’hostie, d’un petit morceau de pain. Il se donne lui-même à nous.

C’est de tout cela que parle le signe qui a été donné aux bergers et qui nous est donné: l’enfant qui nous a été donné; l’enfant en qui Dieu s’est fait petit pour nous. Prions le Seigneur de nous donner la grâce de regarder en cette nuit la crèche avec la simplicité des bergers, pour recevoir ainsi la joie avec laquelle ils repartirent chez eux (cf Lc 2, 20). Prions-le de nous donner l’humilité et la foi avec lesquelles saint Joseph regardait l’enfant que Marie avait conçu du Saint-Esprit. Prions qu’il nous donne de le regarder avec l’amour avec lequel Marie l’a regardé. Et prions qu’ainsi la lumière, que virent les bergers, nous illumine, nous aussi, et que s’accomplisse dans le monde entier ce que les anges chantèrent en cette nuit: «Gloire à Dieu au plus haut des cieux et paix sur la terre aux hommes, que Dieu aime». Amen !

[01891-03.01] [Texte original: Italien]

TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers and Sisters,

We have just heard in the Gospel the message given by the angels to the shepherds during that Holy Night, a message which the Church now proclaims to us: "To you is born this day in the city of David a Saviour, who is Christ the Lord. And this will be a sign for you: you will find a babe wrapped in swaddling clothes and lying in a manger" (Lk 2:11-12). Nothing miraculous, nothing extraordinary, nothing magnificent is given to the shepherds as a sign. All they will see is a child wrapped in swaddling clothes, one who, like all children, needs a mother’s care; a child born in a stable, who therefore lies not in a cradle but in a manger. God’s sign is the baby in need of help and in poverty. Only in their hearts will the shepherds be able to see that this baby fulfils the promise of the prophet Isaiah, which we heard in the first reading: "For to us a child is born, to us a son is given; and the government will be upon his shoulder" (Is 9:5). Exactly the same sign has been given to us. We too are invited by the angel of God, through the message of the Gospel, to set out in our hearts to see the child lying in the manger.

God’s sign is simplicity. God’s sign is the baby. God’s sign is that he makes himself small for us. This is how he reigns. He does not come with power and outward splendour. He comes as a baby – defenceless and in need of our help. He does not want to overwhelm us with his strength. He takes away our fear of his greatness. He asks for our love: so he makes himself a child. He wants nothing other from us than our love, through which we spontaneously learn to enter into his feelings, his thoughts and his will – we learn to live with him and to practise with him that humility of renunciation that belongs to the very essence of love. God made himself small so that we could understand him, welcome him, and love him. The Fathers of the Church, in their Greek translation of the Old Testament, found a passage from the prophet Isaiah that Paul also quotes in order to show how God’s new ways had already been foretold in the Old Testament. There we read: "God made his Word short, he abbreviated it" (Is 10:23; Rom 9:28). The Fathers interpreted this in two ways. The Son himself is the Word, the Logos; the eternal Word became small – small enough to fit into a manger. He became a child, so that the Word could be grasped by us. In this way God teaches us to love the little ones. In this way he teaches us to love the weak. In this way he teaches us respect for children. The child of Bethlehem directs our gaze towards all children who suffer and are abused in the world, the born and the unborn. Towards children who are placed as soldiers in a violent world; towards children who have to beg; towards children who suffer deprivation and hunger; towards children who are unloved. In all of these it is the Child of Bethlehem who is crying out to us; it is the God who has become small who appeals to us. Let us pray this night that the brightness of God’s love may enfold all these children. Let us ask God to help us do our part so that the dignity of children may be respected. May they all experience the light of love, which mankind needs so much more than the material necessities of life.

And so we come to the second meaning that the Fathers saw in the phrase: "God made his Word short". The Word which God speaks to us in Sacred Scripture had become long in the course of the centuries. It became long and complex, not just for the simple and unlettered, but even more so for those versed in Sacred Scripture, for the experts who evidently became entangled in details and in particular problems, almost to the extent of losing an overall perspective. Jesus "abbreviated" the Word – he showed us once more its deeper simplicity and unity. Everything taught by the Law and the Prophets is summed up – he says – in the command: "You shall love the Lord your God with all your heart, and with all your soul, and with all your mind… You shall love your neighbour as yourself" (Mt 22:37-40). This is everything – the whole faith is contained in this one act of love which embraces God and humanity. Yet now further questions arise: how are we to love God with all our mind, when our intellect can barely reach him? How are we to love him with all our heart and soul, when our heart can only catch a glimpse of him from afar, when there are so many contradictions in the world that would hide his face from us? This is where the two ways in which God has "abbreviated" his Word come together. He is no longer distant. He is no longer unknown. He is no longer beyond the reach of our heart. He has become a child for us, and in so doing he has dispelled all doubt. He has become our neighbour, restoring in this way the image of man, whom we often find so hard to love. For us, God has become a gift. He has given himself. He has entered time for us. He who is the Eternal One, above time, he has assumed our time and raised it to himself on high. Christmas has become the Feast of gifts in imitation of God who has given himself to us. Let us allow our heart, our soul and our mind to be touched by this fact! Among the many gifts that we buy and receive, let us not forget the true gift: to give each other something of ourselves, to give each other something of our time, to open our time to God. In this way anxiety disappears, joy is born, and the feast is created. During the festive meals of these days let us remember the Lord’s words: "When you give a dinner or a banquet, do not invite those who will invite you in return, but invite those whom no one invites and who are not able to invite you" (cf. Lk 14:12-14). This also means: when you give gifts for Christmas, do not give only to those who will give to you in return, but give to those who receive from no one and who cannot give you anything back. This is what God has done: he invites us to his wedding feast, something which we cannot reciprocate, but can only receive with joy. Let us imitate him! Let us love God and, starting from him, let us also love man, so that, starting from man, we can then rediscover God in a new way!

And so, finally, we find yet a third meaning in the saying that the Word became "brief" and "small". The shepherds were told that they would find the child in a manger for animals, who were the rightful occupants of the stable. Reading Isaiah (1:3), the Fathers concluded that beside the manger of Bethlehem there stood an ox and an ass. At the same time they interpreted the text as symbolizing the Jews and the pagans – and thus all humanity – who each in their own way have need of a Saviour: the God who became a child. Man, in order to live, needs bread, the fruit of the earth and of his labour. But he does not live by bread alone. He needs nourishment for his soul: he needs meaning that can fill his life. Thus, for the Fathers, the manger of the animals became the symbol of the altar, on which lies the Bread which is Christ himself: the true food for our hearts. Once again we see how he became small: in the humble appearance of the host, in a small piece of bread, he gives us himself.

All this is conveyed by the sign that was given to the shepherds and is given also to us: the child born for us, the child in whom God became small for us. Let us ask the Lord to grant us the grace of looking upon the crib this night with the simplicity of the shepherds, so as to receive the joy with which they returned home (cf. Lk 2:20). Let us ask him to give us the humility and the faith with which Saint Joseph looked upon the child that Mary had conceived by the Holy Spirit. Let us ask the Lord to let us look upon him with that same love with which Mary saw him. And let us pray that in this way the light that the shepherds saw will shine upon us too, and that what the angels sang that night will be accomplished throughout the world: "Glory to God in the highest, and on earth peace among men with whom he is pleased." Amen!

[01891-02.01] [Original text: Italian]

TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA

Liebe Brüder und Schwestern!

Soeben haben wir im Evangelium das Wort gehört, das die Engel in der Heiligen Nacht zu den Hirten gesagt haben und das die Kirche uns nun zuruft: „Heute ist euch in der Stadt Davids der Retter geboren, Christus, der Herr. Und dies soll euch als Zeichen dienen: Ihr werdet ein Kind finden, das, in Windeln gewickelt, in einer Krippe liegt" (Lk 2, 11f). Nichts Wunderbares, nichts Außergewöhnliches und Großartiges wird den Hirten als Zeichen gegeben. Nur ein Kind werden sie sehen, das wie Menschenkinder der mütterlichen Fürsorge bedarf und in Windeln gewickelt ist; ein Kind, das im Stall geboren wurde und deshalb statt in einer Wiege in einer Futterkrippe liegt. Das Zeichen Gottes ist das Kind, in seiner Hilfsbedürftigkeit und Armut. Nur mit dem Herzen werden die Hirten sehen können, daß in diesem Kind die Verheißung des Propheten Jesaja wahr geworden ist, die wir in der ersten Lesung gehört haben: „Ein Kind ist uns geboren, ein Sohn ist uns geschenkt. Auf seinen Schultern ruht die Herrschaft" (Jes 9, 5). Auch uns ist kein anderes Zeichen gegeben. Auch uns lädt der Engel Gottes durch die Botschaft des Evangeliums ein, uns mit dem Herzen auf den Weg zu machen und das Kind zu sehen, das in der Krippe liegt.

Gottes Zeichen ist das Einfache. Gottes Zeichen ist das Kind. Gottes Zeichen ist es, daß er sich für uns klein macht. Das ist die Weise, wie er herrscht. Er kommt nicht mit äußerer Macht und Größe. Er kommt als Kind – unbewehrt und unserer Hilfe bedürftig. Er will uns nicht mit Macht überwältigen. Er nimmt uns unsere Furcht vor seiner Größe. Er bittet um unsere Liebe: Darum wird er Kind. Nichts anderes will er von uns als unsere Liebe, durch die wir von selber lernen, in seine Gesinnungen, in sein Denken und Wollen einzutreten – mit ihm mitzulieben und mit ihm auch die Demut des Verzichts zu erlernen, die zum Wesen der Liebe gehört. Gott hat sich klein gemacht, damit wir ihn verstehen, ihn annehmen, ihn lieben können. Die Kirchenväter lasen in ihrer griechischen Übersetzung des Alten Testaments ein Wort des Propheten Jesaja, das dann auch Paulus zitiert, um zu zeigen, wie die neuen Wege Gottes im Alten Testament schon vorhergesagt waren. „Gott hat sein Wort kurz gemacht, es abgekürzt", hieß es da (vgl. Jes 10, 23; Röm 9,28). Sie verstanden dies in einem doppelten Sinn. Der Sohn selbst ist das Wort, der Logos; das ewige Wort hat sich klein gemacht – so klein, daß es in eine Krippe paßte. Es hat sich zum Kind gemacht, damit uns das Wort faßbar werde. So lehrt er uns, die Kleinen zu lieben. So lehrt er uns, die Schwachen zu lieben. So lehrt er uns die Ehrfurcht vor den Kindern. Das Kind von Bethlehem lenkt unseren Blick auf all die leidenden und mißbrauchten Kinder in der Welt, die geborenen wie die ungeborenen. Auf die Kinder, die als Soldaten in eine Welt der Gewalt hineingeführt werden; auf die Kinder, die betteln müssen; auf die Kinder, die darben und hungern; auf die Kinder, die keine Liebe erfahren. In ihnen allen ruft das Kind von Bethlehem uns an, ruft Gott uns an, der sich klein gemacht hat. Wir beten an diesem Tag darum, daß das Leuchten der Liebe Gottes all diese Kinder berühre, und wir bitten ihn darum, daß er uns helfe, das Unsrige zu tun, damit den Kindern ihre Würde wird; damit allen das Licht der Liebe aufgehe, das der Mensch noch mehr braucht als die materiellen Dinge, die zum Leben nötig sind.

Damit sind wir bei der zweiten Bedeutung angekommen, die die Väter in dem Satz gefunden haben: „Gott hat sein Wort kurz gemacht." Das Wort, das Gott uns in den Büchern der Heiligen Schrift mitteilt, war lang geworden im Lauf der Zeit. Lang und unübersichtlich nicht für die einfachen, des Lesens unkundigen Menschen, sondern sogar noch mehr für die Schriftkenner, die Gelehrten, die sich zusehends in den Einzelheiten und ihren Problemen verfingen und den Blick aufs Ganze kaum noch finden konnten. Jesus hat das Wort „kurz gemacht" – uns seine tiefste Einfachheit und Einheit wieder gezeigt. Alles, was Gesetz und Propheten uns lehren, so sagt er uns, ist vereinigt in dem einen Wort: „Du sollst den Herrn, deinen Gott, lieben von ganzem Herzen, mit deiner ganzen Seele und mit all deinen Gedanken... Du sollst den Nächsten lieben wie dich selbst" (Mt 22, 37 – 40). Das ist alles – der ganze Glaube ist bezogen auf diesen einen Gott und Menschen umfassenden Akt der Liebe. Aber sofort steigen wieder Fragen auf: Wie sollen wir Gott lieben mit unseren Gedanken, wenn wir ihn mit unserem Denken kaum finden können? Mit unserem Herzen und unserer Seele, wenn dieses Herz ihn nur von weitem ahnt und so viel Widersprüchliches wahrnimmt in der Welt, das uns sein Gesicht verhüllt? Da greifen nun die beiden Weisen ineinander, wie Gott sein Wort „kurz gemacht" hat. Er ist nicht mehr weit entfernt. Er ist nicht mehr unbekannt. Er ist für unser Herz nicht mehr unerreichlich. Er hat sich zum Kind gemacht für uns und damit alle Zweideutigkeiten verscheucht. Er hat sich zu unserem Nächsten gemacht und so auch das Bild des Menschen wiederhergestellt, der uns so oft gar nicht liebenswürdig erscheint. Gott hat sich für uns zum Geschenk gemacht. Sich selbst. Er nimmt sich Zeit für uns. Er, der Ewige, der oberhalb der Zeit steht, hat Zeit angenommen, unsere Zeit zu sich hinaufgezogen. Weihnachten ist das Fest der Geschenke geworden, um Gott nachzuahmen, der sich uns selber geschenkt hat. Lassen wir unser Herz, unsere Seele, unsere Gedanken davon berühren. Vergessen wir über den vielen Geschenken, die wir kaufen und die wir empfangen, nicht das eigentliche Geschenk: einander etwas von uns selber zu schenken. Einander unsere Zeit zu schenken. Unsere Zeit für Gott zu öffnen. So löst sich die Hektik. So wird Freude, so wird Fest. Und denken wir bei den festlichen Mahlzeiten dieser Tage an das Wort des Herrn: Wenn du ein Mahl gibst, so lade nicht die ein, die dich wieder einladen, sondern lade die ein, die von niemand eingeladen werden und die dich nicht einladen können (vgl. Lk 14, 12 – 14). Und das bedeutet doch auch: Wenn du an Weihnachten schenkst, schenke nicht nur denen, die dir wiederschenken, sondern schenke denen, denen niemand schenkt und die dir nichts dafür zurückgeben können. So hat es Gott selber gemacht: Er lädt uns zu seinem Hochzeitsmahl, für das wir nichts zu geben vermögen, das wir nur mit Freude empfangen können. Ahmen wir ihn nach. Lieben wir Gott und von ihm her den Menschen, um dann von den Menschen her wieder Gott neu zu entdecken.

So öffnet sich schließlich noch eine dritte Bedeutung des Satzes vom kurz und klein gewordenen Wort. Den Hirten war gesagt worden, daß sie das Kind in einer Krippe finden würden, in dem Futtertrog für die Tiere, die die eigentlichen Bewohner des Stalles waren. Aus Jesaja (1, 3) haben die Väter herausgelesen, daß an der Krippe zu Bethlehem Ochs und Esel standen. Aus dem Text des Propheten haben sie zugleich herausgelesen, daß damit Juden und Heiden versinnbildet seien – also die ganze Menschheit, die je auf ihre Weise des Heilands bedarf: des Gottes, der sich zum Kind gemacht hat. Der Mensch braucht zum Leben das Brot, die Frucht der Erde und seiner Arbeit. Aber er lebt nicht vom Brot allein. Er braucht Nahrung für seine Seele – er braucht Sinn, der sein Leben füllt. So ist den Vätern der Futtertrog der Tiere zum Sinnbild für den Altar geworden, auf dem das Brot liegt, das Christus selber ist: die wahre Nahrung unserer Herzen. Und noch einmal sehen wir, wie klein er sich gemacht hat: In der demütigen Gestalt der Hostie, eines Stückchens Brot, gibt er sich uns selbst.

Von alledem spricht das Zeichen, das den Hirten gegeben wurde und das uns gegeben wird: das Kind, das uns geschenkt wurde; das Kind, in dem Gott für uns klein geworden ist. Bitten wir den Herrn, daß er uns schenkt, in dieser Nacht mit der Einfalt der Hirten auf die Krippe zu schauen und so die Freude zu empfangen, mit der sie nach Hause gingen (vgl. Lk 2, 20). Bitten wir ihn, daß er uns die Demut und den Glauben schenkt, womit der heilige Josef auf das Kind hinschaute, das Maria vom Heiligen Geist empfangen hatte. Bitten wir, daß er uns schenkt, es mit der Liebe anzusehen, mit der Maria auf es hingeblickt hat. Und bitten wir, daß so das Licht, das die Hirten sahen, auch uns erleuchte und daß sich in aller Welt erfülle, was die Engel in der Heiligen Nacht gesungen haben: Ehre sei Gott in der Höhe und Friede den Menschen auf Erden, die eines guten Willens sind. Amen.

[01891-05.01] [Originalsprache: Italienisch]

TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA

¡Queridos hermanos y hermanas!

Acabamos de escuchar en el Evangelio lo que en la Noche santa los Ángeles dijeron a los pastores y que ahora la Iglesia nos proclama: « Hoy, en la ciudad de David, os ha nacido un salvador, el Mesías, el Señor. Y aquí tenéis una señal: encontraréis un niño envuelto en pañales y acostado en un pesebre » (Lc 2,11s.). Nada prodigioso, nada extraordinario, nada espectacular se les da como señal a los pastores. Verán solamente un niño envuelto en pañales que, como todos los niños, necesita los cuidados maternos; un niño que ha nacido en un establo y que no está acostado en una cuna, sino en un pesebre. La señal de Dios es el niño, su necesidad de ayuda y su pobreza. Sólo con el corazón los pastores podrán ver que en este niño se ha realizado la promesa del profeta Isaías que hemos escuchado en la primera lectura: « un niño nos ha nacido, un hijo se nos ha dado. Lleva al hombro el principado> (Is 9,5). Tampoco a nosotros se nos ha dado una señal diferente. El ángel de Dios, a través del mensaje del Evangelio, nos invita también a encaminarnos con el corazón para ver al niño acostado en el pesebre.

La señal de Dios es la sencillez. La señal de Dios es el niño. La señal de Dios es que Él se hace pequeño por nosotros. Éste es su modo de reinar. Él no viene con poderío y grandiosidad externas. Viene como niño inerme y necesitado de nuestra ayuda. No quiere abrumarnos con la fuerza. Nos evita el temor ante su grandeza. Pide nuestro amor: por eso se hace niño. No quiere de nosotros más que nuestro amor, a través del cual aprendemos espontáneamente a entrar en sus sentimientos, en su pensamiento y en su voluntad: aprendamos a vivir con Él y a practicar también con Él la humildad de la renuncia que es parte esencial del amor. Dios se ha hecho pequeño para que nosotros pudiéramos comprenderlo, acogerlo, amarlo. Los Padres de la Iglesia, en su traducción griega del antiguo Testamento, usaron unas palabras del profeta Isaías que también cita Pablo para mostrar cómo los nuevos caminos de Dios fueron preanunciados ya en el Antiguo Testamento. Allí se leía: « Dios ha cumplido su palabra y la ha abreviado» (Is 10,23; Rm 9,28). Los Padres lo interpretaron en un doble sentido. El Hijo mismo es la Palabra, el Logos; la Palabra eterna se ha hecho pequeña, tan pequeña como para estar en un pesebre. Se ha hecho niño para que la Palabra esté a nuestro alcance. Dios nos enseña así a amar a los pequeños. A amar a los débiles. A respetar a los niños. El niño de Belén nos hace poner los ojos en todos los niños que sufren y son explotados en el mundo, tanto los nacidos como los no nacidos. En los niños convertidos en soldados y encaminados a un mundo de violencia; en los niños que tienen que mendigar; en los niños que sufren la miseria y el hambre; en los niños carentes de todo amor. En todos ellos, es el niño de Belén quien nos reclama; nos interpela el Dios que se ha hecho pequeño. En esta noche, oremos para que el resplandor del amor de Dios acaricie a todos estos niños, y pidamos a Dios que nos ayude a hacer todo lo que esté en nuestra mano para que se respete la dignidad de los niños; que nazca para todos la luz del amor, que el hombre necesita más que las cosas materiales necesarias para vivir.

Con eso hemos llegado al segundo significado que los Padres han encontrado en la frase: « Dios ha cumplido su palabra y la ha abreviado ». A través de los tiempos, la Palabra que Dios nos comunica en los libros de la Sagrada Escritura se había hecho larga. Larga y complicada no sólo para la gente sencilla y analfabeta, sino más todavía para los conocedores de la Sagrada Escritura, para los eruditos que, como es notorio, se enredaban con los detalles y sus problemas sin conseguir prácticamente llegar a una visión de conjunto. Jesús ha « hecho breve » la Palabra, nos ha dejado ver de nuevo su más profunda sencillez y unidad. Todo lo que nos enseñan la Ley y los profetas se resume en esto: « Amarás al Señor, tu Dios, con todo tu corazón, con toda tu alma y con toda tu mente… Amarás a tu prójimo como a ti mismo » (Mt 22,37-39). Esto es todo: la fe en su conjunto se reduce a este único acto de amor que incluye a Dios y a los hombres. Pero enseguida vuelven a surgir preguntas: ¿Cómo podemos amar a Dios con toda nuestra mente si apenas podemos encontrarlo con nuestra capacidad intelectual? ¿Cómo amarlo con todo nuestro corazón y nuestra alma si este corazón consigue sólo vislumbrarlo de lejos y siente tantas cosas contradictorias en el mundo que nos oscurecen su rostro? Llegados a este punto, confluyen los dos modos en los cuales Dios ha "hecho breve" su Palabra. Él ya no está lejos. No es desconocido. No es inaccesible a nuestro corazón. Se ha hecho niño por nosotros y así ha disipado toda ambigüedad. Se ha hecho nuestro prójimo, restableciendo también de este modo la imagen del hombre que a menudo se nos presenta tan poco atrayente. Dios se ha hecho don por nosotros. Se ha dado a sí mismo. Por nosotros asume el tiempo. Él, el Eterno que está por encima del tiempo, ha asumido el tiempo, ha tomado consigo nuestro tiempo. Navidad se ha convertido en la fiesta de los regalos para imitar a Dios que se ha dado a sí mismo. ¡Dejemos que esto haga mella en nuestro corazón, nuestra alma y nuestra mente! Entre tantos regalos que compramos y recibimos no olvidemos el verdadero regalo: darnos mutuamente algo de nosotros mismos. Darnos mutuamente nuestro tiempo. Abrir nuestro tiempo a Dios. Así la agitación se apacigua. Así nace la alegría, surge la fiesta. Y en las comidas de estos días de fiesta recordemos la palabra del Señor: « Cuando des una comida o una cena, no invites a quienes corresponderán invitándote, sino a los que nadie invita ni pueden invitarte (cf. Lc 14,12-14). Precisamente, esto significa también: Cuando tú haces regalos en Navidad, no has de regalar algo sólo a quienes, a su vez, te regalan, sino también a los que nadie hace regalos ni pueden darte nada a cambio. Así ha actuado Dios mismo: Él nos invita a su banquete de bodas al que no podemos corresponder, sino que sólo podemos aceptar con alegría. ¡Imitémoslo! Amemos a Dios y, por Él, también al hombre, para redescubrir después de un modo nuevo a Dios a través de los hombres.

Finalmente, se manifiesta un tercer significado de la afirmación sobre la Palabra hecha « breve » y « pequeña». A los pastores se les dijo que encontrarían al niño en un pesebre para animales, cuyo cobijo normal es el establo. Leyendo a Isaías (1,3), los Padres han deducido que en el pesebre de Belén había un buey y una mula. E interpretaron el texto en el sentido de que estos serían un símbolo de los judíos y de los paganos –por lo tanto, de la humanidad entera–, los cuales precisan de un salvador, cada uno a su modo: del Dios que se ha hecho niño. Para vivir, el hombre necesita pan, fruto de la tierra y de su trabajo. Pero no sólo vive de pan. Necesita sustento para su alma: necesita un sentido que llene su vida. Así, para los Padres, el pesebre de los animales se ha convertido en el símbolo del altar sobre el que está el Pan que es el propio Cristo: la verdadera comida para nuestros corazones. Y vemos una vez más cómo Él se hizo pequeño: en la humilde apariencia de la hostia, de un pedacito de pan, Él se da a sí mismo.

De todo eso habla la señal que les fue dada a los pastores y que se nos da a nosotros: el niño que se nos ha dado; el niño en el cual Dios se ha hecho pequeño por nosotros. Pidamos al Señor que nos dé la gracia de mirar esta noche el pesebre con la sencillez de los pastores para recibir así la alegría con la que ellos tornaron a casa (cf. Lc 2,20). Roguémoslo que nos dé la humildad y la fe con la que san José miró al niño que María había concebido del Espíritu Santo. Pidamos que nos conceda mirarlo con el amor con el cual María lo contempló. Y pidamos que la luz que vieron los pastores también nos ilumine y se cumpla en todo el mundo lo que los ángeles cantaron en aquella noche: «Gloria a Dios en el cielo y en la tierra paz a los hombres que ama el Señor». ¡Amén!

[01891-04.01] [Texto original: Italiano]

TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE

Amados irmãos e irmãs!

Acabamos de ouvir no Evangelho a palavra que os Anjos, na Noite santa, disseram aos pastores e que agora a Igreja grita para nós: «Nasceu-vos hoje, na cidade de David, um Salvador, que é o Messias Senhor. Isto vos servirá de sinal: achareis um Menino envolto em panos e deitado numa manjedoura» (Lc 2,11ss). Nada de maravilhoso, nada de extraordinário, nada de magnífico é dado como sinal aos pastores. Verão só um menino envolto em panos que, como todos os meninos, precisa dos cuidados maternos; um menino que nasceu num estábulo e, por isso, não está deitado num berço, mas numa manjedoura. O sinal de Deus é o menino carente de ajuda e pobre. Os pastores, somente com o coração, poderão ver que neste menino tornou-se realidade a promessa do profeta Isaías, que escutamos na primeira leitura: «Um Menino nasceu para nós, um filho nos foi concedido. Tem o poder sobre os ombros» (Is 9,5). A nós também não e nos dado um sinal distinto. O anjo de Deus, mediante a mensagem do Evangelho, nos convida também a encaminhar-nos com o coração para ver o menino que jaz na manjedoura.

O sinal de Deus é a simplicidade. O sinal de Deus é o menino. O sinal de Deus é que Ele faz-se pequeno por nós. Este é o seu modo de reinar. Ele não vem com poder e grandiosidades externas. Ele vem como menino - inerme e necessitado da nossa ajuda. Não nos quer dominar com a força. Tira-nos o medo da sua grandeza. Ele pede o nosso amor: por isto faz-se menino. Nada mais quer de nós senão o nosso amor, mediante o qual aprendemos espontaneamente a entrar nos seus sentimentos, no seu pensamento e na sua vontade - aprendemos a viver com Ele e a praticar com Ele a humildade da renúncia que faz parte da essência do amor. Deus fez-se pequeno a fim de que nós pudéssemos compreendê-Lo, acolhê-Lo, amá-Lo. Os Padres da Igreja, na sua tradução grega do Antigo Testamento, encontravam uma palavra do profeta Isaías que Paulo também cita para mostrar como os novos caminhos de Deus já fossem anunciados no Antigo Testamento. Assim se lia: «Deus tornou breve a sua Palavra, Ele abreviou-a» (Is 10,23; Rom 9,28). Os Padres interpretavam num duplo sentido. O mesmo Filho é a Palavra, o Logos; a Palavra eterna fez-se pequena - tão pequena a ponto de caber numa manjedoura. Fez-se menino, para que a Palavra possa ser compreendida por nós. Assim, Deus nos ensina a amar os pequeninos. Assim nos ensina a amar os frágeis. Deste modo, nos ensina a respeitar as crianças. O menino de Belém dirige o nosso olhar a todas as crianças que sofrem e são abusadas no mundo, os nascidos como não nascidos. Dirige-o a crianças que, como soldados, são introduzidas num mundo de violência; a crianças que são obrigadas a mendigar; a crianças que sofrem a miséria e a fome; a crianças que não experimentam sequer amor. Nelas todas é o menino de Belém que nos interpela; interpela-nos o Deus que se fez pequeno. Rezemos nesta noite, para que o esplendor do amor de Deus acaricie todos estas crianças, e peçamos-lhe que nos ajude a fazer o que podamos para que seja respeitada a dignidade das crianças; para que desponte a luz do amor da qual mais precisa o homem, e não das coisas materiais necessárias para viver.

Com isto chegamos ao segundo significado que os Padres encontraram na frase: «Ele abreviou-a». A Palavra que Deus nos comunica nos livros da Sagrada Escritura, ao longo dos tempos, tornou-se extensa. Extensa e complicada não só para as pessoas simples e analfabetas, mas inclusive muito mais para os entendidos de Sagrada Escritura, para os doutos que, claramente, perdiam-se nas particularidades e nos respectivos problemas, sem quase conseguir mais encontrar uma visão de conjunto. Jesus «abreviou» a Palavra - fez-nos rever a sua mais profunda simplicidade e unidade. Tudo aquilo que nos ensina a Lei e os profetas está resumido - Ele diz - na palavra: «Amarás ao Senhor, teu Deus, com todo o teu coração, com toda a tua alma e com toda a tua mente [...] Amarás a teu próximo como a ti mesmo» (Mt 22,37-40). Está tudo aí - toda a fé se resolve neste único ato de amor que abraça Deus e os homens. Logo a seguir, porém, surgem as perguntas: como podemos amar Deus com toda a nossa mente, se nos custa encontrá-lo com a nossa capacidade metal? Como amá-Lo com todo o nosso coração e a nossa alma, se este coração consegue entrevê-Lo só de longe e contempla tantas coisas contraditórias no mundo que velam o seu rosto diante de nós? Neste ponto se encontram os dois modos com os quais Deus «abreviou» a sua Palavra. Ele não está mais longe. Não é mais desconhecido. Não é inalcançável para o nosso coração. Fez-se menino por nós e, com isto, dissolveu toda ambigüidade. Fez-se o nosso próximo, restabelecendo também deste modo a imagem do homem que, com freqüência, se nos revela tão pouco amável. Deus, por nós, fez-se dom. Doou-se a si próprio. Perde tempo conosco. Ele, o Eterno que supera o tempo, assumiu o tempo, atraiu a si próprio para o alto o nosso tempo. O Natal veio a ser a festa dos dons para imitar Deus que por nós doou-se a si próprio. Deixemos que o nosso coração, a nossa alma e a nossa mente fiquem tocados por este fato! Entre os inúmeros dons que compramos e recebemos não esqueçamos o verdadeiro dom: de doarmos-nos mutuamente algo de nós próprios! De doarmos-nos mutuamente o nosso tempo. De abrir o nosso tempo para Deus. Assim desvanece-se a agitação. Deste modo brota a alegria, assim se cria a festa. E lembremos nos banquetes festivos destes dias a palavra do Senhor: «Quando deres um banquete, não convides os que, por sua vez, vão retribuir-te, mas convida os que não são convidados por ninguém e não poderão convidar-te» (cf. Lc 14,12-14). Isto também significa precisamente: Quando deres um presente de Natal não o faças só aos que, por sua vez, te fazem presentes, mas fá-lo aos que não o recebem de ninguém e que nada podem retribuir-te. Assim mesmo fez o Senhor: Ele nos convida ao seu banquete de bodas que não podemos retribuir, que só podemos receber com alegria. Imitemos-lo! Amemos a Deus e, por Ele, também ao homem, para depois redescobrir a Deus, a partir dos homens, de um novo modo!

Surge, enfim, ainda um terceiro significado da afirmação sobre a Palavra feita «breve» e «pequena». Aos pastores foi dito que teriam encontrado o menino numa manjedoura para animais, que eram os verdadeiros habitantes do estábulo. Lendo Isaías (1,3) os Padres deduziram que junto à manjedoura de Belém estavam um boi e um asno. Interpretaram assim o texto no sentido de que haveria um símbolo dos judeus e dos pagãos - portanto, de toda a humanidade - que, uns e outros, necessitam, ao seu modo, de um salvador: daquele Deus que se fez menino. O homem, para viver, precisa de pão, do fruto da terra e do seu trabalho. Mas não vive só de pão. Precisa de alimento para a sua alma: precisa de um sentido que encha a sua vida. Por isto, segundo os Padres, a manjedoura dos animais veio a ser o símbolo do altar, sobre o qual jaz o Pão que é o mesmo Cristo: o verdadeiro alimento para os nossos corações. Uma vez mais vemos como Ele se fez pequeno: na humilde aparência da hóstia, de um pedacinho de pão, Ele se nos doa si próprio.

De tudo isto nos diz o sinal que foi dado aos pastores e que nos vem dado: o menino nos foi dado; o menino no qual Deus se fez pequeno por nós. Rezemos ao Senhor para que nos dê a graça de ver nesta noite o presépio com a simplicidade dos pastores, para receber assim a alegria com a qual eles voltam para casa (cf. Lc 2,20). Peçamos que nos dê a humildade e a fé com a qual São José contemplou o menino que Maria tinha concebido pelo Espírito Santo. Peçamos que nos ajude a vê-Lo com aquele amor com que Maria o contemplava. E, assim, peçamos por que a luz que viram os pastores, também nos ilumine e que se cumpra em todo o mundo aquilo que os anjos cantaram naquela noite: «Glória a Deus no mais alto dos céus e paz na terra aos homens por Ele amados». Amém.

[01891-06.01] [Texto original: Italiano]

[B0674-XX.02]