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CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’OPERA METAFISICA DELLA PERSONA. TUTTE LE OPERE FILOSOFICHE E SAGGI INTEGRATIVI DI KAROL WOJTYŁA, 13.10.2003


CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’OPERA METAFISICA DELLA PERSONA. TUTTE LE OPERE FILOSOFICHE E SAGGI INTEGRATIVI DI KAROL WOJTYŁA

INTERVENTO DEL PROF. GIOVANNI REALE

INTERVENTO DEL PROF. TADEUSZ STICZEŃ

INTERVENTO DELL’ON.LE PROF. ROCCO BUTTIGLIONE

Alle 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto luogo la Conferenza Stampa di presentazione dell’opera Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi di Karol Wojtyła, edita dalla Bompiani.

Hanno preso parte alla Conferenza Stampa il Prof. Giovanni Reale, curatore dell’opera, il Prof. Tadeusz Styczeń, curatore dell’opera e l’On.le Prof. Rocco Buttiglione.

Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

INTERVENTO DEL PROF. GIOVANNI REALE 

Karol Wojtyła - come pochi altri - si è espresso in quelle tre forme che Hegel intendeva come le supreme categorie dello Spirito assoluto, ossia attraverso l'"arte", la "filosofia" e la "religione". Ha iniziato proprio a esprimere i suoi pensieri mediante l'arte; poi ha scelto la via religiosa del sacerdozio e ha espresso i suoi pensieri in dimensione teologica; successivamente si è dedicato alla filosofia, e ha espresso i suoi pensieri soprattutto in qualità di professore di filosofia morale all'Università Cattolica di Lublino. Ma per la filosofia ha sempre avuto una passione del tutto particolare. Ricordo un fatto particolarmente eloquente. All'inizio degli anni novanta mi telefonò il decano della facoltà di filosofia dell'Università del Laterano, dicendomi che il Sommo Pontefice avrebbe gradito (nel caso che io fossi d'accordo) ricevere la Metafisica di Aristotele e le opere su questo scritto da me curate, che avevo da poco rieditato. Stupito della richiesta, ho risposto che tali opere le avevo già inviate in Vaticano. E il decano mi disse: quelle opere sono andate in biblioteca; ma il Pontefice, quando torna dai suoi faticosi viaggi, si riposa leggendo la Metafisica di Aristotele e la Summa di Tommaso, sottolineando e annotando i testi. Gli amici polacchi mi hanno poi informato che anche quando era Cardinale di Cracovia nei pochi giorni di riposo, convocava filosofi per discutere di filosofia. E lo stesso ha continuato a fare nelle sue vacanze estive a Castelgandolfo.

Quale è, allora, la posizione che Wojtyła assume nei confronti della filosofia? La risposta alla domanda è duplice. Wojtyła in quanto Pontefice, dà una risposta. Wojtyła come uomo del secolo ne dà un'altra, che è convergente, ma che si differenzia in modo preciso.

La risposta del Pontefice è la seguente: "La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre". Infatti, la filosofia procede secondo suoi metodi e quindi ha una sua autonomia rispetto alla fede. Non è compito, pertanto, del Magistero della Chiesa quello di creare una propria filosofia, ma, piuttosto, quello di reagire contro quelle tesi filosofiche che portano alla negazione del dato rivelato e privano la fede dello spazio che le è proprio.

Ma non si parla spesso di "filosofia cristiana"?

L'espressione è corretta, ma solo se non si intende con essa una sorta di "filosofia ufficiale della Chiesa", in quanto la "fede" non si identifica con la "filosofia". Giovanni Paolo II fa a questo riguardo una affermazione di grande portata: "Parlando di filosofia cristiana si intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana".

Ed ecco come la risposta di Wojtyła uomo del secolo si differenzia da quella di Wojtyła pontefice. Nella ripubblicazione delle opere filosofiche da lui scritte come professore di filosofia morale all'Università Cattolica di Lublino, egli impone che venga scritto solo il suo nome Karol Wojtyła e non quello, o anche quello, di Giovanni Paolo II; in quanto Wojtyła, infatti, parla come filosofo del secolo, mentre Giovanni Paolo II parla come successore di Pietro e quindi come custode e diffusore della rivelazione di Cristo: pertanto i due ruoli devono restare emblematicamente distinti. La fede ha infatti un valore "metaculturale". La fede cristiana può essere accolta da ogni forma di cultura; ma proprio per questo non è riducibile ad alcuna cultura.

Il Pontefice precisa: "una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio". In conclusione: la fede cristiana può essere accolta da ogni forma di cultura; ma proprio per questo non è riducibile ad alcuna cultura.

Veniamo ai punti-chiave dei problemi trattati nelle opere filosofiche complete contenute nel libro che presentiamo.

Da che cosa nasce nell'uomo il bisogno di filosofare? Wojtyła, come i filosofi greci, porta in primo piano la "meraviglia" come origine della filosofia, ma indica in modo specifico l'oggetto della meraviglia non già, come i Greci, nei fenomeni del cosmo, bensì nell'"uomo". L'uomo è "soggetto" e "oggetto" di meraviglia.

In Persona e atto si legge: "L'uomo, scopritore di tanti segreti della natura, deve essere incessantemente riscoperto. Rimanendo sempre in qualche modo "un essere sconosciuto", egli esige continuamente una nuova e sempre più matura espressione della sua natura [...]. L'uomo non può perdere il posto che gli è proprio in quel mondo che egli stesso ha configurato". Wojtyła precisa che come pensatore dipende, da un lato, dai sistemi della metafisica, dell'antropologia e dell'etica aristotelico-tomistica, dall'altro, dalla fenomenologia, soprattutto nell'interpretazione di Scheler. Il metodo fenomenologico con cui Wojtyła studia l'uomo in Persona e atto e nei saggi successivi - applicato con finezza, con analisi dettagliate e descrizioni dell'esperienza della coscienza fin nei minimi particolari - capovolge il metodo dell'analisi metafisica tradizionale. Questa, infatti, si incentrava sullo studio della struttura ontologica della persona, deducendo tutta una serie di conseguenze concernenti le sue azioni; l'analisi fenomenologica che Wojtyła segue, non parte dalla persona, ma giunge ad essa: studia l'azione umana e fa vedere come proprio nell'azione e mediante l'azione si riveli la persona. La "persona" in quanto tale nel pensiero ellenico non è stata portata a livello di assoluta superiorità assiologica nell'ambito degli enti.

Aristotele afferma che l'intelligenza dell'uomo è la cosa più elevata, e che la vita secondo l'intelligenza è vita divina in quanto Dio è Intelligenza suprema. Tuttavia scrive: "Vi sono altre cose più divine dell'uomo per natura, come, per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l'universo". E così pensano anche gli altri filosofi greci, come per esempio Plotino, che scrive: "l'uomo non è il migliore degli esseri viventi".

Platone scriveva addirittura: "Ciascuno di noi esseri viventi è come un mirabile burattino costruito dagli dei, non si sa se per gioco o per qualche mirabile motivo".

Solo sulla base del messaggio cristiano l'uomo ha scoperto di avere valore assoluto come persona. Già nella Genesi si dice che l'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio; ma soprattutto con Cristo, il Figlio di Dio che si incarna nell'uomo, viene conferito all'uomo stesso una sacralità di persona in senso totale. Sono stati Padri della Chiesa greci e latini a elaborare sulla base dei testi sacri il concetto di persona. Agostino scrive in due testi veramente provocatori e dirompenti: "Se Cristo è il capo e noi le membra, l'uomo totale è lui e noi (totus homo, ille et nos)". "Dio si è fatto uomo; che cosa diventerà l'uomo, se per lui Dio si è fatto uomo?". Tommaso d'Aquino scrive: "Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura" I libri di Wojtyła si impongono come espressione emblematica di "metafisica della persona". Raramente si sono scritte opere con una difesa dell'uomo così forte e così convincente.

La concezione dell'uomo che invece si è diffusa in età moderna e che si è imposta in età contemporanea è "individualistica", ed è incentrata sulla singolarità dell'uomo come "individuo". Si tratta di una concezione "a-personalistica" o addirittura "anti-personalistica", che si oppone all'essenza stessa dell'uomo come ««persona»», dato che è iscritto nella stessa natura dell'uomo il rapporto strutturale con l'altro.

Edgar Morin (che non è un credente) fa alcune affermazioni esatte, basate sulla pura analisi dei fatti, e scrive: "Diventata religione dell'uomo, l'umanesimo rompe con il cristianesimo che, in quanto religione dell'uomo, non potrebbe fondarsi sull'uomo". E precisa: "L'assoluta laicizzazione pone in maniera incosciente l'assoluta divinizzazione dell'oggetto laicizzato", con le conseguenze che ciò comporta, ossia con il rovesciamento nel suo contrario. Infatti, si sta sempre più diffondendo - sia pure mascherato in vario modo - il pensiero di Nietzsche, che definiva l'uomo come "l'animale non ancora stabilizzato", vale a dire come un "animale incompiuto", non ancora definito. Ricordiamo che Nietzsche dava dell'uomo giudizi negativi veramente impressionanti, come per esempio questi: l'uomo è "una delle più raffinate bestie da preda", "la migliore belva feroce", "il più crudele degli animali", "una delle malattie della terra".

Nietzsche affermava che era ormai avvenuta "la morte di Dio", e che l'uccisore di Dio era stato l'uomo stesso.

Michel Foucault, nel suo libro Les mots et les choses, scrive: "Più che la morte di Dio - o meglio nella scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa - il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore". La morte di Dio comporta, come necessaria conseguenza, la morte dell'uomo stesso.

Si può uscire da questa tragica situazione solo ricuperando il concetto di persona in tutto il suo spessore. "Nella filosofia greco-romana - è stato giustamente detto - l'uomo cercava di spiegare sè e la propria vita con il mondo, ma quello restava muto. Adesso, al contrario, parla con Dio, e Dio parla all'uomo. In questo dialogo l'uomo può dire 'Io'; si forma un uomo nuovo". Agostino, in particolare nelle Confessioni, ha espresso questo incontro fra "Dio come persona" e "uomo come persona" in modo paradigmatico.

Wojtyła ribadisce e puntualizza questo concetto, affermando quanto segue: "Dio, in senso particolare, è Creatore della persona, poiché essa in una certa misura rispecchia Lui stesso. Creatore della persona, Dio è per ciò stesso fonte dell'ordine personalistico".

L'uomo è simile a Dio non solo per la sua intelligenza, ma proprio come "persona"; e per essere veramente persona, deve instaurare un rapporto di partecipazione, solidarietà e comunità con altre persone. L'Interazione Assoluta delle tre Persone della Trinità costituisce il paradigma, ossia il modello, nella costituzione della persona umana, il "modello" di cui l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza.

Potremmo riassumere il valore assoluto della persona che emerge dall'opera di Wojtyła con uno splendido aforisma di Gómez Dávila: "Ciò che non è persona in fondo non è nulla".

Ma proprio per capire l'importanza che oggi hanno questi messaggi di Wojtyła, conviene richiamare la posizione antitetica estremistica assunta da Sartre (e da non pochi implicitamente, - anche se non esplicitamente - condivisa). Nel 1944 è stato rappresentato a Parigi il secondo dramma sartriano dal titolo A porte chiuse, in cui viene sostenuta la tesi della avversione implacabile e radicale che sussiste fra uomo e uomo. Il personaggio Garcin, condannato nell'Inferno alla pena di vivere insieme a Estella e a Ines, a un certo punto chiede che gli vengano aperte le porte e di venire sottoposto a qualsiasi tortura, pur di non essere costretto a convivere con quelle due donne, perché tale convivenza è "tortura di cervello, [...] larva di sofferenza, che ti striscia, ti rasenta, non ti fa mai male abbastanza". E verso la fine Sartre fa trarre a Garcin queste conclusioni: "E' questo dunque l'Inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Il solfo, il rogo, la graticola... buffonate! Nessun bisogno di graticole; l'Inferno sono gli altri".

Fin dall'inizio, Wojtyła ha sostenuto proprio l'opposto: l'uomo, per essere veramente uomo e quindi realizzarsi come persona, non può vivere se non in comunione con gli altri e per gli altri.

Entriamo così nel grande tema dell'amore, che costituisce l'altro asse-portante di tutta quanta l'opera di Wojtyła, sia filosofica, sia poetica, sia teologica.

Ancora una volta converrà richiamare un modello antitetico - un grandioso «contro-modello» - che ci fa ben comprendere le novità del concetto cristiano di amore. Come è noto, l'interpretazione più elevata che è stata data del concetto di amore sul piano della pura ragione è quella di Platone. Secondo il filosofo, Eros è una possente forza in continua ricerca del bello e del bene, ed è capacità di acquisire e possedere il bello e il bene a livello sempre più alto.

L'amore è pertanto una forza "acquisitiva" e "possessiva". Inoltre, l'amore cresce sempre di più in proporzione alla grandezza dell'oggetto amato: tanto è più grande l'amore quanto più grande è il suo oggetto. L'amore cristiano capovolge radicalmente questa concezione: l'agape non è amore "acquisitivo" ma "donativo"; la grandezza dell'amore è concepita addirittura come inversamente proporzionale alla grandezza dell'oggetto amato. Due testi di Kierkegaard ci faranno ben comprendere la differenza strutturale delle due forme di amore e quindi la posizione assunta da Wojtyła. "<Cristo> non trovò mai un tetto tanto misero che gli impedisse di entrare con gioia, mai un uomo tanto insignificante da non voler collocare la sua dimora nel suo cuore, così come non ha mai rinnegato la sua autorità divina. [...] Quando starai per dubitare, nell'ora opportuna sentirai la certezza celeste".

"Il sillogismo <dell'amore> è questo. L'amore (cioè il vero amore, non l'amor proprio che ama soltanto ciò che è egregio, eccellente ecc., quindi in fondo non ama che se stesso), sta in rapporto inverso rispetto alla grandezza e all'eccellenza dell'oggetto. Se quindi io sono proprio una nullità: se nella mia miseria io mi sento il più miserabile di tutti i miserabili: bene, è certo allora, eternamente certo, che Dio mi ama. - Cristo dice: 'Neppure un passero cade in terra, senza la volontà del Padre' [Mt. 10, 29]. Oh, io faccio un'offerta più umile ancora: davanti a Dio io sono meno di un passero: tanto è più certo allora che Dio mi ama, tanto più saldamente si chiude il sillogismo - Sì, lo Zar delle Russie, di lui si potrebbe pensare che Dio lo potrebbe trascurare: Dio ha tante altre cose da ascoltare! E lo Zar delle Russie è una cosa tanto grande. Ma un passero... no, no... perché Dio è amore, e l'amore si rapporta inversamente alla grandezza e all'eccellenza dell'oggetto. - Quando ti senti abbandonato nel mondo, sofferente, quando nessuno si prende cura di te, tu concludi: 'Ecco che Dio non si prende cura di me'. Vergognati, stolto e calunniatore che sei!, tu che parli così di Dio. No, proprio chi è più abbandonato sulla terra, egli è più amato da Dio". In tutta l'opera filosofica e poetica di Wojtyła si porta in primo piano il concetto di amore come "donazione". L'"auto-realizzazione", ossia la piena attuazione di se stessi - non può verificarsi se non mediante l'"auto-trascendenza" della persona, ossia mediante l'agire insieme agli altri e per gli altri. L'auto-realizzazione, quindi, può realizzarsi e completarsi solo nel saper "donarsi" agli altri. E proprio donandosi, l'uomo non solo diventa pienamente se stesso, ma accresce se stesso.

Già da giovane Wojtyła aveva ben compreso l'enorme importanza dell'amore in senso donativo, e non ancora ventenne scriveva:"L'amore mi ha spiegato ogni cosa, l'amore ha risolto tutto per me - perciò ammiro questo Amore dovunque Esso si trovi".

E in Amore e responsabilità c'è una frase che tratteggia la figura morale e spirituale di Wojtyła in maniera perfetta proprio nella dimensione dell'amore donativo: "L'uomo giunge alla conclusione che, per essere interamente giusto verso il Creatore, deve offrirgli tutto ciò che ha in sé, tutto il suo essere...".

È appunto questo che Wojtyła ha fatto per tutta la sua vita, e che - come ogni giorno constatiamo - continua a fare, senza tregua e senza riserve.

[01561-01.02] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DEL PROF. TADEUSZ STICZEŃ

RICUPERARE IL TEMPO PERDUTO
LA PREGHIERA DEL GETSEMANI, OGGI, CONTINUA

Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? (Mc. 14, 37)

Lublino, 16 Ottobre 1978, Lunedì. Alle ore 19.15 squillò il telefono: era il Decano della Facoltà di Filosofia della locale Università Cattolica, il Prof. Stanislaw Kaminski, di indimenticabile memoria. Disse soltanto queste parole: "Karol Wojtyła è Papa". Cadde il silenzio, dopo un attimo riattaccammo.

Agli occhi dell’immaginazione mi si presentò, subito, il volto affaticato di Paolo VI, simbolo e martire della grande causa dell’uomo di oggi: della sua dignità come persona e della sua vita come bene fondamentale per la persona; ed insieme difensore della dignità del matrimonio e della famiglia come comunità originaria, fondamento della comunità universale - famiglia di famiglie.

Mi ricordai, nel contempo, di quando il Cardinale Wojtyła, predicando in Vaticano, nel 1976, gli Esercizi Spirituali quaresimali, aveva rivolto l’attenzione di Paolo VI sul totale abbandono di Cristo nel Getsemani. Disse al Papa, in quella occasione, che la Chiesa avrebbe dovuto assumersi il compito di recuperare quella singolare possibilità data agli uomini nel Getsemani e da essi perduta, di consolare il Dio-Uomo. Cristo si rivolge per ben tre volte agli Apostoli, ai tre prediletti tra i dodici - fra i quali c’è Pietro, mostrando loro la drammaticità del momento e chiedendo di vegliare con Lui: "Vegliate con me e pregate" (cfr. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46). E’ questa l’unica volta in cui Gesù Cristo, Dio-Uomo, chiede agli uomini di essere sostenuto, di essere consolato, ascoltato: i prediletti dormono! Eppure Lui, poco prima, nel Cenacolo, nell’ora dell’Eucarestia, si era gettato ai loro piedi e glieli aveva lavati, mentre essi non cessavano, come Pietro e Filippo, di fare a gara nell’assicurargli fedeltà: "Signore, mostraci il Padre, e questo ci basta" (Gv 14,8).

Ecco perché il Cardinale di Cracovia aveva esortato il Papa, con tanto ardore, a tentare - così potrebbe sembrare - l’impossibile: recuperare la storia, ossia riprendere l’occasione perduta dagli uomini duemila anni prima, di consolare Dio; tradurre, cioè, nella realtà di oggi quell’invito: "Vegliate!" rimasto allora inascoltato. 
"La preghiera nell’Orto degli Ulivi continua", ripeté Karol Wojtyła.

Queste parole pronunciate durante gli esercizi, e pubblicate nel libro "Segno di contraddizione", erano scese profondamente in me 1. Così, quando quel 16 Ottobre il Prof. Kaminski mi disse: "Karol Wojtyła è Papa", pensai: Dio ha preso sul serio l’appello del Cardinale di Cracovia.

Lo ha ascoltato, con questa sola differenza, che lo Spirito Santo ha cambiato il destinatario della richiesta: da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Di sicuro, Paolo VI, non avrebbe potuto avere motivo di maggiore gioia in cielo, poiché Dio aveva posto il peso della responsabilità di salvare l’ideale della santità del matrimonio, e del suo frutto che è la vita, nel cuore di colui che gli era succeduto.

Io, intanto, fui preso da paura. Piansi - non mi vergogno di quelle lacrime - al pensiero che il volto di Paolo VI sarebbe diventato, nel tempo, quello di Giovanni Paolo II. Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo!

Il senso di paura, anche se non mi lasciava convinto, mi passò solamente Sabato 21 Ottobre mentre osservavo il mio Maestro la sera, durante la cena. La serenità che promanava mi contagiò.

L’indomani, giorno dell’inaugurazione del suo pontificato, Papa Giovanni Paolo II esclamò in Piazza S. Pietro: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!"2.

Egli infatti, appoggiato alla Croce, da quella medesima piazza, altro non desiderava fin dal primo momento che aiutare gli uomini ad aprire il cuore a Cristo.

"Egli sa Chi tiene, Egli sa Chi lo sostiene", bisbiglia la gente: eppure Egli tiene fra le mani solo una croce. Per quale motivo allora la gente vede più di una semplice croce?

Da subito il Papa affascina il mondo intero con l’affermazione centrale della sua prima enciclica Redemptor hominis: "L’uomo è la via della Chiesa" (nr.14). Sì, perché la Chiesa di Cristo è appunto questo: la via dello stesso Cristo verso ciascuno di noi, la via del Dio-Uomo verso ciascuno uomo, a motivo di ciascuno di noi. In che cosa consiste questo motivo? Non lo ha mostrato forse lo stesso Cristo, quando durante l’ultima Cena, si è inginocchiato davanti agli Apostoli per lavare loro i piedi? E questo avvenne nel contesto dell’istituzione della Eucaristia. Perché lo fece? Non forse pensando a ciascuno di noi? Non era diventato uomo per questo? Non era diventato pane per noi proprio per questo? Cur Deus Homo, Cur Deus Panis? Che cosa Lo spinse ad intraprendere questa via?

La risposta la fornisce la Chiesa quando la notte di Pasqua osa, stupita, levare a Dio l’Inno di ringraziamento: "O felix culpa...". E quindi la colpa: la mia, la nostra colpa; il mio, il nostro peccato; mea culpa, peccatum meum, hanno deciso della presenza di Dio, nella persona del Dio-Uomo e sotto le specie del pane e del vino: fra di noi, a motivo nostro, per noi. Ecco la risposta di Dio al nostro peccato. Dio con noi! Dio fra noi! Ancor più, Dio in noi! Emmanuel!

Giovanni Paolo II disse propriamente questo il giorno dell’inaugurazione del Suo pontificato in Piazza S. Pietro. E non lo ripete da allora, ogni giorno, in maniera straordinariamente significativa, anche senza ricorrere alle parole? E similmente a Cristo che lava i piedi ai suoi discepoli nel Cenacolo, non lo manifesta in particolare nel modo in cui celebra l’Eucarestia? Nel modo in cui ad essa si prepara e nel modo in cui prolunga il ringraziamento? E parimenti quando ogni Giovedì pratica quella sua devozione cosiddetta "Consolazione per Gesù", con cui desidera riparare l’abbandono in cui è lasciato nelle chiese vuote ?

Oggi ci accorgiamo che tutto questo si riannoda in modo chiaro a quel tentativo di recuperare l’occasione perduta di consolare il Dio-Uomo nel Getsemani. Dal momento che Egli, nonostante i suoi eletti si fossero addormentati, non ha ritirato la sua richiesta e fino ad oggi dà a noi la possibilità di consolarLo chiamandoci a proclamare il Suo nome a tutte le nazioni (cfr Mt 28,19), tale missione non si riferisce, oggi, a ciascuno di noi? Ed il prenderci particolare cura del più debole fra di noi, giacché "Tutto quello che avete fatto ad uno di questi piccoli, lo avete fatto a me" (Mt 25,40), non è espressione e verifica dell’accogliere, noi, quella missione come nostro compito?3.

L’apostolo Giovanni - lo ricordiamo - coglie l’occasione che gli si offre di nuovo, quando subito dopo, unico discepolo sta sotto la croce, accanto alla Madre di Gesù: riceve Questa in dono, divenendone figlio e perciò stesso "Fratello del nostro Dio", fratello di Colui che la notte precedente non aveva consolato. San Paolo, parimenti, coglie tutta l’ampiezza di quella richiesta allorché afferma: "Per me vivere è Cristo" (Fil 1,21), ed altrove "Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo" (Col 1,24).

Possiamo affermare che Giovanni Paolo II unisce e armonizza in sé i carismi di questi due Apostoli. Anche se, chiaramente, ne possiede uno proprio ed irripetibile: il carisma di un Papa affascinato da Dio in ragione dell’uomo ed affascinato dall’uomo in ragione di Dio; di un Papa nel quale Dio Creatore, ponendosi sulle strade dell’uomo come Dio-Uomo, sprigiona la necessità di donare sé stesso a Lui senza riserve; donare la propria vita con tutti i talenti ed in ogni modo possibile, inclusa la sofferenza, fino alla Croce. Come non soffermarsi, a questo punto, sulle parole che sono l’espressione di un profondo convincimento personale e a noi confessato nella lettera apostolica Nuovo Millennio Ineunte: "Passa davanti al nostro sguardo l’intensità della scena dell’agonia nell’orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, Lo invoca con la sua abituale e tenera espressione di confidenza: "Abbà, Padre". Gli chiede di allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr. Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler ascoltare la voce del figlio. Per riportare all’uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell’uomo, ma caricarsi persino del "volto" del peccato. "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" (2Cor 5,21). Non finiremo mai di indagare l’abisso di questo mistero (...). Mistero nel mistero davanti al quale l’essere umano non può che prostrarsi in adorazione" (Novo Millennio Ineunte nr. 25).

Sintesi ed espressione dell’atteggiamento proprio di Karol Wojtyła non è forse il suo motto episcopale Totus Tuus, motto che ci permette di scorgere anche quale insostituibile ruolo nella sua relazione con Cristo svolge Maria, Vergine e Madre del Salvatore di noi tutti 4?

Mi ritrovo a pensare oggi, sempre più spesso, ai due volti: di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Che cosa li accomuna? Non forse il fatto che, con il passare degli anni, sempre più evidenti vediamo in loro i segni della fatica al servizio della medesima causa? Una immagine in particolare, ne è diventata il simbolo espressivo: Giovanni Paolo II tiene fra le mani la medesima Croce che appartenne a Paolo VI. Solo in senso materiale? Sicuramente no!

Paolo VI aveva avuto, proprio nell’anno della rivoluzione sessuale - espressione della moderna svolta antropologica, il coraggio di pubblicare quell’importante documento che è l’enciclica Humanae Vitae. Circostanza che mostra con chiarezza la vastità della sua missione di Maestro e Pastore della Chiesa. Del resto egli stesso aveva scelto come tema del Sinodo dei Vescovi, che si sarebbe svolto nel 1980, la problematica del "matrimonio e famiglia nel mondo contemporaneo". Chi avrebbe allora immaginato che ad affrontare quel tema, come successore: Maestro e Pastore, sarebbe stato Karol Wojtyła?

Giovanni Paolo II aveva affrontato questo tema già come professore dell’Università Cattolica di Lublino, nel corso suo monografico "Amore e responsabilità"5, in cui dimostra che l’atto matrimoniale è l’espressione di un totale reciproco dono, dell’uomo e della donna, di se stessi, ed è l’espressione per tanto della loro irrevocabile communio personarum; ma ne aveva svelato, direttamente, i fondamenti filosofici, con maggiore profondità ed originalità insieme nella dissertazione "Persona ed atto"6 al fine di fornirgli un profilo adeguato e che precisa con un termine: "Teologia del corpo".

Il punto di cesura che lega le due dimensioni - la filosofica e la teologica - del tema assunto, diventa la frase-tesi di Karol Wojtyła, contenuta nella sua opera poetica "La nascita dei confessori": "Ma se c’è in me la verità - deve esplodere / Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso"7. Nell’interrogativo facilmente da comprendere: "E se io la calpestassi?"

Wojtyła filosofo e poeta si incontra qui con Ovidio, poeta e filosofo nell’autodiagnosi morale in cui ciascuno di noi deve onestamente riconoscersi: "Video meliora proboque, deteriora sequor; "Vedo il bene e lo approvo, ma seguo il male"8. Non diventiamo forse tutti a tal punto, esattamente come Ovidio e Wojtyła, filosofi, a nostro modo, del comune dramma umano e della nostra grande speranza, filosofi dell’Attesa? E’ sufficiente del resto osservare che l'uomo, negando se stesso, nega anche Colui per il cui dono esistiamo e siamo, cioè il nostro munifico Creatore. Questi, da noi rifiutato, non diventa allora per ciascuno l'unica Sorgente di speranza per la nostra salvezza dal momento che da soli non riusciamo ormai, come abbiamo affermato, a fare nulla in riguardo ad essa?

Karol Wojtyła portò avanti l’analisi sulla "Teologia del corpo" - includendovi il problema del matrimonio - prima ancora di diventare Papa; una volta divenuto tale, potè consegnare ai partecipanti al Sinodo del 1980, un lavoro dal titolo "Cristo si richiama al Principio", documento che costituisce come un’ouverture all’opera teologica: "Maschio e Femmina li creò"9.

L’esortazione postsinodale Familiaris consortio con la dichiarazione fondamentale: "Il futuro del mondo passa attraverso la famiglia", costituirà il degno coronamento e l’asse portante del lavoro pastorale del Papa a favore del matrimonio e della famiglia in quanto comunità che nella vita della comunità umana – famiglia di famiglie – introduce la logica del dono 10.

Il 13 Maggio 1981 Giovanni Paolo II aveva intenzione d’informare i Fedeli, riuniti in Piazza S. Pietro, di due importanti iniziative: la costituzione del Pontificio Consiglio per il Matrimonio e la Famiglia e la fondazione, presso il Laterano, del Pontificio Istituto di Studi sul Matrimonio e sulla Famiglia. Sappiamo cosa avvenne quel giorno11.

Mi solleva il peso che porto

Ricordo di aver pensato, mentre mi recavo in clinica a fargli visita, "Come farà a tornare su quella piazza?", preoccupazione che mi manifestò anche Don Stanislao Dziwisz, Suo segretario particolare.

Ma uscì di nuovo su quella piazza, senza ombra di paura. Con una sorta di stupore Milovan Dzilas scriverà su «Die Welt» "(...) come se avesse atteso, fin dall’inizio, quel momento cruciale, come se si fosse detto: "Se le pallottole mi colpiranno, porteranno la vittoria, non la sconfitta"".

E ripartì intrepido per le strade del mondo, fedele al programma della sua prima enciclica Redemptor hominis, percorrendo tutte le vie dell’uomo. Come spiegare questo continuo andare di Giovanni Paolo II?

Per tutte le strade, incontro all’uomo va proprio Lui, l’Uomo del Cenacolo, l’Uomo dei Getsemani: il Redemptor Hominis. È Lui, l’Uomo-Dio, nel nome della Trinità, a dare la misura del valore di ogni singolo uomo, col gettarsi nel Cenacolo ai piedi non solo degli Apostoli ma di noi tutti.

Cur Deus Homo ai piedi dell’uomo? Cur Deus Panis come cibo per l’uomo? Tanto più vicino all’uomo, quanto più è nascosto in lui! Facendosi Uomo per l’uomo - divenne per l’uomo - anche pane, per potersi nascondere in lui, nel modo più umile.

Com’è grande ai Suoi occhi la dignità dell’uomo nonostante il peccato, dal momento che se ne prende cura in tal modo!

Com’è grande la misura del peccato agli occhi di Dio, se si è reso necessario un tale intervento!

Com’è immenso l’amore verso di noi, amore ricco di misericordia, se Egli è pronto ad un tale intervento fino alla "pazzia della croce"!

Ecco il «perché» del gesto di Giovanni Paolo II, quando sull’esempio di Cristo, baciando la terra del paese che sta visitando, si prostra ai piedi di coloro che la calpestano: è il suo primo saluto. Senza parole, con il servirsi del linguaggio gestuale e corporeo vuole appunto dire: Dio ai piedi dell’uomo! Fa così Colui che come Creatore ha messo ai piedi dell’uomo il mondo intero (cfr. Salmo 8).

Come dunque non rendere lode a Dio che è presente nello stesso modo in me e in ogni uomo: Dio Creatore di tutti noi, Dio-Salvatore di noi tutti? Come allora non rispettare l’uomo nella sua irripetibilità, ogni singolo uomo, altrimenti che in questo modo? L’atto di baciare la terra, questo il più bel commento a tutti gli altri gesti che il Papa-Pellegrino - in persona Christi - compirà in seguito - inclusa la Eucaristia; e a tutte le parole e agli sguardi che indirizzerà alle folle e che avrà negli incontri personali.

Il portare Cristo fino ai confini della terra cominciando da quel gesto simbolico costituisce il tentativo di recuperare l’occasione propria del Getsemani. Ma è anche il forte desiderio di dire a ciascuno di noi: Guarda quanto vali, se vali tanto per Dio stesso. Senza di te tutto il mondo non sarebbe, per Me tuo Creatore, lo stesso mondo: per questo ci sei!

Soltanto su questo sfondo, l’esclamazione di Wojtyła, in Vaticano, nel corso di quegli Esercizi spirituali: "La preghiera nel Getsemani continua", svela il suo pieno senso, il senso del Suo Totus Tuus. Le stesse parole vogliono esortare noi tutti a pronunciare davanti a Dio il nostro personale Totus Tuus. Non è forse oggi il volto del Papa affaticato, appoggiato alla croce, a svelare al mondo proprio questo senso?

Mi capita di sentire sempre più spesso gente che grida: "Pietro, Pietro!". Da dove viene il grido che invoca Pietro proprio nel gesto di stringersi alla croce?

La risposta alla domanda sgorga spontanea in forza del contrasto: "per opposita cognoscitur".

Il poeta scrive: il girasole si può descrivere meglio in inverno, il pane attraverso la fame, il volo dell’uccello paragonato alla pietra. Penso che il Santo Padre ci sfida con la forza del suo spirito, nonostante la fragilità del corpo. Attraverso la debolezza del suo corpo si irraggia, infatti, Colui al quale permette in se e per suo mezzo di parlare, Colui che lo riempie della propria Forza. Io penso che attualmente si stia rendendo visibile questo contrasto tra il Papa, quasi ricurvo sotto il peso della croce, e la forza dello spirito, con cui porta questa croce. In modo chiaro, mostra a noi, attraverso il suo fragile corpo, Colui accanto al quale vuole rimanere nel Getsemani, per consolare, insieme a quanti soffrono, Dio a nome di tutti noi. Vuole rendere possibile l’impossibile: cogliere per noi tutti l’occasione perduta dai primi rappresentanti della Chiesa, fra essi lo stesso Pietro. Liberato dalla paura di fronte a chiunque, per amore a Cristo, ed a ciascuno di noi in Cristo, porta Questi all’uomo. Lo porta con fatica in un corpo fragile, lo porta anche a chi Lo respinge. La gente se ne rende conto: "Ecco il nostro Papa infaticabile nello sforzo di portare Cristo e di varcare le soglie della speranza!".

Come Egli riesce a portare tale peso? Non senza motivo, noi continuiamo a chiamarlo "Il Parroco del mondo", "Il Parroco dei cinque continenti"; e molti, tuttavia, si chiedono: "Come riesce ad affrontare tutto questo?" E di nuovo hanno ragione quelli che dicono: "Lui sa Chi tiene, Lui sa anche Chi lo sostiene". Lo hanno capito quelle donne di Lorenzago di Cadore quando gli hanno detto: "Pietro! Pietro! Resta con noi! Ciao, Pietro!". Lo capiscono i bambini, lo deducono dall'espressione del volto delle loro mamme; lo capiscono gli addetti alla sua persona i quali che rimangono inermi di fronte all’entusiasmo e ad i quali sembra voler dire: "Lasciate che i bambini vengano a me" (Mc 10,14).

Ma lo capiscono in particolare i giovani che guardano a lui come all’unico avente diritto a dir loro, come avvenne a Toronto, che la felicità va di pari passo con le Beatitudini e che devono seguire Cristo fin sulla croce, usando queste come gradini12. Ma ancora più profondamente sentono questo gli ammalati, quando dalla loro sedia a rotelle gridano al loro fratello, il Papa pure ammalato: "Pietro, rimani con noi!".

"Egli sa a Chi stringersi ed egli sa Chi lo sostiene!".

Sant’Agostino scrive: "Amor meus pondus meum" - "Mio amore, mio peso" e subito ribadisce: "Eo feror quocumque feror" - "Mi porta il peso che io porto". "Mi sostiene Colui che porto". Nelle sue parole sentiamo quelle di Cristo stesso: "Prendete il mio gioco sopra di voi ed imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Il giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,29-30).

Penso che Giovanni Paolo II sia consapevole di questo: mi sostiene Colui che mi ha scelto perché io Lo porti e Lo porti a tutti; che sia Lui a portare me. Ecco la chiave che ci permette di toccare con mano il mistero di questo pontificato, ed ancor prima il mistero del Vescovo successore di S. Stanislao, del Cardinale di Cracovia, il quale voleva che il Papa recuperasse l’occasione perduta di consolare Cristo abbandonato dai più vicini all’inizio della Sua Passione. In questo recupero, dunque, i tratti del volto del Vicario si identificano in modo evidente con quelli del volto di Cristo: Il volto di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II indissolubilmente uniti nel Volto di Cristo.

Per concludere, ascoltiamo le vibranti parole rivolte da Giovanni Paolo II ai giovani convenuti a Toronto:

"Il nuovo millennio si è inaugurato con due scenari contrastanti: quello della moltitudine dei pellegrini venuti a Roma per varcare la Porta Santa che è Cristo, Salvatore e Redentore dell’uomo; e quello del terribile attentato di New York, icona di un mondo nel quale sembra prevalere la dialettica dell’inimicizia e dell’odio. La domanda che si impone è drammatica: su quali fondamenta bisogna costruire la nuova epoca storica che emerge dalle trasformazioni del secolo XX? [...] A voi Dio affida il compito, difficile ma esaltante, di collaborare con Lui, nell’edificazione della civiltà dell’amore. [...] Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio"13.

"La santità è sempre giovane".
Non aspettiamo di avere più anni per scegliere di "vegliare con Cristo", nella Sua ora.
Rendiamo nostra, oggi, la Sua ora14.

"La santità è sempre giovane".

Alzatevi, andiamo (Mt 26,46). Invito sempre attuale, anche se l’occasione del Getsemani non fu colta dai Suoi. Cristo, infatti, è sempre con noi "tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).

Anche per noi, allora, la preghiera nel Getsemani continua.

Su, andiamo!

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1 K. Wojtyła, Segno di contraddizione. Meditazioni, premessa di G. Lazzati, Pubblicazioni della Università Cattolica, Milano 1977, p. 166-167.

2 Cfr. Giovanni Paolo II, Spalancate le porte a Cristo (Per l'inizio del Pontificato, 22 ottobre 1978), in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II I(1978), Libreria Editrice Vaticana 1979, p. 38.

3 Tale preoccupazione deve occupare oggi il primo posto e suonare insistente, molto più per il fatto che l’odierna democrazia - contro l’uguaglianza dichiarata costituzionalmente con a capo a diritto a ciascun l’uomo alla vita - permette, con atti legislativi di uccidere il più debole e, ancor peggio, difendere con gli stessi atti coloro che uccidono - dimentica essa che con ciò inferisce a se stessa un duplice colpo mortale suicida quale è l’assurdo logico e morale. Giovanni Paolo II definisce una simile democrazia "totalitarismo subdolo" (Centesimus annus, nr 46; Veritatis splendor, nr 101) e perfino, con un termine pieno di amarezza, "cultura della morte" (Evangelium vitae, nr 24).

4 Cfr. Grignion de Monfort, Trattato sulla vera devozione a Maria, Shalom, Ancona, 1995.

5 Cfr. Wojtyła Karol, Miłość i odpowiedzialność, TN KUL, Lublin 1960 (ed. italiana: Amore e Responsabilità, Marietti, Cassal Monferrato 1980). Le opere filosofiche più importanti di Karol Wojtyła sono pubblicate nel volume Metafisica della perona, a cura di G. Reale e T. Styczeń, Bompiani, Milano 2003.

6 Cfr. Osoba i czyn, PTT, Kraków 1969 (ed. italiana: Persona ed Atto, Testo polacco a fronte, a cura di G. Reale e T. Styczeń, Bompiani, Milano 2001).

7 Karol Wojtyła, Nascita dei confessori in Karol Wojtyła, Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, p. 87.

8 Ovidio, Metamorfosi 7, v. 20.

9 Cfr. Giovanni Paolo II, Maschio e femmina li creò. Salvezza del corpo e sacramentalità del matrimonio, Libreria Editrice Vaticana, Cittŕ del Vaticano 1986.

10 Anticipando, aggiungiamo che non molto tempo dopo Giovanni Paolo II si collegherà a questi atti con altri due iniziative: l'erezione della Pontificia Accademia per la vita (1994) e la pubblicazione della "magna carta" che l’accompagna: l’enciclica Evangelium vitae (1995).

11.Mons. S. Dziwisz, Dar i Tajemnica (Dono e Mistero), Ethos 15 (2002), nr 57-58, s. 33-43.

12 Cfr. Giovanni Paolo II, Le beatitudini di Cristo via della felicità, (Toronto, 27. VIII. 2002).

13 Cfr. Giovanni Paolo II, "Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane" (Toronto, 27 VII 2002), "L'Osservatore Romano" 29-30 Luglio 2002, p. 5.

14 Diamo, a questo punto, la parola al Cardinale di Cracovia:
"Ed ecco, la Chiesa cerca sempre quell’ora del Getsemani – l’ora perduta da Pietro, da Giacomo e da Giovanni – per soddisfare quella mancanza, quella solitudine del Maestro, la quale accrebbe la sofferenza della Sua anima. È ormai impossibile riprodurre quell’ora nella sua identicità storica: essa appartiene al passato, e rimane per sempre nell’eternità di Dio stesso. Però il desiderio di ritrovarla è diventato un bisogno di tanti cuori, specialmente di quelli che vivono profondamente il mistero del Cuore divino. Il Signore Gesù ci permette di incontrarci con Lui in quell’ora, che sul piano umano è ormai passata in maniera irrevocabile, e come allora ci invita alla partecipazione alla preghiera del Suo cuore: «Cogitationes Cordis Eius in generatione ad generationem, ut eruat a morte animas eorum et alat eos in fame» (Introito della Messa del S. Cuore di Gesù). E quando «di generazione in generazione» entriamo nei disegni del Suo cuore sorge da questo – sopra ogni umana fragilità – l’unità mistica del Corpo di Cristo".
Ecco: "Cristo trasferisce su di noi quell’ora della grande prova, che non ha mai cessato di essere al tempo stesso prova per i suoi discepoli e per la Sua chiesa".
In tal modo: "La preghiera del Getsemani dura ancora. Di fronte ad ogni prova dell’uomo e ad ogni prova della Chiesa occorre sempre tornare al Getsemani per intraprendere quella partecipazione alla preghiera di Cristo Signore. Questa preghiera – secondo il criterio e il ragionamento umani – è rimasta inesaudita. Ma nel medesimo tempo in virtù del principio: «I miei pensieri non sono i vostri e le vostre vie non sono le mie» (Is. 55,8), essa segnò l’inizio della grande conquista, l’inizio dell’opera redentrice a cui l’uomo e il mondo attingono sempre, perchè nella Redenzione si è manifestato e si manifesta continuamente come e quanto Dio ha amato l’uomo e il mondo (cfr. Gv. 3,16).
E così la preghiera del Getsemani rimane esaudita" (Segno di contraddizione, p. 166-167, sottolineatura di T.Styczeń.).

[01560-01.04] [Testo originale: Italiano]

INTERVENTO DELL’ON.LE PROF. ROCCO BUTTIGLIONE

K. Wojtyła: Metafisica della Persona

Metafisica della Persona è il titolo che i curatori hanno scelto per questa raccolta di tutte le opere filosofiche di Karol Wojtyła. La scelta è certamente felice e mette in evidenza fin dal principio il centro della riflessione filosofica di Wojtyła e le ragioni della sua originalità che lo pongono, in un certo senso, al di là di una certa polemica sulla quale si è consumato per più di un secolo il rapporto fra cattolicesimo e modernità.

I filosofi "cattolici" erano soliti rimproverare alla modernità il suo soggettivismo, la perdita dell'essere che ha come risultato l'impossibilità di fondare i valori morali ed infine il nichilismo.

I filosofi "laici" rimproveravano invece ai cattolici l'incomprensione del soggetto umano, l'incapacità di afferrare il movimento della storia, la chiusura in categorie fisse e metafisiche.

Sembrava che i cattolici potessero pensare solo l'essere ma non la storia e che i laici, per potere pensare la storia, fossero costretti a rinunciare all'essere e al fondamento.

Il titolo di questo libro ricongiunge fin dal principio questi due elementi. Essi non sono incompatibili l'uno con l'altro ma si appartengono l'uno all'altro di modo che non è possibile separarli e contrapporli senza deformarli ambedue. All'inizio di Amore e Responsabilità Wojtyła ci spiega che il mondo è fatto di oggetti ma anche di soggetti e che per capire il mondo la comprensione dei soggetti è almeno altrettanto importante che quella degli oggetti.

L'interiorità della persona ed il modo in cui essa crea in qualche modo il "proprio" mondo attraverso la riflessione e l'attribuzione di un valore o di un interesse ai diversi oggetti della sua conoscenza è certo più interessante che la semplice categoria di essere che la persona condivide con tutti gli oggetti della terra e, ancora più, con tutto ciò che è in generale.

La soggettività ci offre un accesso ad una nuova e più profonda dimensione dell'essere che ci rimarrebbe altrimenti preclusa. Questa dimensione è poi per noi tanto più interessante in quanto siamo noi stessi soggetti ed in essa ritroviamo noi stessi. Questa è la grande scoperta della modernità che deve comunque essere preservata. La scoperta della soggettività non è però minacciata solo, o soprattutto, dalla resistenza che le oppone la filosofia dell'essere. Essa è piuttosto insidiata dal rischio di dissolvimento della persona stessa in una serie di stati di coscienza, di sentimenti e passioni che nulla unifica.

Leibniz ha parlato della mens momentanea per descrivere lo stato di una interiorità che non può unificare le proprie impressioni disperse nel tempo ed è condannata a viverle e in modo confuso e contraddittorio l'una con l'altra senza poterle ridurre alla unità di un coerente disegno o progetto di vita.

Qualcosa del genere ci dice anche Hume in alcune delle pagine più potenti di tutta la sua opera filosofica. Lasciato a se stesso il soggetto umano si decompone nelle sue diverse passioni e, pertanto, diventa schiavo di esse. Invece di dominare la natura meramente animale imprimendole il segno dello spirito, il soggetto schiavo delle proprie passioni cede alla propria natura animale potenziata e resa quindi più distruttiva dalla forza della interiorità e della ragione.

E', questa, la dialettica dell'illuminismo denunciata da Horkheimer ed Adorno nel loro capolavoro filosofico.

Non si tratta solo di un processo filosofico. La filosofia è davvero il proprio tempo espresso in pensiero, anche se forse in un senso diverso da quello inteso da Hegel quando coniò questa espressione.

La filosofia esprime l'autocoscienza di un popolo o di un' epoca storica e la crisi della filosofia moderna coincide con quella crisi dell'epoca moderna che condurrà infine l'Europa alla terribile lacerazione delle due guerre mondiali.

Il prevalere della passione incontrollata sulla ragione caratterizza non solo la filosofia ma anche la società del secolo XX.

La modernità e con essa il bene prezioso della scoperta della soggettività sembra reggersi in bilico fra il rifiuto premoderno della storia in nome dell'essere e l'autodissolvimento della soggettività in nome dell'arbitrio di un soggetto che crea se stesso ed è responsabile solo davanti a se stesso.

Tutta la filosofia di Wojtyła si gioca su di una ipotesi: e se la filosofia del soggetto dovesse venire non opposta ma piuttosto riconciliata e raccordata con la filosofia dell'essere?

La soggettività ha infatti essa stessa una consistenza oggettiva. Il soggetto è un essere. E' un essere di tipo del tutto particolare ma ricade esso stesso nella più ampia categoria dell'essere.

Lo dice la parola stessa nella sua etimologia: subjectum significa ciò che sta sotto, l'elemento che permane nel trascorre dei cambiamenti e che mantiene in sè la memoria di ciascuno di questi cambiamenti perchè da ciascuno di essi è stato trasformato fino da assumere la sua forma presente. La libera creatività della persona si svolge dunque sempre a partire da un doppio presupposto, naturale e storico. Ciò che noi facciamo rimane in noi e non si limita a passarci sopra. La persona non è solo il palcoscenico sul quale le emozioni avvengono. La persona trattiene in sé l'avvenimento di modo che esso permane e diventa il presupposto di altri avvenimenti. Ciò che noi siamo è la somma e l'insieme di ciò che abbiamo vissuto. La nostra è una soggettività storica che si compie nel tempo. Questa è la prima e fondamentale struttura della nostra soggettività. E' per questo che siamo responsabili. Possiamo progettare il nostro futuro e siamo responsabili per la realizzazione del nostro progetto. Possiamo impegnare la nostra libertà tramite una promessa e tale promessa rimane in noi come una obbligazione.

La libertà umana ha anche un altro presupposto oggettivo. Si tratta della natura stessa della persona. Se la persona si costituisce attraverso le proprie azioni, diventa quello che è attraverso la propria storia e l'esercizio della propria libertà, tutto questo non avviene a partire da un nulla.

Prima del primo gesto della propria libertà l'uomo già è. L'essere precede l'agire. Il primo atto dell'uomo è allora l'accettazione del proprio essere. Tutti gli atti successivi dell'esistenza saranno la conferma e lo sviluppo di questo atto primo ed originario. L'essere ci si manifesta dunque inizialmente come dono che sollecita una risposta. L'essere che troviamo al principio della nostra esistenza è tuttavia incompiuto. Esso ci è affidato. Con le scelte della nostra libertà noi lo portiamo a compimento dandogli la sua forma definitiva, nel bene o nel male.

La interiorità stessa e la storicità della persona, sulla quale fin dall'inizio ci siamo soffermati, sono comprensibili solo come espressioni della sua natura.

L'uomo è dunque creatore di se stesso e del proprio destino ma questo processo di autocreazione non si svolge in un vuoto.

Esso è inserito nel dialogo con Dio che è l'autore del primo dono dell' essere.

Sia la natura che la storia rimandano l'uomo oltre se stesso verso l'altro uomo. Il diventare se stesso è un avvenimento di cui i momenti decisivi richiedono la presenza dell'altro uomo.

Per cominciare ognuno di noi nasce dall 'unione di un uomo e di una donna e viene introdotto nel mondo da una madre e da un padre. La nascita non è solo un dato biologico. Essa è anche una esperienza che si prolunga nel tempo: nel rapporto con la madre e con il padre si sviluppa l'autocoscienza di ciascun essere umano, quella introduzione nella realtà che è l'inizio e anche la sintesi della educazione e della cultura.

L'istinto sessuale, poi, attrae l'uomo verso la donna e lo spinge ad uscire da se stesso, a scoprire che la libertà esiste per essere donata nell' amore e per generare una comunità nella quale di nuovo altri esseri umani potranno venire al mondo.

La coscienza di sé di ogni essere umano è dunque tanto più ricca quanto più essa è contemporaneamente coscienza della relazione ad altri.

La sessualità e la famiglia costituiscono un primo cerchio in cui si esplica il costitutivo essere per l'altro che caratterizza tutta la esistenza umana. Non a caso proprio a questo tema è dedicata una gran parte della riflessione non solo filosofica ma anche poetica di Karol Wojtyła.

Se la famiglia è la prima comunità, quella in cui si apprendono gli atteggiamenti fondamentali che caratterizzeranno poi la relazione con il mondo e con gli altri esseri umani, essa è tuttavia lungi dall' essere l'unica comunità. Tra le diverse comunità in cui l'uomo sviluppa la sua esistenza un particolare rilievo ha, accanto alla famiglia, la comunità di lavoro.

Come la generazione anche il lavoro non è un' azione solitaria. Il lavoro è in genere un agire con altri e lega fra loro gli uomini che lavorano insieme. Il lavoro, inoltre, dà una espressione esterna all' autocoscienza dell 'uomo. Attraverso il lavoro l'uomo non solo si mantiene in vita ma cambia anche la faccia della terra secondo la sua comprensione del vero del bello e del bene.

Attraverso la progressiva definizione della propria identità, nel processo della propria autorealizzazione, l'uomo definisce anche la forma e l'identità del mondo e quella degli altri uomini. Ciò avviene attraverso la famiglia e attraverso il lavoro. Per questo il lavoro non è solo una necessità per l'esistenza ma anche un bene per l'uomo, uno strumento fondamentale per essere veramente uomo.

Se l'uomo si definisce attraverso l'azione il lavoro è una forma privilegiata dell'azione. Sorge a questo punto inevitabilmente il problema: in che modo può l'uomo vivere il lavoro come azione propria, in cui interamente si riconosce e della quale assume la responsabilità, se tale azione si svolge inevitabilmente insieme con altri e la sua parte nell'azione comune è evidentemente limitata? Questo è possibile solo se si costituisce una comunità di uomini del lavoro che insieme assumono, pur se in modo differenziato, la responsabilità dell'azione. Attraverso la partecipazione a questa comunità l'uomo investe il lavoro con la propria soggettività, lo vive come opera propria.

Il lavoro ha dunque un aspetto oggettivo ma anche un aspetto soggettivo. Esso genera (o dovrebbe generare) comunità fra gli uomini che lo compiono. Questa non è però la semplice descrizione di uno stato di fatto. Si tratta contemporaneamente di un postulato etico. Come la generazione del figlio deve essere il risultato di un atto di amore ma può essere anche il risultato di una violenza, così anche il lavoro può essere violentato. E' possibile che l'uomo sia semplicemente costretto al lavoro è che nel lavoro egli sia trattato solo come uno strumento per la realizzazione di un progetto o di un interesse di un altro uomo.

Una autentica comunità di lavoro chiede la presenza di due condizioni. In primo luogo il fondamento oggettivo di una comunità di lavoro è il fine comune. Tutti coloro che partecipano del lavoro devono condividere il fine che il lavoro vuole realizzare. Questo a sua volta implica che il fine comune contenga in sé le finalità soggettive dei lavoratori.

In genere si lavora per far vivere se stessi e le proprie famiglie. Se nel lavoro questo fine non è rispettato, se lavorando non posso mantenere la mia famiglia, allora quel lavoro non è organizzato in modo corretto e giusto.

Il fine del lavoro, infatti, non è e non può essere né la costruzione del socialismo né l'incremento del capitale ma la vita dell 'uomo. Il lavoro serve la vita. E' tuttavia possibile che un lavoro serva un fine giusto, sia oggettivamente giusto e tuttavia non sia pienamente umano.

Per ritrovare se stesso nel proprio lavoro, per poterne essere pienamente responsabile, l'uomo ha bisogno di potere partecipare alla definizione del modo in cui il fine deve essere realizzato.

L'uomo non deve mai essere solo uno strumento del lavoro ma deve sempre esserne contemporaneamente il soggetto.

Alla definizione del modo in cui tendere verso il fine comune gli uomini parteciperanno secondo modalità diverse, anche in funzione delle diverse conoscenze e competenze di cui dispongono.

Una comunità di lavoro tuttavia deve essere aperta alla partecipazione ed è tanto più autentica quanto più valorizza la creatività di ciascuno nella esecuzione dell' opera comune.

Questo richiede una attitudine soggettiva che si chiama solidarietà.

La solidarietà non è solo la disponibilità ad aiutare l'altro nel bisogno, benché questo sia certo un elemento importante della solidarietà. Nella solidarietà si intrecciano piuttosto il riconoscimento di un fine comune, l'assunzione come proprio, all'interno del fine comune, anche delle giuste finalità perseguite dall' altro lavoratore, l'assunzione di responsabilità per la realizzazione del fine anche al di là delle proprie mansioni specifiche. Vista così la solidarietà non è tanto un limite alla efficienza dell 'impresa quanto una componente fondamentale di tale efficienza perché permette di mobilitare la intelligenza e creatività della persona umana che è la massima forza produttiva. Una comunità solidale non richiede un impossibile unanimismo e non ignora la differenziazione delle competenze e delle responsabilità. Partecipare ai processi decisionali non significa riuscire sempre a far prevalere il proprio punto di vista. Anche l'opposizione responsabile è una forma di solidarietà. Nella opposizione responsabile si condivide il fine che costituisce la comunità ma si dissente sui mezzi o sulla strategia che dovrebbe condurre verso il fine. Non si rifiuta la propria collaborazione ma si propone una visione diversa ed alternativa del modo in cui sarebbe necessario procedere per realizzare il fine comune.

Che fare quando un regime sociale o politico rifiuta la partecipazione? E' raro (anche se non del tutto impossibile: si pensi per esempio ad un campo di sterminio) che un regime politico affermi esplicitamente di perseguire un fine che non include in sè quanto meno la sopravvivenza ed il benessere dei suoi cittadini, facendo così mancare interamente il presupposto oggettivo della partecipazione.

E' più facile che il regime affermi di perseguire un fine accettabile dal punto di vista del bene comune ma poi lo subordini ad una visione ideologica parziale o a degli interessi particolari e rifiuti di lasciare che questa formulazione inadeguata del cammino verso il bene affermato venga messa in discussione.

Che deve fare in questo caso il cittadino responsabile? Il cittadino deve prendere sul serio il bene comune teoricamente affermato dai governanti e deve chiedere di poter partecipare chiamando la comunità ad un dialogo pubblico sul modo in cui il bene comune teoricamente affermato viene poi praticamente perseguito.

Il potere cercherà di scoraggiare la partecipazione respingendo i cittadini su di una posizione di apatia e di indifferenza in cui essi accettano di non partecipare.

La riduzione ad oggetti e non soggetti dell' agire comune trova poi sfogo nella chiacchiera qualunquistica o anche nel sabotaggio.

Il qualunquismo ed il sabotaggio rafforzano in realtà il potere, che può presentare se stesso come l'unico argine all'anarchia e l'unica possibilità di avere una cura, pur difettosa, del bene comune.

Il cittadino responsabile cercherà invece, se appena è possibile, di prendere sul serio il richiamo che il potere fa al bene comune e lo chiamerà a giustificarsi alla luce degli stessi criteri che esso in qualche modo proclama ed accetta, anche se è risaputo che non li rispetta e non ha intenzione di rispettarli nella pratica.

Questa teorizzazione della solidarietà e della opposizione responsabile si ritrovano in Persona e Atto, che fu pubblicato nel 1969.

E' anche troppo evidente quanto questi pensieri abbiano influenzato il movimento polacco di Solidarnosć. La loro eco supera però i confini della Polonia. Si pensi al movimento di Carta 77, che anticipa di alcuni anni Solidarnosć e di cui Jan Patocka fu la guida ed il martire.

In esso ritroviamo molti dei concetti cari a Wojtyła. Può accadere che il vero bene di una Nazione possa essere confidato non nelle mani di coloro che formalmente ne sono i reggitori ma in quelle di un piccolo gruppo i cui partecipanti avvertono la responsabilità di essere cittadini, sono consapevoli del significato del proprio essere membri di una comunità e che richiamano a se stessa una comunità nazionale che ha smarrito la coscienza di sé e sembra avviata sul percorso di un innaturale irrigidimento che prelude ad una dissoluzione.

Se la caduta del comunismo ha potuto avere luogo senza sangue ciò è dovuto in gran parte al fatto che essa è stata preparata, in molti Paesi anche se non in tutti, proprio da una simile opposizione responsabile che ha agito facendo appello alla coscienza dell' oppressore piuttosto che agitando la minaccia della forza.

Qualcosa del genere è avvenuto, negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II anche in America Latina, nelle Filippine ed in altri Paesi, dove dittature di destra sono cadute non davanti alla guerriglia armata, ma davanti ad una assunzione di responsabilità da parte della società di cui la lotta per i diritti dell'uomo è stata elemento centrale.

In queste lotte la Chiesa Cattolica, incoraggiata dai viaggi e dalla predicazione apostolica di Giovanni Paolo Il, è stata sempre in prima fila.

La grande ondata di espansione della democrazia e dello stato di diritto che contrassegna l'ultimo quarto del XX secolo ha trovato nelle parole e nell' azione di Giovanni Paolo II una indicazione ed un impulso decisivi.

Di questo l'opera filosofica di Wojtyła fornisce il retroterra e lo sfondo culturale. Torniamo al titolo del libro che stiamo presentando: Metafisica della Persona. Potremmo ridurne il contenuto a due tesi fondamentali:

1. La persona è essere. La persona ha una struttura oggettiva, non è una libera soggettività disancorata dall' essere ma una libertà che trascina l'essere verso il suo compimento o, anche, a seconda delle proprie scelte, verso l' autodistruzione.

2. L'essere è persona. La persona umana ci rivela qualcosa sulla natura dell' essere che ci sarebbe altrimenti inaccessibile. Se la persona percepisce e riconosce l'essere come dono essa contemporaneamente riconosce l'essere come messaggio. Il dono infatti custodisce un significato e questo significato rimanda ad un'altra soggettività, che precede quella dell'uomo, dalla quale deriva e il dono ed il messaggio originario.

Soggettività ed oggettività lungi dall'escludersi si implicano a vicenda, e così anche cristianesimo e modernità. La modernità inizia con la domanda di una purificazione del cristianesimo. Se essa dovesse concludersi con la sua negazione questa negazione comporterebbe il suo autodissolvimento in una postmodernità sinonimo di un completo nichilismo.

Sullo sfondo dell'opera filosofica di Wojtyła intravediamo qui la grande esperienza del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Concilio non segna, secondo Wojtyła, il cedimento della Chiesa alla modernità ma piuttosto la riconciliazione fra Chiesa e modernità in cui la modernità è richiamata verso la sua radice cristiana per permetterle di non capovolgersi nel suo contrario.

Questo contrario non è il cristianesimo bensì il nichilismo.

[01573-01.02] [Testo originale: Italiano]

[B0501-XX.03]